grammatica Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Tue, 28 Feb 2023 16:15:40 +0000 it-IT hourly 1 Perché si dice ambaradan per indicare qualcosa di caotico? https://cultura.biografieonline.it/ambaradan/ https://cultura.biografieonline.it/ambaradan/#respond Fri, 24 Feb 2023 15:15:22 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=21330 Capita nel linguaggio comune, soprattutto parlato, che si usi il termine ambaradan per fare riferimento a qualcosa di caotico. Con tale termine ci si può anche riferire a un insieme disordinato di cose, una situazione di confusione generalizzata o un indefinito guazzabuglio.

caos

Ambaradan: etimologia del termine

L’origine del termine ha radici che rimandano a un fatto triste. Si presume che la parola ambaradan abbia avuto origine dal nome dell’altopiano montuoso etiope Amba Aradam: in tale luogo avvenne una cruenta battaglia tra italiani e abissini nel 1936, nel contesto della Guerra di Etiopia. Nella battaglia le forze italiane furono responsabili di una strage di civili.

La parola amba in lingua amarica (la lingua ufficiale dell’Etiopia) indica una generica altura dalla cima piatta. Il termine amba può indicare inoltre una fortezza montana.

Emilio De Bono in Abissinia all'inizio della Guerra d'Etiopia
Emilio De Bono in Abissinia all’inizio della Guerra d’Etiopia

I fatti storici

Durante la battaglia dell’Amba Aradam, assieme alle truppe italiane si trovarono schierate diverse tribù indigene. Tuttavia la volatilità delle trattative locali fecero sì che alcune tribù si alleassero successivamente con il nemico, per poi tornare ad affiancare i soldati italiani in una sorta di doppio o triplo gioco.

La battaglia fu vinta dalle truppe italiane che presero il controllo della situazione. Determinante fu l’utilizzo di gas tossici che provocarono la morte di circa 20 mila indigeni etiopi, tra civili e militari.

La diffusione del termine

Al loro ritorno in Italia, i soldati, di fronte a una situazione di caos, di tumulto o disordinata, cominciarono a definirla come fosse “Amba Aradam“. Il riferimento rimandava proprio alla battaglia e al suo particolare contesto. Per crasi, le due parole si sono poi fuse in una sola diventando “ambaradam“. Si indica crasi – lo ricordiamo – quando la vocale finale di una parola e quella iniziale della successiva si fondono in un’unica vocale, oppure in un dittongo.

La trasformazione della consonante finale m in n, da ambaradam a ambaradanè da ricondursi a un errore di pronuncia diventato nel tempo comune. E’ facile intuire come tale termine sia più usato nella forma parlata, piuttosto che in quella scritta.

Si può riscontrare un’analogia sia nella dinamica storica, sia nel significato del termine, in riferimento ai moti che nel 1948 sconvolsero l’Europa: fare un quarantotto, oppure, è successo un quarantotto, sono modi di dire che indicano proprio una situazione di putiferio generale ed inaspettato.

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Obiettivo o obbiettivo: come si dice? https://cultura.biografieonline.it/obiettivo-obbiettivo/ https://cultura.biografieonline.it/obiettivo-obbiettivo/#comments Mon, 14 Mar 2022 08:08:04 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=11739 Nella lingua italiana, durante una conversazione o mentre scriviamo, possiamo usare i termini obiettivo ed obbiettivo, spesso in maniera similare. In realtà si tratta di due termini (sia se riferiti all’aggettivo, sia se riferiti al sostantivo), che riprendono il latino medievale obiectivu(m). Nel linguaggio comune, è comunque più usato e riconosciuto il termine con una sola b, quindi obiettivo, ma entrambi i termini possono essere usati senza cadere in errore.

Obiettivo e obbiettivo
Ci sono obiettivi e obbiettivi

La forma obiettivo è più vicina all’etimo latino obiectivum, mentre obbiettivo è una forma di origine popolare che ha subito il raddoppiamento della b davanti ad “i” con valore di semiconsonante. Obbiettivo è attestato nell’italiano scritto sin dalla metà del secolo XVI, mentre obiettivo è usato dalla prima metà del secolo successivo. Obiettivo od obbiettivo è una parola che prende spunto dal latino ed è caratterizzato dalla fusione dei due termini obiactum = lanciato in avanti dove per apofonia la a diventa e (latino medievale obiectivum).

