immigrazione Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Sat, 02 May 2020 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 Vù cumprà, etimologia e significato del neologismo https://cultura.biografieonline.it/vu-cumpra/ https://cultura.biografieonline.it/vu-cumpra/#respond Thu, 20 Jun 2019 23:16:21 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=26457 Vucumprà o vù cumprà è un neologismo. Già dall’etimologia che la parola veicola si ha un’immagine stereotipata dei migranti. E’ una parola che viene utilizzata dalla metà degli anni Ottanta per indicare i venditori ambulanti di origine africana.

Vù cumprà - Vucumprà

Non si tratta di una parola italiana: è storpiata e si riferisce all’incapacità dei primi migranti di parlare un italiano corretto; allo stesso tempo si riferisce al fatto di essere assillanti nella vendita di oggetti di scarso valore sulle spiagge, per strada e nelle piazze.

Il significato di vù cumprà è “Vuoi comprare?”. Da qui l’utilizzo del termine anche sui giornali, a partire dall’estate del 1986. E’ un modo scorretto di riferirsi a delle persone, che vengono così etichettate come persone straniere inferiori. E’ a tutti gli effetti un termine dispregiativo e inopportuno da usare, ma che ha fatto ingresso in Italia in modo normale sia nella comunicazione verbale che scritta.

L’uso del modo di dire vù cumprà genera un epiteto offensivo, usato impropriamente come sinonimo di venditore abusivo. A livello semantico i tratti associati al vù cumprà sono di: africano, nero, povero, venditore ambulante irregolare, o clandestino.

Da questo termine sono nati poi tutta una serie di altre parole dispregiative, tutti neologismi: Vu restà?, vu cumplà (facendo riferimento alla nazionalità di origine cinese). E ancora: vù rischià? Vù emigrà?, vù struprà, vù lavà, vù pagà lu pizzu e così via.

Vù cumprà: il ritorno dell’uso

Da qualche tempo sembrava che questo termine dispregiativo fosse caduto nel dimenticatoio, sparito appunto dalla circolazione. E invece è ancora ben radicato. È infatti tornato in auge con la strage razzista di Firenze avvenuta il 13 dicembre del 2011.

Ne è un esempio l’edizione online di un quotidiano nazionale che in quell’occasione scrisse:

“Terrore al mercato di Firenze. Uccisi due vu cumprà. Un terzo senegalese è gravemente ferito. L’aggressore è scappato a bordo della sua auto, è caccia all’uomo”

liberoquotidiano.it

Sono articoli che non riportano mai i nomi delle vittime, ma solo l’indicazione di essere dei vù cumprà. Non solo nella cronaca ma anche nelle dichiarazioni dei politici si trova questo termine.

Un lancio di un’agenzia di stampa nazionale, ad esempio, il 6 marzo 2012 scrive:

“Assessore Pd Pisa propone rete anti- vu cumprà a Tirrenia. Idea suscita polemiche, ‘assomiglia a mattanza tonni”

ansa.it

L’alternativa consigliata all’uso di questo termine dispregiativo è: venditore ambulante o più semplicemente ambulante (straniero).

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Clandestino: etimologia e uso corretto della parola https://cultura.biografieonline.it/clandestino-uso-corretto-della-parola/ https://cultura.biografieonline.it/clandestino-uso-corretto-della-parola/#comments Thu, 28 Feb 2019 04:19:21 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=26036 La parola clandestino si è diffusa nell’uso comune in modo ossessivo attraverso i giornali e nelle dichiarazioni dei politici. Questo termine viene utilizzato per indicare uno straniero che soggiorna in un Paese, violando le leggi di immigrazione.

Qual è l'uso corretto della parola clandestino
Qual è l’uso corretto della parola clandestino

Senza documenti

In particolare in Italia il termine clandestino si riferisce a tutti gli stranieri che anche se entrati regolarmente nel Paese, restano anche dopo la scadenza del visto o dell’autorizzazione al soggiorno. In questo caso il termine corretto da usare sarebbe migrante irregolare.

