mafia Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Fri, 24 Sep 2021 07:58:26 +0000 it-IT hourly 1 Pezzo da 90 (novanta): da dove deriva questo modo di dire? https://cultura.biografieonline.it/pezzo-da-90/ https://cultura.biografieonline.it/pezzo-da-90/#respond Fri, 24 Sep 2021 07:12:30 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8087 Nella nostra lingua, essere considerati “un pezzo da novanta” vuol dire essere una persona influente, importante e di un certo spessore. Secondo lo storico della mafia Michele Pantaleone, che trattò l’argomento nel suo saggio “Mafia e Politica”, il termine pezzo da novanta, proviene dall’ambiente malavitoso.

Il Padrino (nella foto interpretato da Marlon Brando): un capo mafia
Una scena dal film “Il Padrino”: nell’immaginario collettivo è lo stereotipo di un capo mafia

In senso figurato, quando si parla di un uomo che viene definito, “un pezzo da 90”, si vuole evidenziare come l’ uomo sia una persona di potere, un personaggio con grande influenza che ricopre una posizione di rilievo o di grande prestigio in un ambito o attività. Secondo Pantaleone il pezzo da novanta infatti è un capo mafia, un mafioso che occupa una posizione potente e temuta dall’organizzazione.

Secondo altre ipotesi è il più grosso petardo di ferro, alto 26 cm, che veniva sparato nelle feste in conclusione dei giochi di fuochi e degli spari dei mortaretti. Nel dialetto siciliano invece, viene comunemente chiamato “u’ pezzu ‘i nuvanta”, un cannone con una bocca di fuoco immensa, lunga 53 volte il calibro in uso per il tiro anticarro: veniva utilizzato nella seconda guerra mondiale e aveva un calibro di 90 mm. Il cannone era invidiato anche dai tedeschi che in quel periodo possedevano il famoso 88 Flak.

Tra le altre ipotesi, il termine fa riferimento alla statura dei pupi siciliani che rappresentavano nelle piazze di quel tempo, le gesta eroiche dei Paladini di Carlo Magno. A Palermo, i vari Pupi che raffiguravano “Orlando”, “Il Feroce Saladino” ed altri paladini , avevano una statura di 90 cm. Di diverse stature, invece, erano i pupi costruiti e provenienti da altre città siciliane. Durante le rappresentazioni, il puparo, solitamente chiedeva al suo aiutante di passargli “un pezzo da novanta”.

Pupi Siciliani
Pupi Siciliani: simboleggiano i Paladini di Carlo Magno

Nella numismatica, ossia lo studio scientifico della moneta e della sua storia, tale espressione farebbe riferimento invece, al soldo di 90 grammi che per un certo periodo storico, aveva un peso e valore superiore rispetto alle altre monete.

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Camorra, Cosa nostra e ‘ndrangheta (mafie): differenze e cose in comune https://cultura.biografieonline.it/camorra-cosa-nostra-ndrangheta-differenze/ https://cultura.biografieonline.it/camorra-cosa-nostra-ndrangheta-differenze/#comments Sun, 29 Nov 2020 17:54:41 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=31321 Se si potessero analizzare al microscopio, si scoprirebbe che camorra, Cosa nostra e ‘ndrangheta si distinguono una dall’altra. E’ vero, che condividono diverse caratteristiche – le analizziamo dopo – tuttavia, nella loro essenza sono diverse dalla criminalità organizzata, quella oggetto del diritto comune.

Il libro

Tale dichiarazione, come le informazioni qui sintetizzate, sono tratte dal seguente libro di Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica di Catanzaro noto per la sua lunga attività antimafia, e Antonio Nicaso, giornalista e storico delle organizzazioni criminali.

Differenze

Camorra, Cosa nostra e ‘ndrangheta sono differenti perché ognuna, nel proprio ambito, riflette il contesto geografico, sociale, economico e culturale da cui ha avuto origine.

  • La camorra è più cittadina, pulviscolare, senza una struttura unitaria.
  • Cosa nostra nasce come fenomeno rurale e comincia a dotarsi di una struttura di coordinamento già alla fine dell’Ottocento.
  • La ’ndrangheta nacque sul modello della camorra ottocentesca, ma con il tempo ha mutuato le caratteristiche della consorteria siciliana, dando vita a un’organizzazione più «familistica», prevalentemente incentrata sul vincolo di sangue.

Un’inchiesta di fine ‘800 su Cosa nostra

Il rapporto di un’inchiesta condotta dall’allora questore di Palermo Ermanno Sangiorgi alla fine del secolo XIX, include una mappa dettagliata delle otto cosche mafiose che dominano i sobborghi e i paesi satelliti situati a nord e a ovest di Palermo:

  1. Piana dei Colli;
  2. l’Acquasanta;
  3. Falde;
  4. Malaspina;
  5. l’Uditore;
  6. Passo di Rigano;
  7. Perpignano;
  8. l’Olivuzza.

Oltre ai profili di 218 uomini d’onore, tale rapporto ricostruisce il rituale d’iniziazione e illustra i metodi imprenditoriali della mafia, la maniera in cui si infiltra e controlla le aziende ortofrutticole, falsifica banconote, commette rapine, terrorizza e uccide testimoni.

In quel lungimirante rapporto, Sangiorgi spiega anche come la mafia centralizzi i fondi per il sostegno delle famiglie dei detenuti e il pagamento degli avvocati. Racconta come i capi delle cosche lavorino assieme per la gestione degli affari dell’associazione e il controllo del territorio.

Tre sorelle

Pertanto le prime a manifestarsi storicamente sono state nell’ordine camorra e Cosa nostra. Negli anni ’60 del XIX secolo si aggiunse un’altra mafia: la ‘ndrangheta. Le origini territoriali sono quelle calabresi: la particolarità di quest’ultima è che successivamente, per oltre un secolo, è stata sottovalutata. Oggi è la più ricca, potente e ramificata.

Queste tre «sorelle» come è facile immaginare hanno diverse cose in comune.

Le cose in comune

  • La cosa più importante che hanno in comune è quella di essersi date un nome che le distingue, un nome con il quale i loro affiliati si identificano.
  • Hanno tutte un modello organizzativo, seppure diverso l’uno dall’altro.
  • Hanno tutte un apparato normativo, costituito da leggi e tribunali interni.
  • Usano riti, miti e simboli per creare senso di identità e senso di appartenenza.
  • Come è noto, gestiscono attività illecite di varia natura.
  • Godono di consenso sociale e fanno di tutto per mantenerlo.
  • Creano e gestiscono relazioni, grazie alle quali riescono a fare sistema.
  • Usano la violenza in modo strategico.
  • Governano il territorio.
  • Reinvestono direttamente o indirettamente nell’economia legale gran parte dei proventi ricavati dai loro traffici illeciti.
  • Sanno adattarsi ai cambiamenti.