Significati del termine obiettivo o obbiettivo

Obiettivo o obbiettivo, inteso come sostantivo, sta ad indicare il fine, la meta, oppure il bersaglio da raggiungere che una persona o un gruppo di persone si pongono. In quest’ottica, l’obiettivo, soprattutto in ambito militare, diventa sinonimo di bersaglio. Se si parla di termini come pianificazione e project management, l’obiettivo diventa sinonimo di un progetto che permette di definire i risultati da raggiungere.

Se lo si considera come aggettivo, il termine obiettivo indica qualcosa di imparziale, basato sui dati e non influenzato da opinioni non oggettive. In ambito militare, l’obiettivo è il fine di un’azione, mentre in fisica è l’oggetto di studio dell’ottica. In ambito fotografico il termine obiettivo o obbiettivo è usato per definire una parte, sia delle videocamere che delle macchine fotografiche. In campo legislativo, viene utilizzato il termine “legge obiettivo”, che indica una legge che annovera regolamenti sulle infrastrutture strategiche.

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Centra e c’entra: differenze e usi corretti https://cultura.biografieonline.it/centra-c-entra/ https://cultura.biografieonline.it/centra-c-entra/#respond Tue, 20 Jul 2021 05:12:25 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=23177 I due termini c’entra e centra presentano significati completamente diversi. Nel primo caso centra sta ad indicare la voce verbale del verbo centrare, nel secondo caso c’entra sta ad indicare l’unione del pronome ci con la voce verbale entrare. Quest’ultimo indica qualcosa di attinente o meno ad una data discussione.

Un gatto tenta di entrare nella scatola. Non centra il suo obiettivo perché non c'entra
Un gatto tenta di entrare nella scatola. Non centra il suo obiettivo perché non c’entra.

C’entra o centra?

I due termini sono confusi a causa della loro assonanza e vengono molto spesso usati erroneamente. E’ diversa anche la pronuncia, perché se c’entrare richiederebbe una pronuncia con la e chiusa, con c’entra si utilizza invece la e aperta. Nel primo caso, il verbo centrare è caratterizzato dal sostantivo centro con l’aggiunta della desinenza verbale -are.

Centrare

I significati di questo verbo sono tre:

  1. primo caso: fissare nel centro;
  2. secondo caso: colpire nel centro;
  3. terzo caso, il verbo è usato in modo figurato.

Di seguito vediamo alcuni esempi. Nel caso di fissare nel centro, centrare viene usato in fotografia, centrare il compasso, un soggetto, un’immagine o per fissare il centro di un fotogramma, lo schermo o un obiettivo.

Nel secondo caso, in cui il verbo centrare viene usato con il senso di colpire nel centro, ci riferiamo a colpire un boccino o colpire un bersaglio.

Nell’ultimo caso, in cui il verbo è usato in modo figurato, facciamo riferimento all’opportunità di cogliere e conseguire le cose in modo preciso e attento. Ne sono chiari esempi: centrare un personaggio mettendone a nudo le caratteristiche principali, centrare un obiettivo, centrare un problema.

Obiettivi e bersagli
Centrare: il termine lo si usa, ad esempio, associato agli obiettivi o ai bersagli.

C’entra

C’entra è l’unione del pronome ci e della terza persona singolare del verbo entrare. Questo termine viene usato sia con valore intensivo sia in senso figurato o nella forma negativa.

  1. Con valore intensivo. Trovare posto, avere spazio sufficiente per stare in qualcosa:
    in questa macchina c’entrano solo cinque persone.
    Essere contenuto:
    il tre nel sei c’entra due volte.
  2. In senso figurato, con il significato di avere parte, attinenza, relazione con qualcosa:
    che c’entra questo con quanto è accaduto?
  3. Forma negativa. Viene anche utilizzato come modo di dire per indicare qualcosa che sia attinente ad una discussione o, in forma negativa, non c’entra, che non sia pertinente. Esempio d’uso:
    il tuo intervento non c’entra per niente.

