Giacomo Puccini Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Wed, 04 Oct 2023 09:59:17 +0000 it-IT hourly 1 Manon Lescaut, di Giacomo Puccini: riassunto, storia e trama https://cultura.biografieonline.it/manon-lescaut/ https://cultura.biografieonline.it/manon-lescaut/#comments Fri, 25 Jan 2019 11:13:44 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=25900 Dopo “Le villi” del 1884 e “Edgard” del 1889, il genio di Giacomo Puccini va in scena con la sua terza opera. Si tratta di Manon Lescaut che viene rappresentata per la prima volta al teatro Regio di Torino la sera del 1° febbraio del 1893. Il dramma “Manon Lescaut” giunge al pubblico in quattro atti. In particolare, è l’adattamento di Giacomo Puccini del volume “Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut” dell’abate Antoine Francois Prévost del 1731.

Manon Lescaut
Manon Lescaut

La composizione dell’opera e il travaglio del libretto

La composizione della “Manon Lescaut” di Giacomo Puccini è datata fra il 1889 e 1892, anni nei quali, al libretto della stessa, si susseguono diversi noti in auge al tempo. Ruggero Leoncavallo, Marco Praga, Domenico Oliva sono i primi tre della lista. A questi si aggiungerà Luigi Illica che, insieme poi a Giuseppe Giacosa, firmerà con Puccini le sue tre opere più importanti e immortali (La bohéme del 1896, Tosca del 1900 e Madama Butterfly del 1904).

Tanto fu il travaglio, che oggi critica ed esperti sono d’accordo nell’attribuire la paternità del libretto allo stesso Puccini, che fece da ago della bilancia nell’avvicendarsi, con più o meno successo, degli altri librettisti. Nessuno di questi, infatti, firmò mai l’opera.

Riassunto e trama dell’opera Manon Lescaut

Una storia d’amore disperata e struggente

Della Manon Lescaut esistevano già diverse versioni. Quello che fece Giacomo Puccini fu sentirla – come lui stesso scrisse:

“all’italiana, con passione disperata”.

Atto 1°

Il primo atto si svolge a Amiens. Qui Renato Des Grieux, studente, e Manon Lescaut, ragazza destinata alla vita monastica, si incontrano: è amore a prima vista. Il fratello di lei, però, vuole costringerla a sposare Geronte, un ricco banchiere.

Renato, complice un amico che scopre cosa il fratello della ragazza stia tramando, anticipa Geronte: rapisce Manon e la porta via con sé verso un’esistenza di grandi sentimenti ma, certo, di stenti.

Atto 2°

All’apertura del secondo atto, a Parigi, infatti, Manon è tornata da Geronte, stanca delle difficoltà della vita con Des Grieux. Ma l’amato le manca. Il fratello lo manda a chiamare. I due amanti vengono colti nel loro abbraccio segreto proprio da Geronte.

Manon, prima di fuggire col suo cavaliere, tenta di rubare alcuni gioielli dalla casa di Geronte. Le guardie la sorprendono in questo intento: insieme a quella di adulterio, su Manon cade l’accusa di furto ai danni del banchiere a cui era stata promessa.

Atto 3°

Il terzo atto si svolge a Le Havre, prigione in cui Manon è rinchiusa con altre donne. Alcune della quali come lei aspettano di essere imbarcate per gli Stati Uniti. La ragazza tenta invano la fuga.

In ultima istanza, Des Grieux implorà il comandante della nave diretta oltre oceano di imbarcare anche lui. L’uomo acconsente. I due amanti salpano alla volta degli Stati Uniti.

Atto 4°

L’atto di chiusura, il quarto, è ambientato in “una landa sterminata ai confini di New Orleans”. I due amanti vagano senza meta e senza mezzi fino al più tragico dei finali.

Manon, vinta dagli stenti e dall’errare senza scopo, muore fra le braccia del suo amato.

Il tocco pucciniano all’opera indimenticata: breve critica

Dal punto di vista critico, ciò che distingue anche “Manon Lescaut” nella versione pucciniana è il cosiddetto “primato della melodia”. Numerosi sono infatti gli assoli che giungono vividi al pubblico e lasciano la memoria dell’opera intatta nel tempo. Quattro in particolare: “Donna non vidi mai” cantata da Des Grieux nel primo atto; “In quelle trine morbide” di Manon nel secondo atto; “Tu, tu, amore? Tu?” duetto del secondo atto; l’intermezzo del viaggio a Le Havre del terzo atto; “Sola, perduta, abbandonata” di Manon nel quarto atto.

Adattamenti, corsi e ricorsi all’avventura di Prévost

La “Manon Lescaut” non è nuova a rifacimenti. Basti pensare che la sola opera firmata da Giacomo Puccini conobbe ben 8 edizioni per Ricordi fra il 1892 e il 1924, a ridosso della morte del compositore lucchese.

Oltre trent’anni, questi, di tagli e reinseirmenti, modifiche alla partitura e al testo, alle arie e, più nel dettaglio ancora, alle strofe delle arie stesse.

L’origine della vicenda, come detto, risale a “Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut” dell’abate Antoine Francois Prévost del 1731. Il racconto è incluso, in particolare, nel settimo volume delle “Memorie e avventure di un uomo di qualità che si è ritirato dal mondo”.

La storia dell’amore disperato fra Manon e Des Grieux, poi, fu ripresa nel dramma del 1850 di Théodore Barriere e Marc Fournier. Divenne opera per mano di Jules-Émile-Frédéric Massenet nel 1884, che anticipò la versione italiana e pucciniana, appunto, di nove anni.

La vicenda di Manon, infine, è passata anche al grande schermo, in tre pellicole: “Manon Lescaut” di Carmine Gallone del 1939, “Manon” di Henri Georges Clouzout del 1949 e “Manon 70” di Jean Aurel. Questi ultimi due film, in particolare, giunsero al pubblico del cinema come adattamenti dell’opera in chiave moderna.

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La bohème di Puccini, riassunto e analisi musicale https://cultura.biografieonline.it/boheme-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/boheme-puccini/#comments Wed, 26 Jul 2017 15:33:12 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=22950 La bohème è una delle opere musicali più importanti di Giacomo Puccini. Si compone di quattro atti, indicati come quadri. Il libretto fu scritto Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, ispirato al romanzo di Henri Murger “Scene della vita di Bohème” (Scènes de la vie de bohème) del 1851. L’opera venne rappresentata per la prima volta il 1° giorno di febbraio del 1896 presso il teatro Regio di Torino. Quella che segue è un’analisi dell’opera sia storica che musicale, redatta dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste, che diresse l’opera il 24 aprile 2012 a New York, presso il Metropolitan Opera House nel contesto del Festival Pucciniano. Il maestro ha dedicato questa sua ricerca e direzione in memoria dell’amico e musicista Ulderico Stolfo di Carlino.

La Bohème - Puccini

La genesi della Bohème

Nessun “soggetto” quanto quello di Bohème era stato più vissuto da Puccini. La “Bohème”, fanfarona ed insolente l’aveva vissuta al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, se non proprio la fame, come aveva argutamente scritto il Fraccaroli, Puccini aveva conosciuto tuttavia quelle sfumature dell’appetito lungamente trascurate che danno allo stomaco un languore che è sentimentale solamente per i poeti. La “Bohème”, vera, era passata attraverso la giovinezza del Lucchese prima di ridere e piangere sulla sua fortunatissima opera.

Narra il Marotti che fu Ruggero Leoncavallo a proporre a Puccini un suo libretto intitolato: Vita di Bohème. Ma Puccini, cui frullavano altre idee per il capo e non conosceva ancora il romanzo di Henri Murger, oppose un cortese rifiuto senza neppur leggere il romanzo del collega. Solamente un anno dopo, essendogli capitato tra le mani il capolavoro di Murge, ed essendo rimasto entusiasta, tanto fece e tanto tempestò Illica e Giocosa – aiutato molto dal paterno aiuto del “Sor Giulio” (Ricordi) – che i due scrittori approntarono il libretto. Crearono versi dolci e melodiosi che Giacomo Puccini poté così divinamente musicare.

Tralascio quello che successe tra Leoncavallo, Puccini, ed il buon Giulio Ricordi. Comunque Bohème vide la luce al teatro Regio di Torino la sera del 1° febbraio 1896, sotto la direzione di Arturo Toscanini.

La grandezza di Giacomo Puccini

La protagonista Mimì, questa sua creatura timida, modesta, sentimentale, con il suo volto aristocratico, ama l’amore per l’amore. Dal corpo fragile e malaticcio esce da quella sua anima sensibile e delicata una maggiore emotività. Ella fu teneramente amata, accarezzata, curata.

Pensate che Puccini rifece daccapo per ben quattro volte il IV atto e scrisse al “Sor Giulio” queste parole:

Quando questa ragazza per la quale ho tanto lavorato, muore, vorrei che uscisse dal mondo meno per sé, e un po’ più per chi gli ha voluto bene.

E aggiungeva:

Quando trovai quegli accordi scuri e lenti e li suonai al piano, venni preso da una tale commozione che dovetti alzarmi ed in mezzo alla sala mi misi a piangere come un fanciullo. Mi faceva l’effetto di aver visto morire una mia creatura.

Quella sua creatura cosi teneramente amata fu dileggiata, stroncata da infami giornalisti piemontesi, italiani e d’oltralpe, con frasi di questo tipo: “Noi ci domandiamo cosa spinse il Puccini sul pendio deplorevole di questa Bohème“.

I giornalisti tutti, non fecero una gran bella figura in quell’occasione. è un po’ quello che fecero anche i colleghi d’oltralpe, usi a dileggiare i nostri grandi compositori. Ma la risposta al genio – semplicemente al genio – cui l’Italia, l’Europa, il Mondo diede, fu: “GLORIA!

Questa parola, non lasciò mai più Puccini, ne allora, ne ora, ne mai.

Analisi musicale

Con “Bohème”, per la prima volta avvertiamo in Puccini la sua inclinazione alla pittura musicale di minuti particolari, capace di far balzare gli oggetti inanimati al livello della vita poetica. Il gaio tremolare delle fiamme nel caminetto, l’acqua che Rodolfo spruzza su Mimì svenuta, il raggio di sole che cade sul viso della fanciulla morente, e così via.

E’ forse in questa sfera che il suo stile di musicista da camera dà i risultati più squisiti. Egualmente degna di nota è la calcolata scelta degli strumenti per la caratterizzazione di personaggi e di scene. Soprattutto archi per Rodolfo e Mimì. Legni per Musetta e per gli altri bohémiens. Piena orchestra, con effetti particolarmente brillanti negli ottoni, per il “Quartiere Latino”, e complesso da camera per le scene d’intimità tra gli amanti.

Ne è un esempio particolarmente memorabile la morte di Mimì con le sue mezze luci-sottofondo di archi legni ed arpa e passaggi a solo, così tenui come le linee di una stampa giapponese. Lo stile melodico ha un carattere sempre più libero, quasi d’improvvisazione. Le frasi tendono a straripare da schemi regolari. Nelle scene comiche prevale l’aforisma, che aggiusta così le esigenze del pucciniano mosaico. Tutte cose, queste, che contribuiscono a dare impressione di spontaneità e naturalezza.

L’armonia

Nell’armonia osserviamo tocchi puntilistici, dissonanze spesso risolte in modo ellittico, specialmente alla fine di una scena dove una pausa permette ad un’armonia di svanire prima che risuoni l’armonia successiva. E come si è notato già nella Manon Lescaut – sebbene lì avesse solo un carattere sperimentale, le successioni armoniche sono elevate al grado di temi caratterizzati, spesso consistenti in un semplice seguito di quinte parallele. Come nel tema del presentimento di morte o in quello dei fiocchi di neve.

Tuttavia, nonostante tutta questa libertà nel linguaggio armonico, Giacomo Puccini organizza la costruzione facendo perno su alcune tonalità principali, credendo nel simbolismo drammatico delle relazioni fra una tonalità e l’altra. Così il primo atto è centrato, sostanzialmente, sulla tonalità di do maggiore.

Il secondo atto comincia in fa maggiore e finisce in si bemolle maggiore. Il quarto atto, che porta alla tragica conclusione, si muove dal do maggiore al do diesis minore.

La Bohème - Puccini - Rodolfo e Mimì - scena
La bohème: una scena tratta da una rappresentazione. Al centro i personaggi di Rodolfo e Mimì

I personaggi

Le principali dramatis personae sono Rodolfo e Mimì. A loro logicamente è riservata la porzione maggiore della musica. Il giovane poeta si presenta col famoso: “Nei cieli bigi” che ricordiamo fu tolto all’incompiuta “Lupa”, mentre ora è messo in relazione con “cieli bigi” e “sfumar di comignoli“. Questo è uno dei molti casi in cui Puccini usa frasi legate ad altri suoi personaggi incompiuti, per far risaltare lo stato d’animo di un altro personaggio o di un’altra situazione – in questo caso l’esuberanza di Rodolfo.

Rodolfo

Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli Parigi, è il Leitmotiv di Rodolfo. Per il completo ritratto del romantico innamorato, dobbiamo attendere l’incontro con Mimì e la sua grande aria – in realtà due arie collegate. Ascoltiamo questo fragor di sentimenti, di estasi appassionata, colma di tenerezza in: Che gelida manina, una delle melodie più pure e fragranti che Puccini abbia mai immaginato.