Ognuno di questi aspetti è ben articolato e approfondito nel libro su citato.

Andrea Camilleri in una intervista del 2009 disse:

Non si può fare di un mafioso un protagonista, perché diventa eroe e viene nobilitato dalla scrittura. Don Mariano Arena, il capomafia del Giorno della civetta, giganteggia. Quella sua classificazione degli uomini – omini, sott’omini, ominicchi, piglia ‘n culo e quaquaraquà – la condividiamo tutti. Quindi finisce con l’essere indirettamente una sorta di illustrazione positiva del mafioso e ci fa dimenticare che è il mandante di omicidi e fatti di sangue. Questi sono i pericoli che si corrono quando si scrive di mafia. La letteratura migliore per parlare di mafia sono i verbali dei poliziotti e le sentenze dei giudici.

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Peppino Impastato: storia di depistaggi e carte scomparse https://cultura.biografieonline.it/peppino-impastato-storia-depistaggi/ https://cultura.biografieonline.it/peppino-impastato-storia-depistaggi/#respond Sat, 09 May 2020 12:27:04 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=29070 “L’ansia dell’uomo che muore”

Dalle poesie di Peppino Impastato al suo lavoro contro la mafia, al suo omicidio avvenuto per mano mafiosa il 9 maggio 1978. In questo articolo si raccontano le storie di depistaggi, di carte scomparse, di una vita negata.

Appartiene al suo sorriso

L’ansia dell’uomo che muore,

al suo sguardo confuso

chiede un po’ di attenzione,

alle sue labbra di rosso corallo

un ingenuo abbandono,

vuol sentire sul petto

il suo respiro affannoso;

è un uomo che muore.

Sono versi scritti da Peppino Impastato, raccolti in un libro dal titolo “Amore non ne avremo” a cura di Guido Orlando e Salvo Vitale.

Peppino Impastato
Peppino Impastato

L’omicidio di Cinisi

Sono passati oltre 40 anni dal suo omicidio tra depistaggi e carte scomparse. Era il 9 maggio 1978. Peppino era un giovane militante che aveva puntato il dito contro la mafia. Per questo veniva massacrato per conto del boss Gaetano Badalamenti a Cinisi, un paese della provincia di Palermo. Aveva fondato una radio indipendente, Radio Aut, e combatteva il boss con la cultura e la politica. La sua è una storia di ribellione. La ribellione contro Cosa nostra.

Chi era Peppino Impastato: storie di indagini e archiviazioni

Figlio e nipote di mafiosi, Peppino Impastato era nato e cresciuto nella stessa strada in cui abitava Gaetano Badalamenti, il boss di Cinisi (paese in provincia di Palermo) che poi sarà condannato all’ergastolo per l’omicidio del “ribelle” ma solo in primo grado: Tano Seduto, così lo chiamava Peppino dai microfoni di Radio Aut, sarebbe morto prima della Cassazione.

Infatti per arrivare alla sentenza della corte d’Assise su Badalamenti ci sono voluti 24 anni (2002). Quella di Peppino doveva essere la storia di un pazzo, un terrorista che voleva far esplodere la ferrovia. Doveva essere una morte accidentale in terra di Sicilia. Ma cinque indagini, la condanna per il boss di Cosa nostra Tano Badalamenti in primo grado e due richieste d’archiviazione per i carabinieri di Antonio Subranni, non sono servite a scrivere la verità sull’omicidio di Peppino; fu ucciso a Cinisi nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978.

Un mistero italiano

Quello che rimane è la relazione dell’Antimafia che parla di “patti” tra mafiosi e esponenti dello Stato. Insomma un’altra pista che conduce ad uno dei misteri italiani.

Resta una domanda.

Perché gli uomini del generale Antonio Subranni avrebbero depistato le indagini sull’omicidio di Cinisi?

Su questo non esiste alcuna sentenza, ma addirittura una richiesta di archiviazione per il generale, ex numero uno del Ros, che nell’aprile 2018 è stato condannato a dodici anni alla fine del processo sulla Trattativa Stato – mafia.

L’accusa del pentito Francesco Di Carlo

A mettere nero su bianco il suo nome è il pentito Francesco Di Carlo: “Gaetano Badalamenti – ha raccontato il collaboratore –  spingeva Nino e Ignazio Salvo per parlare col colonnello. Dopo poco tempo mi ha detto: no, la cosa si è chiusa. Non spuntava più niente nei giornali per un periodo, era stata archiviata”.

Ben due volte, tuttavia, la procura di Palermo ha chiesto al gip di chiudere l’inchiesta su Subranni, per lui l’accusa di favoreggiamento, e su Carmelo Canale, Francesco De Bono e Francesco Abramo, accusati invece di falso.

Il motivo della richiesta di archiviazione?

Su quei reati è ormai subentrata la prescrizione.

L’ultima richiesta d’archiviazione: giugno 2016

L’ultima richiesta d’archiviazione risale al giugno del 2016. Dal 2016 quindi si attende che un gip decida cosa fare su quest’indagine riaperta nel 2010 dal sostituto procuratore Francesco Del Bene, e dopo portata avanti anche dai pm Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia.

Si tratta dell’ultima inchiesta sul caso Impastato e ripercorre dettagliatamente ciò che fecero i carabinieri per evitare ad ogni costo di battere la pista mafiosa.

A mettere in ordine tutta la fila dei depistaggi, avvenuti già a partire dalla scena del delitto, è stato il centro Impastato – autore già nel 1994 della prima domanda di riapertura dell’inchiesta – e poi approdato sul tavolo della commissione parlamentare Antimafia.

Quel sasso macchiato di sangue

E’ il 1978. I carabinieri non si accorgono – arrivati nelle campagne tra Cinisi e Terrasini che sul luogo del delitto c’è un grande sasso macchiato di sangue. Trovano il corpo di Peppino Impastato legato al binario.

Una scena che doveva servire ai killer a “vestire il pupo” in modo che sembrasse un terrorista morto suicida.

La prima informativa dei carabinieri è priva di quel sasso macchiato di sangue. A trovare il sasso invece – alcune ore dopo – sono i compagni di Peppino Impastato.