 

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Matto, pazzo, persona mentalmente disturbata: differenze e uso corretto dei termini https://cultura.biografieonline.it/matto-pazzo-differenze-termini/ https://cultura.biografieonline.it/matto-pazzo-differenze-termini/#respond Tue, 26 May 2020 07:29:23 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=29310 Il matto, letteralmente, è colui che perde l’uso della ragione. È una parola che ha origine sin dal tardo latino mattus, “matus” (ubriaco). Per esempio Boccaccio e Dante usano questa parola per indicare uno stolto, uno stupido. Mentre secondo il dizionario Treccani è un sinonimo di pazzo o folle.

Re di Quadri (o Re di Denari). In alcuni giochi è chiamato il Matto, o la Matta
Il Re di Quadri (o Re di Denari) in alcuni giochi di carte è considerato il Matto (o la Matta). Il nome in questo contesto deriva dal Jolly (o Joker), che a sua volta deriva dalla figura del giullare medievale.

In altre parole matto è la persona che fa discorsi strani, irragionevoli, assurdi, e che si comporta in modo anormale.

Matto, in senso positivo

Ma matto è anche colui che è considerato una persona bizzarra e stravagante o allegra in modo spensierato: in questo caso rappresenta un giudizio positivo, di simpatia. Come dire, è un mattacchione, ad esempio.

Una parola in disuso

La parola matto non viene quasi più usata. Sono tanti i motivi. Si tratta di un termine troppo generico e impreciso, che prescinde dal tipo di disturbo mentale di cui si sta parlando. E poi è svilente, proprio perché tende ad identificare la persona e la sua malattia. Matto come psicolabile o ancora pazzo sono parole pericolose socialmente, che non dicono nulla, anzi si allontanano dalla sofferenza che dovrebbero in qualche modo rappresentare.

Aldilà della malattia mentale, si è e si resta persone, cittadini.

Le conseguenze dell’uso scorretto

Invece usando la parola matto o i suoi sinonimi non si fa altro che ghettizzare la persona, togliendole spazio sociale e anche la speranza di una vita normale, fatta di una speranza di guarigione.

Come è stata usata la parola matto negli ultimi quarant’anni?

A spiegarlo è stato Giorgio Pisano, soprannominato il “cronista del manicomio”, definizione che lui stesso fa di sé. E’ stato lui a seguire per la prima volta negli anni Settanta le storie dell’ospedale psichiatrico Villa Clara a Cagliari.

Ecco la sua testimonianza:

“Un matto era uno che non contava più niente, che aveva perso il suo ruolo sociale con l’aggravante di poter essere pericoloso”.

Spiega poi:

“La gente generalizzava: depresso o schizofrenico potenzialmente aggressivo non faceva differenza. Era solo un matto e come tale doveva stare rinchiuso, messo nelle condizioni di non nuocere”.

L’esperienza di una poetessa

Anche Alda Merini ha raccontato attraverso la poesia la condizione dei “matti”, tra torture e orrori che la stessa autrice ha subìto negli ospedali psichiatrici:

Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita”.

Un ritratto della situazione amara che si respira fuori, fuori dalle mura di un ospedale, in cui viene assegnata un’etichetta. Tuttavia, dopo la Legge Basaglia (che prende il nome dallo psichiatra e neurologo Franco Basaglia), la parola matto ha perso il connotato negativo. O almeno in parte.

Cappellaio Matto (Johnny Depp)
Il Cappellaio Matto, personaggio di Alice nel Paese delle Meraviglie, interpretato da Johnny Depp nel film di Tim Burton del 2010. Foto dal sito Aforismi.meglio.it, pagina: frasi sulla pazzia

Matto o pazzo?

Difficile stabilire quale parola porti con sé il pregiudizio dell’incurabilità. Di certo però la parola matto ha meno cattiveria di pazzo. Così come spiega Massimo Cirri, psicologo e giornalista conduttore di Caterpillar su Radio 2, che dice:

“Non mi piace la parola matto e neppure pazzo o psicolabile. Sono parole larghe, sconfinanti, parole che si mangiano tutto. Inglobano la vita delle persone e non dicono nulla della sofferenza che dovrebbero rappresentare”.