Non conosco nessuno che abbia descritto la Parigi di quel tempo tanto bene come Puccini in Bohème. (Claude Debussy)

Inizia salmodiante in pianissimo, con gli archi in sordina, che intorno alle linee vocali, fanno dolcemente continuare l’assolo dell’arpa. Rodolfo dopo l’arioso: “Chi son“, prosegue descrivendo la sua povera vita di poeta con In povertà mia lieta. Dopo il quale prorompe con ardore appassionato in: Talor dal mio forziere, ruban tutti i gioielli, e questo d’ora in avanti simbolizzerà l’amore romantico.

Per tutta l’opera della Bohème, la musica di Rodolfo è caratterizzata da simili salti introdotti da anacrusi, movimenti per gradi diatonici con continui mutamenti del taglio ritmico e terzine emotive.

Mimì

Fantastico è anche il quadro musicale che ritrae Mimì da: Mi chiamano Mimì, steso in forma di un libero rondò, nel quale Puccini con finezza psicologica mette in rilievo i diversi aspetti del carattere della fanciulla.

La semplicità infantile, che è il suo tratto fondamentale, è subito enunciata nel suo Leitmotiv. Nettamente Puccini fa una distinzione tra la sartina che adempie ai suoi banali doveri quotidiani e la romantica fanciulla che sogna una primavera. Per esempio nell’espansivo: Ma quando vien lo sgelo, che è il momento centrale di questo mosaico di ariette. E come è psicologicamente vero il semplice parlando Altro di me, con il quale conclude senza enfasi il suo ingenuo racconto.

Musetta

Nel ritrarre, la seconda coppia di amanti, Puccini fa di Musetta un personaggio musicalmente più articolato di Marcello. Lei è insinuante, civetta, candidamente fiera del suo potere di attrazione su tutti gli uomini. Ed è mirabilmente colta nel suo famoso valzer, che si adatta alla sua persona come un guanto.

Marcello, Schaunard e Colline

Marcello, bisogna ammetterlo è trattato piuttosto sotto gamba. Non ha un’assolo, lo si sente solamente in un quartetto ed in un duetto.

Con i suoi amici Schaunard e Colline, più che come personaggio singolo – Murger invece l’aveva dipinto diversamente. Marcello è l’espressione dello spirito collettivo dei bohémiens. Tutti e tre sono spesso accomunati nel tema della Bohème che Puccini prese dal suo Capriccio. Sin dalla sua idea iniziale riconosciamo l’impetuosa linea tematica dell’opera, trasportando un tema da un lavoro scritto dieci anni prima. Senza cadere in alcuna discrepanza stilistica, ricordiamo che il Capriccio è stato una miniera anche per l’Edgar, per Manon Lescaut e Turandot.

Quindi, ritornando ai nostri tre moschettieri, trovo abbastanza singolare che Schaunard e Colline, sebbene personaggi meno importanti del collerico amante di Musetta, abbiano al contrario un loro Leitmotiv. Il musicista ha una specie di rapida marcia francese; il filosofo ha una frase burbera e lapidaria.

Le scene più importanti del I atto

Il segno distintivo di Bohème è nell’incessante intrecciarsi di azioni ed atmosfere che dà a Puccini un nuovo titolo, quello di Prestigiatore. Tutto sembra il prodotto di un’improvvisa ispirazione, ma analizzando, questo non è altro che un piano ben organizzato con una sua coerenza musicale e dei contrasti musicali. Voglio ricordare i vari temi dei “bohémiens” e di Rodolfo, in funzione di ritornelli in mezzo ad un continuo fluire di idee, episodi a sé stanti. Vi sono: una graziosa descrizione delle fiamme saltellanti che divorano il manoscritto di Rodolfo, accordi di quinta e sesta sovrapposti con sapore di bitonalità – sol bemolle maggiore contro mi bemolle minore.

Ricordiamo la deliziosa canzone di Natale Quando un olezzo, di sapore arcaico con le sue quinte parallele a mo’ di organum, e reminescenze di un noèl francese. Con il timido bussare di Mimì l’atmosfera cambia di colpo: l’orchestra insinua furtivamente e lento, il tema di lei e ci dice chi è che bussa.

Le luci sfavillanti della prima metà dell’atto si abbassano, diventando calde e soavi. Si dispiega la scena d’amore e gli archi prendono il posto dei legni, le tonalità diventano più stabili e l’effervescente parlato dei quattro bohemièns fa luogo a melodie lente e sostenute.

La seconda metà dell’atto I

Questa seconda metà del primo atto ci fa capire il climax poetico pucciniano, costruito per gradi fino alla scena d’amore, comincia con una conversazione svagata, seguendo sempre il tema della malattia di Mimì, un sinistro presagio.

Le incalzanti domande di Rodolfo e le brevi risposte della fanciulla son solo chiacchiere. Ma mai chiacchiere ebbero una veste musicale più incantevole.

Una frase spezzata di arioso, qualche pausa, un leggerissimo ostinato affidato al pizzicato degl’archi, questo è tutto. Sentiamo quasi all’unisono il battito dei cuori dei due giovani amanti. Fantastico. Unico.

Successivamente vi è la ricerca della chiave perduta: ancora un banale incidente, poi la musica si fa ricca di calore e sostanza, e porta con una dolce transizione alla parte centrale del duetto, cioè alle due arie di cui abbiamo già parlato.

Puccini ora, con sottile senso d’equilibrio, cambia atmosfera, fa seguire immediatamente due arie di un duetto vero e proprio. Ancora i due amanti non hanno cantato assieme, cosa che avrebbe potuto generare monotonia. L’azione però è disturbata dagli altri bohemiéns che aspettano Rodolfo in strada.

Dopo questa interruzione il duetto che segue, costruito interamente su reminiscenze dell’aria di Rodolfo, unisce infine gli innamorati in un abbraccio appassionato al suono del tema dell’amore: Talor dal mio forziere….

Essi escono lentamente dalla scena, mentre l’orchestra intona la melodia della Gelida manina, sussurrandola. E purtroppo dobbiamo dire che questa frase scritta dal Maestro in “pp perdendosi“, molte volte è ignorata da parte dei cantanti ed alcuni tenori hanno anche voluto correggere il Maestro raddoppiando il do acuto di Mimì, mentre la loro nota finale dovrebbe essere in mi, una sesta sotto.

La delicata poesia di questa scena, Puccini non la superò mai.

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Le scene più importanti del II atto

Analizziamo ora il Secondo atto, quello del Quartiere latino. Ad eccezione del valzer di Musetta, non ha una inventiva altrettanto memorabile del primo atto. Il suo maggior rilievo è nella evocazione della vigilia di Natale su un boulevard parigino. Con l’interesse che si sposta continuamente dalla folla ai solisti e viceversa, unendosi poi tutti nel gran finale della parata militare.

E’ in realtà in contrasto con la dolce e tenera intimità del primo atto, questa sua musica All’aperto. Ricorda l’aria vibrante ed allegra di una fiera natalizia.

Questa apparente confusione con le scene che si succedono le une alle altre, non inficia in alcun modo lo spessore musicale consistente in quattro sezioni distinte, ognuna con il proprio materiale tematico, anche con interferenze dall’una all’altra e con le ultime tre scene radicate in tonalità ben definite.

L’atmosfera generale è subito creata dal tema della vigilia di Natale enunciato da tre trombe – marcatissimo – e sostenute dalle grida del coro. Nelle scene successive troviamo da un lato la musica del Quartiere latino, le multicolori grida della strada, le eccitate accoglienze dei ragazzi a Parpignol ed ai suoi giocattoli, e dall’altro i lirici episodi nei quali emergono i bohémiens.

Notiamo il pigro tema della passeggiata e l’estatico: “Dal mio cervel“, di Rodolfo, che varia abilmente il Leitmotiv – del poeta. Un fatto che in teatro spesso non si bada è quando Rodolfo presenta la sua ragazza agli amici: “Questa è Mimì gaia fioraia“, e l’orchestra suggerisce il tema del presentimento di morte del III atto.

Le sezioni II e III

La seconda sezione apre con l’entrata di Musetta con una tonalità di la bemolle completamente dominata dal tema di lei.

Con la terza sezione in mi maggiore arriviamo al centro lirico dell’atto, costituito dal seducente valzer di Musetta, cantato prima come assolo – anche se con le solite interruzioni degl’altri personaggi – e più tardi ripetuto in sestetto a chiusura della scena. Unico pezzo d’insieme è il sestetto, un brano ammirevole, ma Puccini non affronta i caratteri individuali. Solamente Musetta è dipinta con il suo melodizzare a lunghi intervalli e la sua rapida sillabazione in “staccato”.

Sebbene il fatto che Marcello raddoppi la melodia del valzer, và indubiamete inteso come una sua capitolazione davanti alle seduzioni della sua volubile amante.

Il finale dell’atto è abilmente legato al rullo dei tamburi della parata che si avvicina – ma fuori scena – ed alle note del valzer che si spengono lentamente. Quest’ultima sezione è basata su un’autentica marcia francese del tempo di Luigi Filippo. E raccoglie a mo’ di mosaico i frammenti dei temi precedenti.

Il III atto

Quando ci troviamo dinanzi al terzo atto della Bohème di Puccini ogni discussione diventa oziosa: la bellezza di quelle pagine s’impone e, ciò che più conta, la commozione ci afferra e ci dispensa, ipso facto da ogni altra cavillosa considerazione.

Egli ha sentito la musica di quest’atto introspettivamente, ha sentito i personaggi, si è realmente commosso e di contro è riuscito a commuoverci. Il primo accenno lo troviamo nell’introduzione orchestrale, che evoca una pallida mattina di febbraio con mezzi che non potrebbero essere più semplici ed efficaci. Su una quinta dei violoncelli in tremolo, che si prolunga come pedale per oltre cento battute, è una successione di quinte parallele dei flauti e dell’arpa che suggeriscono il cader della neve.

Come nel terzo atto dell’opera Manon Lescaut un momentaneo tocco di gaiezza è introdotto dalla comparsa del lampionaio, ma avremo un perfetto quadro della situazione nel momento in cui noi vedremo le luci dei cabaret e sentiremo i canti ed il suono del valzer di Musetta, coniugarsi perfettamente con la musica gavoteggiante delle lattivendole e la presenza dei doganieri.

Scene successive

Nelle scene successive altri lineamenti si aggiungono ai tratti di Mimì e Rodolfo. Duettando con Marcello: “C’è Rodolfo?“, con le sue frasi discendenti, gli esitanti sincopati e le nervose terzine, la fanciulla palesa la sua angoscia per i mutati sentimenti dell’amante.

D’altro canto, vediamo Rodolfo passare attraverso sentimenti diversi, impazienza, amarezza, gelosia; ma obbiettivamente la musica qui non esprime con chiarezza questi sentimenti, né tantomeno è ispirata, tranne per la sezione in minore: “Mimì è una civetta“, un lamento appassionato sulla vena di: “Manon, sempre la stessa“, di Des Grieux.

Ora Rodolfo sopraffatto dalla disperazione, rivela a Marcello la mortale malattia di Mimì, qui Puccini si mostra all’altezza della situazione con: “Mimì è tanto malata“, questo melodiare molto scuro dell’orchestra ci suona come una campana a morto. La tensione in scena aumenta in quanto Mimì, ascolta non vista le parole di Rodolfo ed apprende quale triste fine l’attende. La musica per l’addio definitivo: “Addio dolce svegliare“, è tolta dalla canzone: “Sole e amore“, scritta da Puccini nel 1888 per la rivista “Paganini”.

La canzone viene ripetuta due volte e con un efficace contrasto nella ripresa, quando il duetto si muta in quartetto per l’irrompere sulla scena di Musetta e Rodolfo trascinando anche il loro furioso battibecco, l’ennesimo dei loro eterni litigi. L’atto termina in un clima tranquillo sulla falsariga del primo, con Mimì e Rodolfo che si avviano all’uscita della scena: “Mano nella mano”.

Il IV atto

Analizzando ora il quarto atto della Bohème di Puccini troviamo la scena e la struttura del primo, con la differenza che questa volta la prima metà dell’atto ha un che di febbrile, un’allegria sopra le righe, come se i quattro bohémiens presentissero vagamente l’imminente tragedia nascondendo il loro disagio in una ilarità artificiale.

Ora i ritmi sono più nervosi, le frasi più frammentate e l’orchestrazione più rude, a volte aspra, con gli ottoni frequentemente in azione, specie dopo che Schaunard e Colline hanno raggiunto gli altri due amici. Puccini, però prima di immergersi in questa atmosfera di forzata gaiezza, inserisce uno di quei suoi quadretti poetici tanto caratteristici del suo stile drammatico. Cioè il grazioso episodio in cui Rodolfo e Marcello contemplano con nostalgico affetto gli oggettini che ancora conservano delle loro infedeli amanti.

