lingua italiana Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Sat, 11 May 2024 10:12:20 +0000 it-IT hourly 1 8 parole italiane inventate da D’Annunzio: 2 non te le aspetti https://cultura.biografieonline.it/8-parole-inventate-da-dannunzio/ https://cultura.biografieonline.it/8-parole-inventate-da-dannunzio/#respond Sat, 11 May 2024 08:38:15 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=42113 La fama di Gabriele D’annunzio spazia dall’arte letteraria a quella poetica. La sua figura storica è ricca. Oltre a scrittore, poeta e drammaturgo, è stato militare, politico, giornalista. La storia lo ricordo come patriota e figura simbolo del decadentismo italiano. Pochi sanno che esistono parole e nomi della lingua italiana inventati proprio da lui. Di seguito vediamo proprio, una per una, 8 parole italiane inventate da D’Annunzio.

Gabriele D'Annunzio
Gabriele D’Annunzio

Automobile

La parola automobile di per sé non è stata inventata da D’Annunzio. Tuttavia a lui si deve la declinazione al femminile.

Dopo la sua realizzazione, in Francia, in Spagna e anche in Italia (fino al 1926) si era infatti soliti parlare dell’automobile solo al
maschile – in Spagna ancora oggi è el coche, maschile.

D’Annunzio in una lettera del 18 febbraio 1926 indirizzata al Senatore Giovanni Agnelli (capostipite della famiglia di imprenditori torinesi, nonno di Gianni Agnelli) esprime così il suo parere:

Mio caro Senatore, in questo momento ritorno dal mio campo di Desenzano, con la Sua macchina che mi sembra risolvere la questione del sesso già dibattuta. L’Automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità d’una seduttrice; ha, inoltre, una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza. Ma, per contro, delle donne ha la disinvolta levità nel superare ogni scabrezza. Inclinata progreditur.

La lettera di Gabriele D'Annunzio del 18 febbraio 1926 indirizzata al Senatore Giovanni Agnelli
La lettera di Gabriele D’Annunzio del 18 febbraio 1926 indirizzata al Senatore Giovanni Agnelli

Piave

Oggi ci sembra naturale declinare al maschile il fiume Piave. Di fatto però esso per lungo tempo è stato conosciuto come La Piave, e si deve proprio a D’Annunzio la nuova declinazione al maschile.

A questo punto va ricordato quanto D’Annunzio, all’epoca della Prima Guerra Mondiale fosse considerato una vera di autorità in campo linguistico. Ebbene, dopo la vittoria italiana che coinvolse la zona del Piave, cambiò il genere cui si faceva riferimento al fiume, al fine di celebrarne la potenza.

Lo fece assurgere al ruolo di «fiume sacro della Patria».

È da quel momento che ci si rivolse al fiume Piave al maschile.

Si leggano anche gli articoli:

  1. Prima battaglia del Piave
  2. La canzone del Piave

Rinascente

È il nome di una celebre catena di grandi magazzini.

Il nome esatto oggi è La Rinascente.

La fondazione risale al 1895, a Milano, con il nome: i grandi magazzini dei Fratelli Bocconi.

Avvenne un incendio devastante.

Dopo la ricostruzione, nel 1917, D’Annunzio scelse il nome Rinascente per indicare la rinascita dei magazzini, che come la figura mitologica dell’araba fenice, risorgevano dalle ceneri.

SAIWA

Il nome SAIWA è l’acronimo di: Società Accomandita Industria Wafer e Affini.

Nel 1900 Pietro Marchese apre in via Galata a Genova una pasticceria dove vendere dei sugar wafer, dolci conosciuti durante un suo viaggio in Inghilterra. La piccola impresa cresce tanto da diventare una della prime industrie dolciarie italiane.

Così nel 1922 D’Annunzio suggerisce di dare all’azienda il nome SAIWA. D’Annunzio contribuì anche ad alcune campagne pubblicitarie.

Nel 1965 l’azienda passa sotto il controllo statunitense di Nabisco; nel 1989 passa al gruppo Danone e nel 2007 a Kraft.

Scudetto

Tra le parole italiane inventate da D’Annunzio c’è anche questa, riferita direttamente al mondo del calcio: scudetto.

Correva il 7 febbraio 1920 (era un sabato). In occasione di una partita amichevole di calcio organizzata durante l’occupazione di Fiume, il poeta fa cucire un triangolino tricolore sulla divisa indossata dalla selezione italiana militare. E lo chiama scudetto.

In seguito la FIGC decide che la squadra prima classificata, nella stagione successiva apponga sulla maglia uno scudetto tricolore (i colori della bandiera italiana), rappresentativo dell’unità nazionale a livello calcistico.

La prima squadra a cucire lo scudetto sulle divise è il Genoa, nella stagione 1924-25.

Tramezzino

Nel 1925, assaggiando un particolare tipo di panino farcito con burro e acciughe al Caffè Mulassano di Torino, D’Annunzio avrebbe esclamato:

Ci vorrebbe un altro di quei golosi tramezzini!

Da allora il particolare spuntino venne chiamato così.

Il termine affonda le sue origini nel linguaggio architettonico: tramezzo significa infatti elemento posto in mezzo ad altri elementi.

L’invenzione del “panino” va attribuita ad Angela Demichelis Nebiolo, proprietaria dell’elegante locale torinese di Piazza Castello citato pocanzi. Tornata in Italia col marito, dopo anni trascorsi negli Stati Uniti, ripropose una sua versione di quelli che gli americani chiamavano sandwich.