Per esempio, negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni si dice in modo più corretto: undocumented person. Tradotto in italiano significa persona senza documenti.

Clandestino: etimologia e uso corretto

Clandestino originariamente era un aggettivo e poi si è diffuso anche come sostantivo. La parola deriva dal latino “clam” (di nascosto) e “dies” (giorno).

Per la legge il clandestino non esiste, non è infatti citato nel testo della Legge Bossi-Fini e neppure nel testo unico sull’immigrazione che, all’articolo 10 bis, disciplina il “reato di clandestinità”, ma che usa al contrario questo termine definendolo come “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato”.

Questa parola, cioè clandestino, è fortemente negativa, tanto che la Carta di Roma raccomanda ai giornalisti di evitarne l’uso. La parola clandestino quindi non può essere usata come sinonimo di immigrato. La maggioranza dei migranti sono infatti regolari e sono oltre 5 milioni, cioè dieci volte più degli irregolari (circa 500mila – dati: gennaio 2019).

Etichetta

Gli sbarchi sono visti nell’immaginario collettivo come l’emblema delle migrazioni irregolari. Ma non è così: la maggior parte degli sbarchi sono nel 90 per cento dei casi operazioni di soccorso in mare dei migranti naufraghi.

Insomma, l’etichetta clandestini non va proprio usata. Essa è discriminatoria. L’alternativa consigliata è migrante irregolare oppure senza permesso di soggiorno. Entrambe le espressioni non hanno un impatto discriminatorio e risultano più corrette per indicare una persona che si trova in un Paese straniero priva di regolare permesso.

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Intervista a Giulio Di Luzio https://cultura.biografieonline.it/intervista-a-giulio-di-luzio/ https://cultura.biografieonline.it/intervista-a-giulio-di-luzio/#respond Fri, 13 Apr 2012 12:37:02 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=1448 Giulio Di Luzio. Nato a Bisceglie, in provincia di Bari. Giornalista, a lungo antimilitarista e obiettore di coscienza nella Caritas Italiana, si occupa da anni dei fenomeni migranti. Ha iniziato la sua esperienza giornalistica nel 1994 sul quotidiano provinciale “Bergamo-Oggi”. Dall’estate di quell’anno passa a fare il cronista dalla Puglia per “il Manifesto”.

Giulio Di Luzio
Giulio Di Luzio

Dopo anni di precariato giornalistico per il quotidiano di Via Tomacelli, collabora a “Liberazione” e “La Repubblica”. Attualmente scrive sulle pagine culturali de “Il Corriere del Mezzogiorno” di Bari. Autore di diverse inchieste, tra le quali si ricordano “I fantasmi dell’Enichem” (Baldini Castoldi Dalai, 2003) e “Il disubbidiente” (Mursia, 2008), nel 2011 pubblica il saggio “Brutti sporchi e cattivi” (Ediesse). Quest’ultimo lavoro, con passione e rigore di esperto, denuncia la deriva linguistica dei mezzi di informazione, omologati su piatti meccanismi di assimilazione spesso poco corretti non solo dal punto di vista deontologico, ma anche e soprattutto dal lato umano. Partendo da quest’ultima pubblicazione, Giulio di Luzio ha risposo ad alcune domande in merito al fenomeno migrante, da sempre oggetto dei suoi studi.

Entrando subito nell’argomento migranti e partendo letteralmente da un capitolo del tuo libro che si intitola “italiani brava gente”, la prima domanda è semplice e diretta: è ancora così? Gli italiani sono ancora brava gente?

