leggende Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Tue, 23 Apr 2024 07:37:23 +0000 it-IT hourly 1 San Giorgio nella Legenda Aurea https://cultura.biografieonline.it/legenda-aurea-san-giorgio/ https://cultura.biografieonline.it/legenda-aurea-san-giorgio/#comments Tue, 23 Apr 2024 07:22:57 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18321 La storia della vita di San Giorgio è ricca di leggende. Una delle leggende più celebri che lo riguardano compare nella cosiddetta Legenda Aurea.

La Legenda Aurea (spesso italianizzata per assonanza in Leggenda Aurea – con due g) è una raccolta di biografie agiografiche (vite dei santi) risalente al Medio Evo.

Fu composta in latino dal frate domenicano e vescovo di Genova, Jacopo da Varazze.

Nella Legenda Aurea un capitolo è dedicato proprio a San Giorgio: da questa leggenda nacque il mito di Giorgio e numerosi ordini cavallereschi a lui ispirati.

Legenda Aurea: San Giorgio e il Drago - Paolo Uccello
San Giorgio e il Drago (nella Legenda Aurea): dipinto di Paolo Uccello • 1456, olio su tela, 57×73 cm, National Gallery di Londra

La legenda aurea e San Giorgio

Si racconta che in una città della Libia di nome Selem vi fosse uno stagno di grandi dimensioni in cui si nascondeva un drago. La creatura, con il suo fiato, era in grado di uccidere chiunque.

Per placare la sua ira e sopravvivere, gli abitanti del posto erano soliti offrirgli due pecore ogni giorno. Ben presto però i capi di bestiame iniziarono a diventare pochi. Così il popolo decise che l’offerta quotidiana dovesse essere composta da una pecora e un giovane estratto a sorte.

La principessa Silene

Un giorno, a essere estratta fu la principessa Silene, la giovane figlia del re. Egli, spaventato, offrì a metà del regno il proprio patrimonio: il popolo, tuttavia, non accettò lo scambio, visto che già tanti giovani erano periti per colpa del drago.

Nonostante diversi tentativi e numerose trattative che si erano protratte per giorni e giorni, alla fine il monarca fu costretto a cedere. Così Silene si avviò verso lo stagno.

Silene, Giorgio e il drago

Mentre procedeva incontro al suo infausto destino Silene si imbatté in Giorgio. Il giovane cavaliere, venuto a sapere del sacrificio che di lì a poco si sarebbe compiuto, promise alla ragazza, tranquillizzandola, che sarebbe intervenuto per farla scampare alla morte.

Disse quindi alla principessa di avvolgere al collo del drago la sua cintura, senza timore.

In effetti, così facendo la fanciulla riuscì a convincere la bestia a seguirla verso la città.

La popolazione fu sorpresa nell’osservare il drago così vicino, ma ci pensò Giorgio a infondere loro fiducia, riferendo che era stato Dio a mandarlo ivi per sconfiggere l’ira del drago.

Il mostro sarebbe stato ucciso solo se gli abitanti avessero abbracciato il cristianesimo e si fossero fatti battezzare.

Così avvenne: la popolazione si convertì, e anche il re. Il cavaliere Giorgio uccise il drago, il quale fu trascinato da otto buoi e portato fuori dalla città.

San Giorgio II
San Giorgio II: anche in quest’opera di Kandinsky viene celebrato il mito di San Giorgio che uccise il drago

Simbolo della lotta tra bene e male

Questa leggenda nacque all’epoca delle Crociate, derivante con tutta probabilità da un’immagine trovata a Costantinopoli che ritraeva l’imperatore cristiano Costantino intento a schiacciare un drago enorme con il piede.

In epoca medioevale, poi, la lotta di San Giorgio contro il drago (e quindi la Leggenda Aurea) è stata scelta come simbolo della lotta tra il bene e il male. Ecco perché il culto del santo è cresciuto non solo in Occidente, ma anche nell’Oriente bizantino, dove compare con la definizione di “tropeoforo“, cioè “il vittorioso”, “il trionfatore”.

Oggigiorno sono numerosi gli Ordini cavallereschi che portano il nome di San Giorgio, dal Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio all’Ordine Teutonico; dall’Ordine della Giarrettiera all’Ordine Militare di Calatrava.

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Giasone e il vello d’oro spiegato bene https://cultura.biografieonline.it/giasone-vello-oro/ https://cultura.biografieonline.it/giasone-vello-oro/#comments Tue, 23 Apr 2024 05:44:04 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14795 Figlio di Esone, ma dalla madre incerta, Giasone è di Iolco e appartiene alla discendenza di Eolo. A Iolco c’è Pelia, zio di Giasone, che ha usurpato il regno ad Esone e governa al posto suo. Un’altra versione del racconto mitologico “Giasone e il vello d’oro” ritiene invece che questi sia stato investito della “reggenza” fino a quando Giasone non fosse in grado di regnare a tutti gli effetti.

Giasone e il vello d'oro
Giasone e il vello d’oro

La storia di Giasone

Intanto il giovane Giasone cresce sotto la guida del Centauro Chirone, dal quale apprende con passione ed entusiasmo la disciplina medica. Una volta diventato adulto, Giasone torna nel suo paese natio indossando abiti piuttosto bizzarri, con una lancia in mano ed un piede sprovvisto di calzare. Mentre lo zio Pelia è intento ad offrire sacrifici agli Dei nella piazza del paese, Giasone irrompe e lo fa spaventare.

L’uomo era stato avvisato da un oracolo che sarebbero arrivate sventure per conto di un uomo con un piede privo di calzare. Giasone reclama il trono che spetta a suo padre Esone ma Pelia gli dice che sarà disposto a cederglielo soltanto a patto che il nipote gli riporti il magico vello d’oro, la pelle di ariete dorato che re Eeta custodisce nella Colchide.

Il sovrano a sua volta aveva ricevuto il vello d’oro in dono da Frisso. Per riuscire nell’impresa, che si prospetta alquanto ardua, Giasone si avvale dell’aiuto di un gruppo di eroi, gli Argonauti, con i quali parte a bordo della nave Argo. Il gruppo di eroi è formato da: Ila, Eracle, Zete e Calaide, Filottete, Meleagro, Telamone, Polluce e Castore, Orfeo, Peleo, Mopso, Idmone, Eufemo ed Issione. Il re Eeta dice a Giasone di cedergli il vello d’oro a condizione che superi tre difficili prove.