L’intuizione fu quella di non tostare le fette di pane, privarle della crosta e soprattutto realizzare differenti farciture.

In poco tempo i tramezzini divennero i protagonisti dell’aperitivo del Caffè Mulassano.

Foto da: Vivere Meglio

Velivolo

Siamo nel 1910: l’entusiasmo per il mondo del volo porta il poeta a tenere una serie di conferenze intitolate “Il dominio del cielo“.
In una di queste conferenze, alla Scala di Milano, pronuncia queste parole:

Siamo alla vigilia di una profonda mutazione sociale, si istituisce già il Codice dell’Aria, la frontiera invade le nuvole.

Il termine “velivolo” – tra le parole italiane inventate da D’Annunzio – viene introdotto dal letterato in questo periodo per definire la “macchina volante“.

Ecco le parole tratte dal suo romanzo “Forse che sì forse che no” (sempre del 1910) , che ne spiegano l’adozione:

Ora v’è un vocabolo di aurea latinità – velivolus, velivolo – consacrato da Ovidio, da Vergilio, registrato anche nel nostro dizionario; il quale ne spiega così la significazione: “che va e par volare con le vele”. La parola è leggera, fluida, rapida; non imbroglia la lingua e non allega i denti; di facile pronunzia, avendo una certa somiglianza fonica col comune veicolo, può essere adottata dai colti e dagli incolti. Pur essendo classica, esprime con mirabile proprietà l’essenza e il movimento del congegno novissimo.

Vigili del fuoco

In origine, il nome era esclusivamente pompieri, parola derivante dal francese «sapeur-pompier».

Durante il regime fascista, nel 1938, D’Annunzio propose di chiamare i pompieri con il termine Vigili del Fuoco, ispirandosi ai vigiles dell’antica Roma.

I vigiles furono un corpo istituito nell’anno 6 d.C. dall’Imperatore Augusto con il compito di vigilare sia le strade durante le ore notturne che per proteggere la città dagli incendi. Va ricordato come gli incendi erano eventi abbastanza frequenti considerato l’uso diffuso di fiamme libere e di infrastrutture in legno.

Gabriele D’annunzio è autore di Alcyone e Il piacere. Tra le poesie che abbiamo analizzato nel nostro sito vi sono: I pastori, Il vento scrive, La sera fiesolana e altre opere.

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Perché si dice parlare a vanvera. Cos’è la vanvera? https://cultura.biografieonline.it/parlare-a-vanvera/ https://cultura.biografieonline.it/parlare-a-vanvera/#comments Fri, 26 May 2023 08:12:26 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=25916 Con l’espressione “Parlare a vanvera” si indica una situazione in cui si pronunciano parole senza un vero fine. Si potrebbe comunemente tradurre in “parlare a caso” o “parlare a casaccio”, quindi senza considerare ciò che si sta dicendo. Un altro modo di dire analogo a questo potrebbe essere “dare fiato alla bocca”. Ma torniamo all’espressione parlare a vanvera e alle sue origini.

Questa locuzione avverbiale compare per la prima volta a cavallo tra il Medioevo e l’era moderna.

Nel 1565 lo storico fiorentino Benedetto Varchi in un suo testo spiega il significato con l’azione di dire cose senza senso o senza fondamento.

Anche Francesco Serdonati, poligrafo toscano vissuto tra il XVI e il XVII secolo, alla lettera P dei suoi “Proverbi” (successivi al 1610) ci dice che “a vanvera” veniva già usato insieme al verbo “parlare”.

Etimologia

L’Accademia della Crusca ci spiega che vanvera è un termine che non esiste come sostantivo, ma solo in quanto parte della locuzione “a vanvera”. Perciò si può legare di volta in volta ad altri verbi, in vari contesti.

Si può quindi cucinare a vanvera; ci si può pettinare o vestire a vanvera; si può studiare a vanvera, cicalare a vanvera, correre a vanvera, tagliare a vanvera; e a vanvera si può poetare o recitare. È possibile inoltre tacere o pensare a vanvera; e ancora vanverare o vanvereggiare.

Sono note varianti regionali, in particolare nel pisano e nel lucchese, dove si usano le espressioni “a cianfera” e “a bámbera”. Quest’ultima è una locuzione di probabili origini spagnole, con la quale s’intendeva una perdita di tempo.

Oggi gli etimologisti sono più propensi a credere che vanvera sia una variante di “fanfera”, una parola di origine onomatopeica che significa “cosa da nulla” (fanf-fanf riproduce il suono di chi parla farfugliando, senza pertanto dire nulla di sensato). In origine vi sarebbe il suono fan-fan, tipico delle trombe militari. Fanfarone si dice infatti di persona che si comporta da millantatore o spaccone.

Parlare a vanvera. Parlare a caso, senza considerare quel che si dica. Dicesi anche: parlare in aria. Cioè: senza fondamento, senza senso, a caso, senza riflettere.

La vanvera

L’ampio ventaglio dell’applicazione dell’espressione ha dato origine anche a usi fantasiosi, fino ad arrivare a interpretazioni colorite e volgari. Esiste un oggetto chiamato piritera o anche vanvera, simile all’antico prallo. Fu molto in voga presso gli aristocratici veneziani e napoletani del XVII secolo.

Parlare a vanvera

La vanvera poteva essere da passeggio o da letto: la sua funzione era quella di risolvere i disturbi gastrointestinali dal punto di vista… sociale. Spieghiamo meglio il concetto definendo di seguito la funzione degli strumenti.

