La Legenda Aurea (spesso italianizzata per assonanza in Leggenda Aurea – con due g) è una raccolta di biografie agiografiche (vite dei santi) risalente al Medio Evo.
Fu composta in latino dal frate domenicano e vescovo di Genova, Jacopo da Varazze.
Nella Legenda Aurea un capitolo è dedicato proprio a San Giorgio: da questa leggenda nacque il mito di Giorgio e numerosi ordini cavallereschi a lui ispirati.
Si racconta che in una città della Libia di nome Selem vi fosse uno stagno di grandi dimensioni in cui si nascondeva un drago. La creatura, con il suo fiato, era in grado di uccidere chiunque.
Per placare la sua ira e sopravvivere, gli abitanti del posto erano soliti offrirgli due pecore ogni giorno. Ben presto però i capi di bestiame iniziarono a diventare pochi. Così il popolo decise che l’offerta quotidiana dovesse essere composta da una pecora e un giovane estratto a sorte.
Un giorno, a essere estratta fu la principessa Silene, la giovane figlia del re. Egli, spaventato, offrì a metà del regno il proprio patrimonio: il popolo, tuttavia, non accettò lo scambio, visto che già tanti giovani erano periti per colpa del drago.
Nonostante diversi tentativi e numerose trattative che si erano protratte per giorni e giorni, alla fine il monarca fu costretto a cedere. Così Silene si avviò verso lo stagno.
Mentre procedeva incontro al suo infausto destino Silene si imbatté in Giorgio. Il giovane cavaliere, venuto a sapere del sacrificio che di lì a poco si sarebbe compiuto, promise alla ragazza, tranquillizzandola, che sarebbe intervenuto per farla scampare alla morte.
Disse quindi alla principessa di avvolgere al collo del drago la sua cintura, senza timore.
In effetti, così facendo la fanciulla riuscì a convincere la bestia a seguirla verso la città.
La popolazione fu sorpresa nell’osservare il drago così vicino, ma ci pensò Giorgio a infondere loro fiducia, riferendo che era stato Dio a mandarlo ivi per sconfiggere l’ira del drago.
Il mostro sarebbe stato ucciso solo se gli abitanti avessero abbracciato il cristianesimo e si fossero fatti battezzare.
Così avvenne: la popolazione si convertì, e anche il re. Il cavaliere Giorgio uccise il drago, il quale fu trascinato da otto buoi e portato fuori dalla città.
Questa leggenda nacque all’epoca delle Crociate, derivante con tutta probabilità da un’immagine trovata a Costantinopoli che ritraeva l’imperatore cristiano Costantino intento a schiacciare un drago enorme con il piede.
In epoca medioevale, poi, la lotta di San Giorgio contro il drago (e quindi la Leggenda Aurea) è stata scelta come simbolo della lotta tra il bene e il male. Ecco perché il culto del santo è cresciuto non solo in Occidente, ma anche nell’Oriente bizantino, dove compare con la definizione di “tropeoforo“, cioè “il vittorioso”, “il trionfatore”.
Oggigiorno sono numerosi gli Ordini cavallereschi che portano il nome di San Giorgio, dal Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio all’Ordine Teutonico; dall’Ordine della Giarrettiera all’Ordine Militare di Calatrava.
]]>La lingua italiana è disseminata di espressioni o locuzioni idiomatiche che sono sempre calzanti: l’espressione giusta al momento giusto, possiamo dire. Si tratta di espressioni che raccontano perfettamente quello che stiamo vivendo. Così perfette che ignoriamo quell’espressione letteralmente o la sua origine. Questo è il caso, per esempio, del modo di dire un altro paio di maniche.
Qui ne spieghiamo significato e origini.
Pronti?
Via.
L’espressione un altro paio di maniche significa “un’altra cosa, tutta un’altra storia“.
Se ci riferiamo a qualcosa che resta molto distante da quello di cui stiamo parlando diremo:
“quello è un altro paio di maniche”.