Lo squisito duetto, tenero e sognante, costituisce una momentanea evasione dalla realtà e Puccini sembra sottolineare il suo carattere parentetico ossia di parentesi, in questo contesto di parole. Dopo aver riassunto in un breve postludio orchestrale – un melanconico stato d’animo – la melodia viene ripresa in ottava dal violino solo e violoncello solo, echeggianti rispettivamente le voci di Rodolfo e Marcello che l’autore ci riporta a terra con il: “Che ora sia“, di Rodolfo.

Con poche eccezioni: una il duetto di cui abbiamo testè parlato, la musica del quarto atto e fatta da reminiscenze. Procedimento aspramente avversato agl’inizi, da critica e pubblico.

La narrazione dell’orchestra

Ma il modo con cui Puccini impiega temi e motivi dei primi due atti – allegri – nel nuovo contesto è psicologicamente sagace e logico. Ora il dramma ci viene narrato principalmente dall’orchestra. Basti citare il violento scarto dall’accordo di si bemolle a quello di mi minore quando Musetta entra in scena inaspettatamente portando la notizia dell’imminente arrivo di Mimì. O la seguente versione del Leitmotiv di Mimì, ormai l’ombra di se stessa, affidata al corno inglese ed alle viole sui brividi del basso. O ancora il successivo racconto di Musetta del casuale incontro con la fanciulla morente, accompagnato da sincopati che sono come battiti spasmodici di un cuore angosciato.

Ora l’orchestra rivela allo spettatore quello che gli stessi personaggi ancora ignorano. Così l’improvviso passaggio dal re bemolle maggiore al si minore dopo le ultime parole di Mimì, ci dice già che il suo sonno non avrà risveglio. Quando poi verso la fine dell’opera Rodolfo chiede in tono di sgomento: “Che vuol dire quell’andare e venire.. quel guardarmi così?…“, l’orchestra sola gli dà la risposta, con la sua straziante trenodia.

Il finale

Puccini non sarebbe stato Puccini se non avesse immortalato gli ultimi momenti di Mimì con una delle sue più ispirate melodie mai uscite prima dal suo “essere” di poeta e musicista. Il “Sono andati“, è l’incarnazione della tristezza, con una sua linea vocale che discende per un’ottava tutti i gradi della scala fino al do basso del soprano, incupita dal raddoppio dei violoncelli e sostenuta dal singhiozzo di funebri accordi.

Più invecchio, più mi convinco che La bohème è un capolavoro e che adoro Puccini, il quale mi sembra sempre più bello. (Igor Stravinsky)

Egli ripete quindi questo tema così penetrante nell’epilogo orchestrale. Proprio alla fine dell’opera, dove esplode a piena orchestra con tutta la sua forza. Introdotto dagli accordi degli ottoni, che si abbattono sullo spettatore come una lama di una ghigliottina.

Dopo la vibrante melodia in do minore, Mimì con le sue ultime forze canta l’ardente frase: “Sei il mio amor“. Via via che la vita l’ abbandona, la musica diviene più trasparente e tenue. Si riduce poi ad un sussurro quando la fanciulla ricorda il suo primo incontro con Rodolfo in quella lontana notte di Natale. In quest’attimo l’orchestra ripropone la frase della: “Gelida manina“, con colori di incorporea bellezza.

Davvero pochi finali d’opera, compreso quello della Traviata, arrivano ad uguagliare il pathos della “Bohème”, ed il suo potere di commozione.

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Gianni Schicchi (opera di Puccini) https://cultura.biografieonline.it/gianni-schicchi-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/gianni-schicchi-puccini/#comments Wed, 23 Sep 2015 14:05:36 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=15139 Gianni Schicchi” è una delle opere più celebri del Maestro italiano Giacomo Puccini. Si tratta di un’opera in un atto, su libretto di Giovacchino Forzano. Essa fa parte del Trittico, nome con cui sono conosciute tre opere in un atto pucciniane: Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi, appunto. La prima assoluta di quest’opera ebbe luogo negli Stati Uniti, al Metropolitan Opera House di New York, il giorno 14 dicembre 1918. Il Maestro concertatore e Direttore d’orchestra fu Roberto Moranzoni.

La prolusione che segue (che comprende le genesi dell’opera, un riassunto della trama e l’analisi musicale) è stata redatta dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste.

Gianni Schicchi

La trama vien estrapolata dal 30° canto dell’Inferno, dove Dante e la sua guida, discendono all’ottava bolgia popolata dai falsari di parole, di persone e di monete. Qui vedon “due ombre smorte e nude – che mordendo correvan di quel modo – che  ‘l porco quando dal porcil  si schiude“.

La prima ombra è quella di Mirra, figlia del Re di Cipro, che avendo concepito un’azione incestuosa con il padre, raggiunse il suo scopo fingendosi un’altra.
L’altra ombra “o in sul nodo – del collo l’assannò, – si che’, tirando  – grattar li fece il ventre – al fondo sodo.”  Quell’ombra è quella di Gianni Schicchi:

quel folletto è gianni schicchi
e va’ rabbioso altrui così conciando

Il peccato di Schicchi è quello di aver osato

Per guadagnar la donna della torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma

Il personaggio

Gianni Schicchi fu un personaggio storico che commise realmente il delitto per il quale Dante Alighieri lo collocò nel suo Inferno, immortalandolo. Narra la storia che quando il ricco Buoso Donati morì, il figlio Simone fu assalito dalla paura che il padre avesse lasciato tutto ai frati di Signa, ossia tutti i suoi beni, in espiazione delle cattive azioni compiute in vita – avendo egli disonestamente accumulato grandi ricchezze.  Simone, prima di rendere nota la morte del padre, consultò un certo Gianni Schicchi, un fiorentino vicino alla famiglia Cavalcanti, ghibellina, noto in città come un abile mimo e simulatore.

Lo Schicchi si offrì di impersonare Buoso in punto di morte e di dettare un testamento secondo i desideri di Simone, e per questo ebbe la ricompensa di una bella mula: o
donna della torma“, secondo Dante. Scorrendo un’altra edizione e naturalmente versione, si legge che lo Schicchi facendo testamento avrebbe lasciato “la più bella mula di Toscana“,  e un grosso legato a sé medesimo.

Il Maestro Giacomo Puccini, mise in musica, questa versione, “gli garbò di più“!

Dante illuminò Puccini? O Giovacchino Forzano?… Nel sceglier la burla di Gianni Schicchi vestito con i  panni di Buoso Donati!

Fantasmagorico è l’ultimo atto – unico del trittico – musicato con impari bellezza, sia per lo stile melodico e prevalentemente diatonico che per un alternar di farse melodrammaticamente argute – dalla vis comica, unica ed irripetibile.

Gianni Schicchi

La genesi dell’opera

L’opera in un atto si avvale del libretto di Giovacchino Forzano, che costituisce l’ultima parte del Trittico. Egli ebbe l’importante ruolo di persuadere Puccini, circa la fattibilità di musicare un soggetto dantesco come l’episodio di Gianni Schicchi, personaggio condannato alle fiamme eterne per il peccato di falsa testimonianza.

L’argomento sicuramente non poteva esser migliore, per chiudere come terza opera in quanto ad eleganza e buffoneria coniugata ad intelligenza, brillantezza e ribaltamento di situazioni, degna conclusione di questo polittico Pucciniano, tanto voluto e cercato, tant’è che Puccini scriveva al librettista:

Dopo il Tabarro di tinta nera / sento la voglia di buffeggiare. / Lei non si picchi / se faccio prima – quel Gianni Schicchi“.

L’opera impegnò il Maestro dal luglio del 1917 all’aprile del 1918, ma durante tale periodo la sua incessante creatività e la voglia di terminare, lo portò a chiudere la stesura della “SUA SUOR ANGELICA” (vedere il carteggio Puccini–Forzano).

Per la sua “Angelica” si avvalse dei consigli di sua sorella Badessa Agostiniana, per capire  la vita ed il mondo claustrale, mentre per i canti e le musiche sacre, ricorse al suo buon amico Don Pietro Panichelli, che già in Tosca ed in altre produzioni aveva dato la disponibilità.

Fu rappresenta al Metropolitan Opera House di New York, il 14 dicembre 1918, senza la presenza del Maestro, e fu proprio la chiusura  con il Gianni Schicchi a riscuotere il maggiore successo, persino indispettendo lo stesso Puccini  che, invece, riteneva Il Tabarro un lavoro innovativo e  Suor Angelica un’opera di grande profondità introspettiva.

Nel gennaio del 1919 precisamente il giorno 11, il Trittico ebbe la sua prima italiana, al Teatro Costanzi di Roma, sotto la direzione del Maestro Gino Marinuzzi. La denominazione de: “Il Trittico“, è dovuta al pittore Marotti, amico personale  di Giacomo Puccini, che fu di completo gradimento del musicista.

Voglio ricordare che proprio in occasione delle rappresentazioni del Trittico, i rapporti del compositore con Arturo Toscanini divennero assai aspri, al punto che Puccini espressamente interdisse la direzione delle tre opere al celebre direttore, assumendo un atteggiamento molto personale, di cui non cito in questa mia prolusione.

Giacomo Puccini
Foto di Giacomo Puccini

Giacomo Puccini ebbe un rapporto di amore/odio con Gianni Schicchi; fin troppo evidente che egli preferisse gli argomenti drammatici e tragici, per altro meglio collocati nella temperie decadentista, ma si evince dalla sua voglia di vivere e di far allegria che il compositore amasse gli episodi burleschi, come diversivi, ed anche all’interno di grandi vicende.

Non a caso il musicista insiste perché nella stesura finale, il grottesco prevalga sul buffo e non si preoccupa, anzi sottolinea, taluni aspetti macabri, primo fra tutti l’incombente presenza del cadavere in scena. Anche i risvolti morali sembrano avere conquistato l’attenzione di Puccini: l’avidità di Buoso e la cruenza della pena del taglio della mano, da comminare ai falsari.

Il libretto è insolitamente meticoloso nell’informarci circa l’età e i rapporti di parentela dei personaggi, in particolare della famiglia Donati; guelfa, non pochi in relazione alla breve durata della composizione; il motivo è la volontà di rendere chiaro l’asse ereditario, essendo il testamento di Buoso l’elemento centrale della vicenda e l’oggetto dell’inganno di Gianni Schicchi.

I toscanismi abbondano come i riferimenti storici, architettonici e paesaggistici. Esplicitamente, Puccini aveva dichiarato di voler realizzare un’opera  brillante che superasse Die Rosenkavalier (Il cavaliere della rosa) di Richard Strauss; in Gianni Schicchi, così come nell’opera straussianna, i personaggi sono numerosi e variegati sotto il profilo vocale; tuttavia lo sviluppo è centrato sul protagonista del titolo (baritono), su Lauretta, figlia dei questi (soprano) su Rinuccio Donati (tenore) figlio di Buoso e futuro genero di Schicchi.

La struttura musicale è didascalica e solo apparentemente semplice; il breve preludio presenta i due temi contrapposti: quello del lutto e quello della meschinità, variato da quello della burla.

I momenti più truffaldini sono sottolineati da un’orchestrazione che privilegia le ance, il solo episodio sentimentale – spiegato – l’aria di Lauretta, per il resto attinge, viceversa al repertorio coloristico più tardo-romantico.

Un terzo elemento tematico è quello dell’inganno e viene  proposto da Rinuccio nell’atto spesso di prospettare ai parenti l’intervento di Schicchi.

Notevole anche l’affinità che Puccini sottolinea tematicamente, tra Legge e Medicina, riservando materiale molto simile ai due rappresentanti delle discipline, il notaio Ser Amantio da Nicolai e il medico Maestro Spinelloccio,  entrambi beffati dallo Schicchi.

Trama in breve

Firenze 1299: Buoso Donati  è appena spirato e attorno al letto di morte i suoi parenti sono assorti in preghiera.

Corrono voci che  Buoso abbia destinato in beneficenza i suoi beni ai frati di Signa, viene letto il testamento e, quel  che sembravan sospetti, vengono confermati con grande disappunto dei parenti.

Rinuccio è il figlio di Buoso ed è  fidanzato di Lauretta, figlia di Gianni Schicchi; conoscendo l’astuzia del futuro suocero, suggerisce ai propri parenti di ricorrere a questi per escogitare qualche stratagemma: “Avete torto! – È fine … astuto…“.

Zita, soprannominata “La Vecchia” , alla vista di Schicchi, lo rimprovera per le modeste origini, e questi, offeso, se ne sarebbe andato, se non fosse per le tenere suppliche di Lauretta:  “O mio babbino caro“. (Romanza)

Gianni ha in mente un piano: contraffacendo la voce di Buoso, con cui risponde al dottor Spinelloccio, avvalorando la tesi che l’uomo è ancora in vita.

Viene  convocato d’urgenza il notaio: “Si corre dal notaio” (Romanza) e  Schicchi si dispone nel letto di morte di Buoso, dettando il nuovo testamento, e, truffaldinamente, destina a sé  la casa di Firenze, la più bella mula di Toscana, ed i mulini.