Il prallo

Si tratta di un oggetto antico a forma di uovo, di ceramica o di legno, dotato di due fori comunicanti. Tale uovo durante i lunghi banchetti degli aristocratici veniva infilato nel pertugio anale al fine di attenuare l’effetto dei miasmi delle flatulenze. Al suo interno vi si infilavano delle erbe odorose. Il gas nell’attraversare il prallo provocava una curiosa nota musicale tipo trombetta o fischietto.

La piritera

Di simile utilizzo del prallo era la piritera. Essa non andava appoggiata ai glutei bensì aveva una cannula per essere infilata direttamente nell’ano.

La vanvera da passeggio

L’oggetto era costruito in pelle di vari colori ed era diviso in quattro parti.

Vanvera da passeggio
Vanvera da passeggio

La prima parte, per aderire completamente alle natiche era fatta a coppa, realizzata su misura. Questa comunicava attraverso un collo ad una vescica che riceveva i gas intestinali. Essa terminava con un pertugio munito di chiusura con spago, per consentirne lo sfiato.

L’utilizzatore che soffriva di meteorismo, ma che si trovava nella necessità di uscire in società, la indossava sotto il mantello oppure sotto la gonna. Ogni rumore veniva attenuato ed ogni odore evitato. Una volta isolati si poteva aprire lo spago.

vanvera

Oggigiorno questi tipi di oggetto suscitano ilarità. E’ bene ricordare che il termine vanvera non deriva però da quest’ultimo strumento descritto. E’ piuttosto il contrario: lo strumento prende il nome vanvera proprio per l’assonanza onomatopeica del “parlare all’aria”.

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Obiettivo o obbiettivo: come si dice? https://cultura.biografieonline.it/obiettivo-obbiettivo/ https://cultura.biografieonline.it/obiettivo-obbiettivo/#comments Mon, 14 Mar 2022 08:08:04 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=11739 Nella lingua italiana, durante una conversazione o mentre scriviamo, possiamo usare i termini obiettivo ed obbiettivo, spesso in maniera similare. In realtà si tratta di due termini (sia se riferiti all’aggettivo, sia se riferiti al sostantivo), che riprendono il latino medievale obiectivu(m). Nel linguaggio comune, è comunque più usato e riconosciuto il termine con una sola b, quindi obiettivo, ma entrambi i termini possono essere usati senza cadere in errore.

Obiettivo e obbiettivo
Ci sono obiettivi e obbiettivi

La forma obiettivo è più vicina all’etimo latino obiectivum, mentre obbiettivo è una forma di origine popolare che ha subito il raddoppiamento della b davanti ad “i” con valore di semiconsonante. Obbiettivo è attestato nell’italiano scritto sin dalla metà del secolo XVI, mentre obiettivo è usato dalla prima metà del secolo successivo. Obiettivo od obbiettivo è una parola che prende spunto dal latino ed è caratterizzato dalla fusione dei due termini obiactum = lanciato in avanti dove per apofonia la a diventa e (latino medievale obiectivum).

Significati del termine obiettivo o obbiettivo

Obiettivo o obbiettivo, inteso come sostantivo, sta ad indicare il fine, la meta, oppure il bersaglio da raggiungere che una persona o un gruppo di persone si pongono. In quest’ottica, l’obiettivo, soprattutto in ambito militare, diventa sinonimo di bersaglio. Se si parla di termini come pianificazione e project management, l’obiettivo diventa sinonimo di un progetto che permette di definire i risultati da raggiungere.

Se lo si considera come aggettivo, il termine obiettivo indica qualcosa di imparziale, basato sui dati e non influenzato da opinioni non oggettive. In ambito militare, l’obiettivo è il fine di un’azione, mentre in fisica è l’oggetto di studio dell’ottica. In ambito fotografico il termine obiettivo o obbiettivo è usato per definire una parte, sia delle videocamere che delle macchine fotografiche. In campo legislativo, viene utilizzato il termine “legge obiettivo”, che indica una legge che annovera regolamenti sulle infrastrutture strategiche.

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Dolce stil novo (Stilnovismo): riassunto https://cultura.biografieonline.it/dolce-stil-novo/ https://cultura.biografieonline.it/dolce-stil-novo/#comments Fri, 05 Nov 2021 07:10:31 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=21844 Nella seconda metà del Duecento nacque, tra Bologna e Firenze, un nuovo movimento poetico e letterario definito da Dante Alighieri nella sua CommediaDolce stil novo” (oggi identificato anche come Stilnovo, o Stilnovismo). Secondo Dante, la novità di questo stile consisteva prima di tutto in un processo di progressiva interiorizzazione e spiritualizzazione del sentimento amoroso. Questo nuovo fermento poetico prese avvio a Bologna grazie all’opera di Guido Guinizzelli e, in particolare, alla poesia Al cor gentil rempaira sempre amore.

Dante e Beatrice, Stilnovismo, Dolce stil novo
Dante e Beatrice. Particolare del “Saluto di Beatrice”, dipinto di Dante Gabriel Rossetti (1859-1863)

Ma è a Firenze, tra il 1280- 1310, che si sviluppò in maniera più consistente grazie alle opere di Dante e Guido Cavalcanti. Oltre agli altri stilnovisti come Cino da Pistoia, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi. Non si tratta di una vera e propria scuola fondata su regole metriche precise da rispettare quanto piuttosto di uno schieramento omogeneo consolidato da valori, pratiche ed esigenze comuni.