A pensarla come lo psicologo Cirri,  anche Luigi Attenasio, che è il direttore del dipartimento di Salute mentale dell’Asl Roma C, presidente nazionale di Psichiatria Democratica, nonché autore di libri come “Cronaca di una liberazione. Da Matti a Cittadini d’Europa”.

“Dico matto perché lo sento più affettuoso e meno cattivo di pazzo”.

Dice lo psichiatra.

“Il vocabolario della psichiatria è un vocabolario di epiteti. Le parole che si usano con queste persone sempre sottendono un danno che gli facciamo. Dobbiamo considerare che ci sono persone che possono sentirsi offese da questa parola se, a causa di questo loro essere un po’ matti hanno perduto affetti, casa e lavoro, hanno pagato un dazio”.

Le parole da evitare sempre

  • Squilibrato;
  • psicolabile;
  • folle.

Sono parole che vengono immediatamente collegate alla persona socialmente pericolosa. Su questo si sofferma ancora Cirri e dice:

“Il raptus è sempre di follia, mai di sanità. L’insano gesto si usa molto. Il rischio del gesto di follia è che tutta la questione viene risolta in una patologizzazione. È un gesto crudele, cattivo, è proprio necessario ricondurlo alla dimensione di una sofferenza? Ci sono altri sofferenti che non includono questo nella loro sfera di comportamenti. Perché dici che è un depresso che ha ucciso la famiglia e non che è un medico, un ragioniere, un cinquantenne…Non si deve andare per automatismi che riproducono stereotipi, seppur nella necessità della concisione, dei titoli”.

Il titolo a cui si riferisce Cirri è quello apparso in un telegiornale nazionale del 27 aprile 2012 che fa riferimento a una persona definita “mentalmente instabile”. Ecco il titolo:

“Londra, prende in ostaggio 4 persone: lo squilibrato arrestato dalla polizia. Si era barricato in un palazzo e minacciava di farsi saltare in aria.”.

C’è da notare che la maggior parte delle persone che hanno un disturbo mentale non hanno mai ucciso nessuno e neppure pensato di farlo.

Nella maggior parte dei casi, i delitti sono ad opera dei cosiddetti sani di mente; si vedano ad esempio i casi di femminicidio o violenza sulle donne.

Il problema culturale: come usare correttamente le parole?

Alla base dell’uso di queste parole, c’è un problema culturale, dove sopravvive il pregiudizio, lo stigma, lo stereotipo.

E allora quale parola usare?

L’alternativa è persone con disturbo mentale.

Concludiamo con una raccomandazione del giornalista Massimo Cirri:

“Stanno emergendo uomini e donne che parlano in prima persona della propria sofferenza mentale. Di come l’hanno attraversata, della guarigione, dei rapporti a volte positivi, a volte ancora umilianti, con i sistemi di cura. Sono nate associazioni di utenti, gruppi di autoaiuto, voci collettive sulla salute mentale. Toccherà a loro dire come vogliono essere chiamati. Che parole usare per stare meglio tutti”.

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Ragazze squillo. Da dove deriva il termine che significa: prostitute. https://cultura.biografieonline.it/ragazze-squillo-termine/ https://cultura.biografieonline.it/ragazze-squillo-termine/#respond Thu, 24 Oct 2019 16:08:31 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=27288 In inglese si dice call girls. In italiano sono le ragazze squillo, o ragazze a chiamata.

Sono gergalmente definite squillo le prostitute. Una definizione più ristretta le indica come ragazze (e donne) che esercitano la prostituzione fissando appuntamenti mediante l’uso del telefono (call: in inglese significa chiamata). Altri termini gergali o metaforici utilizzati anche nel mondo giornalistico, per indicare le prostitute sono: escort, oppure lucciole.

squillo del telefono - telefono che squilla

Squillo: uso del termine

Il termine più corretto da utilizzare sarebbe lavoratrice sessuale; tuttavia per ingentilire o nascondere la parola “prostituta”, l’abitudine comune dei media ha fatto in modo che si diffondessero i sinonimi come squillo (più generico) o lucciola (quando la lavoratrice si rende disponibile in strada).

Squillo sono pertanto, in modo indifferente, le persone che si prostituiscono in luoghi privati come case d’appuntamento, resort, hotel, appartamenti, ma anche quello che esercitano il meretricio in luoghi pubblici come parchi e strade.