Non sono stati sentiti i testimoni oculari, perché la pista mafiosa è stata esclusa a priori. La teste chiave, Provvidenza Vitale, non è stata mai sentita.

Eppure lei è la casellante di turno al passaggio a livello di Cinisi quella notte in cui Peppino viene assassinato. Pare che per 32 anni nessuno sia riuscito a trovarla. Eppure la donna non si è mai allontanata dalla sua abitazione di Terrasini, paese attaccato a Cinisi.

Sui verbali dei carabinieri solo una parola: “irreperibile”.

Ad interrogarla, nel 2011, ci pensa invece il pm Del Bene, ma i ricordi dell’assassinio sono ormai lontani, la donna è anziana.

La relazione della commissione antimafia

La commissione antimafia nel 2000 scrive:

“Giuseppe Impastato sfidò la mafia in un territorio in cui si era stabilito un  sistema di relazioni tra segmenti degli apparati dello Stato e mafiosi molto potenti; un sistema di relazioni che, in quegli anni, può essere rinvenuto anche in altri territori, teso, spesso illusoriamente, alla cattura, per via confidenziale, di alcuni capimafia, all’apporto che queste relazioni potevano dare ad alcuni filoni di indagine o, comunque, ad una pacifica convivenza per un tranquillo controllo della zona”

la firma è del relatore Giovanni Russo Spena.

“È anche del tutto probabile – continua Spena – che Badalamenti abbia avuto dei rapporti confidenziali con i carabinieri in una zona alta, apicale, data la statura delinquenziale del capo mafia di Cinisi.”

Da qui scaturiscono una serie di interrogativi: le indagini su Impastato “sono state insabbiate solo per un patto di non belligeranza tra boss e carabinieri? Per un doppio gioco, uno scambio di favori, una trattativa ante litteram che aveva come obiettivi la cattura dei latitanti e il controllo della zona?”.

Foto di Peppino Impastato

Il dossier di Peppino scomparso durante il sequestro

L’ipotesi arriva dalla Procura di Palermo, che per il patto di Cosa nostra, ha ottenuto la condanna di Subranni. Ma i pm scoprono anche un foglio redatto dai carabinieri con su scritto: “Elenco del materiale sequestrato informalmente a casa di Impastato Giuseppe”.

Da qui ne consegue che a casa di Peppino c’è stato un sequestro informale. Si tratta quindi di un sequestro che nessuno ha autorizzato.

In un altro elenco, stavolta formale, gli uomini in divisa scrivono di aver sequestrato lettere e volantini a casa di Peppino. Si tratta di scritti d’ispirazione politica e propositi di suicidio:

“Voglio abbandonare la politica e la vita”

così si legge in un appunto che per gli inquirenti era la prova del suicidio.

Intanto però c’è anche altro tra i documenti posti sotto sequestro. A raccontarlo è Giovanni Impastato, fratello di Peppino: 

“Ricordo che mio fratello poco prima di morire si stava interessando attivamente alla strage della casermetta di Alcamo Marina, che nel 1976 costò la vita a due giovani carabinieri. In seguito a quel fatto, gli uomini dell’Arma vennero a perquisire casa nostra dato che mio fratello era considerato un estremista. Da lì Peppino iniziò a raccogliere informazioni sulla questione, notizie che accumulava in una specie di dossier: una cartelletta che fu sequestrata e mai più restituita”.

Insomma, negli anni sono stati aggiunti dei piccoli pezzi di un puzzle, di cui ancora ne mancano tanti. Ciò conferma che quello di Peppino Impastato è stato un delitto eccellente, che si verifica quando c’è una “convergenza di interessi”, cioè quando i motivi e i mandanti sono molteplici.

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Una storia semplice (Sciascia): riassunto https://cultura.biografieonline.it/una-storia-semplice-sciascia/ https://cultura.biografieonline.it/una-storia-semplice-sciascia/#respond Fri, 24 Apr 2015 10:58:09 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14005 Tra i romanzi più elettrizzanti scritti da Leonardo Sciascia troviamo quello a carattere poliziesco intitolato “Una storia semplice”. Nel realizzare l’opera, l’autore prende spunto da un fatto realmente accaduto, ovvero il furto della “Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi” del Caravaggio. Uscì nelle librerie proprio nei suoi ultimi giorni di vita.

Una storia semplice
Leonardo Sciascia, “Una storia semplice” (1989) • La storia di questo breve romanzo poliziesco si ispira a un fatto reale: il furto della Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Caravaggio.

Temi trattati

L’autore, da una parte, descrive in modo minuzioso i lati negativi della giustizia nel Meridione e, dall’altra parte, coloro che si prodigano alla ricerca della verità e del trionfo del bene sul male, come il brigadiere Antonio Lagandara.

Nel libro, l’autore mette in evidenza i vari problemi legati alla criminalità in Sicilia, gli innumerevoli casi insabbiati, i contatti della criminalità con le amministrazioni del territorio, ma anche la volontà di sconfiggere un sistema che è più radicato e forte di noi. Le tematiche affrontate sono quelle della droga, della mafia e della negligenza delle istituzioni. Da quest’abisso si può risalire solo grazie a figure come il brigadiere Antonio Lagandara, che lotta in nome di alti ideali.

Riassunto

Il romanzo si apre con una telefonata misteriosa che un certo Giorgio Roccella (diplomatico in pensione) compie nel tentativo disperato di contattare il commissario che però, in quel momento, si stava infilando il cappotto per uscire; al suo posto, prende la telefonata il brigadiere, che ascolta la comunicazione di Giorgio Roccella che invita la polizia ad andare subito a casa sua. Ma la telefonata è troncata di colpo, dietro invito del comandante a non preoccuparsi troppo di quella segnalazione che chiedeva immediatamente l’intervento della polizia.

Il brigadiere decide di andare al villino di Roccella nel giorno successivo e di non disturbare più il commissario che era fuori sede fino a lunedì per festeggiare con un amico la festa di San Giuseppe in campagna. Il giorno dopo, però, il brigadiere, insieme con altri suoi colleghi, trova Roccella morto e chino alla sua scrivania, sulla quale si trovava un foglio con la scritta ‘ho trovato’. Per tutti, la prima impressione è che si tratti di un suicidio.

Ma la verità ben presto si scopre essere un’altra e, dopo varie indagini, il brigadiere è sempre più certo che si tratti invece di omicidio. Prima di arrivare alla soluzione dell’intricato caso, il brigadiere decide di interrogare molte persone, tra cui padre Cricco, il professor Ranzò, l’ex moglie ed il figlio di Roccella.