Argonauti
La spedizione degli argonauti (1484 – 1490) • Museo degli Eremitani, Padova • Quadro di Lorenzo Costa (Ferrara, 1460 – Mantova 1535)

Appena apprende l’entità delle prove Giasone si scoraggia parecchio, ma ecco che intervengono le divinità ad aiutarlo. In particolare, Afrodite chiede a suo figlio Eros di fare innamorare di Giasone la figlia del re Eeta, di nome Medea, in modo che questa lo aiuti a portare a termine la sua impresa.

Le tre prove

Ecco quali sono le prove che Giasone deve superare per conquistare il vello d’oro.

Prova I

La prima prova cui Giasone viene sottoposto consiste nell’arare un campo di grano con l’ausilio di due tori che emanano fiamme dalle narici con le unghia di bronzo e nell’aggiogare lo strumento. Medea, innamoratasi di lui per intercessione del dio dell’amore Eros, dà a Giasone una pomata che lo rende impermeabile alle fiamme ardenti lanciate dai terribili animali.

Prova II

La seconda prova consiste nel seminare i denti di un drago all’interno di un campo appena arato. I denti dell’animale avrebbero generato, con i germogli, una vera e propria armata di guerrieri. Ancora una volta l’aiuto di Medea è provvidenziale per il superamento della prova: la donna lancia un sasso in mezzo ai guerrieri che, non sapendo da dove arriva, si scontrano l’uno con l’altro, uccidendosi reciprocamente.

Prova III

La terza prova vede Giasone impegnato ad uccidere il drago messo a custodia del vello d’oro. Medea fornisce all’amato una pozione ricavata da alcune erbe che fa addormentare il drago e dà la possibilità a Giasone di appropriarsi dell’ambito vello.

Giasone - Il drago e il vello d oro
Giasone e la terza prova: uccidere il drago che protegge il vello d oro

Una volta recuperato il vello, Giasone fugge a bordo della nave Argo insieme a Medea, che intanto ha rapito il fratello minore Apsirto. Poiché Eeta si è messo sulle loro tracce, Medea uccide il fratellino e ne getta i resti in mare. Il re si ferma per raccoglierli perdendo così di vista l’imbarcazione che intanto procede nel suo viaggio.

La fine di Giasone

A punire il comportamento di Medea e Giasone interviene però Zeus, che per vendicare l’uccisione del piccolo Apsirto invia violente tempeste sulla rotta della Argo per farle perdere l’orientamento.

La restante vita di Giasone è raccontata come triste e solitaria, poiché innamorandosi di un’altra donna, attira su di sé l’ira e la vendetta di Medea.

L’uomo muore mentre si trova all’interno dell’Argo ormai obsoleta e fatiscente.

L’opera principale che racconta le imprese di Giasone è il poema epico “Le Argonautiche” dello scrittore Apollonio Rodio (risalente al III secolo a. C.).

Il personaggio di Giasone lo si trova anche nell’ottavo cerchio dell’Inferno della “Divina Commedia” di Dante Alighieri, quello in cui si trovano i fraudolenti (Canto VIII).

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I giorni della merla https://cultura.biografieonline.it/merla-giorni/ https://cultura.biografieonline.it/merla-giorni/#comments Mon, 29 Jan 2024 05:03:59 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=5863 La leggenda dei Giorni della Merla

I Giorni della Merla sono tradizionalmente riconosciuti come gli ultimi tre giorni del mese di gennaio, 29, 30 e 31. Secondo la leggenda, sono i giorni più freddi dell’anno.

Si racconta che una merla dalle piume di un bianco candido come la neve, era stanca di essere perseguitata dal grande gelo del mese di gennaio. Allora gennaio aveva soltanto 28 giorni. Decise così, astutamente, di fare provviste per l’intero mese, per poi rifugiarsi al riparo nel suo nido.

Un merlo maschio
I giorni della Merla

Il 28 gennaio, la merla uscì ed iniziò a fischiare allegramente burlandosi di gennaio che, offeso, chiese a febbraio tre giorni, il 29, 30 e 31, durante i quali imperversò il freddo più gelido.

La merla fu costretta a trovar rifugio in un comignolo e, una volta uscita, il 1° febbraio, scoprì che il colore delle sue piume era cambiato, diventando nero a causa della fuliggine.

Per questo motivo, narra la tradizione, da allora i merli sono neri.

La credenza popolare

Sempre secondo le tradizioni e le credenze popolari che coinvolgono le previsioni meteorologiche, se i giorni della merla sono freddi, la primavera che si appresta ad arrivare sarà molto bella; se al contrario sono caldi, la primavera tarderà ad arrivare.

Detto popolare relativo ai giorni della merla
Detto popolare relativo ai giorni della merla: “Se sono freddi, la Primavera sarà bella. Se sono caldi, la Primavera arriverà tardi.”

In provincia di Cremona

Nella regione lombarda, in provincia di Cremona c’è una tradizione: si ripropongono i canti popolari della merla proprio nei giorni di fine gennaio per rivivere l’antica atmosfera contadina.

In tanti territori comunali si è soliti riunirsi vicino a un falò oppure sul sagrato di una chiesa, o ancora in riva al fiume.

Tutti insieme si intonano i canti, si degusta vino e si assaggiano cibi tradizionali.

Chi vuole può vestire abiti contadini: le donne usano gonna e scialle, gli uomini invece tabarro e cappello.

I testi delle canzoni popolari possono differire da un paese all’altro, tuttavia i temi che ricorrono sono quelli dell’inverno e dell’amore.

Versioni differenti della leggenda dei giorni della merla

Se conoscete versioni diverse di questa leggenda segnalatecelo nei commenti. Oppure scriveteci.