Naturalmente i parenti di Donati non possono protestare senza svelare la truffa : “Addio, Firenze, addio, cielo divino“. (Romanza)

Alla fine della commedia vengon tutti scacciati dalla casa che ormai Gianni assume come propria, mentre i due giovani fidanzati amoreggiano felici intonando la romanza : “Lauretta mia, staremo sempre qui“; il protagonista, rivolgendosi al  pubblico, invoca l’attenuante di avere agito nell’interesse dei due giovani e del loro amore.

Analisi musicale

Stilisticamente Gianni Schicchi, impressiona in quanto dà la prova delle capacità del Maestro, ad adattare il suo stile temprato in opere tragiche, seppure di un romanticismo esasperato, al più puro spirito della commedia.

Difficile pensare ad altro compositore capace di esprimere il suo sentirsi “zinghero”, e commediante, in un lavoro così toscano e specifico come il Gianni Schicchi.

La sua musica sbalordisce in quanto il Puccini sa creare per ciascuna sua opera un climax, ed una personalità coniugata all’abilità, che appartiene solo lui.

Osserviamo il prevalere dei tempi  rapidi nella musica e dei ritmi netti ed incisivi per lo più in 2/4 e 4/4, escluso la colorita partecipazione dei due giovani, gli altri son tutti temi e motivi che mostrano concisione e contorni esatti. Lo stile melodico e prevalentemente diatonico, contrassegnato da intervalli ampi e da frasi vocali che iniziano in levare.

Ricordiamoci che l’opera inizia in si bemolle e finisce in sol bemolle maggiore. Il maggiore è onnipresente nella tonalità con i bemolli. Il maestro si volge al minore per sottolineare l’ipocrisia nel lamento dei parenti di Buoso, o per far capire la loro disapprovazione per l’inganno subito da Gianni Schicchi.

Analizzando la partitura notiamo che gli strumenti dominanti sono “i legni “; gli archi vengono usati per dare espressività al canto dei due innamorati, usati sempre nelle opere Pucciniane quale tocco leggero e trasparente, in questo caso assumono aspetto settecentesco. Nelle scene d’insieme i robusti massicci “tutti”, si odono deliziosi passaggi di musica da camera di stile comico.

Come sempre nelle opere del Maestro, l’organico orchestrale è completo: legni a tre, con ottavino, corno inglese e clarinetto basso, 2 fagotti, quattro corni, tre trombe, quattro tromboni, arpa, celesta, una campana a morto, timpani e parecchi strumenti a percussione usati per gli effetti grotteschi.

Lo Schicchi ha due arie : tutt’e due estremamente caratteristiche, forse non son proprio eccezionali dal punto di vista melodico, ma garbate ed  intriganti.  Nella prima sottolineamo le arie del “corriamo dal Notaro“, illustrando gli aspetti della natura dello Schicchi, notiamo l’estrema volubilità ed energia nell’allegro iniziale in re maggiore, abilmente Puccini manipola i temi del notaro e dell’avvertimento,  e notiamo il suo macabro umorismo nel successivo in do minore con quegli accordi che sfilano come automi ricordano la canzone “della Frugola nel Tabarro” ed ha anche, una sostanziale somiglianza con il monologo di “Michele“, entrambe  hanno la quadratura di una danza e si basano su di un’idea di carattere processionale in do minore, entrambe nel momento top, la voce si eleva improvvisamente in una quinta, dal do al sol, con dissonanze un po’ aspre.

Sarebbe logico chiedersi il perché della somiglianza di linguaggi che possiamo notare anche in Otello e Falstaff, sembrerebbe che i due massimi esponente del melodramma cercassero di parodiare la loro tragicità per ritrarre un personaggio comico.

Mentre nella seconda aria dello Schicchi, egli ricorda ai parenti di Buoso, la tremenda pena per i falsificatori di testamenti; aria di una vis comica unica e colma di ironia, lo Schicchi intona:    Addio Firenze, addio cielo divino
Io ti saluto con questo moncherino
Io vo’ randagio come un Ghibellino

melodia con un lacrimoso addio alla città amata, e, minacciosamente ricordando a tutti, l’immaginario moncherino.

Questo tema non è propriamente Pucciniano, è parzialmente modale ed emana un profumo di canzone popolare toscana. Comicità unica e sfrenata, la troviamo nella scena successiva, quando Schicchi detta il testamento al Notaro tra il cantato ed il mezzo parlato, tenendo in scacco i parenti impazienti di sentire pronunciare il loro nome, per sapere di cosa potranno disporre dopo la dettatura.

La bravura del baritono sta proprio nella capacità di cantare in falsetto e quasi senza fiato, richiesta anche in altre scene, interpretare Schicchi significa possedere un rapido intuito  di caratterizzazione vocale; per non parlare poi, di una indispensabile agilità istrionica.

Voglio anche ricordare l’uso del Leitmotiv, che il Maestro considerò tema adatto anche alla dolce Lauretta, perché nella scena successiva all’arrivo della fanciulla col  padre, l’orchestra lo riprende in una combinazione contrappuntistica, con il tema di Schicchi, fornendo il materiale per la famosa aria: “O mio babbino caro“, musica deliziosa in un fluente ritmo di “siciliana in 6/8“, che nella sua semplicità armonica non abbandona il la bemolle.

Voglio anche notare l’uso felice nella scena della dettatura del testamento, dove il borbottio fitto e meccanico vien accompagnato dal preambolo latino in contrappunto a quattro parti. Nulla di meglio di questo procedimento scolastico avrebbe potuto evocare il tipo del leguleio erudito.

Non fa quindi  meraviglia, questo mio ricercar lo SCHICCHI ghibellin-randagio, dagl’INFERI sin A FLORENTIA, per poter descriver colui che, ancora oggi, incarna l’ultimo supremo esempio, dell’umorismo operistico italiano.

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Madama Butterfly (Puccini): analisi musicale https://cultura.biografieonline.it/analisi-madama-butterfly-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/analisi-madama-butterfly-puccini/#comments Mon, 25 May 2015 10:05:52 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14373 Madama Butterfly è una delle più celebri opere del compositore italiano Giacomo Puccini. Quella che segue è un’analisi musicale, redatta per noi dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste. Questo che state leggendo è il seguito di un precedente articolo, in cui è possibile leggere la storia e la trama dell’opera Madama Butterfly; nello stesso articolo è presente l’elenco dei personaggi.

Madama Butterfly - opera di Puccini

Analisi musicale dei tre atti di Madama Butterfly

Nel primo atto Puccini compie il suo massimo sforzo di ricostruzione pittorica ambientale, specialmente quando l’orchestra, in cui predominano i procedimenti, i ritmi, i temi e le scale orientali, procede alla coloratissima presentazione del parentado di Butterfly; mentre, com’è naturale, Pinkerton e Sharpless cantano secondo i tradizionali moduli Pucciniani.

Nel secondo e terzo atto si fa meno invadente l’ambientazione orientaleggiante, cui era dedicata tanta parte del primo: è come se Cio-cio-san, in una «casa americana», come ella dice, faccia sempre più spesso ricorso a invenzioni melodiche d’impronta occidentale, mentre la scrittura orchestrale e il gusto timbrico rimangono costantemente improntati a una ricercatezza estrema, a una sagacia di dosaggi, a una sensibilità per il particolare che molto debbono alla cultura musicale francese, (Debussy, ma anche Ravel).

La costruzione a tasselli, a brevi episodi, propria della prima parte dell’opera cede a più larghe campiture, a “quadri drammatici”, incentrati su situazioni emotive di ampio respiro, che inducono Puccini a strutturare l’atto secondo moduli, se vogliamo, più tradizionali.

Pensiamo alla celebrazione della speranza nell’aria “Un bel dì vedremo“, allo scontro tra realtà e illusione nel duetto Butterfly-Sharpless, all’affetto materno e all’ipotesi del suicidio raffigurati nella tragica sarabanda di: “Che tua madre“, come anche alla disposizione d’animo, fiduciosa e disperata della protagonista: “espressa dal coro a bocca chiusa”.

Notevole anche l’ampia pagina sinfonica, la più ambiziosa di tutta l’opera, che apre il terzo atto, in cui Puccini dà fondo a tutte le sue risorse di sapiente orchestratore, nonché di abile “costruttore a frammenti”. L’attesa di Cio-cio-san è descritta dall’orchestra attraverso un sagace impiego dei cosiddetti “ritorni logici“, dei temi degli atti precedenti, quasi un incomposto e intenso riaffiorare alla memoria e alla coscienza della donna di tutto un mondo di affetti, di momenti perduti, di sogni.

Analisi musicale generale

Nel suo insieme, il linguaggio musicale di Madama Butterfly non si allontana in modo clamoroso da quello di Bohème e Tosca: l’elemento di distinzione tra questa opera e le precedenti non è infatti da cercarsi nel melodismo puro e semplice, ma anzitutto nel cosiddetto “aggiornamento” armonico, che investe la scrittura orchestrale, (solo in parte anche la condotta vocale), facendo tesoro delle esperienze dei musicisti francesi.

Tuttavia il tessuto sinfonico Pucciniano, investito da una rigogliosa inventiva melodica, rivela l’autore italiano e si distacca nettamente dalla frantumazione cellulare di quello debussiano. E se non inedita era l’acclimatazione esotica, con l’uso di scale pentatoniche, esatonali, incomplete, ritmi di danza caratteristici, timbri strumentali, “locali”, assolutamente nuovo è il modo con cui Puccini si pone di fronte all’elemento ambiente, diverso il ruolo che assegna allo “sfondo”, in questa rinnovata drammaturgia.

Con Butterfly, il Maestro sente per la prima volta la necessità di una documentazione larga e minuziosa, e se inventa ex novo alcuni temi orientaleggianti, si cura che posseggano il particolare colorito di quelli originali, sì da costituire, musicalmente, un autentico polo d’attrazione – rispetto alle invenzioni melodiche “‘occidentali”.

Inoltre la quantità degli episodi, lo spazio concesso a questo tipo di pittura ambientale è enorme, specialmente nella versione primitiva: i dettagli di scena assumono un valore: “in sé”, sostituiscono l’azione, che, difatti, ristagna per lasciar posto a queste diffuse pennellate che sanciscono l’importanza dell’elemento decorativo, addirittura al di sopra della patetica vicenda umana.

Il ritmo di Butterfly , fin dal primo atto, è la lentezza quasi esasperante, con cui ogni momento della giornata, ogni pensiero, ogni turbamento, è dilatato come attraverso una lente d’ingrandimento, diventando un evento di straordinario rilievo e importanza, come le cose, le piccole cose che accompagnano la quotidiana vicenda della donna: una cintura, un piccolo fermaglio, un ventaglio, la lama con cui il padre si è suicidato, l’obi che vestì da sposa.

Madama Butterfly - una scena
Madama Butterfly – una scena

Questo tipo di frammentazione analitica dei vari momenti della storia, va di pari passo a una sorta di diffusione capillare della presenza di Butterfly in tutta l’opera, anche quando materialmente ella non compare. Essa è l’unico centro d’interesse, il costante riferimento per tutti gli altri personaggi, che vivono solo in funzione di lei.

Già il primitivo secondo atto si presentava come un lungo monologo interiore della protagonista femminile; le presenze del console e di Yamadori, gli interventi di Suzuki sono da leggersi come espedienti pratici, in omaggio a naturalistiche convenzioni teatrali: in effetti, Puccini, ce li fa sentire niente più che come fantasmi della memoria di Butterfly, che si presentano a lei provocandone moti e passioni, ma non posseggono una loro autonomia, né una spiccata caratterizzazione musicale; essi sono pervasi dallo stesso slancio, dalla stessa tenerezza di Butterfly (il buon console come l’antipatico Pinkerton, Yamadori come Kate: «Sotto il gran ponte del cielo/ non c’è donna di voi più felice»), cantano con gli accenti con cui ella li ricorda, li contempla, li trasfigura nella sua tenera mente che si rifiuta alla realtà.

Per questo ho ritenuto giusto definire quest’opera come uno stupendo “monodramma”, in cui la musica non si cura di altri personaggi, di un loro coerente svolgimento e verità psicologica, ma solo della storia interiore dell’unica protagonista; un monodramma in cui i parametri del teatro naturalista, adottati dal libretto, vengono fatti saltare attraverso il linguaggio musicale.

Giacomo Puccini
Giacomo Puccini

Assistendo a “Madama Butterfly” di Puccini, siamo di fronte a un dramma eminentemente psicologico, anzi psicoanalitico: fu questo davvero che sconvolse i frequentatori dei teatri d’opera del primo Novecento. E ancor più che le precedenti opere pucciniane, Butterfly era l’apoteosi del mito femminile, così cara a tutta la cultura di fine Ottocento, realizzata con i moderni metodi dell’analisi.

Strano che questa storia freudiana fosse a scriverla un italiano e non un musicista di estrazione mitteleuropea, come ad esempio Richard Strauss; ma i tempi per creare un teatro che non fosse di emblemi, ma di uomini e donne palpitanti, “veri”, non erano ancora pronti. Allora nella soddisfatta Germania di Guglielmo II, la borghesia si recava all’opera con l’idea di trovare raffigurato un mondo platonico, iperumano a cui astrattamente tendere.

Allora i musicisti cercavano la via dell’identificazione fra storie rappresentate e pubblico presente in sala; ma Puccini si spingeva con questa opera “subdolamente antica” ancora più in là: egli indicava i modi attraverso cui sarebbe giunto, assai più tardi, a comprendere il suo estraniamento dalla realtà.