Questi poeti, infatti, erano legati ad un forte sentimento di amicizia, testimoniato dalle numerose corrispondenze. Già dai loro contemporanei essi venivano percepiti come legati da un’unica idea e consapevolezza.

Il Dolce stil novo

Questa nuova poesia stilnovistica si affermava in esplicita contrapposizione all’esperienza precedente dei poeti siculo- toscani e del loro maestro, Guittone d’Arezzo. Si sentiva l’esigenza di un chiaro rinnovamento poetico.

Questo cambiamento riguardava sia le scelte contenutistiche che le forme utilizzate dal nuovo gruppo di poeti. Veniva così messa al centro dei componimenti la propria esperienza personale e banditi tutti i temi politici e sociali, spesso l’oggetto scelto da Guittone.

Venivano bandite anche le sperimentazioni linguistiche per ricercare una nuova dolcezza e melodia all’interno del verso. Gli stilnovisti quindi abbandonarono i riferimenti alla vita comunale, che era spesso travagliata, per un ritorno ad una poesia d’amore. Non più accostabile alla tradizione siciliana ma diretta verso nuove sperimentazioni.

L’ambiente in cui nacque questo tipo di poesia rimase ovviamente quello comunale e cortese. Ma la riflessione sul sentimento dell’amore divenne più profonda e con una spiccata dimensione filosofica.

La definizione

La definizione di dolce stil novo la si deve proprio a Dante che la inserisce nel canto XXIV del Purgatorio. Qui l’autore incontra Bonagiunta Orbicciani, un poeta della scuola legata a Guittone d’Arezzo, che ammette che Giacomo da Lentini, Guittone e lui stesso sono stati superati dai poeti stilnovisti e dalle loro nove rime:

O fratem issa vegg’io, diss’elli, il nodo che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch’io odo!

Quale verso prima della definizione del nuovo stile, Dante dichiara l’oggetto della poesia stilnovista:

I’mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando

ossia l’espressione di tutto ciò che l’amore ispira nell’animo del poeta.

Lo stilnovismo e la donna angelo

Nella poesia stilnovista influisce quindi anche la riflessione filosofica, in particolare il pensiero di San Tommaso d’Aquino e Averroè. Essi cercano una conciliazione tra amore terreno e spiritualità. Teorizzano così il concetto di donna angelo, che diventa un tramite tra uomo e Dio. La donna cessa di essere una figura terrena e diventa così una figura spirituale che riesce a far emergere nell’uomo la sua virtù.

Un nuovo concetto di nobiltà

Un altro tema importante nello stilnovo è quello della nobiltà. Questa non è più considerata come la nobiltà di sangue ma è identificata con quella dello spirito. Non si è più nobili solo per nascita ma soprattutto se si conquista questa caratteristica nella vita pratica. Si diventa nobili nel cuore grazie ad una serie di qualità come la saggezza e la pratica delle virtù.

Dal punto di vista stilistico, i componimenti assimilabili allo Stilnovo hanno una sintassi piana e lineare. Hanno un lessico semplice e raffinato e non sono presenti particolari artifici retorici. Nonostante la naturalezza del verso, le poesie del Dolce stil novo sono piuttosto complesse perché ricche di riferimenti filosofici. Erano quindi indirizzate essenzialmente ad un pubblico colto e sensibile, capace di comprenderle a pieno.

Lo stilnovismo è stato un movimento fondamentale della poesia italiana delle origini. Esso è riuscito ad influenzare tutti i poeti successivi, almeno fino a Petrarca. Inoltre lo stilnovismo ha dato avvio alla produzione del più grande autore della letteratura italiana, Dante Alighieri. Egli con la Vita Nova e la sua Divina Commedia è riuscito a portare ai massimi livelli la visione della donna angelo e ad incarnarla nel personaggio di Beatrice. Senza dubbio i poeti stilnovisti restano i più importanti di tutta la letteratura italiana delle origini, pertanto imprescindibili per lo studio della tradizione storico letteraria italiana.

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Centra e c’entra: differenze e usi corretti https://cultura.biografieonline.it/centra-c-entra/ https://cultura.biografieonline.it/centra-c-entra/#respond Tue, 20 Jul 2021 05:12:25 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=23177 I due termini c’entra e centra presentano significati completamente diversi. Nel primo caso centra sta ad indicare la voce verbale del verbo centrare, nel secondo caso c’entra sta ad indicare l’unione del pronome ci con la voce verbale entrare. Quest’ultimo indica qualcosa di attinente o meno ad una data discussione.

Un gatto tenta di entrare nella scatola. Non centra il suo obiettivo perché non c'entra
Un gatto tenta di entrare nella scatola. Non centra il suo obiettivo perché non c’entra.

C’entra o centra?

I due termini sono confusi a causa della loro assonanza e vengono molto spesso usati erroneamente. E’ diversa anche la pronuncia, perché se c’entrare richiederebbe una pronuncia con la e chiusa, con c’entra si utilizza invece la e aperta. Nel primo caso, il verbo centrare è caratterizzato dal sostantivo centro con l’aggiunta della desinenza verbale -are.

Centrare

I significati di questo verbo sono tre:

  1. primo caso: fissare nel centro;
  2. secondo caso: colpire nel centro;
  3. terzo caso, il verbo è usato in modo figurato.