Nel frattempo, avviene un fatto tragico alla stazione di Monterosso, che mischia di nuovo le carte del caso: un treno locale si era fermato al semaforo a causa della segnalazione di “impedimento” e, dopo mezz’ora, il segnale non era ancora cambiato. Si scoprirà poco più tardi che un capostazione e il macchinista sono stati uccisi. A quel punto, arriva sul posto la polizia che indaga sulla strana vicenda e, come primo indiziato, viene sospettato un uomo possessore di una Volvo che, in realtà, si era fermato per chiedere cosa fosse successo.

Ma la deposizione dell’uomo non convince particolarmente gli inquirenti con la sua versione dei fatti. L’uomo ribadisce di aver visto tre uomini ma non si era reso conto di ciò che stavano realmente facendo, ovvero che essi avessero ucciso il capostazione e il macchinista. Al fine di far luce e di capire se esiste una correlazione tra i casi, vengono chiamati in questura a depositare il figlio di Roccella e sua mamma, ex moglie di Roccella.

Il figlio, a quel punto, durante l’interrogatorio nomina padre Cricco, che inviava una volta al mese una lettera al suo amico Roccella per informarlo delle condizioni delle sue due case; mentre la ex-moglie non fornisce nessuna informazione utile per le indagini. Il caso è complicato ma alla fine il brigadiere riesce a venire a capo della vicenda grazie ad un particolare.

Finale

Egli inizia a sospettare del suo commissario che, pur dicendo di non essere mai stato in quella casa, era a conoscenza in modo esatto di ogni suo particolare, perfino dove si trovava la luce delle scale. L’indomani, quando entrambi sono nell’ufficio, il commissario, ormai smascherato, tenta di sparare al brigadiere che si difende rispondendo prontamente al fuoco uccidendolo.

Alla conclusione delle indagini si svela l’accaduto: il commissario, assieme ai suoi complici, conduceva loschi traffici di droga e di opere d’arte, usando come base logistica la villa del diplomatico, ma quando l’uomo, tornando improvvisamente, scopre nella sua villa un quadro rubato, telefona immediatamente alla polizia e…

Roccella fu subito ucciso dal commissario che si impossessò del quadro e, per farlo sparire, lo portò dal capostazione suo complice (per nasconderlo in un luogo introvabile e più sicuro). L’uomo però oppone resistenza e si rifiuta di collaborare, tanto da essere ucciso, insieme con il macchinista. Complice del misfatto anche padre Cricco, facente parte anch’egli di un’organizzazione mafiosa. Il romanzo si conclude con l’uomo possessore della Volvo che riconosce in padre Cricco un complice, ma non farà mai il suo nome pur conoscendo tutto l’accaduto.

Una storia semplice - Film
Una storia sempliceFilm (1991)

“Una storia semplice” al cinema

L’opera di Sciascia ebbe un notevole successo, tanto che ne venne tratta la sceneggiatura di un film omonimo con la regia e la sceneggiatura di Emidio Greco e con la magistrale interpretazione dell’attore Gian Maria Volontè. Tra gli altri interpreti che presero parte alla pellicola cinematografica troviamo Ennio Fantastichini nella veste del Commissario, Massimo Ghini, l’uomo della Volvo, e un superbo Ricky Tognazzi che interpretava il brigadiere.

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A ciascuno il suo (Sciascia): riassunto https://cultura.biografieonline.it/riassunto-a-ciascuno-il-suo/ https://cultura.biografieonline.it/riassunto-a-ciascuno-il-suo/#respond Wed, 15 Apr 2015 12:40:33 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=13982 Uno dei romanzi gialli più conosciuti dello scrittore Leonardo Sciascia è “A ciascuno il suo”. Il titolo è semplicemente la traduzione dal latino della frase “unicuique suum”, stampata sul retro di una lettera minatoria che fa parte della narrazione e che risulta un elemento rilevante per lo svolgersi della trama.
Questo è il secondo romanzo poliziesco scritto dall’autore dopo “Un caso semplice”. L’opera venne pubblicata per la prima volta dalla casa editrice Einaudi nel 1966.

A ciascuno il suo - 1966 - Leonardo Sciascia
A ciascuno il suo” : pubblicato nel 1966, è uno dei romanzi più celebri dello scrittore siciliano Leonardo Sciascia

Incipit

La lettera arrivò con la distribuzione del pomeriggio. Il postino posò prima sul banco, come al solito, il fascio versicolore delle stampe pubblicitarie; poi con precauzione, quasi ci fosse il pericolo di vederla esplodere, la lettera: busta gialla, indirizzo a stampa su un rettangolino bianco incollato alla busta.
“Questa lettera non mi piace” disse il postino.
Il farmacista levò gli occhi dal giornale, si tolse gli occhiali; domandò “Che c’è?” seccato e incuriosito.
“Dico che questa lettera non mi piace.” Sul marmo del banco la spinse con l’indice, lentamente, verso il farmacista.
Senza toccarla il farmacista si chinò a guardarla; poi si sollevò, si rimise gli occhiali, tornò a guardarla.
“Perché non ti piace?”

Incipit del libro “A ciascuno il suo”

Analisi e temi trattati

L’autore si ispira a fatti reali come l’assassinio del commissario di sicurezza di Agrigento, Cataldo Tondoj. I temi affrontati dall’autore sono: il potere a cui aspirano e che acceca molti uomini, l’amore, lecito o meno, il dolore e la sofferenza causati dalla morte improvvisa.

Il filo conduttore è quello della mafia che regna sovrana e getta nello sconforto tutti gli abitanti del paese, dinnanzi la quale si sentono impotenti.

La loro vita viene infatti sconvolta da due delitti che non possono e non devono assolutamente passare inosservati. Il teatro della vicenda è come sempre la tanto amata Sicilia, terra nativa dell’autore e della mafia.

Il racconto è ambientato infatti in un piccolo paese di provincia siciliano, ma la scena si sposta anche nella zona circostante e nei boschi che circondano il paese. I fatti narrati si rifanno agli inizi del secolo scorso, ma Sciascia nella sua opera non ci fornisce riferimenti temporali precisi.

Il narratore è esterno e racconta con estrema cura tutti i dettagli sconvolgenti relativi ai due delitti che si compiono nel giro di breve tempo.