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Madama Butterfly https://cultura.biografieonline.it/madama-butterfly/ https://cultura.biografieonline.it/madama-butterfly/#comments Mon, 25 May 2015 09:33:19 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14366 Nel libretto e nello spartito l’opera Madama Butterfly è definita “tragedia giapponese“. Composta dal grande Giacomo Puccini, è dedicata alla regina d’Italia Elena di Montenegro. Il libretto fu scritto da Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. Madama Butterfly è un’opera in tre atti (in origine furono due). La prima rappresentazione andò in scena la prima volta al Teatro alla Scala di Milano, il 17 febbraio 1904.

Madama Butterfly
Madama Butterfly

L’opera è ispirata al dramma “Madame Butterfly” del drammaturgo statunitense David Belasco.

Il riassunto della trama e l’analizi musicale che seguono sono state redatte dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste.

I personaggi dell’opera

  • Madama Butterfly [Cio-cio-san] (Soprano);
  • Suzuki, servente di Cio-cio-san (Mezzosoprano);
  • Kate Pinkerton (Mezzosoprano);
  • F.B. Pinkerton, tenente della marina degli Stati Uniti (Tenore);
  • Sharpless, console degli Stati Uniti a Nagasaki (Baritono);
  • Goro, nakodo (Tenore);
  • Il principe Yamadori (Tenore);
  • Lo zio bonzo (Basso);
  • Yakusidé (Baritono);
  • Il commissario imperiale (Basso);
  • L’ufficiale del registro (Basso);
  • La madre di Cio-cio-san (Mezzosoprano);
  • La zia (Soprano);
  • La cugina (Soprano);
  • Dolore (bambino, mimo);
  • Parenti, amici e amiche di Cio-cio-san, servi

Madama Butterfly - La locandina originale
Madama Butterfly – La locandina originale Ricordi

La genesi di Madama Butterfly, di Puccini

Uscito dal trionfale successo di Tosca (Roma 1900), Puccini aveva preso in considerazione numerosi progetti, avanzati per lo più da quell’autentica miniera di idee e di stimoli che fu Luigi Illica: da Tartarino di Tarascona a Notre Dame de Paris, da Memorie di una casa di morti all’ Adolphe di Benjamin Constant.

Tuttavia niente riuscì a cancellare l’impressione suscitata da Madame Butterfly vista dal musicista a teatro a Londra, anche se aveva capito ben poco del testo, recitato in inglese.

Nel 1898 John Luther Long aveva pubblicato un racconto omonimo, poi ridotto ad atto unico da David Belasco, uno dei più abili uomini di teatro americani, a cui Puccini ricorrerà anche per La fanciulla del West, subito dopo aver scritto Butterfly.

La lacrimevole storia della giapponesina sedotta, abbandonata e suicida era una vicenda umana che gli consentiva di esplicare tutta la sua capacità di commuovere, di esercitare quel “ricatto dei sentimenti” al quale le platee di tutto il mondo, allora come oggi, difficilmente riescono a sottrarsi.

La scelta del soggetto cadeva dunque su un’opera che aveva superato il fuoco del palcoscenico e che possedeva già una teatralità esplicita, di cui la musica sarebbe stata un ulteriore potenziamento. Certamente dovette molto stimolare la fantasia musicale di Giacomo Puccini l’ambientazione esotica, quell’estremo Oriente che, allo scadere del secolo XIX, aveva sostituito – nella “moda” letteraria e teatrale – le turcherie in voga nel Settecento e in età rossiniana.

Giappone: incanto e curiosità

Il Giappone si stava affacciando sulla ribalta politica internazionale, e la guerra russo-giapponese del 1905 sancirà questa volontà di emergere del paese orientale; le suppellettili, i paraventi laccati, i delicati acquerelli, alcuni vocaboli (ikebana, harakiri, kimono, obi) cominciavano a entrare nelle case della borghesia europea e a suggestionare i pittori dell’Art Nouveau e della Sezession viennese.

Madama Butterfly - nozze - matrimonio
Madama Butterfly: il momento delle nozze

Gli scrittori avevano tratto sottili suggestioni da questa terra incantata e misteriosa, delicata e terribile; ed è d’obbligo citare il romanzo Madame Chrysanthème di Pierre Loti, che fornì numerosi elementi a tutto il primo atto di Madama Butterfly, principalmente alla scena di nozze della quale non v’è traccia né nel racconto di Long né nell’adattamento teatrale.

C’erano stati, ancora nel dominio del teatro leggero, Arthur Sullivan che nel 1885 aveva musicato The Mikado e Sidney Jones con The Geisha (1896); ma su Giacomo Puccini maggiore suggestione esercitò l’Iris di Mascagni, anch’essa di ambiente giapponese, accolta con favore nel 1898.

La cornice orientale, dunque, affascinò intensamente il compositore, tanto che volle documentarsi ampiamente sulle musiche, sugli strumenti giapponesi, giungendo addirittura a citare più di una decina di temi autentici nella nuova partitura; Mascagni, invece, si era limitato a pochi spunti e aveva lavorato tutto d’invenzione.

Per la recitazione, Puccini seguì i consigli di una specie di Sarah Bernhardt nipponica, la celebre Sada Jacco; per le usanze e il décor ricorse alle indicazioni della moglie dell’ambasciatore giapponese. Una volontà di documentazione puntigliosa, di un «naturalismo disarmante», che stupisce e quasi indispone, solo al pensiero, che negli anni in cui l’opera Madama Butterfly vedeva la luce, la grande stagione naturalistica si stava consumando: nella letteratura, nel teatro, nella musica.

La composizione e le varie modifiche dell’opera

Iniziata nel 1901, la composizione procedette con numerose interruzioni; l’orchestrazione venne avviata nel novembre 1902 e portata a termine nel settembre dell’anno seguente, e soltanto nel dicembre del 1903 l’opera poté dirsi completata in ogni sua parte.

La sera del 17 febbraio 1904, nonostante l’attesa e la grande fiducia dei suoi artefici, la Butterfly cadde clamorosamente alla Scala di Milano. Il fiasco indusse autore ed editore a ritirare lo spartito e a sottoporre l’opera ad un’accurata revisione che, attraverso l’eliminazione di alcuni dettagli e l’opportuna modifica di scene e situazioni, la rese più agile e proporzionata.

Appena tre mesi dopo, il 28 maggio, Madama Butterfly venne accoltanella nuova veste con entusiasmo al teatro Grande di Brescia. Tale versione tuttavia non è quella che si ascolta oggi sulle scene, poiché Puccini, nella sua connaturata incontentabilità, ritornò ancora sullo spartito, tanto che si conoscono addirittura quattro differenti edizioni a stampa.

Ci furono alleggerimenti: la soppressione di parte delle battute “colonialiste” di Pinkerton, che ironizza sulle abitudini giapponesi; minor rilievo per la figura dello zio ubriacone Yakusidé, che si avventa sul buffet preparato per le nozze; altri piccoli tagli nel primo atto. Più vistoso lo smembramento del lunghissimo secondo atto (soluzione proposta già da tempo dallo stesso Giacosa), mentre il nuovo terzo atto veniva arricchito dalla “romanza” per il tenore “Addio, fiorito asil” e presentava varie modifiche nella scena fra il console, Butterfly e Kate.

Inoltre venne modificata la melodia d’entrata di Butterfly (che ritorna nel duetto d’amore), vennero eseguiti tagli all’aria del secondo atto “Che tua madre” e aggiustamenti alla frase di Butterfly “O a me, sceso dal trono“, nel suo canto finale “Tu, tu, piccolo Iddio“.

Nella versione definitiva del 1906 Madama Butterlfy si stabiliva nel repertorio, diventando in breve volgere di anni una delle partiture più rappresentate di tutta la storia dell’opera, anche se riserve continuano a essere avanzate dagli studiosi, non esclusi i pucciniani più convinti, come Claudio Casini, che insiste sul «manierismo» di Butterfly , o Leonardo Pinzauti, che riprende la formula dell’opera «peso piuma» (come la definì il vecchio Ricordi) negandole la qualifica di capolavoro: «un lavoro discontinuo, tenuto insieme soprattutto da un consumatissimo mestiere».

Indubbiamente Madama Butterfly , con la sua vicenda sentimentale, con i suoi personaggi esemplati sul reale, poteva apparire forse un prodotto fuori stagione, diagnosi avanzata da Claudio Sartori per giustificare il fiasco della “prima”. Tuttavia la strepitosa rivincita che l’opera ottenne nella rappresentazione a Brescia significò che, pur con un apparente “vecchio gioco”, l’autore aveva fatto centro ancora una volta.

Riassunto e trama

Atto primo

A Nagasaki, in epoca presente.

In una casa in collina il tenente della marina americana, Pinkerton, attende il corteo nuziale della sua sposa, la geisha Cio-cio-san. Durante l’attesa, Goro, sensale di matrimoni, gli mostra la casa, magnificandone gli accessori, poi gli presenta i servitori e Suzuki, cameriera di Cio-cio-san.

Giunge il console americano Sharpless (duetto “Ah!… quei ciottoli m’hanno sfiaccato!“); Pinkerton gli rivela la sua morale libertina e cinica (“Dovunque al mondo lo Yankee vagabondo“) e infine non tralascia di descrivere i pregi della futura consorte (“Amore o grillo“), dichiarando di volerla sposare secondo la legge giapponese, con il diritto di ripudiarla anche dopo un mese.

Intanto la giovane donna, ignara e innamorata, esprime la sua gioia alle amiche (voce di Butterfly: “Spira sul mar“) e, appena entrata in scena, presenta i parenti al futuro marito. Terminata la cerimonia nuziale, irrompe lo zio bonzo, maledicendo la nipote per aver rinnegato la religione degli avi (aria di Butterfly: “Ieri son salita tutta sola in secreto alla Missione“); Pinkerton lo scaccia e rimane finalmente solo con Butterfly (duetto “Viene la sera… Bimba dagli occhi pieni di malia“).

Atto secondo

In una stanza della casa Butterfly discorre con Suzuki: Pinkerton è partito, promettendo di tornare in primavera, ma da tre anni non dà notizie di sé. Nonostante i dubbi dell’ancella, Butterfly, forte di un amore ardente e tenace, è convinta di non essere stata abbandonata dal proprio marito e fiduciosa l’attende (“Un bel dì vedremo“).

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Sharpless giunge con Goro, con lo scopo di leggerle la lettera in cui si annuncia l’arrivo del tenente e il suo nuovo matrimonio con un’americana (duetto “Chiedo scusa…“), ma dopo inutili tentativi non osa riferire tale messaggio.

Intanto Goro propone a Butterfly nuovi facoltosi pretendenti, dal momento che, per la legge giapponese, la donna abbandonata è considerata di nuovo libera, ma perfino il nobile e ricco Yamadori viene respinto: ella dichiara ostinatamente di ritenersi sempre maritata.

Quando Sharpless tenta di prepararla alla notizia dell’abbandono, Butterfly gli mostra il figlio di cui Pinkerton ignora l’esistenza (“Che tua madre“). Intanto al porto sta approdando una nave americana, ed è proprio quella di Pinkerton; Butterfly la identifica col cannocchiale e, commossa, corre felice sul terrazzo seguita dalla sua ancella (“Scuoti quella fronda di ciliegio“), adorna la casa di fiori (valzer dei fiori: “Gettiamo a mani piene“), indossa per la particolare occasione le vesti nuziali e veglia tutta la notte in attesa dell’amato (coro a bocca chiusa).

Atto terzo

È l’alba (preludio orchestrale, coro di marinai). Butterfly, dopo aver aspettato inutilmente, si allontana dalla stanza col bimbo addormentato e sale a riposare. Poco dopo Pinkerton, accompagnato da una giovane donna, Kate, da lui sposata negli Stati Uniti, giunge con l’intento di prendersi il bambino – della cui esistenza è stato messo al corrente dal console Sharpless -, portarlo in patria ed educarlo secondo gli usi occidentali.

Egli contempla la casa con grande rimpianto (“Addio, fiorito asil“) e preso dal rimorso si allontana, proprio nel momento in cui Cio-cio-san fa il suo ingresso con il figlio.

Sharpless le consiglia di affidare il bambino ai Pinkerton (“Io so che alle sue pene“) ed ella a malincuore acconsente; tuttavia, ormai privata di tutti gli affetti più cari, decide di togliersi la vita. In silenzio, senza clamori, dopo aver abbracciato disperatamente il figlio (“Tu, tu, piccolo Iddio“), si uccide con un pugnale; quando Pinkerton entrerà nella casa di Butterfly per chiedere il suo perdono, sarà ormai troppo tardi.

Puoi continuare a leggere la bella analisi musicale sia tre atti, sia quella generale dell’opera, nell’articolo successivo, redatto dal Maestro Pietro Busolini: Madama Butterfly (Puccini): analisi musicale.