Di seguito vediamo alcuni esempi. Nel caso di fissare nel centro, centrare viene usato in fotografia, centrare il compasso, un soggetto, un’immagine o per fissare il centro di un fotogramma, lo schermo o un obiettivo.

Nel secondo caso, in cui il verbo centrare viene usato con il senso di colpire nel centro, ci riferiamo a colpire un boccino o colpire un bersaglio.

Nell’ultimo caso, in cui il verbo è usato in modo figurato, facciamo riferimento all’opportunità di cogliere e conseguire le cose in modo preciso e attento. Ne sono chiari esempi: centrare un personaggio mettendone a nudo le caratteristiche principali, centrare un obiettivo, centrare un problema.

Obiettivi e bersagli
Centrare: il termine lo si usa, ad esempio, associato agli obiettivi o ai bersagli.

C’entra

C’entra è l’unione del pronome ci e della terza persona singolare del verbo entrare. Questo termine viene usato sia con valore intensivo sia in senso figurato o nella forma negativa.

  1. Con valore intensivo. Trovare posto, avere spazio sufficiente per stare in qualcosa:
    in questa macchina c’entrano solo cinque persone.
    Essere contenuto:
    il tre nel sei c’entra due volte.
  2. In senso figurato, con il significato di avere parte, attinenza, relazione con qualcosa:
    che c’entra questo con quanto è accaduto?
  3. Forma negativa. Viene anche utilizzato come modo di dire per indicare qualcosa che sia attinente ad una discussione o, in forma negativa, non c’entra, che non sia pertinente. Esempio d’uso:
    il tuo intervento non c’entra per niente.

 

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Clandestino: etimologia e uso corretto della parola https://cultura.biografieonline.it/clandestino-uso-corretto-della-parola/ https://cultura.biografieonline.it/clandestino-uso-corretto-della-parola/#comments Thu, 28 Feb 2019 04:19:21 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=26036 La parola clandestino si è diffusa nell’uso comune in modo ossessivo attraverso i giornali e nelle dichiarazioni dei politici. Questo termine viene utilizzato per indicare uno straniero che soggiorna in un Paese, violando le leggi di immigrazione.

Qual è l'uso corretto della parola clandestino
Qual è l’uso corretto della parola clandestino

Senza documenti

In particolare in Italia il termine clandestino si riferisce a tutti gli stranieri che anche se entrati regolarmente nel Paese, restano anche dopo la scadenza del visto o dell’autorizzazione al soggiorno. In questo caso il termine corretto da usare sarebbe migrante irregolare.

Per esempio, negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni si dice in modo più corretto: undocumented person. Tradotto in italiano significa persona senza documenti.

Clandestino: etimologia e uso corretto

Clandestino originariamente era un aggettivo e poi si è diffuso anche come sostantivo. La parola deriva dal latino “clam” (di nascosto) e “dies” (giorno).

Per la legge il clandestino non esiste, non è infatti citato nel testo della Legge Bossi-Fini e neppure nel testo unico sull’immigrazione che, all’articolo 10 bis, disciplina il “reato di clandestinità”, ma che usa al contrario questo termine definendolo come “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato”.

Questa parola, cioè clandestino, è fortemente negativa, tanto che la Carta di Roma raccomanda ai giornalisti di evitarne l’uso. La parola clandestino quindi non può essere usata come sinonimo di immigrato. La maggioranza dei migranti sono infatti regolari e sono oltre 5 milioni, cioè dieci volte più degli irregolari (circa 500mila – dati: gennaio 2019).

Etichetta

Gli sbarchi sono visti nell’immaginario collettivo come l’emblema delle migrazioni irregolari. Ma non è così: la maggior parte degli sbarchi sono nel 90 per cento dei casi operazioni di soccorso in mare dei migranti naufraghi.

Insomma, l’etichetta clandestini non va proprio usata. Essa è discriminatoria. L’alternativa consigliata è migrante irregolare oppure senza permesso di soggiorno. Entrambe le espressioni non hanno un impatto discriminatorio e risultano più corrette per indicare una persona che si trova in un Paese straniero priva di regolare permesso.

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Differenza tra confine e frontiera https://cultura.biografieonline.it/confine-frontiera-differenze/ https://cultura.biografieonline.it/confine-frontiera-differenze/#comments Thu, 06 Apr 2017 16:40:46 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=22161 Capita sovente che nella lingua italiana i termini confine e frontiera vengano usati come sinonimi. Infatti per confine (cum-finis) si intende una linea (per lo più immaginaria) che separa uno Stato dall’altro. Consideriamo tale parola dal punto di vista del diritto internazionale e della geografia politica: il confine non è altro che la linea che divide lo spazio soggetto al potere di uno Stato, dallo spazio che è soggetto al potere di un altro Stato.

Confine tra Utah Colorado Arizona New Mexico
Una foto del punto di intersezione tra i confini di quattro stati USA: Utah, Colorado, Arizona e New Mexico.

Confine

Tale termine viene usato semplicemente per rimarcare la separazione tra i vari territori che presentano leggi e organizzazioni differenti.

Con-fine” sta ad indicare infatti che quella conclusione è comune. Il confine di un territorio è ciò che chiude il terreno e separa “ciò che è mio” da ciò che è invece appartiene a qualcun altro. Le conformazioni geologiche naturali sono state spesso usate come linee di confine. Sono esempi le catene montuose, i fiumi, i laghi; le maestose Cascate dell’Iguazú delimitano il confine tra Argentina e Brasile.