Sex worker

Utilizzare il termine squillo non equivale oggettivamente a comunicare una discriminazione. L’uso tuttavia può risultare opportuno o inopportuno, appropriato o inappropriato, a seconda del tema, del contesto e dell’approccio gergale. Il sostantivo più corretto, come anticipato, sarebbe lavoratrici del sesso, che traduce l’inglese sex worker.

Quest’ultimo termine è usato molto più abitualmente nel linguaggio britannico e statunitense, rispetto alla corrispondente traduzione di lingua italiana.

Squillo: da dove deriva il termine

Non si ha certezza assoluta, ma il termine squillo (ragazze a chiamata) deriverebbe dagli anni ’60 del XX secolo, coniato per descrivere in modo immediato le lavoratrice alle dipendenze di Madame Claude.

Foto di Fernande Grudet, in arte Madame Claude (1923-2015)
Fernande Grudet, in arte Madame Claude (1923-2015)

Madame Claude è il nome con cui era conosciuta Fernande Grudet: fu una celebre figura francese, imprenditrice del sesso, protettrice di prostitute, che gestì un bordello di lusso a Parigi nel decennio degli anni ’60.

Tra i suoi clienti si annoveravano – si dice – esponenti celebri della politica mondiale, attori e manager. Il suo lavoro operativo era quello di gestire le telefonate e fissare gli appuntamenti con le ragazze. Da qui il termine squillo.

Sebbene, come abbiamo detto, il termine sia oggi usato in modo generico, esso dovrebbe fornire un’idea del lusso nell’ambito della prostituzione, proprio per la dinamica dell’appuntamento.

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Clandestino: etimologia e uso corretto della parola https://cultura.biografieonline.it/clandestino-uso-corretto-della-parola/ https://cultura.biografieonline.it/clandestino-uso-corretto-della-parola/#comments Thu, 28 Feb 2019 04:19:21 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=26036 La parola clandestino si è diffusa nell’uso comune in modo ossessivo attraverso i giornali e nelle dichiarazioni dei politici. Questo termine viene utilizzato per indicare uno straniero che soggiorna in un Paese, violando le leggi di immigrazione.

Qual è l'uso corretto della parola clandestino
Qual è l’uso corretto della parola clandestino

Senza documenti

In particolare in Italia il termine clandestino si riferisce a tutti gli stranieri che anche se entrati regolarmente nel Paese, restano anche dopo la scadenza del visto o dell’autorizzazione al soggiorno. In questo caso il termine corretto da usare sarebbe migrante irregolare.

Per esempio, negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni si dice in modo più corretto: undocumented person. Tradotto in italiano significa persona senza documenti.

Clandestino: etimologia e uso corretto

Clandestino originariamente era un aggettivo e poi si è diffuso anche come sostantivo. La parola deriva dal latino “clam” (di nascosto) e “dies” (giorno).

Per la legge il clandestino non esiste, non è infatti citato nel testo della Legge Bossi-Fini e neppure nel testo unico sull’immigrazione che, all’articolo 10 bis, disciplina il “reato di clandestinità”, ma che usa al contrario questo termine definendolo come “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato”.

Questa parola, cioè clandestino, è fortemente negativa, tanto che la Carta di Roma raccomanda ai giornalisti di evitarne l’uso. La parola clandestino quindi non può essere usata come sinonimo di immigrato. La maggioranza dei migranti sono infatti regolari e sono oltre 5 milioni, cioè dieci volte più degli irregolari (circa 500mila – dati: gennaio 2019).

Etichetta

Gli sbarchi sono visti nell’immaginario collettivo come l’emblema delle migrazioni irregolari. Ma non è così: la maggior parte degli sbarchi sono nel 90 per cento dei casi operazioni di soccorso in mare dei migranti naufraghi.

Insomma, l’etichetta clandestini non va proprio usata. Essa è discriminatoria. L’alternativa consigliata è migrante irregolare oppure senza permesso di soggiorno. Entrambe le espressioni non hanno un impatto discriminatorio e risultano più corrette per indicare una persona che si trova in un Paese straniero priva di regolare permesso.