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Analisi musicale della Tosca di Giacomo Puccini https://cultura.biografieonline.it/analisi-musicale-della-tosca-di-giacomo-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/analisi-musicale-della-tosca-di-giacomo-puccini/#comments Thu, 02 May 2013 20:01:55 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7068 L’analisi musicale qui presente è stata redatta dal Maestro Pietro Busolini e segue l’articolo sulla genesi, la storia e la trama dell’opera Tosca, di Giacomo Puccini.

Primo Atto

Tosca pucciniana

L’azione come detto nella trama, ha inizio in S.Maria della Valle, tre battute d’introduzione in cui risuonano tre potenti accordi perfetti maggiori – si bem- la bem- mi naturale. Data la caratteristica del dramma, Tosca nel suo primo atto è diviso in tre parti, invece delle due abituali di Puccini, ciascheduna con le sua atmosfera, ed molto varia. In scena lo noteremo per tutto il tempo non ci sono mai più di due dei quattro personaggi principali, che poi son rappresentati uno alla volta in maniera di fotografarli bene e imprimerseli nella mente, il Maestro era Maestro proprio in tutto.

Si incomincia con il tema di Scarpia e si termina la prima parte del primo atto con l’arrivo di Tosca. La scena vien tenuta da Angelotti che con gesti ed atteggiamenti cerca qualcosa, questo suo arrivo è preannunciato dalla successione delle quinte diminuite, il sincopato cromatismo discendente deve, come lo voleva Puccini esprime ansietà e dolore. – Dopo l’accordo fa diesis magg-Il movimento cromatico sincopato, ritorna con tutta la forza iniziale, attenuandosi subito e dando spazio ad una breve sinfonia. Finalmente la chiave è trovata, Angelotti reprime un grido di gioia e la musica erompe sul tema di Scarpia- ff-robusto – pp.

Il sacrestano, unica figura umoristica dell’opera lo interpretiamo con i suoi tic nervosi con una croma in là – dopo due pause cade sul sol, serviranno con leggera inflessione a dipingere la sua figura, allorchè egli canterà il – là – della parola “làva”. Seguendo il sacrestano lo vediamo deporre i pennelli lavati del pittore e salendo sull’impalcato vede il paniere intatto; al primo fa- dell’Angelus il sacrestano si segna – sulla pausa coronata – si inginocchia e comincia a salmodiare sull’Andante religioso, intonando “Et Verbum caro factum est”.

Eccoci all’incontro dei due amanti, che intonano quella romanza resa famosa per le particolari frasi d’amore e che la possiamo annoverare tra le più celebri di Puccini, avendola collocata nel giusto momento del dramma. Essa consiste in quattro diverse sezioni, nella seconda godiamo quasi un a solo di Tosca: “Non la sospiri la nostra casetta“.

Ma al sentimento lirico dominante in tutta la scena, il compositore non permette di interferire nell’azione, che la fa proseguire abilmente, inframezzando dei recitativi . I duetto acquista coerenza in quanto ricorre in maniera cadenzale, il ballabile di Tosca e per – l’ordine delle tonalità delle prime tre sezioni: la bem, re bem, mi bemolle.

Terminato il duetto, l’azione scenica ha una rapidità vertiginosa, si sta arrivando all’apice cioè a momento i ragazzi della cantoria seguiti dai chierici si dànno alla pazza gioia, essi credono che lo scellerato Bonaparte sia stato sconfitto alla battaglia di Marengo, “Sfracellato e piombato a Belzebù” – queste son le grida festose che accompagnano la festa dei sacristi.

Si pregusta anche la gioia d’una serata di gala a Palazzo Farnese, con la partecipazione di Floria Tosca. Si inneggia al Re. Si conclama il “Te Deum ed il Gloria”.
Ora si sta raggiungendo uno dei più potenti effetti drammatici di tutta l’opera, quelle trovate teatrali che Puccini conosceva a meraviglia, la scena vien presa da Scarpia e dai suoi sgherri che avendo seguito le mosse dell’Angelotti. Questo lo si capisce, dal tema triaccordale terminante in scala di – mi maggiore. Scarpia aiutato dai suoi uomini comincia frugare in ogni spazio, in ogni angolo, in ogni cappella, ordinando il Te Deum di ringraziamento per la sconfitta del Bonaparte. Il barone, comincia il suo chieder al sacrestano, intimorendolo e facendolo balbettare e creando un clima di paura non indifferente.

Scarpia entra anche nella cappella Attavanti ed esce furiosamente con il ventaglio rivelatore, questa sua graduale raccolta di particolari incriminanti son trattati da Puccini col suo noto modo ricercato di indagare, tessuto appositamente per dar una valenza drammatica diversa ai vari colori dell’opera. Entra ora in chiesa Tosca che cerca e chiama Mario, quindi assistiamo ad un travolgente duetto con Scarpia, qui il Maestro da un altro saggio della sua abilità nell’insistere di un suggestivo – ostinato -, creando dopo quel magnifico disegno orchestrale di campane che fan sentire la loro melodia prima da sole e, subito dopo a intervalli, insieme all’orchestra che svolge il mistico tema dello scampanìo.

Il ventaglio vien mostrato a Tosca dall’attempato libertino,-una breve pausa coronata – conclude chiudendo le ironiche insinuazioni di Scarpia, il quale osserva con gioia satanica il mutar di espressioni nel bel volto della cantante nel veder le forme del ventaglio con lo stemma della presunta amante. Le considerazioni dianzi per le campane valgono anche per il colpo di cannone annunciante la fuga di Angelotti da Castel S.Angelo, scandendo il ritmo grandioso ogni quattro battute. Orchestra e organo svolgono a contrappunto il duplice motivo, cui se ne aggiunge uno accidentale. I coristi intonano il Te Deum, nuove campane ripetono le implacabili terzine. Nel gran finale l’orchestra intona il motivo di Scarpia chiudendo l’atto cosi’ come l’aveva aperto, con un – allargando – e, cala rapidamente il sipario – sulla penultima battuta coronata. Cosi, come lo aveva scritto e come lo voleva puccini.

Secondo Atto

Entriamo, come detto nella trama dell’opera, nella camera e nel salotto di Scarpia al primo piano di Palazzo Farnese, iniziamo due volte con gli accordi di Scarpia. Dobbiamo dire che non molte opere hanno un atto così profondamente impostato sù di una costante e progressiva tensione, diamo atto a Puccini che questo suo avventurarsi fino all’estremo limite del verismo lirico non ha inficiato minimamente il suo spessore di grande, grandissimo compositore, unico nel panorama del melodramma italiano fino alla sua morte, avvenuta nel 1924.

Ognuna delle cinque grandi scene è un progressivo, acuto, grave inasprimento dell’azione, nello scorrere del dramma.
Dalla finestra giunge il suono d’una gavotta suonata nel piano inferiore, dove si festeggia “la presunta vittoria degl’austriaci sui francesi”. Puccini voleva che fosse curata la simultaneità delle due azioni: l’apertura della finestra all’ordine del barone ” Apri ” e l’attacco del flauto interno con l’anacrusica croma di – la alla b. 3- come inizio, della gavotta suonata nel piano sottostante. Puccini escogita di sopraffare il finale della gavotta prendendo lo spunto tematico che scende giù giù, di ottava, dall’acuto al registro grave.

Il dramma continua con Sciarrone, che và a consegnare a Tosca un biglietto del barone. Segue l’aria di Scarpia, che si chiuderà sul motivo a terzine dell’inizio del secondo atto. Contemporaneamente, durante la cantata: “dalla finestra giungono le voci dei coristi e di Tosca”, arriva Cavaradossi che – apre alla seconda scena – la cui pecularietà è data dal fattore che la musica rievoca insieme due mondi diametralmente opposti. Si svolge l’interrogatorio del barone al Cavaliere, pesante e carico di cieca cattiveria – qui Puccini procede su di uno dei temi più pesanti dall’apertura del secondo atto inserendo – flauti nel registro basso ed un pizzicato di contrabbassi.

Terza scena, ingresso di Tosca, vede Mario, corre ad abbracciarlo, egli arriva a comunicarle di tacere su quanto sà circa il rifugio di Angelotti. Scarpia ordina di procedere con il Cavaliere facendolo torturare, l’orchestra segue la scena con un un marcato, pesante, sostenuto. Tosca smarrita cerca invano di capire il perché, di quella furiosa procedura del Capo della Polizia e contemporaneamente Egli inizia il suo mellifluo corteggiamento all’attrice. Scarpia continua anche con estrema cattiveria ad enunciare a Lei tutte le pratiche di tortura usate nel confronti di Mario, sperando in questo modo di convincerla a parlare e a dir tutto quel che sà di Angelotti, ponendo così fine alla tortura del suo Mario. L’orchestra intona un – andante sostenuto – inteso a caratterizzare il crudele e maligno disegno di Scarpia.

Si ode il primo ” Ahimè!…” di Mario, e nell’udirlo Tosca angosciata implora Scarpia di smetterla e Scarpia incassato il mutuo assenso di Lei, ordina a Sciarrone di sciogliere la corda e lo sgherro interroga : “Tutto?” – “Tutto” – ribadisce il maligno. Tosca implorante chiede di vedere l’amato per poterlo aiutatar con qualche frase d’amore, ella ugualmente riesce a mala pena a far giungere le sue parole; mentre Mario non cessa d’implorare: “Taci, Taci!“, l’orchestra accompagna con un – lento grave. A questo punto Scarpia pretende da Tosca la verità, ma dopo il suo ennesimo diniego Scarpia ordina una punizione ancor più cruenta!

Tosca allora si scaglia contro il feroce e malvagio barone. Dall’orchestra si sentono – i ritenuti ed i stringendo – avvicendarsi in progressione, dando alla scena un’effetto drammaticamente impressionante. Scarpia ancora non sufficientemente contento di cotanta efferatezza, ordina a Spoletta di aprire la porta affinchè Tosca oda le grida di dolore ed i laceranti lamenti
L’orchestra accompagna queste parole, vien ripetuta e la ripete, poi si attuisce così si possono udire le grida di Mario, il –p – continua a dar rilievo sonoro alle parole di Mario che non si stanca di raccomandare a Tosca il silenzio nei riguardi di Angelotti.

Scarpia continua a ordinare agli sgherri di far tacere il torturato, Tosca ancora confusa da quel che ha potuto intravedere e sentire, si siede sul divano distrutta, ma cerca ancora di commuovere Scarpia con una sequenza di – la – che sembrano campane funeree, con voce implorante scende fino al – re -, continuando con un accordo perfetto di – re min – tenuto lungamente, ora si sente ancor un’ altro lunghissimo lamento. Tosca ha un’improvviso scatto e s’alza dal divano rivelando a Scarpia il nascondiglio dell’Angelotti.

All’annuncio di Sciarrone che Mario è svenuto, Tosca chiede a Scarpia di poterlo vedere, Mario aiutato dagli sgherri, viene adagiato a terra e chiede a Tosca se ha parlato, Ella nega, ma in quell’istante Scarpia ordina a Spoletta di andare nel pozzo del giardino. Quest’ordine lo sente anche Mario, che apostrofa Tosca in maniera greve maledicendola. Cavaradossi sente pure la voce di Sciarrore che annunzia a Scarpia la sconfitta del Gen. Melis e quindi la vittoria di Napoleone, e, lancia – largamente –il suo duplice grido di -vittoria – la musica segue in – la diesis – nella ripetizione Puccini, acconsentiva che le – due minime – fossero – coronate -.
La quarta scena è focalizzata sull’odioso ricatto del barone Scarpia.

Essa è drammaticamente e musicalmente espressa da romanze contenenti quel climax di suspance, e di perversa crudeltà che caratterizzà tutta la scena del ricatto.
Tosca chiede a Scarpia in maniera sprezzante: “il prezzo della liberazione di Mario”, Scarpia, sentendo la richiesta, scoppia in una risata satanica, mentre l’orchestra accompagna la passione di Scarpia con – un’ affrettare – rallentare – le tre battute a seguire per tornare a tempo.

Scarpia non contiene piùla sua indecente libidine, l’orchestra lo accompagna con un – affrettare – una terzina di semicrome. Per sfuggirgli Tosca avendo davanti a lei la finestra aperta tenta di gettarsi, ma Scarpia non intende rinunciare a lei, ella vede passar sotto le finestre i condannati che vengono condotti al patibolo, si ode un lugubre rullio di tamburi, tutto questo spaventa Tosca e pensa a Mario, egli rimarrebbe ugualmente prigioniero di Scarpia, quindi, decide di cedere al barone. Tosca con un doloroso ed espressivo cenno di assenso si siede sul divano ed affonda tra i cuscini, Scarpia prima di avvicinarglisi, dà le ultime disposizioni a Spoletta, dicendogli di usare per Caradossi, lo stesso modo, usato con il Conte Palmieri, indi le chiede uscire e chiudere la porta.

La quinta scena è la piu macabra dell’opera, l’estrema tensione è resa attraverso una delle idee pucciniane piùbelle, tragiche, dove troviamo il climax adatto alle scene che verranno. La frase dei dieci battute intonata dai primi violini in sordina sulla quarta corda. Tosca vien da subito spinta all”idea della vendetta e della liberazione. Tosca chiede a Scarpia di vergare il salvacondotto per lei e per la persona che l’accompagnerà. Un nuovo tema, alla ripresa di esso, Tosca si avvicina alla tavola imbandita, con mano tremante, prende il bicchiere colmo di vin di spagna, offertole dal barone, lo accosta alle labbra quasi per inebriarsi, Tosca vuota il bicchiere d’un fiato. Nel rimettere la coppa sul tavolo scorge un coltello accuminato.