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Tutankhamon e la sua maledizione https://cultura.biografieonline.it/tutankhamon-maledizione/ https://cultura.biografieonline.it/tutankhamon-maledizione/#comments Sat, 07 Jan 2023 06:42:13 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8168 Tutankhamon, il re giovane, fu il 12° faraone della 18ª dinastia. Ottenne il trono a soli nove anni di età ma morì prematuramente prima dei venti. Morì forse a causa di un complotto organizzato a sua insaputa da alcuni suoi consiglieri di fiducia.

La maschera d'oro del faraone Tutankhamon
La maschera d’oro del faraone Tutankhamon

La fama di Tutankhamon

La sua fama non è legata al periodo e alle cronache del suo regno ma al suo corredo funebre. Esso venne trovato intatto. La sua fama è per lo più correlata alla credenza che la sua tomba fosse protetta da una maledizione.

Tale maledizione era alimentata da una scritta che appariva sull’ingresso della tomba di Tutankhamon. Essa riportava:

La morte verrà su agili ali per colui che profanerà la tomba del Faraone“.

Per gli studiosi, il ritrovamento della sua tomba è stata senza dubbio una delle scoperte archeologiche più importanti del secolo passato. L’archeologo inglese Howard Carter e Lord Carnarvon, il 26 novembre del 1922, scoprirono insieme, l’ingresso della tomba, situata nella Valle dei Re, portando alla luce il tesoro rimasto praticamente intatto, non preoccupandosi più di tanto della scritta posta all’entrata della tomba.

La maledizione

Si narra che negli anni a venire, tutti coloro che parteciparono alla spedizione ed alle ricerche della tomba del faraone morirono. Sembrava quasi un castigo rivolto a chiunque violasse il luogo di sepoltura del Sovrano.

Subito, tra la gente si ipotizzò che la tomba del faraone fosse protetta da forze ignote e che la maledizione di Tutankhamon fosse stata formulata dai sacerdoti egizi, per proteggere la sua tomba dai profanatori.

Altre ipotesi

Secondo altre ipotesi sarebbe stata, invece, una trovata per scongiurare l’assalto alla tomba del faraone da parte dei saccheggiatori o addirittura un escamotage per screditare la campagna dell’archeologo inglese Carter.

Sono stati fatti vari tentativi per cercare di dare una spiegazione logica ed alternative alle incredibili fatalità che ruotano attorno alla maledizione di Tutankhamon ma ancora oggi, tale mistero non è stato svelato, lasciando ancora aperti interrogativi sulle misteriose morti e sulla morte del Sovrano.

Fatali coincidenze o tomba maledetta?

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Colapesce: la leggenda https://cultura.biografieonline.it/colapesce-leggenda/ https://cultura.biografieonline.it/colapesce-leggenda/#comments Wed, 08 Jun 2022 21:50:00 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=32137 Colapesce: una leggenda, tante varianti

Quella di Colapesce è una leggenda diffusa nell’Italia meridionale. Le origini di questa storia risalgono al XII secolo. Esistono alcune varianti: le più note sono quelle siciliana e napoletana.

Colapesce leggenda
La leggenda di Colapesce (Illustrazione)

La leggenda siciliana di Colapesce

La versione più celebre della leggenda di Colapesce è quella di Messina. La storia racconta di Nicola, o Cola di Messina, figlio di un pescatore. Cola passava moltissimo tempo in mare, tanto che divenne un nuotatore abilissimo nelle immersioni. Soprannominato Colapesce, quando faceva ritorno dalle sue tante immersioni in mare, si soffermava a raccontare a tutti le meraviglie viste. Qualche volta riportava sulla terra dei veri e propri tesori.

La fama del pescatore messinese arrivò al re di Sicilia ed imperatore Federico II di Svevia; il re decise di metterlo alla prova. Assieme alla sua corte si recò in mare a bordo di un’imbarcazione e buttarono in acqua una preziosa coppa. Colapesce recuperò l’oggetto facilmente. Il re gettò allora la sua corona in un punto più profondo del precedente. Colapesce si immerse e recuperò la corona. Per una terza prova il re gettò in mare un oggetto prezioso ancora più piccolo in un posto ancora più profondo: un anello. Colapesce in questa occasione non riemerse più.

La versione di Italo Calvino

Questa leggenda è stata trascritta e rielaborata da Italo Calvino. Nella versione (Colapisci) di Calvino, per il lungo tempo che passava in mare, la madre sgridava Cola:

– Cola! Cola! Vieni a terra, che fai? Non sei mica un pesce?

Un giorno la madre, stanca di riprenderlo sempre a gran voce gli lanciò una maledizione:

– Cola! Che tu possa diventare un pesce!

In questa versione l’imperatore chiese a Cola di fare un giro subacqueo della Sicilia per poi tornare a fargli rapporto. Colapesce dopo la sua esplorazione raccontò che in fondo al mare c’erano montagne, valli, caverne e pesci di tutte le specie. Aveva però avuto paura passando dal Faro, perché lì non era riuscito a trovare il fondo.

Messina è fabbricata su uno scoglio, e questo scoglio poggia su tre colonne: una sana, una scheggiata e una rotta.

Il re curioso di sapere quanto era profondo il punto pericoloso del faro, spinse Colapesce a immergersi per recuperare la sua corona.
Colapesce, conscio del pericolo, chiese di avere delle lenticchie in modo che se non fosse più riemerso, sarebbero riemerse le lenticchie. E così accadde.

Colapesce sorregge la Sicilia

Un altra versione molto diffusa narra che, delle 3 colonne che sorreggono la Sicilia, una è pericolante: in una versione è pericolosamente segnata dal tempo, in un’altra ancora, la colonna è consumata dal fuoco dell’Etna. In entrambe queste storie Colapesce decise di restare sott’acqua sorreggendo egli stesso la colonna, per evitare che la Sicilia sprofondasse. Ancora oggi Colapesce si troverebbe lì a reggere l’isola e ogni 100 anni riemerge per rivedere la sua amata terra.

La variante catanese

In una variante catanese della leggenda, Colapesce vide il fuoco sotto l’isola; lo stesso fuoco che alimentava il vulcano. L’imperatore chiese una prova: Cola si tuffò con un pezzo di legno, ma non fece più ritorno. Il legno invece tornò in superficie bruciato.