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Comprendere e apprendere, differenza https://cultura.biografieonline.it/comprendere-apprendere-differenze/ https://cultura.biografieonline.it/comprendere-apprendere-differenze/#respond Sat, 20 Jan 2018 15:00:57 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=23965 Molto spesso si padroneggia in modo erroneo l’uso dei verbi. Nonostante ci siano dei verbi all’apparenza simili, i significati sono differenti, quantomeno nelle sfumature. Ne sono un chiaro esempio i verbi che andiamo ad analizzare in questo breve articolo: comprendere ed apprendere.

comprendere e apprendere - differenze
Comprendere e apprendere

Il verbo comprendere

Comprendere significa capire e cogliere con la propria mente il senso di qualcosa. Oppure arrivare ad un’intuizione grazie alle proprie conoscenze. La parola comprendere infatti deriva da “prendere tutto”. Ciò mette in evidenza l’idea di assimilare tutte le informazioni necessarie per arrivare alla comprensione generale di una determinata circostanza. Per comprendere, bisogna capire e padroneggiare ogni aspetto di una situazione problematica.

Questo verbo ha un senso molto ampio: può voler dire afferrare il senso di qualcosa ma anche stabilire una relazione tra più idee e più fatti. Comprendere infatti è l’atto con il quale la mente ci porta a formulare un determinato concetto (dal latino: cum capere). Si tratta del risultato di un procedimento mentale che “prende e mette insieme” (comprehendĕre) tutti gli aspetti sensibili particolari che una molteplicità di oggetti e situazioni hanno in comune.

Se riferito ad una persona, indica l’atto di comprendere appieno lo stato d’animo altrui. In questo caso si usa anche il termine di empatia che deriva da en-, “dentro”, e pathos, “sofferenza o sentimento”. In questa circostanza, comprendere è usato quindi per definire la capacità di esprimere empatia da parte di una persona verso un’altro soggetto.

Empatia e comprensione
Empatia e comprensione

Il verbo apprendere

Apprendere invece vuol dire acquisire una serie di nozioni o di capacità. La parola difatti deriva dal verbo “prendere” ovvero appropriarsi della conoscenza. Apprendere vuol dire imparare e venire a conoscenza. Quindi, si può accumulare e immagazzinare le informazioni necessarie ed importanti per custodirle gelosamente nella memoria usando queste nozioni come bagaglio personale.

Il luogo numero uno dell’apprendimento per tutti noi la scuola. Poi sta ad ognuno continuare ad apprendere le nozioni necessarie anche dopo il periodo scolastico, che permettono di andare avanti per la propria strada formativa. Il termine “apprendere” può essere usato anche come appigliarsi o attaccarsi a qualcosa (detto in modo figurativo parlando delle passioni amorose). Ne è una chiara testimonianza la frase dantesca: “il fuoco s’apprese rapidamente alla capanna; Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende”.

Dopo questo articolo, crediamo – e speriamo – sarà più facile utilizzare o azzeccare il verbo corretto. Lo pensate anche voi? Se volete lasciate un commento qui sotto.

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Differenza tra confine e frontiera https://cultura.biografieonline.it/confine-frontiera-differenze/ https://cultura.biografieonline.it/confine-frontiera-differenze/#comments Thu, 06 Apr 2017 16:40:46 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=22161 Capita sovente che nella lingua italiana i termini confine e frontiera vengano usati come sinonimi. Infatti per confine (cum-finis) si intende una linea (per lo più immaginaria) che separa uno Stato dall’altro. Consideriamo tale parola dal punto di vista del diritto internazionale e della geografia politica: il confine non è altro che la linea che divide lo spazio soggetto al potere di uno Stato, dallo spazio che è soggetto al potere di un altro Stato.

Confine tra Utah Colorado Arizona New Mexico
Una foto del punto di intersezione tra i confini di quattro stati USA: Utah, Colorado, Arizona e New Mexico.

Confine

Tale termine viene usato semplicemente per rimarcare la separazione tra i vari territori che presentano leggi e organizzazioni differenti.

Con-fine” sta ad indicare infatti che quella conclusione è comune. Il confine di un territorio è ciò che chiude il terreno e separa “ciò che è mio” da ciò che è invece appartiene a qualcun altro. Le conformazioni geologiche naturali sono state spesso usate come linee di confine. Sono esempi le catene montuose, i fiumi, i laghi; le maestose Cascate dell’Iguazú delimitano il confine tra Argentina e Brasile.