E’ all’attacco della b. 5 che la terribile l’idea si associa alla visione dello strumento di morte. Il suo sguardo accomuna morte e libertà dal libertino, alle cui brame Ella sente di non poter cedere. Nei suoi occhi si spegna per un attimo la luce della libertà per quella del terrore, ma con pavida cautela riesce ad imposessarsi del coltello. Ella porta la mano armata dietro la schiena, ma sentendo venir meno le forze, s’appoggia alla tavola. Scarpia le mostra il salvacondotto, e savvicina per farla sua, ma Floria Tosca in un baleno colpisce il malvagio in pieno petto. Quello è il suo bacio.

Accordi violenti ruvidi accompagnano il dialogo e drammatico di Scarpia e di Tosca . Ciò che segue è mimica: ritorno della melodia in fa diesis minore, accompagna Tosca mentre si pulisce le mani, si riassesta i capelli allo specchio, poi esegue la dolente cerimonia delle candele e della croce, orchestra riprende sottovoce i temi di Scarpia e l’amore di Caradossi. Quindi l’atto si chiude introdotto in maniera impercettibile; chiudendo – in minor – con un altro rullo di tamburi in distanza, presagio di tragedia imminente.

Terzo Atto

Commentando i precedenti due atti, tutta azione, comprendiamo Puccini nel trovar una pausa distensiva ed anche un nuova atmosfera in contrapposizione con quella cupa del dramma. L’atto Comincia evocando la gran pace che si sente dal terrazzato d’armi di Castel S.Angelo, l’orchestra comincia con l’antecipazione dell’inno trionfale: proclamato da quattro corni all’unisono, primadell’alzarsi del sipario, poi c’è un arcaico motivo in perfetti accordi paralleli, simboleggiante il mattino, una melanconica ègloga, cantata dal pastorello intento a pascolar gli armenti sotto le mura.. “Io dè sospiri…“, – con la quarta lidia, diesis in mi maggiore – momento dolcissimo del terzo atto, che introduce l’atmosfera autentica del mattutino con le campane di Roma nelle loro varie tonalità, il campanone nella tonalità di – un mi naturale – il grave rintocco accompagna il motivo – largo – che diventerà, dopo il canto d’amore dei violoncelli, Mario canta la famosa romanza – e lucean le stelle-. Su uno sviluppo orchestrale del tema d’amore in -si maggiore -, dopo uno splendente – si minore. Entra Tosca agitatissima salita sul terrazzato non ha la forza di parlare ma agita le braccia con la franchigia liberatrice, mentre Mario piange ancor, dopo il suo disperato addio alla vita.

Nel duetto che segue s’incontrano non pochi brani notevoli, a cominciare dal racconto dell’uccisione di Scarpia con il concitato scatto di Tosca :” Il tuo sangue o il mio amor volea”, sul sincopato orchestrale. Nel racconto come Ella le ha infilato la lama per ucciderlo :”Io infilai quella lama…”, può subire una corona sul – do.

Segue il dolcissimo canto di Mario: “O dolci mani“. I brani del duetto si rincorrono con una facilità espressiva fantastica, unica, . Con l’annuncio della falsa fucilazione, si apre un nuovo tema, andantino moderatamente mosso; l’anticipata gioia della libertà, – là – “al largo dell’azzurro mare“, – andantino sostenuto; poi l’aria di Cavaradossi, con la più tenera commozione: “Amaro sol per te m’era morire, da tè la prende ogni splendore…“, accompagnato da un’orchestra dolcissima, con l’arpa sugli accordi dei legni.

Puccini non poteva crear di più, di meglio in quanto ogni passaggio musicale è colorato appropriatamente all’all’azione che ed allo stato d’animo dei personaggi.
La tessitura, il colore, la tonalità, tutto è legato al momento di gioia intensa, al momento lirico vissuto dai due spasimanti ; seguendo l’orchestra che intona il duetto con una frase all’unisono: “Trionfal, di nova speme l’anima freme…“, è la medesima frase udita all’inizio dell’atto, proposta dai corni – ma con meno enfasi.

L’ora IV fatalmente è arrivata. Si odono quattro colpi di campana – lentamente. Arrivano i soldati, si allineano. Puccini voleva che questo brano musicale, che si riferisce alla fucilazione di Cavaradossi, a questo passaggio di fraseggio musicale Egli aveva assegnato l’indicazione agogica –largo con gravità -, và sempre eseguita con con lo stesso movimento, esasperatamente grave. Per Tosca questa scena è lunghissima e senza risposta, ella si dice che essendo tutta farsa, finirà prestissimo, ma si accorge lentamente che quel demonio di Scarpia ha tradito. Si vede finita; Mario non risponde ai suoi richiami, Spoletta e Sciarrone con gli altri sgherri si stanno avvicinando, Ella capisce, si alza e guadagna gli spalti, urlando loro che ha ammazzato il barone, e nel vulnus del dramma intona drammaticamente: “O Scarpia, avanti a Dio!“, poi si dà la morte gettandosi nel vuoto.

La musica finisce con una perorazione in – mi bemolle minore – di impressionante sonorità, ricordandosi la prima misura dell’ – andante sostenuto – il tutto eseguito in – f f f – con forza e slancio senza – né rallentare – né rubato.

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La Tosca di Puccini: storia e trama https://cultura.biografieonline.it/tosca-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/tosca-puccini/#comments Thu, 02 May 2013 19:42:06 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7005 Tosca è una delle più belle e famose opere liriche musicate da Giacomo Puccini. L’opera si divide in tre atti: il libretto è di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. La prima rappresentazione si tenne il giorno 14 gennaio 1900 a Roma, presso il Teatro Costanzi. Il libretto deriva da La Tosca di Victorien Sardou (dramma rappresentato per la prima volta il 24 novembre 1887 al Théatre de la Porte-Saint-Martin di Parigi) il cui successo fu legato soprattutto all’interpretazione di Sarah Bernhardt nei panni della protagonista.

La prolusione seguente è stata redatta del Maestro Pietro Busolini.

Tosca di Puccini

Genesi dell’opera

L’idea di trarre un’opera dal dramma di Victorien Sardou nell’anima del Maestro lucchese Giacomo Puccini era nata molti anni prima: subito dopo Edgar. Egli aveva assistito al Teatro Filodrammatici di Milano, Tosca, con la grande Sarah Bernard. Fu colpito per l’evidenza delle sue situazioni, la verità delle passioni che sono in gioco nel dramma, la veemenza degli avvenimenti. Questo approccio non lo appassionò al punto di decidere una strategia musicale. Anzi dopo aver iniziato delle trattative con Sardou, per aver la concessione sul diritto del dramma da musicare, lasciò morire ogni cosa.

Fu invece il Maestro Franchetti che si mise d’accordo con Sardou e diede l’incarico a Illica di preparare il libretto. Questo fu sceneggiato in brevissimo tempo; fu allora che Illica si recò a Parigi per leggere il primo abbozzo a Sardou, presente Franchetti. Puccini a questo punto, rivolle Tosca.

Abbiamo delle incongruenze da parte del lucchese davvero uniche, egli aveva avuto il soggetto di Sardou a sua disposizione, ma non se n’era particolarmente curato; quando però seppe che un altro stava per impadronirsene si riaccese in lui il desiderio di non farsi piu’ sfuggire la fremente creatura.

Cosa fare? Illica aveva avuto le confidenze del Puccini e per favorirlo si assunse l’impegno di convincer Franchetti ad abbandonare l’idea del dramma. L’iniziativa gli riuscì più facile di quanto sperato, e fortuna volle che, poco dopo, Puccini potè così firmare il contratto con Sardou. Ci furon vivaci contestazioni al tempo sia da parte di Puccini che dalla parte di Sardou, nello stendere la prosa in musica.

Voglio raccontare un episodio molto significativo, folle se vogliamo:

Giacomo Puccini (1858 - 1924)
Giacomo Puccini (1858 – 1924)

Sardou insisteva con forza per cambiare il corso del Tevere, per farlo passare sotto Castel Sant’Angelo, dove Tosca si sarebbe suicidata; invano Puccini cercò di dissuaderlo, ma Sardou drammaturgo dal carattere molto autoritario prese a questo punto una carta topografica e dimostrò come la matematica , può finire con l’essere solamente un’opinione. Ci furono svariati scontri con i librettisti, specie con Illica, per cui tagli, sostituzioni di versi, trasformazioni, spostamenti, erano all’ordine del giorno e della notte. A volte i prolissi voli di Illica trovarono in Puccini tramite Giacosa un’inesorabile tarpatore d’ali.

In Tosca, i pezzi chiusi abbondano. Si può dire che l’opera sia ina magnifica ghirlanda di romanze, di arie, di liriche mirabilmente saldate insieme con un prezioso tessuto connettivo da un prestigioso uomo di teatro che quelle romanze, quelle oasi verdi ed olezzanti metteva al punto giusto, nel punto talvolta più nevralgico dell’opera d’arte.

Leggendo quindi il dramma di Victorien Sardou l’ho trovato stringato e logico nella costruzione, per cui ogni particolare è strettamente connesso allo svolgersi della vicenda. Per ridurlo al tipo di libretto che voleva Puccini, bisognava praticargli delle aperture onde poter inserire degli episodi lirici, ed anche abbreviarlo parecchio, perché la musica è per sua natura un elemento ritardatore. In questo lavoro di adattamento il Maestro ed i suoi collaboratori si resero colpevoli di incoerenze e particolari immotivati, dando parecchie volte al dramma una caratterizzazione sommaria.

Tuttavia la musica ha modo di nascondere quelli che in dramma, ovvero in prosa sarebbero dei difetti. E vista in quest’ottica, Tosca e’ l’opera più concentrata di Puccini – a parte i 3 atti unici del Trittico. Questo, per la sua capacità di stringere in una morsa l’ascoltatore ed il fortunato spettatore – dalla prima all’ultima battuta. Il merito non ultimo di questo risultato, spetta all’ingegnosità con la quale furono eseguite le modifiche e le trasposizioni di importanti nodi drammatici da una scena all’altra. Alcune delle alterazioni più intelligenti possono benissimo essere state proposte dallo stesso Sardou, e forse il volubile ed impulsivo drammaturgo non esagerava troppo quando dichiarava che il libretto era superiore al dramma.

Personaggi dell’opera

Floria Tosca: Soprano – Celebre Cantante
Mario Cavaradossi: Tenore – Pittore
Barone Scarpia: Baritono – Capo Della Polizia Papalina
Cesare Angellotti: Basso – Rivoluzionario della Repubblica Romana

Trama di Tosca

Atto Primo

Durata: 44 minuti

Roma, giugno 1800, si parte dalla Prima Repubblica Romana, l’epoca della battaglia di Marengo, all’ombra del Primo Console che domina per buona parte l’opera.

Entriamo nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle; 3 battute d’introduzione in cui risuonano tre formidabili accordi perfetti maggiori – Si bem. – La bem. – Mi naturale; con noi entra furtivamente anche Cesare Angelotti, ex Console della caduta Repubblica Romana, fuggito da Castel Sant’Angelo qualche ora prima, egli è il fratello della devota marchesa Attavanti; sa che può nascondersi nella cappella di famiglia perche la chiave è nell’aquasantiera davanti alla colonna. In chiesa c’è il sacrestano a controllare, ed a nettare i pennelli del Cavalier Cavaradossi pittore; in quel momento è intento a recitare l’Angelus.

Sta varcando il portone della chiesa anche Mario Cavaradossi per terminare il suo lavoro, il sacrestano lo saluta e guardando il lavoro, scandalizzato riconosce nelle sembianze della Maddalena, una fedele, ma sconosciuta. Il Cavaliere spega al sacrestano che egli è stato colpito da Lei in quanto i lineamenti dal suo volto erano quelli di una vergine, mentre il sacrestano intona: “scherza con i fanti e di lasciar stare i santi“, finita la salmodia và via salutandolo. Esce quindi dal suo nascondiglio Cesare Angelotti credendo di essere rimasto da solo. Cavaradossi lo vede, e le chiede chi è, Cesare spaventato vorrebbe di nuovo nascondersi, ma riconosce l’amico di sempre, e si fa avanti, ma questo colloquio s’interrompe dal momento che è entrata in chiesa Floria Tosca, la bellissima cantante, innamorata e molto gelosa del bel MarioAngelotti di nuovo và a nascondersi.