Nella prima parte del libro, l’autore mette in risalto la figura del farmacista Manno, minacciato a morte da una lettera minatoria. Dopo l’omicidio del farmacista, invece, l’enfasi ricade sulla controversa figura del professor Laurana che assume una posizione di rilievo all’interno dell’intreccio. Poi altri personaggi rendono la vicenda più complicata, come la vedova Luisa Roscio, l’avvocato Rosello e infine l’arciprete Rosello, zio della vedova e dell’avvocato.

A ciascuno il suo: riassunto del libro

La storia del libro “A ciascuno il suo“, si svolge in una calda estate del 1964: un farmacista di nome Manno riceve una lettera minatoria in cui viene brutalmente minacciato di morte. L’uomo, impaurito, legge la lettera di fronte ai suoi compaesani che lo rassicurano dicendo che si trattava probabilmente solo di un brutto scherzo.

Il maresciallo del paese, invece, preoccupato dell’accaduto, consiglia al farmacista di denunciare il fatto e il professor Laurana, frequentatore della farmacia, inizia a indagare sulla lettera minatoria. Poco dopo, durante una battuta di caccia, il farmacista e il dottor Roscio vengono uccisi senza alcuna traccia che possa far risalire ad un movente o persona. A quel punto, anche la polizia si interessa dell’accaduto.

La pista più accreditata era quella del movente a sfondo passionale, per la presunta relazione di Manno con una frequentatrice della farmacia; ma il professor Laurana, non convinto di questa ipotesi, continua la ricerca della verità. In primo luogo, si focalizza ponendo la sua attenzione sulla parola nel retro della lettera minatoria che era stata recapitata: “unicuique”, composta utilizzando i caratteri di un giornale, “L’Osservatore Romano”, quotidiano che veniva ricevuto solo da due persone in paese: il parroco di Sant’Anna e l’Arciprete. In seconda battuta, il professor Laurana interroga le vedove Manno e Roscio, ma senza i risultati sperati.

In ultimo invece, Laurana scopre che il vero bersaglio in realtà era il dottor Roscio poiché sua moglie, Luisa, aveva instaurato con l’avvocato Rosello, cugino del dottore, una relazione segreta. Il dottor Roscio aveva scoperto la relazione tra i due e aveva dato un ultimatum all’avvocato Rosello che, reagendo all’affronto, lo fa uccidere a sangue freddo da un sicario, ingaggiato da lui per evitare uno scandalo.

Anche la moglie Luisa è complice del duplice delitto. Laurana, anche se è astuto, viene sedotto e ingannato dalla bella Luisa che, in accordo con l’avvocato, vuole liberarsi del professore evitando che testimoni l’accaduto. Ciò che sorprende è che il paese, pur essendo a conoscenza della causa dell’omicidio e dei responsabili, rimane in un atteggiamento omertoso a guardare senza opporsi al sistema che li opprime. Solo il professor Laurana vuole rivelare la verità alla polizia e per questo poi sarà ucciso.

Finale

Infatti, poco tempo dopo, il professore viene trovato morto in una zolfatara abbandonata, sita a pochi chilometri dal paese, cadendo così anche lui vittima della mafia. Rosello e la vedova Roscio coronano il loro sogno d’amore sposandosi. Nel testo, l’autore utilizza la suspense per evidenziare la dura e cruda realtà sociale in cui vivono i vari personaggi del romanzo.

“A ciascuno il suo” al cinema

L’opera di Leonardo Sciascia ottenne un notevole successo di pubblico e di critica, tanto che nel 1967 ne uscì un film omonimo diretto da Elio Petri e sceneggiato insieme con Ugo Pirro. Seguiranno, negli anni, altre pellicole cinematografiche ispirate al romanzo di Sciascia.

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Rita Atria https://cultura.biografieonline.it/rita-atria/ https://cultura.biografieonline.it/rita-atria/#respond Thu, 05 Mar 2015 17:36:37 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=13653 Rita Atria è una testimone di giustizia, vittima indiretta della mafia. Nasce a Partanna (Tp) il 4 settembre 1974, muore a Roma il 26 luglio 1992. Figlia di Giovanna Cannova e don Vito Atria (ufficialmente allevatore di pecore, in realtà piccolo boss locale), Rita cresce in questo comune che da centro di pastori si trasforma nel tempo in un luogo di traffico di denaro proveniente dal giro della droga.

Rita Atria
Rita Atria

Negli anni dell’ascesa al potere dei Corleonesi, Partanna, Alcamo e altri comuni del Belice, fungono da scenario alle lotte per il potere tra vari clan rivali. Vito Atria è un mafioso vecchio stampo, fa parte di quella mafia che sussurra alla politica ma che non vuole sporcarsi le mani con la droga e questo, all’epoca, significa mettersi contro i Corleonesi che stanno invadendo il trapanese di “raffinerie” di eroina.

Da carnefici a vittime

Nel 1985, due giorni dopo le nozze del figlio Nicola con Piera Aiello, don Vito viene ucciso in un agguato, vittima egli stesso dell’ascesa insanguinata dei Corleonesi ai vertici di Cosa Nostra. Rita ha soltanto 11 anni, è una bambina. Alla morte del genitore, il fratello Nicola assume il ruolo di capofamiglia e l’amore e la devozione per quel padre mafioso, ma pur sempre padre, si riversa su quest’unica figura maschile a lei vicina e su Piera, sua cognata.

Nicola è un pesce piccolo che con il giro della droga acquista rispetto e potere. Il loro rapporto si fa intenso e complice, al punto da trasformare la “picciridda” (bambina) Rita in una confidente.

È in questi momenti di intimità fraterna che Nicola rivela tanti segreti: i nomi delle persone coinvolte nell’omicidio del padre, il movente, chi comanda a Partanna, chi decide la vita e la morte. Lo stesso fidanzato di Rita, Calogero Cascio, un giovane del suo paese impegnato nella raccolta del pizzo, le dà l’opportunità di venire a conoscenza di fatti che non dovrebbe sapere.

Nel giugno del 1991 anche Nicola Atria muore in un agguato. La cognata di Rita, presente all’omicidio del marito, decide di denunciare gli assassini alla polizia, è il mese di luglio. Dopo il trasferimento in località segreta di Piera e dei suoi figli, Rita Atria resta a Partanna sola, rinnegata dal fidanzato (perché cognata di una pentita) e da sua madre, con cui non ha mai avuto un buon rapporto, che lamenta il perduto onore della famiglia a causa di Piera.