Credo che negli anni ci sia stato un graduale taglio storico nella considerazione del nostro DNA di popolo migrante: gradualmente accecati dalle prospettive della filosofia dell’Occidente, abbiamo rimosso le radici del popolo italiano come popolo migrante, cosa che soprattutto nelle nuove generazioni ha creato vuoti di memoria piuttosto preoccupanti. Il famoso detto del popolo italiano fatto di santi, poeti, navigatori e migranti, è stato brutalmente messo in crisi dal fatto che l’Italia è, ormai stabilmente, un paese razzista. Nella media dei paesi europei non ricopre certo una posizione invidiabile, anzi.

E nello specifico, quali le responsabilità dei media, in questo?

Nel mondo dell’informazione è presente e perdurante un aspetto piuttosto preoccupante: tanti giornalisti non hanno approfondito la storia del popolo italiano come popolo migrante, fatta di stenti generazionali molto profondi, con cicatrici indelebili anche. Questa mancanza, incide molto sul tipo di narrazione mediatica che viene fatta, di racconto giornalistico, che vede preferire una narrazione tracciata quasi sempre con toni delittuosi e lugubri quando si affronta il tema dei migranti, appiattendo ogni discorso sui temi della sicurezza e dell’ordine pubblico. Tutto ciò, vien da sé, non restituisce affatto all’opinione pubblica in’idea completa ed obiettiva del fenomeno, il quale meriterebbe ben altri approcci.

Un tempo, sui giornali nazionali, si parlava di “pugliesi”, “siciliani” e “calabresi”. Oggi si dice “extracomunitario” o, peggio, “clandestino”. Quali le similarità, gli elementi in comune tra queste due forme di immigrazione, una tutta interna al paese, “italiana” se vogliamo, ed un’altra proveniente invece da “altri sud” del mondo?

È l’anello più debole della gerarchia sociale che sopraggiunge in un luogo, come fu per i meridionali che dagli anni ’50 agli anni ’70 dal Sud si spostavano a Nord. Questo è un primo elemento in comune: i nostri meridionali si collocavano proprio nell’anello più debole della gerarchia sociale, al pari di chi arriva adesso provenendo dai posti a sud del nostro stesso Meridione. Questa è un’indicazione di svantaggio: dà la possibilità di rilevare nell’ultima catena sociale il classico capro espiatorio, il nemico simbolico cui addebitare le nostre frustrazioni e i nostri limiti. Sono inoltre accumunati dalla provenienza geografica, come detto: è il sud del mondo che cerca nelle aree più a nord di trovare un posto alla tavola del ricco Occidente. In questo, tra il migrante che viene in Italia dal nord Africa e il pugliese che andava a Torino e a Milano, per lavorare in fabbrica, non c’è molta differenza. Ricordo che i meridionali sono stati stigmatizzati dai grandi quotidiani del Nord, come il Corriere della Sera e La Stampa, in modo del tutto simile a come gli americani vedevano gli italiani che emigravano agli inizi del Novecento. In tal senso, cito una relazione realizzata nel 1912 negli Usa, firmata dall’Ispettorato all’immigrazione e presentata al Congresso americano, incentrata sugli immigrati d’Italia: ci rappresentavano con un lessico discriminatorio, con frasi del genere “sono di piccola statura”, “non amano l’acqua”, “puzzano e sono inclini alla violenza”, e via discorrendo. È lo stesso trattamento che attualmente riserviamo ai migranti.

Non è strano che italiani svantaggiati e stranieri svantaggiati, uniti da simili condizioni di precariato lavorativo e, soprattutto, economico, non si siano mai uniti in un movimento comune?

Innanzitutto, non è facile creare un movimento, il quale dovrebbe essere anzitutto politico, con una propria direzione. Secondo me, tentativi sono stati fatti, ma da segmenti minoritari. Poi, va detto, non è che si parta dagli stessi elementi: un migrante che arriva qua, che cerca di normalizzare la propria condizione, vive una condizione diversa dal “povero italiano”, è ancora più sotto nella gerarchia sociale e deve faticare di più. Credo che per dare vita ad un movimento congiunto e coeso, serva innanzitutto una piattaforma comune dalla quale partire, che metta insieme le istanze ti tutti.

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