La versione napoletana: Pesce Nicolò

Nella tradizione napoletana, Cola (Nicola) Pesce, o Pesce Nicolò, è un ragazzo maledetto dalla madre per le sue continue immersioni. Finisce per diventare esso stesso pesce e squamarsi. Cola cercava rifugio nel mare, usando il corpo di grossi pesci dai quali si faceva inghiottire, per uscire all’arrivo tagliandone il ventre.

Questa storia trae origine dal culto tardo pagano dei figli di Nettuno, ossia dei sommozzatori dotati di poteri magici, in grado di trattenere il respiro in apnea per poterne carpire i tesori e i segreti. Essi acquistavano tali poteri magici accoppiandosi con misteriosi esseri marini (probabilmente le foche monache) e con l’aiuto della sirena Partenope.

L’origine della leggenda è sostenuta da Benedetto Croce in Storie e leggende napoletane.

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Davide e Golia: nella Bibbia e nell’arte https://cultura.biografieonline.it/davide-golia-riassunto-arte/ https://cultura.biografieonline.it/davide-golia-riassunto-arte/#comments Thu, 20 Jan 2022 15:45:18 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=38354 È la storia che per eccellenza simboleggia la vittoria del coraggio sulla forza, della fede sulla brutalità. Si tratta dell’episodio biblico di Davide e Golia, di quando un piccolo pastorello armato di fionda sfidò e vinse il temibile gigante dei Filistei.

Davide e Golia illustrazione

La guerra tra Filistei e il popolo del Re Saul

La vicenda di Davide e Golia è narrata nella Bibbia e in particolare nel Primo libro di Samuele. È datata intorno al 1000 a.C. e si svolge all’interno di una più grande vicenda: ovvero la guerra fra i Filistei e il popolo di Israele guidato dal Re Saul. Di seguito il riassunto.

Golia: un guerriero alto tre metri

Gli ebrei stanno soffrendo particolarmente per la presenza di un gigante nelle schiere degli avversari. Il suo nome è Golia.

Dall’accampamento dei Filistei uscì un campione, chiamato Golia, di Gat; era alto sei cubiti e un palmo. Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a piastre, il cui peso era di cinquemila sicli di bronzo. Portava alle gambe schinieri di bronzo e un giavellotto di bronzo tra le spalle. L’asta della sua lancia era come un subbio di tessitori e la lama dell’asta pesava seicento sicli di ferro.

Così è descritto Golia nella Bibbia: un vero e proprio gigante, alto tre metri armato di una corazza pesante 5 chili.

Tutti i giorni Golia lancia la stessa sfida: un duello.

La sua proposta: che sia un duello fra lui e un campione dell’esercito nemico a decidere le sorti di tutta la guerra.

Nessuno accetta, tranne una persona. Uno che nessuno si aspetta possa reggere il confronto.

E’ Davide: il non guerriero, armato solo di due cose:

  • la fionda,
  • la fede in Dio.

Chi era Davide

Nessuno aveva mai risposto all’appello e alla sfida di Golia prima di lui, Davide: “un giovane biondo e di bell’aspetto”.

Davide in effetti non è neanche, non ancora, un guerriero: è troppo giovane per combattere nell’esercito di Saul. La sua occupazione è quella di pascolare le greggi del padre.

Quando Golia lancia la sua sfida, tutti fuggono terrorizzati. Davide si chiede invece chi sia mai quel filisteo che osa sfidare il popolo di Dio.

Il Re Saul viene a conoscenza di questo frangente e, colpito dall’audacia del ragazzo, lo manda a chiamare. Al cospetto di Re Saul, Davide esterna la sua volontà di andare a duello con Golia. Motiva questa scelta dicendo che come pastore ha già dovuto cimentarsi in sfide pericolose per salvare il suo gregge da orsi e leoni.
Dio l’ha salvato in quelle occasioni e lo farà ancora, aggiunge.

Saul lo arma di elmo, corazza e spada. Ma Davide rifiuta: è già armato della sua fede.

Sceglie cinque sassi ben lisci dal torrente poi, armato della sua sola fionda, va verso il suo eroico destino.

La sfida epica: la vittoria della fede

Davide si fa incontro a Golia e lo sfida.

Lo incita con spavalderia a misurarsi con lui. Anticipa subito il gigante, tira fuori con grande velocità e scaltrezza il primo dei suoi cinque sassi e lo scaglia con forza contro la fronte del gigante. Golia stramazza al suolo.

Poi Davide corre accanto a Golia, gli sfila la spada dal fianco e gli taglia la testa, uccidendolo.

Il capo mozzato di Golia viene portato in trionfo a Gerusalemme come segno di vittoria.

A vincere è stata la fede del pastorello nel suo Dio: in lui ha confidato e ha trionfato.

Davide e Golia in 3 maestri dell’arte

Molti artisti, attraverso il tempo, hanno scelto questo episodio biblico come ispirazione per una propria opera. Grandi nomi della pittura e della scultura di tutti i tempi hanno subìto la fascinazione di questa lotta fra fede e forza, fra coraggio e brutalità. Tra le opere più celebri ci sono:

  • il David di Donatello – opera da cui prende il nome anche a un celebre premio italiano cinematografico;
  • il David scultoreo di Michalengelo;
  • Davide con la testa di Golia, di Caravaggio

L’opera di Donatello

Donatello nel 1430 rappresenta Davide in una scultura bronzea. Nel David di Donatello, il vincitore della sfida biblica è raffigurato come un adolescente di straordinaria grazia e avvenenza, e completamente nudo. Tale nudità destò un certo scandalo nell’opinione pubblica del tempo.

David di Donatello
David di Donatello

L’opera di Michelangelo

Altrettanto noto è il David scultoreo di Michelangelo, degli inizi del Cinquecento. Come in Donatello vengono esaltate bellezza e forza virile, ma Michelangelo lo ritrae nel momento che precede lo scontro, con maggiore dinamismo, nel corpo e nel viso.

David di Michelangelo
David di Michelangelo

C’è un’altra rappresentazione di Michelangelo: egli inserì l’episodio, con una scena di Davide in procinto di tagliare la testa del gigante Golia, tra le scene del suo capolavoro: la Cappella Sistina.