A pochi mesi di distanza (novembre), la diciassettenne Rita Atria, per dar voce al suo desiderio di vendetta, di rivalsa su quel “mondo” vigliacco in cui non ha scelto di nascere ma che sceglie di rifiutare, segue l’esempio di Piera chiedendo allo Stato giustizia per l’omicidio del padre e del fratello. La vendetta tanto desiderata, a poco a poco, si trasforma in “voglia di vedere altre donne denunciare e rifiutare la mafia”.

Rita Atria
Rita Atria

Le confessioni di una “picciridda”

È l’allora procuratore di Marsala, Paolo Borsellino (collaborano anche Alessandra Camassa, Morena Plazzi e Massimo Russo), a raccogliere le dichiarazioni di Rita Atria che, nel tempo, ha segnato sul suo diario le confidenze fattele dal fratello. Le deposizioni di Rita e Piera consentono alla giustizia di fare luce sugli ingranaggi che regolano le cosche mafiose del trapanese e della Valle del Belice, delineando gli scenari della faida sanguinaria – più di 30 omicidi – tra la famiglia Ingoglia e gli Accardo. Le loro dichiarazioni consentono, inoltre, di avviare un’indagine sul discusso operato dell’onorevole Vincenzino Culicchia, sindaco di Partanna per più di trent’anni.

Trasferita a Roma sotto protezione e falso nome, Rita vive isolata, costretta a frequenti cambi di residenza. Non rivedrà più la madre che la rinnega per l’affronto recato alla famiglia, nonostante il tentativo da parte di Borsellino di far sì che Giovanna accetti le scelte della figlia. Proprio con Borsellino, invece, Rita instaura un rapporto confidenziale. In “zio Paolo”, come comincia a chiamarlo, trova un uomo gentile con cui si sente al sicuro.

Luglio 1992

L’uccisione del giudice Borsellino (strage di via D’Amelio) avvenuta il 19 luglio del 1992 getta Rita nello sconforto. Il 26 luglio, una settimana dopo la morte dello “zio Paolo”, Rita Atria si suicida gettandosi dal settimo piano del palazzo in cui vive.

“Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto che ha lasciato nella mia vita. […]Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta”.

Rita Atria
Rita Atria

Il funerale di Rita si celebra a Partanna, né la madre né il paese partecipano alla commemorazione di questa giovane testimone di giustizia. A distanza di qualche mese la stessa Giovanna distrugge con un martello la lapide della figlia posta sulla tomba di famiglia, per cancellare la presenza scomoda di una “Fimmina lingua longa e amica degli sbirri” che non è riuscita ad allinearsi ad una condotta d’onore.

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Per lungo tempo la memoria di Rita non trova pace, e per molto tempo la sua tomba non ha una foto che ricordi la “picciridda”, seppellita nello stesso cimitero insieme ad alcuni di quegli uomini che ha denunciato e che hanno un nome, una foto, un ricordo.

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Piersanti Mattarella https://cultura.biografieonline.it/piersanti-mattarella/ https://cultura.biografieonline.it/piersanti-mattarella/#respond Wed, 18 Feb 2015 15:00:38 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=13465 Piersanti Mattarella, fratello maggiore di Sergio Mattarella, dodicesimo Presidente della Repubblica Italiana, nasce a Castellamare del Golfo (Tp) il 24 maggio 1935 e muoreassassinato a Palermo il 6 gennaio 1980, vittima della mafia. Figlio di Bernardo Mattarella, esponente di spicco della Democrazia Cristiana (DC), riceve un’educazione cattolica presso i padri maristi del San Leone Magno a Roma, ove la famiglia si era trasferita. Divenuto responsabile dell’educazione giovanile all’interno dell’Azione Cattolica Italiana, è molto attivo all’interno della stessa associazione, dove coinvolge molti compagni in diverse attività sociali nei quartieri della periferia di Roma.

Piersanti Mattarella
Piersanti Mattarella

La passione e l’entusiasmo per ciò che fa sono sentimenti che accompagnano Piersanti Mattarella durante tutta la sua carriera universitaria e successivamente politica. Laureatosi in giurisprudenza presso “La Sapienza” di Roma, nel ‘58 torna a Palermo dove sposa Irma Chiazzese, dalla quale ha due figli: Bernardo e Maria.

Attività politica

Divenuto assistente ordinario di diritto privato a Palermo, Piersanti si dedica alla politica come candidato della DC. Tra gli uomini che ispirano positivamente il giovane politico ricordiamo: Aldo Moro e Giorgio La Pira, la cui vocazione sociale si evince dalle sue stesse parole: « Non si dica quella solita frase poco seria: la politica è una cosa brutta! No: l’impegno politico – cioè l’impegno diretto alla costruzione cristianamente ispirata della società in tutti i suoi ordinamenti a cominciare dall’economico – è un impegno di umanità e di santità: è un impegno che deve potere convogliare verso di sé gli sforzi di una vita tutta tessuta di preghiera, di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità. ».

Negli anni ’60 Mattarella è eletto consigliere comunale di Palermo e rieletto per due legislature: ‘71 e ‘76. Assessore regionale alla Presidenza (dal ‘71 al ‘78) viene nominato dall’Ars (Assemblea regionale siciliana) presidente della Regione siciliana (‘78). Nel ‘79, a seguito di una crisi politica, forma un secondo governo.

Piersanti Mattarella
Piersanti Mattarella

Un uomo e i suoi valori

Piersanti Mattarella rappresenta una svolta nel modo di concepire il potere e la politica. I suoi provvedimenti sono pregni di legalità, volti ad imporre una nuova gestione dell’amministrazione regionale e a eliminare, all’interno delle strutture governative, qualsiasi tipo di clientelismo, privilegio, omertà e carrierismo. L’impegno per la riforma della burocrazia della Regione siciliana, che si esplica con “razionalizzazioni, meritocrazia, accorpamenti, responsabilizzazioni, controlli e divisioni di compiti” ha lo scopo di vivacizzare e rinnovare l’apparato burocratico stesso.

La linea politica di Mattarella è evidente nella “Conferenza regionale dell’agricoltura”, tenutasi a Palermo nel ‘79. Quando l’onorevole Pio La Torre (anch’egli vittima di Mafia) denuncia l’Assessorato all’Agricoltura come fulcro della corruzione isolana e lo stesso assessore come politico colluso con la Mafia, Mattarella non difende l’assessore, come ci si aspetta, ma ammette la necessità di rivedere la gestione dei contributi agricoli regionali. L’affronto, perpetrato da un senatore comunista e dal presidente democristiano, viene punito col sangue.