Nell’epoca romana veniva adottata la parola Terminus per indicare i vari segnali materiali (pietre, pali, muretti) che si trovavano lungo il percorso della linea di un confine.

La parola confine viene usata anche in senso più ampio per indicare il limite di una proprietà privata. Indicare anche il contenere qualcosa o qualcuno in un determinato spazio; da qui l’espressione: confinare qualcuno in casa.

In altri casi il confine sta a simboleggiare il luogo fisico in cui esso è collocato. Ne è un esempio la linea tracciata su una carta geografica.

Ma non finisce qui. Il concetto di confine assume un significato molto ampio perché viene usato anche come strumento per dominare il nostro pensiero e controllare la realtà che ci circonda: i confini del pensiero o i confini della realtà, appunto.

Frontiera

Con il termine frontiera invece si indica una stretta striscia di territorio che si trova nelle vicinanze di confine tra due stati. E’ una sorta di varco dove è possibile, dopo determinati controlli, entrare oppure uscire da un paese straniero.

In questo caso, la frontiera è anche il passaggio (normalmente presidiato dalla polizia – chiamata polizia di frontiera – o dalle forze armate). La frontiera è delimitata, riconosciuta e dotata, in più casi, di opportuni sistemi di difesa.

In ogni caso, le frontiere, ai giorni nostri vengono considerate non solo un luogo di espatrio o rimpatrio. Esse sono anche un luogo di mero transito di personalità cui gli ordinamenti sono soliti assegnare compiti di protezione speciale.

Frontiera Italia Svizzera
Dogana di Brogeda: un punto di frontiera tra Italia e Svizzera

Con il termine frontiera si vuole anche indicare un determinato luogo figurato, ma non sempre identificabile in un’area ben definita. Oppure si vuole eventualmente mostrare metaforicamente quella linea che separa nettamente ambienti, situazioni o concezioni differenti: ne è un esempio l’espressione frontiere della scienza.

I due termini confine e frontiera possono essere usati anche in vari ambiti scientifici: dalla geometria, all’elettrotecnica, fino alla fisica.

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Nomi dei colori: da dove derivano? https://cultura.biografieonline.it/nomi-dei-colori/ https://cultura.biografieonline.it/nomi-dei-colori/#comments Wed, 24 Feb 2016 17:27:26 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=16967 Siamo soliti imparare i nomi dei colori fin dalla tenera età, a casa o all’asilo. Ai bambini si insegna la differenza tra colori primari e secondari e, insieme ai numeri, i nomi dei colori sono tra le parole più usate durante tutta la vita, in ogni lingua del mondo. In questo articolo andiamo a soddisfare una curiosità: l’etimologia e l’origine dei nomi dei colori.

Lapislazzuli - Azzurro
Il Lapislazzuli è una pietra considerata molto preziosa fin dai tempi antichi. Dal suo nome deriva il nome del colore “Azzurro”

Arancio

Il termine arancio – o arancione – ha origini databili dall’anno 1540 circa; prende il nome dal frutto dell’arancio. L’etimologia è proprio curiosa: deriva dal sanscrito naranga-s (che indica l’albero), passato poi al persiano narang, dunque all’arabo naranj e acquisito in veneziano come “naranza”, poi alterato in “narancia”. La perdita della consonante iniziale fu dovuta forse perché venne scambiato per l’articolo: “n’arancia” che suonava meglio di “una narancia”; oppure, forse, all’influsso del latino aurum, “oro”. In spagnolo la parola è rimasta naranja.

Azzurro

Si tratta di un lemma di origine persiana, derivato dal termine لاجورد (lajvard, lazvard): esso indicava il lapislazzuli o lo zaffiro.

Beige

Il beige è un colore cosiddetto multifunzionale. Di base si tratta di un giallo crema un po’ sporcato, tuttavia con questo nome di colore, si vuole sovente indicare altre tonalità di marrone (o talvolta di grigio). Il termine è chiaramente di origine francese: questa parola indicava un tipo di tessuto fatto con lana non tinta, mantenuta del suo colore naturale (il beige, appunto). L’origine etimologica del termine “beige” è ignota.

Bianco

Il nome del colore bianco deriva dal germanico blanc (o blanch, blank), che voleva significare “splendente”, “rilucente”, “scintillante”, “brillante”. Il termine originale era molto usato per le armi: da qui la moderna espressione italiana “arma bianca”. Il termine germanico rimpiazzò il suo pari latino albus (da cui “alba”, “albino”, “albume” e via dicendo), di identico significato.

Blu

Il nome del colore “blu” proviene dal germanico blao, a sua volta dal proto-indoeuropeo bhle-was. La radice di tale termine non solo significava “blu”, ma anche “color della luce”, “biondo”, “giallo”, e da essa deriva il latino flavus (“giallo”).

Bordeaux

A volte italianizzato in “Bordò”, il colore Bordeaux deve il suo nome all’omonimo vino rosso, prodotto presso l’omonima città francese di Bordeaux. Il nome di quest’ultima – in latino “Burdigala” – ha origini celtiche o pre-celtiche, oggi indecifrabili.

Celeste

Il nome del colore celeste, attribuito nella lingua italiana anche come nome proprio di persona,  deriva semplicemente dal latino caelestis, letteralmente “del cielo”. Per molti questa etimologia era intuitiva.