L’opera di Caravaggio

Del secolo successivo, datato 1609-1610, infine, è l’opera Davide con la testa di Golia, di Caravaggio.

Caravaggio mette al centro della scena la testa mozzata di Golia, con il suo viso stravolto dal dolore. L’artista inoltre dà al volto di Golia le sue stesse fattezze, producendo quello che alla fine si potrebbe definire in tutto e per tutto un autoritratto.

Davide con la testa di Golia - Caravaggio
Davide con la testa di Golia (Caravaggio)

L’interpretazione di Caravaggio si discosta e non poco dai suoi illustri colleghi dei secoli precedenti: dove era la grazia mette la violenza; dov’era la bellezza c’è il dolore, anche e non ultimo in Davide, che se pur vittorioso subisce il tormento della morte inflitta al suo sfidante.

Caravaggio inoltre aveva affrontato lo stesso tema in un’opera precedente (1597-1598) intitolata Davide e Golia.

Tra gli altri artisti che hanno raffigurato l’episodio nelle loro opere ci sono Tiziano Vecellio, Gustave Doré, Andrea Vaccaro. Senza dimenticare anche il David di Bernini.

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Il mito di Perseo https://cultura.biografieonline.it/perseo/ https://cultura.biografieonline.it/perseo/#comments Mon, 01 Nov 2021 13:27:21 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14953 Nella tradizione mitologica greca uno dei personaggi più celebri è Perseo. Si racconta che, nella città di Argo, abitava il re Acriso insieme alla sposa Euridice e alla figlia Danae. Quando il sovrano si reca presso l’oracolo di Delfi per chiedere se un giorno sarebbe riuscito a concepire figli maschi, gli viene predetto che oltre a non avere discendenti, un giorno sarebbe stato ucciso per mano del nipote, il figlio di Danae.

Perseo di Cellini
Il mito di Perseo è perlopiù legato all’uccisione di Medusa – Nella foto: scultura di Benvenuto Cellini (1545-1554)

Acriso rimane sbigottito dalla profezia dell’oracolo e, spaventato per quello che gli viene detto, decide di rinchiudere l’amata figlia in una torre protetta da pesanti porte di bronzo, in modo che nessuno spasimante potesse raggiungerla. Ma il triste destino di Danae non sfugge a Zeus, che è solito seguire le sorti dei miseri mortali.

La nascita

Invaghitosi di lei, Zeus riesce ad entrare nella torre in cui si trovava assumendo le sembianze di una pioggia dalle gocce d’oro. Con Danae il dio concepisce Perseo, il cui destino sarebbe stato quello di diventare uno degli uomini più grandi e valorosi dell’antichità.

Il re Acriso, dopo poco tempo, scopre che la figlia è incinta e lei gli rivela che il figlio che porta in grembo ha origini divine. Nonostante lo sbigottimento e la rabbia per l’accaduto, Acriso non trova il coraggio di uccidere Danae. Ma, appena nasce il piccolo, rinchiude lei e il figlio in una cassa che poi abbandona in mezzo al mare.

L’intervento di Zeus è provvidenziale: spingendo la cassa verso l’isola di Serifo, nelle Cicladi, fa sì che un pescatore di nome Ditti si accorga della presenza di Danae e del piccolo all’interno della cassa. Per fortuna entrambi sono ancora vivi. Il pescatore conduce Danae e il piccolo Perseo presso la corte del re Polidette, e da  quel giorno vivono nella reggia reale.

Con il tempo il re comincia a mostrare interesse nei confronti di Danae, ma questa non ricambia le sue attenzioni. Intanto Perseo cresce con grande forza e coraggio. Polidette, che ha perso la testa per Danae, decide di averla con un raggiro. Finge di voler convolare a nozze con Ippodamia, figlia di Pelope, e chiede agli amici di avere come dono nuziale un cavallo; il nostro eroe, Perseo, non ha la possibilità di comprare un cavallo per regalarlo al re, così gli comunica che avrebbe optato per un dono diverso.

Perseo trionfante - Scultura di Antonio Canova – Musei Vaticani
Perseo trionfante – Scultura di Antonio CanovaMusei Vaticani

Perseo e Medusa

Polidette approfitta della situazione e chiede a Perseo di portargli in dono la testa della Gorgone Medusa, sperando che il giovane muoia senza portare a termine la difficile impresa e che la madre Danae, restando sola, ceda alle sue avances.

Grazie all’intervento di Ermes e Atena e ai loro preziosi consigli, Perseo riesce ad affrontare la terribile avventura e taglia la testa del mostro in due.

Il personaggio di Medusa viene descritto da Ovidio nelle “Metamorfosi” ed anche il poeta Dante Alighieri ne parla nel canto IX dell’Inferno.

Una volta presa la testa della Medusa, l’eroe la ripone in una bisaccia; dal sangue che sgorga nasce Pegaso, il cavallo alato che accompagnerà sempre Perseo durante le sue avventure (Pegaso è anche protagonista della vicenda di Chimera e Bellerofonte).

Perseo e Atlante

In sella a Pegaso il nostro protagonista raggiunge la regione dell’Esperia, governata dal titano Atlante. Questi è piuttosto sospettoso verso gli estranei a causa di una profezia che prediceva la distruzione del suo regno da parte di un figlio di Zeus. Perseo, ignaro di questa profezia, rivela ad Atlante di avere origini divine, e il titano, spaventato, cerca di eliminarlo. I due cominciano a lottare e Perseo sta per soccombere, ma ad un certo punto apre la bisaccia in cui è riposta la testa della Medusa ed Atlante si pietrifica, trasformandosi in una grossa montagna.

La leggenda racconta che da Atlante prende il nome una catena montuosa, perché proprio lui reggeva sulle spalle il cielo. Perseo, durante il cammino, non si accorge che dalla bisaccia contenente la testa di Medusa, cadono gocce di sangue che si trasformano in serpenti velenosi: essi in seguito avrebbero popolato il deserto.

Una curiosità: sai perché il libro delle carte geografiche si chiama Atlante?