L’assassinio

È il 6 gennaio 1980. Piersanti Mattarella viene assassinato davanti la sua abitazione a colpi di pistola mentre si trova in macchina con la moglie, i figli e la suocera. In un primo momento, si pensa ad un assassinio di matrice terroristica, tesi avvalorata dalla rivendicazione di un gruppo neo-fascista. La modalità dell’omicidio solleva altre ipotesi. La requisitoria, sottoscritta da Giovanni Falcone in qualità di procuratore aggiunto e depositata il 9 marzo ‘91, porta ad individuare i responsabili materiali dell’omicidio in Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, combattenti di estrema destra del Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari).

Assassinio Mattarella
Assassinio Mattarella

Dopo la morte di Falcone (strage di Capaci) l’assassinio di Mattarella viene rimesso alla Mafia dai collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo. Ad ordinare l’uccisione è Cosa Nostra, a causa dell’opera di ammodernamento intrapresa da Piersanti Mattarella e dei contrasti con Vito Ciancimino (referente politico dei Corleonesi) che ha siglato un patto di collaborazione con Salvo Lima e la corrente andreottiana.

Nel ‘95 vengono condannati all’ergastolo come mandanti dell’omicidio i boss: Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Antonio Geraci. Durante il processo, la moglie di Mattarella, Cristiano Fioravanti (fratello di Valerio) e Angelo Izzo dichiarano di riconoscere in Valerio Fioravanti l’esecutore materiale dell’omicidio. La loro testimonianza non viene considerata attendibile.

In base alle dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia, collaboratore di giustizia, Giulio Andreotti, è a conoscenza dell’insofferenza di Cosa Nostra per l’operato di Mattarella. Nel 2004, alla fine di un lungo processo, si accerta che ai tempi dell’accaduto Andreotti ha rapporti con la Mafia ma al contempo si dichiara il “non luogo a procedere per intervenuta prescrizione”.

Ad oggi (2015), sono stati condannati i mandanti ma non i responsabili materiali dell’esecuzione di Piersanti Mattarella.

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“Per amore del mio popolo”: la lettera di Don Peppe Diana https://cultura.biografieonline.it/lettera-don-peppe-diana/ https://cultura.biografieonline.it/lettera-don-peppe-diana/#comments Tue, 18 Mar 2014 14:39:29 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=10167 Quello che segue è il testo di una lettera di Don Peppe Diana, vittima di camorra, ucciso il 19 marzo dell’anno 1994 a Casal di Principe, la sua città natale, in provincia di Caserta. La lettera è nota con il titolo Per amore del mio popolo.

Scritta nel periodo di Natale del 1991, nel giorno della natività di Gesù è stata letta in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona dell’Aversano.

Don Giuseppe Diana
Giuseppe Diana, detto Don Peppe. Fu ucciso dalla camorra a causa delle sue ferme posizioni contro il crimine organizzato.

Per amore del mio popolo

Lettera di Don Giuseppe Diana

Siamo preoccupati

Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”. Coscienti che come chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”.

La Camorra

La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.

Precise responsabilità politiche

È oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.

Impegno dei cristiani

Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno. Dio ci chiama ad essere profeti.

Il Profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio (Ezechiele 3,16-18);
Il Profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (Isaia 43);
Il Profeta invita a vivere e lui stesso vive, la Solidarietà nella sofferenza (Genesi 8,18-23);
Il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia (Geremia 22,3 -Isaia 5)
Coscienti che “il nostro aiuto è nel nome del Signore” come credenti in Gesù Cristo il quale “al finir della notte si ritirava sul monte a pregare” riaffermiamo il valore anticipatorio della Preghiera che è la fonte della nostra Speranza.

NON UNA CONCLUSIONE: MA UN INIZIO

Appello

Le nostre “Chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe”.

Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26).

Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.

Storia e vita di Don Peppino Diana

Per un approfondimento sulla storia della sua vita e della vicenda del suo assassinio, vi invitiamo a leggere la biografia di Giuseppe Diana.

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Il giorno della civetta: riassunto e analisi https://cultura.biografieonline.it/giorno-della-civetta-sciascia/ https://cultura.biografieonline.it/giorno-della-civetta-sciascia/#comments Wed, 26 Feb 2014 21:11:37 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=9926 Il giorno della civetta è un romanzo dello scrittore italiano Leonardo Sciascia, che finì di scrivere nel 1960 ma che la casa editrice Einaudi pubblicò nel 1961. L’opera merita un’attenzione particolare perché mette insieme sia le questioni di sfondo politico sia la polemica contro il mondo che sfocia in un forte pessimismo, mai negativo ma analitico.

Il giorno della civetta Sciascia
Il giorno della civetta (1961): una copertina del romanzo e una foto dell’autore Leonardo Sciascia

L’autore ha molti punti in comune con Italo Calvino soprattutto per il rapporto con la scrittura francese e per l’utilizzo di uno stile semplice e nitido.

Sciascia è uno scrittore siciliano, maestro elementare che si colloca nelle file del Neorealismo.

Dopo la pubblicazione de Il giorno della civetta, romanzo che parla prevalentemente della mafia, fu sicuramente lo scrittore che si dedicò maggiormente a quest’argomento in quegli anni duri e si schierò prima tra le file del Partito Comunista per poi distaccarsene.

Protagonista del romanzo è il capitano Bellodi, un ex partigiano settentrionale che conduce un’inchiesta in Sicilia per trovare i mandanti di un delitto di mafia, in cui venne coinvolto Salvatore Colasberna, il presidente di una cooperativa. Viene successivamente assassinato anche il testimone dell’accaduto.

Bellodi riesce a risalire al capomafia della zona, Mariano Arena e lo incrimina. Ma agli imputati vengono forniti alibi falsi e vengono tutti scarcerati, poiché appoggiati a politici corrotti.

Bellodi, che era stato rimandato al Nord, decide a questo punto di continuare l’inchiesta e quindi tornare in Sicilia per riprendere il proprio lavoro. “Mi ci romperò la testa” dice il capitano.

Non si tratta di un pessimismo rassegnato, ma di una reale volontà di lottare contro il sistema ormai corrotto.

Nel romanzo si fronteggiano due punti di vista opposti: il protagonista positivo, Bellodi, che incarna i valori dell’Italia democratica post- resistenza antifascista; e il capomafia Arena che invece è portatore di ideali fondati in una realtà siciliana molto dura quasi cristallizzata nelle sue leggi capovolte. Un mondo, quello siciliano, basato sull’individualità al contrario dell’Italia, neonata nazione che invece cerca di improntare lo stato verso una visione collettiva della realtà.