Ciano

Il termine “ciano” deriva dal greco κύανoς (kýanos), che significa “blu scuro”: tale parola indicava anche gli smalti dello stesso colore e i lapislazzuli. L’origine, probabilmente, non è indoeuropea, ma potrebbe essere correlata al termine ittita kuwanna(n)-, che indicava il colore blu della patina che si forma sul rame ossidato.

Rame ossidato
Un tubo di rame ossidato

Fucsia

Il colore fucsia deve il suo nome all’omonimo fiore, la fucsia, che a sua volta è stato così battezzato in onore di Leonhart Fuchs, medico e botanico tedesco vissuto nel 1500, autore di oltre 50 volumi tra libri e trattati, tra cui molti su fiori e piante.

Giallo

L’origine sta nel termine proto-germanico gelwaz, che significa proprio “giallo”, “verde pallido”; una parola correlata, galbus, galvus, era presente in latino. Tale nome può essere ricondotto alla radice indoeuropea -ghel, che, curiosamente, oltre a voler dire “brillante”, “splendente”, significa anche “urlare”, “gridare” (nella lingua inglese il verbo yell, significa proprio “urlare”): il giallo dimostra nella sua etimologia come sia un colore che attiri attenzione.

Giallo
Giallo

Grigio

Il nome “grigio” deriva dal proto-germanico grisja, gris, termine che indicava un colore nero mischiato al bianco; questa parola era usata perlopiù per indicare il colore dei capelli e il colore delle penne degli uccelli: il significato è riflesso nel moderno termine tedesco greis, “vecchio”.

Indaco

Il nome deriva dal latino indicum, a sua volta dal greco ινδικόν (indikón), letteralmente “proveniente dall’India”, “indiano”. L’indaco era infatti un colorante ricavato dalle foglie delle piante del genere dell’oleandro, native di quella regione del mondo.

Magenta

Tra i colori il magenta è un rosso che tende al fucsia : venne creato nel 1859 da François-Emmanuel Verguin, ossidando l’anilina (nota anche come fenilammina o amminobenzene è un composto che a temperatura ambiente si presenta come un liquido incolore quando è molto pura. All’aria si ossida facilmente tendendo a scurirsi fino ad annerire). Il nome del colore deriva dalla celebre battaglia di Magenta, in riferimento al sangue che fu sparso negli scontri. Vi sono invece numerose ipotesi sull’origine del nome della città di Magenta (che si trova vicino Milano) tanto da renderla tutte dubbie.

Nomi dei colori: il marrone è il colore delle castagne
Nomi dei colori: il marrone è il colore delle castagne

Marrone

Il nome del colore “marrone” deriva dal francese couleur marron, cioè “color castagna”. E’ altresì piuttosto dibattuta l’origine del termine “marron”: esso viene ricondotto al greco maraon (“castagna dolce”), ma anche al celtico mar (“grande”); tra le ipotesi c’è anche un’ignota radice pre-romana, forse ligure.

Nero

Tra i nomi dei colori e tra le curiosità etimologiche ad essi collegate, non poteva mancare il “nero“. Esso deriva dal latino nigrum, che significava “scuro”, “cupo”, e in senso figurato voleva anche dire “tetro”, “sfortunato”, “cattivo” e altri concetti simili. Alcuni studiosi hanno ipotizzato anche una connessione al greco νεκρός (nekrós), “morte”. Potrebbe, in ultimo, essere ricondotto al proto-indoeuropeo nekw-t, “notte”.

Ocra

Dal greco ὠχρός (ochros), significa “giallo pallido”.

Rosa

Il nome del colore “rosa” ricalca esattamente il nome del fiore della rosa; l’origine sta nel greco ‘ροδον (rhodon), che si può forse ricollegare ad una radice proto-indoeuropea, wrdho, con il significato di “spina”.

Rosso

Il rosso è l’unico colore per il quale sia stata definita in modo univoco una chiara radice proto-indoeuropea, cioè reudh-: da essa deriva il latino ruber, rufus (da cui l’italiano “rosso”); da essa deriva anche il proto-germanico rauthaz (da cui l’inglese “red” e il tedesco “rot”), e anche i loro corrispettivi greci, slavi, celtici, sanscriti… e ancora in altre lingue. In epoca moderna il rosso è associato alla Ferrari.

Turchese

Il colore turchese prende il nome dalla pietra preziosa, l’omonima pietra turchese, chiamata così perché originariamente proveniva dalla Turchia o dalle regioni vicine; il significato etimologico è proprio “turco”, “della Turchia”.

Verde

Il nome “verde” deriva dalla lingua latina: viridis, da virere, “essere verde”, “verdeggiare”. Di ultima origine ignota, forse riconducibile a una radice protoindoeuropea ghvar, “essere verde (o giallo)”, forse per estensione da “splendere”.

Viola

Il nome del colore “viola” è da ricondurre al latino viola, imparentato con il greco ιον (ion): indicava il fiore della viola, analogamente alle origini del nome del colore rosa.

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I nomi dei mesi e dei giorni non si scrivono maiuscoli https://cultura.biografieonline.it/mesi-giorni-minuscoli/ https://cultura.biografieonline.it/mesi-giorni-minuscoli/#respond Thu, 17 Sep 2015 12:15:57 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=15132 Quando si scrivono i nomi dei mesi e i nomi dei giorni della settimana non va usata la lettera iniziale maiuscola. I mesi si scrivono così:

  1. gennaio
  2. febbraio
  3. marzo
  4. aprile
  5. maggio
  6. giugno
  7. luglio
  8. agosto
  9. settembre
  10. ottobre
  11. novembre
  12. dicembre

I giorni della settimana si scrivono così:

  1. lunedì
  2. martedì
  3. mercoledì
  4. giovedì
  5. venerdì
  6. sabato
  7. domenica

Leggi anche: Da dove derivano i nomi dei giorni della settimana.

nomi dei mesi (calendario)

Quando è corretto usare la lettera maiuscola

Fin qui la regola va considerata come basilare. Poi però esistono le eccezioni. Se il nome della settimana corrisponde a un nome proprio, andrà indicato con la lettera maiuscola. Un esempio è il nome proprio femminile Domenica.