Perseo libera Andromeda - Rubens - 1620
Perseo libera Andromeda (dipinto di Rubens – 1620 circa)

Perseo e Andromeda

Volando sulla terra degli Etiopi, il nostro scorge una bellissima ragazza nuda incatenata su uno scoglio. Lei è Andromeda, figlia di Cefeo (re d’Etiopia) e di sua moglie Cassiopea. La fanciulla sta scontando una colpa commessa da sua madre, che si era dichiarata la più bella tra le Nereidi. Le ninfe del mare, offese dalla presunzione di Cassiopea, avevano chiesto al loro protettore Poseidone (dio del Mare) di intervenire mandando un mostro marino che distruggesse qualsiasi cosa fosse sul suo cammino.

L’oracolo di Ammone predisse al riguardo che, per placare l’ira delle Nereidi, Cassiopea sacrificasse la figlia Andromeda al mostro marino inviato da Poseidone. Perseo, però, dispiaciuto per la sorte della donna e invaghitosi di lei, pone fine alla maledizione che incombe su Andromeda e uccide il terribile mostro, pietrificandolo alla vista della testa di Medusa.

In cambio dell’uccisione del mostro, l’eroe ottiene dal re Cefeo la mano della figlia Andromeda.

Perseo e Andromeda - Tiziano - 1553-1559
Perseo e Andromeda (dipinto di Tiziano , 1553-1559) – Perseo uccide il mostro marino.

 

Mentre Perseo libera la bella Andromeda dalla schiavitù, alcune Ninfe rubano alcune gocce di sangue fuoriuscite dalla testa di Medusa, e queste si trasformano in coralli che vanno a riempire i fondali marini.

Perseo e Andromeda convolano a nozze, ma durante i festeggiamenti fa il suo ingresso il fratello del re Cefeo, Fineo, che era stato inizialmente promesso come sposo ad Andromeda. Nella sala adibita alle nozze si scatena una lotta tra Fineo e Perseo che, ancora una volta, grazie all’intervento della testa di Medusa, riesce a pietrificare il rivale e i numerosi alleati.

Il ritorno di Perseo

I due sposi decidono poi di tornare a Serifo, dove la madre di Perseo, Danae, stava rischiando la vita per mano del re Polidette che continuava ad esigere di essere ricambiato. Perseo allora, per proteggere la madre, pietrifica il re con la testa di Medusa, istantaneamente. Dopo la morte di Polidette, Perseo e sua madre possono fare ritorno ad Argo, la loro terra natia.

Re Acriso, però, appena saputo dell’arrivo della figlia e del nipote, fugge verso la Tessaglia, memore dell’oracolo che gli aveva predetto la morte per mano di un nipote di origini divine.

Per una sfortunata coincidenza, in Tessaglia, durante una gara sportiva di lancio del disco, è proprio Perseo ad uccidere il nonno, il re Acriso, che è presente tra il pubblico. Triste e desolato, Perseo fa ritorno ad Argo ma cambia il suo trono con quello di Tirinto, nel quale regna con saggezza fino alla sua morte.

Perseo è ricordato anche come il fondatore del regno di Micene.

La dea Atena, alla morte di Perseo, gli dedica una costellazione e al suo fianco pone Andromeda e la madre Cassiopea. Ancora oggi, nel cielo, è possibile ammirare queste tre costellazioni, come ricordo del grande amore che legò in vita Perseo e Andromeda.

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Muzio Scevola e il modo di dire: mettere la mano sul fuoco https://cultura.biografieonline.it/muzio-scevola-mettere-mano-sul-fuoco-modo-di-dire/ https://cultura.biografieonline.it/muzio-scevola-mettere-mano-sul-fuoco-modo-di-dire/#respond Sat, 30 Oct 2021 16:24:42 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=36445 C’è una leggenda così famosa nell’antichità che ha poi dato origine al modo di dire mettere la mano sul fuoco, tutt’oggi utilizzato nella lingua parlata. Il protagonista della storia è Gaio Muzio Scevola. La celebre frase si usa per indicare la circostanza in cui qualcuno è davvero sicuro di qualcosa. Vediamo in questo articolo i fatti storici e le curiosità relative a quanto accadde.

Muzio Scevola mette la mano sul fuoco
Muzio Scevola mette la mano sul fuoco

L’avvenimento ci è stato tramandato dallo storico latino Tito Livio nel suo Ab Urbe condita ed è diventato un esempio di valore, coraggio e onestà. In origine il nome del giovane protagonista era Gaio Muzio Cordo, nato da una nobile famiglia romana negli anni in cui c’era stato il passaggio dalla monarchia alla repubblica (509 a.C.); si trattava di anni cruciali, in cui i romani lottavano contro gli Etruschi per la supremazia del territorio e della città.

Il contesto storico

Dopo la cacciata dell’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, la città scelse come forma di governo la repubblica, creando molto scontento tra la popolazione etrusca, da sempre eterna rivale. Gli Etruschi, guidati da Lars Porsenna, tentarono di riconquistare il potere perduto, sotto la supervisione di Tarquinio il Superbo, che nel frattempo si era messo alla guida delle due città di Veio e Tarquinia.

Scoppiarono così una serie di battaglie tra gli etruschi e i romani: lo scontro fu lungo e sanguinoso e durò per quasi un anno (508 a.C.).

Secondo la tradizione l’ultimo giorno del mese di febbraio ci fu la battaglia finale: essa non terminò effettivamente con dei vinti e degli sconfitti, perché secondo la leggenda ci fu una tempesta. La tradizione attribuisce la vittoria ai romani perché gli etruschi avevano perso un uomo in più.

L’impresa

Gaio Muzio era un giovane aristocratico che mal digeriva l’assalto degli Etruschi, ma soprattutto il ritorno alla monarchia. Escogitò così un piano per poter porre fine al lungo assedio della città, che stava mettendo in difficoltà la popolazione per la mancanza di grano; si presentò in Senato ad esporlo.

Secondo lo storico Tito Livio, che ne descrive il momento nella sua opera Ab urbe condita, utilizzò queste parole:

«Senatori, vorrei attraversare il Tevere e penetrare, qualora sia possibile, nell’accampamento nemico, non per compiere atti di razzia e ripagare il nemico con identica moneta. No, con l’aiuto degli déi vorrei fare qualcosa di più grande.»