Nell’epoca romana veniva adottata la parola Terminus per indicare i vari segnali materiali (pietre, pali, muretti) che si trovavano lungo il percorso della linea di un confine.

La parola confine viene usata anche in senso più ampio per indicare il limite di una proprietà privata. Indicare anche il contenere qualcosa o qualcuno in un determinato spazio; da qui l’espressione: confinare qualcuno in casa.

In altri casi il confine sta a simboleggiare il luogo fisico in cui esso è collocato. Ne è un esempio la linea tracciata su una carta geografica.

Ma non finisce qui. Il concetto di confine assume un significato molto ampio perché viene usato anche come strumento per dominare il nostro pensiero e controllare la realtà che ci circonda: i confini del pensiero o i confini della realtà, appunto.

Frontiera

Con il termine frontiera invece si indica una stretta striscia di territorio che si trova nelle vicinanze di confine tra due stati. E’ una sorta di varco dove è possibile, dopo determinati controlli, entrare oppure uscire da un paese straniero.

In questo caso, la frontiera è anche il passaggio (normalmente presidiato dalla polizia – chiamata polizia di frontiera – o dalle forze armate). La frontiera è delimitata, riconosciuta e dotata, in più casi, di opportuni sistemi di difesa.

In ogni caso, le frontiere, ai giorni nostri vengono considerate non solo un luogo di espatrio o rimpatrio. Esse sono anche un luogo di mero transito di personalità cui gli ordinamenti sono soliti assegnare compiti di protezione speciale.

Frontiera Italia Svizzera
Dogana di Brogeda: un punto di frontiera tra Italia e Svizzera

Con il termine frontiera si vuole anche indicare un determinato luogo figurato, ma non sempre identificabile in un’area ben definita. Oppure si vuole eventualmente mostrare metaforicamente quella linea che separa nettamente ambienti, situazioni o concezioni differenti: ne è un esempio l’espressione frontiere della scienza.

I due termini confine e frontiera possono essere usati anche in vari ambiti scientifici: dalla geometria, all’elettrotecnica, fino alla fisica.

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I nomi dei mesi e dei giorni non si scrivono maiuscoli https://cultura.biografieonline.it/mesi-giorni-minuscoli/ https://cultura.biografieonline.it/mesi-giorni-minuscoli/#respond Thu, 17 Sep 2015 12:15:57 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=15132 Quando si scrivono i nomi dei mesi e i nomi dei giorni della settimana non va usata la lettera iniziale maiuscola. I mesi si scrivono così:

  1. gennaio
  2. febbraio
  3. marzo
  4. aprile
  5. maggio
  6. giugno
  7. luglio
  8. agosto
  9. settembre
  10. ottobre
  11. novembre
  12. dicembre

I giorni della settimana si scrivono così:

  1. lunedì
  2. martedì
  3. mercoledì
  4. giovedì
  5. venerdì
  6. sabato
  7. domenica

Leggi anche: Da dove derivano i nomi dei giorni della settimana.

nomi dei mesi (calendario)

Quando è corretto usare la lettera maiuscola

Fin qui la regola va considerata come basilare. Poi però esistono le eccezioni. Se il nome della settimana corrisponde a un nome proprio, andrà indicato con la lettera maiuscola. Un esempio è il nome proprio femminile Domenica.

Il nome del giorno può essere scritto e indicato con la lettera maiuscola nei nomi delle ricorrenze e delle festività. Sono esempi il Sabato Santo, il Martedì grasso, il Lunedì dell’Angelo.

I dizionari della lingua italiana in realtà non concordano su quest’ultimo punto, perciò sono corrette entrambe le forme: la forma con la lettera maiuscola e la forma senza lettera maiuscola.

E’ invece corretto indicare con la lettera maiuscola le festività canoniche come Natale, Pasqua, Ferragosto.

I giorni della settimana al plurale

I nomi dei giorni della settimana assumono regolarmente la forma plurale. In realtà quelli che terminano con -ì rimangono invariati. Avremo pertanto, ad esempio

  • le domeniche
  • i sabati
  • i lunedì
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