Sciascia è stato un grande scrittore proprio perché è riuscito a denunciare, nella razionalità dei suoi romanzi, un sistema corrotto e soprattutto non ha mai utilizzato un pessimismo rassegnato.

Dal romanzo è stato tratto dopo solo pochi anni il film omonimo, “Il giorno della civetta” (1968), di Damiano Damiani, con Franco Nero e Claudia Cardinale.

Incipit de “Il giorno della civetta”

Così inizia il romanzo:

L’autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e singulti. La piazza era silenziosa nel grigio dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice: solo il rombo dell’autobus e la voce del venditore di panelle, panelle calde panelle, implorante e ironica. Il bigliettaio chiuse lo sportello, l’autobus si mosse con un rumore di sfasciume. L’ultima occhiata che il bigliettaio girò sulla piazza, colse l’uomo vestito di scuro che veniva correndo; il bigliettaio disse all’autista “un momento” e aprì lo sportello mentre l’autobus ancora si muoveva. Si sentirono due colpi squarciati: l’uomo vestito di scuro, che stava per saltare sul predellino, restò per un attimo sospeso, come tirato su per i capelli da una mano invisibile; gli cadde la cartella di mano e sulla cartella lentamente si afflosciò.

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La strage di Capaci https://cultura.biografieonline.it/la-strage-di-capaci/ https://cultura.biografieonline.it/la-strage-di-capaci/#comments Mon, 21 May 2012 14:22:07 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2139 Con l’espressione “strage di Capaci” si fa riferimento all’attentato mafioso portato a termine il 23 maggio 1992 a pochi chilometri da Palermo, vicino allo svincolo di Capaci dell’autostrada A29, che provocò la morte del giudice antimafia Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo (sua moglie), e di tre agenti della sua scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Sopravvissero all’attentato gli agenti Angelo Corbo, Gaspare Cervello e Paolo Capuzzo, oltre a Giuseppe Costanza, l’autista giudiziario che nell’occasione si trovava sul sedile posteriore dell’auto di Falcone.

Una foto della strage di Capaci (23 maggio 1992)
Una foto della strage di Capaci (23 maggio 1992)

La strage di Capaci: i responsabili

Tra gli esecutori materiali dell’attentato (in tutto almeno cinque persone) ci sono anche Giovanni Brusca (colui che azionò il telecomando al passaggio della macchina del magistrato) e Pietro Rampulla (colui che realizzò e collocò l’esplosivo).

Tra i mandanti, invece, ci sono (secondo la sentenza della prima sezione penale della Cassazione arrivata nel 2008) Carlo Greco, Mariano Agate, Salvatore Buscemi, Salvatore Montalto, Pietro Aglieri, Giuseppe Farinella, Giuseppe Madonia e Benedetto Santapaola.

I minuti precedenti

Il delitto compiuto dai mafiosi è studiato nei minimi particolari: sotto l’autostrada A29, nel tratto che collega Palermo e l’aeroporto di Punta Raisi, viene scavata una galleria in cui vengono posizionati cinque quintali di tritolo. Quando rimane vittima dell’attentato, Giovanni Falcone sta tornando, come di consueto nei week-end, da Roma. Dopo essere partito dall’aeroporto di Ciampino con un jet di servizio alle 16.45, atterra in Sicilia dopo poco meno di un’ora di viaggio.

A Punta Raisi lo aspettano tre vetture (tre Fiat Croma blindate), insieme alla scorta guidata da Arnaldo La Barbera, capo della squadra mobile di Palermo. Una volta sceso dall’aereo, Falcone decide di mettersi alla guida, facendo sedere sul sedile posteriore l’autista Costanza. Falcone si trova su una Croma bianca, di fianco a lui c’è la moglie Francesca.

Davanti a loro, invece, su una Croma marrone si trovano Vito Schifani, alla guida, Antonio Montinaro, agente scelto seduto di fianco a Schifani, e Rocco Dicilio, seduto dietro; chiude la scorta, infine, una Croma azzurra con a bordo Cervello, Corbo e Capuzzo.

Quando le tre vetture partono dall’aeroporto, i sicari che hanno posizionato il tritolo vengono avvisati via telefono (le inchieste giudiziarie, però, non sono mai riuscite a risalire all’identità della fonte).

Le tre Croma imboccano l’autostrada verso Palermo senza accendere le sirene. Gli spostamenti delle auto vengono seguite da un’auto su una strada parallela, per segnalarne la posizione ai sicari.

L’esplosione

Alle 17.58, in corrispondenza del chilometro 5 dell’autostrada, Giovanni Brusca aziona con un telecomando la carica di tritolo. Pochi secondi prima dello scoppio, Falcone rallenta improvvisamente dopo essersi piegato leggermente verso il cruscotto per prendere un mazzo di chiavi: Brusca, sorpreso, preme in anticipo il pulsante. Di conseguenza, a essere investita in pieno dall’esplosione è solo la prima Croma: i suoi resti vengono scaraventati oltre la corsia opposta, e gli agenti muoiono sul colpo.

La Croma bianca a bordo della quale si trova Falcone, invece, si schianta contro i detriti e il muro di cemento innalzatosi a causa dello scoppio: sia il giudice che sua moglie Francesca non hanno le cinture di sicurezza allacciate, e vengono scagliati conto il parabrezza.

In apparenza le ferite di Falcone non sono gravi, e in effetti il magistrato viene portato in ospedale quando è ancora vivo: morirà più tardi, a causa di diverse emorragie interne.

Gli agenti a bordo della Croma azzurra, infine, si salvano, così come le altre persone (circa venti) che passano nel punto dell’attentato al momento dello scoppio.

Sulla strada si apre una voragine immensa, mentre i residenti delle abitazioni vicine all’autostrada immediatamente avvisano le autorità, scendendo in strada per prestare i primi soccorsi.

Giovanni Falcone
Giovanni Falcone

La morte di Falcone

Giovanni Falcone viene trasportato, a venti minuti di distanza dall’esplosione, all’Ospedale Civico di Palermo, scortato da un elicottero dei carabinieri: alle 19.05, però, muore nonostante i tentativi di rianimazione. Fatali sono le lesioni interne e il trauma cranico. Tre ore più tardi, intorno alle 22, muore anche la moglie Francesca Morvillo.

Le reazioni

La strage provoca i festeggiamenti da parte dei mafiosi rinchiusi nel carcere dell’Ucciardone, ma anche una profonda reazione di sconcerto da parte dell’opinione pubblica italiana ed internazionale.

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