Due temi nella discussione si mettono in opposizione: questo è “un altro paio di maniche” rispetto all’altro.
Fra i due oggetti non c’è nulla di paragonabile, che l’una cosa rispetto all’altra sia di gran lunga migliore o anche peggiore.
La locuzione idiomatica “un altro paio di maniche” è in uso nella lingua italiana sin dall’Ottocento.
Ricorre sia nell’italiano colloquiale che in quello letterario.
Tutto deriva da un uso medievale relativo proprio alle maniche.
Era infatti usanza medievale, ma anche poi rinascimentale, soprattutto femminile, portare maniche intercambiabili.
Tra i secoli Quattrocento e Cinquecento, quando si era molto lontani dall’automazione del lavaggio degli indumenti, lavare un vestito era cosa molto complessa. Per questo motivo si ricorreva ad una soluzione più agile, ovvero il cambio di maniche.
Le maniche rappresentavano per questo una parte di vestito molto importante. Ricche e ornatissime, con ricami, nastri, spacchi e sbuffi. Rappresentavano un elemento ricco e ricercato della veste.
Succedeva anche che tali maniche venissero utilizzate come pegni d’amore da parte del fidanzato alla futura sposa.
La presenza o assenza di maniche, fra l’altro, rappresentava la versione invernale ed estiva dello stesso abito.
Nella lingua inglese ci sono diversi modi per indicare l’espressione “un altro paio di maniche”.
Ci sono modi di dire più generici come:
ovvero, rispettivamente:
Ci sono formule, però, più dettagliate come:
letteralmente:
L’espressione andare a ramengo significa andare in rovina, finire in bancarotta, subire un crollo inteso a livello finanziario. Se ne fa uso comune ormai sia dal punto di vista asservito che anche nella forma di un’esclamazione, volgare, ai danni di chi si aggiudica questo malaugurio. L’origine di questo modo di dire in molti concordano nel localizzarla nel Veneto. L’espressione, in ogni caso, anche in base alla ricostruzione storica che segue, ha origine nel parlato volgare dell’alto Italia.
Ogni espressione, ogni parola o lemma del nostro dizionario possiede quasi sempre una storia antica, alcune volte addirittura secolare. È il caso, questo, dell’espressione andare a ramengo che risale ad una pratica civile diffusa nell’Alto Medioevo.
#Cacciari : “Epidemia o non epidemia è la democrazia che va a remengo”
Non sono parole di Salvini o Meloni, ma di un filosofo di sinistra con sangue emiliano nelle vene.#DittaturaSanitaria #StaseraItalia #COVID19 pic.twitter.com/cLX1coVzjc— TELADOIOLANIUS (@TELADOIOLANIUS) October 7, 2020
In una collocazione possibile fra il sesto e il nono secolo dopo Cristo, infatti, la città di Asti era capitale di un ducato di origine longabarda. Su questo territorio accadeva che chi commetteva reati al patrimonio veniva punito con il confinamento.
In particolare, chi si macchiava di tale reato veniva letteralmente deportato nel comune più periferico del ducato. Trattasi di Aramengo, città collocata tra Asti e Torino. Qui si trovava sia il luogo di detenzione che anche il tribunale adibito a processare i colpevoli di tale misfatto.
L’espressione, nativamente, è ad ramingum ed ha origine nella zona del Piemonte, come abbiamo visto. Viaggia per secoli nell’Italia settentrionale per poi sconfinare con l’Unità d’Italia a tutte le parti dello stivale. Oggi è entrata a pieno titolo nella lingua italiana e viene utilizzata normalmente in tutto il territorio nazionale.
C’è una variante dell’espressione andare a ramengo di natura “nautica”. È forse qui che ritornano le origini venete di questa espressione. In ogni caso, appartiene al linguaggio marinaro l’espressione andare a remengo (con la e) che significa lasciare la nave in balia del vento e del mare, alla deriva e senza governo.