Tito Livio, Ab Urbe Condita

Il suo scopo era quindi quello di uccidere per sua mano Porsenna.

Il Senato espresse il consenso. Così Muzio organizzò l’impresa: nascose un pugnale sotto la veste, giunse all’accampamento del re etrusco e si confuse con la folla di soldati senza farsi scoprire. In quel momento i soldati si erano messi in fila per ricevere la paga, al cospetto dello scrivano e del re; i due erano vestiti in maniera molto simile.

Egli, arrivato al cospetto del re e dello scrivano, non chiese quale dei due fosse il re ma sgozzò con il pugnale erroneamente lo scrivano.

Muzio Scevola davanti a Porsenna
Muzio Scevola davanti a Porsenna

A questo punto cercò di fuggire ma venne facilmente catturato dalle guardie del re, che lo portarono al suo cospetto.

Il coraggio di Muzio Scevola

Il giovane, anziché negare l’accaduto, si dimostrò molto coraggioso, nonostante il re avesse minacciato di bruciarlo sul rogo: mise la mano destra sul braciere acceso e la lasciò bruciare fino a consumarsi, pronunciando queste parole:

«Volevo uccidere te. La mia mano ha errato e ora la punisco per questo imperdonabile errore».

Il re rimase stupito dal coraggio del giovane. Decise così di risparmiargli la vita e lasciarlo libero.

Muzio gli rispose che altri trecento giovani avevano giurato di ucciderlo in nome della Repubblica romana e non si sarebbero lasciati intimidire, proprio come lui, terminando l’impresa al suo posto.

Secondo la tradizione, il re, spaventato da queste affermazioni, decise quindi di chiedere la pace ai romani.

I romani, per dimostrare la loro gratitudine a Muzio, gli donarono un terreno oltre il Tevere chiamato parte Mucia.

Dopo la perdita della mano destra, il suo cognome divenne quindi Scaevola, cioè mancino.

Curiosità

  • Per quanto riguarda l’etimologia, la parola Scevola sembrerebbe derivare da scaevula che indicava un amuleto contro il malocchio; esso si portava appeso al collo ed ha assunto solo successivamente il significato di mancino.
  • La leggenda, oltre che tramandata oralmente con diverse versioni, venne rappresentata anche nelle arti figurative, soprattutto in pittura: la scena cruciale è stata rappresentata da pittori del XVI-XVII secolo (Giovanni Antonio Pellegrini, Charles Le Brun, Michele Primon, per citarne alcuni); è stata dipinta anche nella Sala dei Capitani dei Musei Capitolini. Non ultimo, in Via Sallustiana a Roma c’è un frammento di bassorilievo che rappresenta una mano proprio all’altezza di un edificio, oggi utilizzato dall’ambasciata americana: secondo la tradizione corrisponderebbe al luogo dell’accaduto, proprio dove Muzio Scevola mise la mano sul fuoco.
  • La vera fortuna di questa leggenda sta proprio nel fatto che “mettere la mano sul fuoco” è diventato un motto d’uso comune; molto spesso chi pronuncia queste parole non è consapevole del fatto storico-leggendario che c’è alle spalle. Esso si collega pienamente con le origini latine della tradizione culturale italiana.
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Cosa significa l’espressione “Spada di Damocle”? https://cultura.biografieonline.it/spada-di-damocle/ https://cultura.biografieonline.it/spada-di-damocle/#comments Mon, 28 Jun 2021 04:59:49 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7789 Utilizzata nel linguaggio comune con il significato di minaccia incombente, la locuzione “spada di Damocle” si è diffusa a partire dal diciannovesimo secolo, pur avendo origini molto antiche. Si dice infatti che “pende sul capo di qualcuno la spada di Damocle”, per riferirsi ad un pericolo che potrebbe realizzarsi da un momento all’altro.

Spada di Damocle
Spada di Damocle ha il significato di “minaccia incombente”

Damocle è un personaggio appartenente alla mitologia classica greca. L’aneddoto da cui ha origine l’espressione di uso comune “spada di Damocle” viene riferito per la prima volta dallo storico Timeo di Tauromenio nella “Storia di Sicilia”, poi ripreso da Cicerone nelle “Tusculanae Disputationes”.

La leggenda di Damocle

La leggenda narra del principe Damocle, che si trovava presso la corte del tiranno Dionigi I il Vecchio, nel IV secolo a.C. Damocle era un grande adulatore. Egli non perdeva occasione nel ricordare a Dionigi quanto fosse fortunato a godere di tanta autorità e prestigio per il suo ruolo di tiranno.

Dionigi gli rispose allora di prendere il suo posto per un giorno per capire se davvero lui fosse così fortunato come la maggior parte delle persone credeva. Lo invitò quindi a partecipare al banchetto, pieno di tantissimi cibi buonissimi, e lo fece sedere al suo posto.

Solo alla fine della fastosissima cena, alzando il capo, il cortigiano Damocle si accorse che su di lui pendeva una spada sorretta soltanto da un crine di cavallo; era messa in modo così precario che poteva cadergli in testa da un momento all’altro.

Impaurito, Damocle pregò il tiranno di andare via e tornare nei suoi panni di umile cortigiano. Dionigi aveva posizionato la spada sulla testa di Damocle per fargli capire quanto sia in realtà insicura ed esposta a mille pericoli la posizione di un uomo potente.

La metafora della spada

La spada di Damocle viene utilizzata come metafora per esprimere le responsabilità e l’insicurezza legate al ruolo di un uomo potente, che vive nel costante timore di essere defraudato da qualche altro, o che qualcuno possa sovvertire lo stato di cose in cui si trova. Nella leggenda Damocle, appena scopre la spada che pende pericolosamente sulla sua testa, perde immediatamente il gusto per il cibo che stava mangiando e la curiosità per tutto ciò che gli è intorno.

Spada di Damocle, quadro
Richard Westall: Spada di Damocle; dipinto del 1812. In questo quadro i giovani del racconto di Cicerone sono rappresentati come delle vergini.