Il nome del giorno può essere scritto e indicato con la lettera maiuscola nei nomi delle ricorrenze e delle festività. Sono esempi il Sabato Santo, il Martedì grasso, il Lunedì dell’Angelo.

I dizionari della lingua italiana in realtà non concordano su quest’ultimo punto, perciò sono corrette entrambe le forme: la forma con la lettera maiuscola e la forma senza lettera maiuscola.

E’ invece corretto indicare con la lettera maiuscola le festività canoniche come Natale, Pasqua, Ferragosto.

I giorni della settimana al plurale

I nomi dei giorni della settimana assumono regolarmente la forma plurale. In realtà quelli che terminano con -ì rimangono invariati. Avremo pertanto, ad esempio

  • le domeniche
  • i sabati
  • i lunedì
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Perché si dicono le parolacce? https://cultura.biografieonline.it/parolacce/ https://cultura.biografieonline.it/parolacce/#comments Wed, 06 Nov 2013 15:37:30 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8414 Dobbiamo ammetterlo, le parolacce scappano a tutti e sono entrate nel linguaggio comune tanto che quasi non ci facciamo più caso. In Parlamento, per esempio, i deputati e senatori si lasciano spesso sfuggire termini non proprio “politically correct“, richiamando i facili costumi di qualcuna di loro o sottolineando qualità della madre di altri. Ma anche il turpiloquio ha un senso e una ragione di esistere, se pensiamo che affonda le radici nell’antichità.

Le parolacce sono spesso accompagnate da gesti
Accompagnate spesso da gesti, le parolacce trovano la loro genesi nell’antichità

Aristofane, autore e commediografo dell’antica Grecia, utilizzava le parolacce nei suoi discorsi e opere (siamo nel 400 a.C.); anche il sommo poeta Dante cita qualche termine non proprio ortodosso in uno dei canti dell’Inferno. Poeti e scrittori più recenti,come Gioacchino Belli, hanno fatto delle espressioni triviali il loro cavallo di battaglia.

Quando si pronuncia una parolaccia, soprattutto in contesti in cui sarebbe meglio trattenersi, si rompono le convenzioni che ci sono state imposte fin da bambini, e che abbiamo immagazzinato dentro di noi tra le “cose che non si fanno”. In genere le espressioni colorite e volgari si riferiscono ad argomenti tabù che non vengono affrontati dalla maggior parte delle persone per timore di infrangere le regole della morale comune, per esempio il sesso.

La parolaccia crea una rottura con lo schema linguistico cui siamo abituati e mette in evidenza la parte più nascosta di ciascuno, quella parte che in genere tende a rimanere nascosta perché non accettata dalle regole sociali o dalla stessa coscienza. Dal punto di vista psicologico, pare che le parolacce facciano bene, perché aiutano a fare uscire l’energia accumulata e trattenuta, tramutatasi in frustrazione, paura, rabbia ed altri simili sentimenti. In molti casi dire le parolacce è un modo per lasciare andare un’emozione “scomoda” con la quale non si vuole più convivere.

L’opinione comune ritiene che le parolacce e le espressioni colorite e triviali andrebbero bandite del tutto o limitate ad alcune circostanze, ma in alcuni casi servono a rallegrare l’atmosfera, a rendere un ambiente più piacevole e familiare, per esempio in una serata tra amici. Anche i comici, in televisione, ricorrono spesso alle parolacce per suscitare l’ilarità di chi li ascolta.

Oggi la tv è piena di parolacce, e spesso si superano i limiti della decenza: basti pensare che la trasmissione “Radiobelva” (in prima serata su Rete 4 nell’ottobre 2013) è stata chiusa dopo una sola puntata proprio a causa del linguaggio poco elegante utilizzato dai conduttori.

Dal punto di vista scientifico, si è scoperto che l’emisfero destro del cervello è quello deputato ad immagazzinare le parolacce, mentre in quello sinistro avviene lo sviluppo del linguaggio in generale. Proprio per questo motivo, chi ha perduto la memoria a causa di traumi o incidenti, di solito non dimentica le parolacce.

E’ importante pronunciare le parolacce con un certo stile, cioè evitando di ferire, offendere o irritare gli altri. Ecco perché è sempre consigliabile valutare il contesto in cui si trova, prima di lasciarsi andare con le parole: si corre il rischio di essere fraintesi e di pentirsi successivamente di quello che si è detto.

Le parolacce fanno ormai parte del linguaggio comune, e c’è anche chi ha scritto un libro sull’argomento, ripercorrendo la “storia della parolaccia” attraverso i grandi autori della storia, compreso Roberto Benigni. Un saggio interessante, che fa luce sui motivi per cui si dicono le parolacce e sugli effetti che hanno su chi ci ascolta. L’autore è Vito Tartamella, il libro si intitola: “Parolacce. Perché le diciamo, cosa significano, quali effetti hanno”, Edizioni Bur.

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