La paura e l’insicurezza prendono il sopravvento e gli fanno desiderare di lasciare al più presto quel ruolo che tanto aveva invidiato prima. Il messaggio è chiaro: non si può invidiare la posizione o lo status di qualcuno che vive costantemente nel pericolo di perdere tutto.

I potenti della terra, che tanta invidia suscitano, di certo hanno mille e più spade di Damocle che penzolano quotidianamente sulle loro teste, impegnati come sono a difendere il potere spesso faticosamente raggiunto, il più delle volte ottenuto eliminando gli avversari dal loro cammino.

La maggior parte di loro devono sempre guardarsi alle spalle, possono fidarsi di pochissime persone e non possono vivere spensieratamente come una persona qualunque può fare. Mi basta pensare questo per continuare a desiderare, come Damocle, di restare nel mio mondo senza giudicare perfetto quello degli altri.

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Romolo e Remo: la leggenda della nascita di Roma https://cultura.biografieonline.it/nascita-di-roma-leggenda/ https://cultura.biografieonline.it/nascita-di-roma-leggenda/#comments Mon, 03 May 2021 06:34:29 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20746 Roma è la bellissima capitale d’Italia. Una città ricca di storia, di miti, di leggende che si sono susseguite nel corso dei secoli. La più famosa e affascinante, è sicuramente quella che riguarda la sua fondazione. La data ufficiale tramandata ai posteri è quella del 21 aprile del 753 a.C., come scrive Varrone, il famoso storico latino che si sarebbe basato su calcoli astrali.

La leggenda della nascita di Roma: Romolo e Remo, la Lupa capitolina
Lupa capitolina: secondo la leggenda Romolo e Remo, gemelli figli di Rea Silvia, furono allattati dalla lupa

Le fonti della leggenda della nascita di Roma sono rappresentate da quasi tutti gli autori dell’età augustea. L’imperatore avviò una rivisitazione di tutte le storie pre-esistenti in modo da essere in linea con il suo governo e, soprattutto, per dare un’origine mitica alla grande capitale. I principali letterati che hanno scritto in merito all’argomento sono stati: Virgilio nella sua Eneide, Ovidio, Plutarco e Tito Livio.

La leggenda della nascita di Roma: la storia e le varianti

La storia presenta molte varianti ma esistono dei punti in comune che si susseguono in tutte. Il mito parte con il racconto della fondazione della città ad opera di Romolo, figlio di Rea Silvia, discendente della stirpe di Alba Longa. I nobili appartenenti a questa stirpe si dicevano diretti discendenti di Ascanio, il figlio che l’eroe troiano Enea ebbe con Creusa, sua prima moglie. Tutto iniziò quindi dalla fine della guerra di Troia.

Cavallo di Troia

Come racconta Omero nell’Iliade, i greci conquistarono la città attraverso lo stratagemma del cavallo di legno. Gli unici troiani sopravvissuti alla strage furono il pio Enea con il padre Anchise e il figlio Ascanio. Da qui la storia venne ripresa da Virgilio nell’Eneide, che raccontò le avventure dell’eroe troiano attraverso il Mediterraneo.

Enea, Anchise e Ascanio - Bernini - scultura
Enea, Anchise e Ascanio (sculture del Bernini)

Dopo la distruzione di Troia, Enea era stato destinato dagli dei alla fondazione di una nuova città sulle coste del Lazio (Roma, appunto). Ma prima di arrivarci avrebbe vissuto una serie di avventure per mare.

Enea e Lavinia

Una volta sbarcato, si innamorò perdutamente di Lavinia, figlia del re Latino che dominava in quelle zone. La fanciulla era però destinata a diventare la sposa di un altro giovane, Turno. Questi scatenerà una guerra ma, alla fine sarà costretto a cederla all’eroe.

Enea fondò quindi una città, chiamata Lavinio in onore del padre della sua nuova moglie, morto in battaglia. Dopo circa trent’anni, Ascanio fondò Alba Longa, una fiorente città forse collocata sul monte Albano.

La leggenda della nascita di Roma si può dire che inizi ufficialmente quando, anni dopo la fondazione di Alba Longa, Rea Silvia, figlia del legittimo re della città, venne costretta a diventare vestale dallo zio, che voleva impadronirsi del potere.

Romolo e Remo

Rea Silvia era però una bellissima donna e fece innamorare di lei il dio Marte, nonostante dovesse seguire il voto di castità. Partorì due gemelli, Romolo e Remo, ma, non appena lo zio si accorse della loro esistenza, ordinò che venissero assassinati.

Il servo che doveva compiere il crimine ebbe pietà dei due bambini e li lasciò in una cesta sul fiume Tevere. I due neonati arrivarono sulle sponde del fiume e vennero allattati da una lupa, che sentì i loro vagiti.

Il pastore che viveva lì vicino li trovò e li fece crescere come suoi figli. Una volta cresciuti, i due giovani allontanarono lo zio dal trono di Alba Longa ed ebbero il permesso di fondare una nuova città.

Romolo e Remo non si trovarono però d’accordo sul luogo della fondazione. Ne scaturì quindi una terribile discussione a seguito della quale Romolo uccise il fratello Remo. Romolo divenne quindi l’unico fondatore di Roma.

La fondazione di Roma

La città di Roma venne fondata sul colle Palatino e fu, inizialmente, di forma quadrata.

Gli storici e gli archeologi hanno cercato delle conferme della fondazione mitica di Roma, ma pare quasi impossibile che sia stata creata da una sola persona e in un preciso e determinato momento. Molto probabilmente la città nacque come agglomerato di case lungo il fiume Tevere, importante risorsa. L’agglomerato si è poi man mano espanso.

La zona dove sono stati ritrovati i resti più antichi è quella tra la sponda sinistra del Tevere e i colli Palatino, Aventino e Campidoglio. I ritrovamenti più antichi sono quelli rinvenuti presso la chiesa di Sant’Omobono, sotto il colle del Campidoglio. Si tratta di ossa di animali e frammenti di ceramica risalenti al XIV-XIII secolo.

Comunque sia andata, le origini mitiche della fondazione di Roma sono ancora presenti e vive tra le vie della città, come testimonia il simbolo della lupa che allatta i due gemelli, riprodotto con sculture e quadri.

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