Tosca con fare indagatore fa il giro della chiesa per vedere con chi potesse essere l’amato ben, dopo essersi sincerata che egli era da solo, rincuorata anche da Mario del suo assoluto amore, e che egli era solo, Tosca allora lo mette al corrente delle sue desiderata. Ella dopo la recita vorrebbe trascorrere la serata nella casa del suo Pittore. Mario le promette che così sarà e la saluta, ma ella uscendo lancia uno sguardo al dipinto, e ne riconosce le sembianze della Maddalena, Tosca gli fa una tremenda scenata di gelosia, ma Mario spiega a Tosca che la prese a modella a sua insaputa, ed adulandola per suoi bellissimi occhi neri, le spiega che gli occhi suoi non reggono al confronto con quelli azzurri della modella. Tosca è vinta dalla passione, e dopo averlo baciato esce dalla chiesa. Mario chiama l’Angelotti e le fà cenno d’uscire, l’amico allora gli descrive il piano di fuga; la sorella ha lasciato un canestro di abiti da donna che serviranno a lui per travestirsi e poter uscire da Roma o rimanere nascosto in città pur di sottrarsi al barone Scarpia.

Mario udito quell’odioso nome gli assicura il suo aiuto spiegandogli di recarsi in una villa poco distante dalla chiesa, ma seguendo un sentiero poco conosciuto, anche perché hanno già scoperto la fuga. Quindi escono assieme dalla cappella . Entra di nuovo il sacrestano in chiesa con tutti i cantori della Cappella, seguito da chierici e confratelli che vengono subito informati della sconfitta di Napoleone, e che quella sera stessa a Palazzo Farnese ci terra un gran festa con la partecipazione dell’attrice Floria Tosca.

Tutti allegri e felici intonano il Te Deum, mentre il sacrestano spinge tutti in sacrestia. Il barone Scarpia sulle tracce dell’Angelotti, seguito dal fadato Spoletta, rimprovera al sacrestano per la confusione, gli altri rientrano in sacrestia, imponendogli di rimanere, Ordinando ai suoi di guardare in in tutti posti, li si era nascosto un cospiratore dello stato, Tutto si trasforma in certezza dal momento in cui al sacrestano si accorge che il cancello della cappella Attavanti era socchiuso e trova a terra una seconda chiave. Il barone Scarpia trova anche il ventaglio della marchesa Attavanti, con tanto di stemma, e nota le sembianze della nobildonna. Uno sbirri trova anche il paniere delle vivande vuoto. Scarpia prende il sacrestano e si fa riferire tutta la faccenda. Il pover uomo può solo dire di aver lasciato il paniere delle vivande poco prima, ma riposto altrove, e di vederlo ora vuoto.

Da questo momento Scarpia è persuaso della complicità di Cavaradossi. Entra in chiesa Tosca, Scarpia nascondendosi riesce abilmente a suscitare la sua folle gelosia, usando il ventaglio trovato accanto ai colori del Cavaliere. Tosca allora cerca Mario ma il sacrestano le dice di non saper nulla ed ossequiosamente la saluta. Tosca sgomenta teme un tradimento dell’amato, e quando il barone Scarpia gli si pone davanti porgendogli l’acqua benedetta, mentre ha buon giuoco neall’animo cerca di farla subdolamente precipitare nel vortice della più assurda gelosia, Poi mostrandole il ventaglio le chiede se è utile per dipingere, essa lo prende in mano lo guarda, guarda lo stemma lo riconosce, si inalbera, si rimprovera, è adirata, essa era ritornata alla chiesa per dichiarare il suo amore al giovane.

Scarpia invece dimostra un estremo interesse per la ragazza, poi l’accompagna al portone della chiesa, e, quando se ne và, ordina a Spoletta di seguirla. Entra in chiesa il cardinale e tutta popolazione del quartiere, Scarpia ha la speranza di portare a buon fine la sua idea, offrendo a Tosca la sicurezza che Mario l’ha ingannata. Assiste quindi al Te Deum di ringraziamento sulla presunta disfatta napoleonica a Marengo.

Atto Secondo

Durata: 40 minuti

Entriamo nella camera e nel salotto del barone Scarpia, al secondo piano di Palazzo Farnese. L’atto viene aperto con un motivo a terzine rapide, seguito subito alla b. 3, da un altro tema più calmo, nonché da un accenno alla terza aria d’amore del duetto del primo atto.

Il barone sta consumando la sua cena, egli pregusta già la gioia di veder impiccati i due rivoluzionari, chiama lo sgherro Sciarrone e lo prega di consegnare a Floria Tosca, finita la sua esibizione in onore della sconfitta napoleonica un biglietto a suo nome. Il barone Scarpia è sicuro che la celebre attrice verrà, finita la sua recita, in quanto si parlerà di Mario, sale intanto nell’appartamento dal barone, Spoletta annunciato da Sciarrone. Lo sgherro, confida al barone che seguendo la giovin donna, sin alla casa indicatagli, e, dove Ella si era trattenuta in dolce armonia, non c’era il prigioniero, non c’era l’Angelotti.

In Scarpia esplode un’impeto d’ira e quindi le lancia le sue improperie. Spoletta parlando sottovoce le comunica in maniera sommessa e timorosa, che Mario era in quella villa, e che lo ha portato a Palazzo Farnese. Aprendo la finestra della camera, il barone ode venir dal palazzo accanto la voce di Tosca, accompagnata dal coro, Ella è ospite della Regina di Napoli Carolina. Scarpia capisce che è il momento di far entrare nel salotto Mario Cavaradossi assieme a Roberti, l’esecutore di Giustizia, ed al Giudice del Fisco. Il Cavalier Cavaradossi entra protestando per l’affronto subito… Scarpia con fare mellifluo si oppone alle sue proteste e gli presenta le sue ragioni e spiega del perché egli si trovi li. Cavaradossi nega decisamente d’averlo visto e d’averlo sustentato, negando pure anche d’avergli trovato un asilo dove poter rifugiarsi. Tosca improvvisamente irrompe nella sala e corre ad abbracciare l’amato, Ella annuisce d’aver compreso e di dover tacere su tutta la vicenda.

Sciarrone esegue subito l’ordine del barone ed apre la camera della tortura facendo entrare Mario, il Giudice e tutti gli altri sbirri. Nel salotto di Palazzo Farnese rimangon da soli Tosca ed il barone Scarpia che continua il suo interrogatorio con la cantante, egli però chiede a Sciarrone con insistenza se il Pittore sta confessando, Sciarrone fà cenno con la testa di nò, stizzito Scarpia lo induce a continuare, e dà a Tosca le notizie su come l’amato vien torturato, indi le fà udire le grida dell’amato. Ella chiede al barone di cessare la tortura, e fà capire a Scarpia di non saper nulla di quanto a lei chiesto. Vista la sua indisponibilità nel non rispondere, Scarpia fa riprendere la tortura in maniera più forte, alle grida dell’amato Tosca cede ed ammette che il console si è rifugiato nel pozzo della villa. Entra allora “Mario” nel salotto sostenuto da sgherri e tutto insanguinato, lancia furiose ingiunrie a Tosca complice d’aver parlato.

Contemporaneamente Sciarrone annunzia la sconfitta di Napoleone a Marengo, Cavaradossi udito questo ne gioisce, allora il barone sentito questo lo denuncia per alto tradimento, al Pittore non rimane che scaricare le sue grida in faccia a Scarpia e a farle capire la sua gioia per la disfatta del Bonaparte e delle sue truppe. Tosca implorandolo di salvarlo si sente chiedere da Scarpia, la sua vita in cambio dell’amante. Inorridisce la cantante al udir già i suoni dei tamburi che annunciano l’allestimento del patibolo, Il tempo è avaro bisogna decidere il da farsi immediatamente- nel frattempo giunge Spoletta annunciando che è stato trovato il cadavere di Angellotti. Annuncia anche che è tutto pronto per Cavaradossi.

Il barone, per concedere questa grazia, ricatta nella maniera più infame “Tosca” cioè di non essere pagato a prezo di moneta. Ma è lei che lui vuole-. Alla richiesta, “ Tosca” finge di conceder le proprie grazie. Scarpia chiama, e dà disposizioni a Spoletta che venga fatta la stessa fucilazione simulata “Come al Conte Palmieri”, all’ora IV°- indi egli firma un salvacondotto, che porterà i due amanti fino a Civitavecchia e poinel frattempo cerca di abbracciare Tosca, che però essa è già in possesso di un coltello con il quale ferisce a morte il barone, intonando la famosa frase: “E … avanti a lui, tremava tutta Roma”. Poi prende una candela ed un crocefisso e rubando dalla sua mano il salvacondotto, scappa sulla terrazza di Castel Sant’Angelo per salvare il suo suo amore, il suo uomo.

Atto Terzo

Durata: 28 minuti

L’azione si svolge nel terrazzato d’armi di Castel Sant’Angelo, è l’alba, e la descrizione di quest’alba romana è una suggestione veramente poetica; il pastorello attacca la sua melodia dopo le due prime b.

Seguendo la scena, vediamo il Brigadiere delle guardie papaline ricevere il plotone di scorta, che conduce all’esecuzione il Cavalier Cavaradossi.
La guardia prende in custodia il carcerato, assicurandosi sia davvero il Cavaliere, e, firma la presa in consegna del condannato e poi conferendo con lui, lo avvisa che non le rimane che un’ora di vita, se vuole può avere anche il conforto anche un sacerdote. Cavaradossi chiede d’avere un foglio per scrivere un addio d’amore a Tosca, alla sua amata. Nel frattempo Tosca vien condotta da Spoletta sul terrazzato.

Tosca si avvicina a Mario eccitatissima, poi sommessamente gli dice d’aver ammazzato Scarpia e d’aver avuto da lui un salvacondotto per scappar da Roma verso Civitavecchia, e che la fucilazione è una messinscèna, di cader a terra come lei quando lo fà in teatro. L’ora IV è arrivata, il momento è vicino, Spoletta, il Sergente ed il Brigadiere accompagnano il drappello di soldati comandati da un’ufficiale che prendon il loro posto per la fucilazione, Tosca è sempre vicina a Mario ed egli la rassicura che cadrà come lei da attore.

Al comando dell’ufficiale i soldati puntano i loro fucili, al secondo comando li scaricano verso Mario, Tosca corre dall’amato e continua a pregarlo di star fermo e di non muoversi; ma andati via i soldati, chiama Mario piu volte, questi non si muove, allora capisce tutto, è disperata, e urla a Spoletta di aver ucciso Scarpia e Sciarrone conferma. Tosca allora di fronte agli sgherri fugge verso il gli spalti del castello e si getta dandosi la morte.

Segue: analisi musicale dell’opera.

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Turandot: riassunto dell’opera di Puccini https://cultura.biografieonline.it/riassunto-turandot/ https://cultura.biografieonline.it/riassunto-turandot/#comments Wed, 24 Apr 2013 11:01:38 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=6964 Tra le opere liriche prodotte dal celebre compositore italiano Giacomo Puccini, Turandot è una delle più famose e conosciute dal pubblico. L’opera, lasciata incompiuta a causa della morte del suo autore, avvenuta il 29 novembre 1924, è stata completata da Franco Alfano, nel periodo che va dal 1925 al 1926.

Turandot, di Giacomo Puccini: una scena tratta da una rappresentazione teatrale
Turandot, di Giacomo Puccini: una scena tratta da una rappresentazione teatrale

E’ il 25 aprile 1926 quando al Teatro della Scala di Milano va in scena la prima rappresentazione assoluta della Turandot. Il direttore Arturo Toscanini, dopo aver pronunciato gli ultimi versi scritti da Giacomo Puccini, si ferma e avvisa il pubblico che l’opera termina lì dove il Maestro si era fermato prima di morire. La sera dopo, però, la rappresentazione viene eseguita per intero con il finale elaborato dal compositore Franco Alfano.

A proposito del finale, c’è chi ipotizza che Puccini l’abbia evitato non per incapacità dovuta all’incalzare della malattia, ma perché non riusciva ad interpretare la trasformazione della principessa Turandot che, da donna fredda e senza slanci, diventa infuocata e passionale a causa dell’amore che la pervade.

L’opera lirica è formata da tre atti e cinque quadri. Il soggetto di Turandot è ripreso da una fiaba teatrale del drammaturgo veneziano Carlo Gozzi. L’opera è composta su libretto di Renato Simoni e Giuseppe Adami.

Turandot: trama e riassunto

La vicenda raccontata nell’opera si svolge in Cina nel mitico “tempo delle favole”, a Pechino. Protagonista del racconto è la principessa Turandot, una giovane molto bella ma solitaria e sfuggente, poiché in lei è ancora vivo il ricordo di una antenata violentata e poi uccisa.

Turandot odia gli uomini, e mai avrebbe voluto accompagnarsi ad un uomo per il resto della sua vita. L’imperatore Altoum (suo padre) ed il popolo di Pechino desiderano che lei convoli a nozze.

Turandot Poster

Così Turandot, stanca delle pressioni, decide di sposare soltanto quell’uomo che riuscirà a sciogliere tre enigmi che lei proporrà. In caso di fallimento, l’uomo è destinato a morire.

In molti ci provano senza alcun risultato, come per esempio il Principe di Persia. Tra gli altri presenti c’è anche un giovane principe tartaro spodestato, il cui nome è Calaf. Irretito dalla straordinaria bellezza della principessa Turandot, vuole provare a risolvere gli enigmi.

Invano cercano di farlo desistere: Calef è intenzionato a conquistare la bella e fredda principessa. Trovatosi davanti a lei, riesce a sciogliere gli enigmi, uno dopo l’altro. Turandot, spaventata, accetta la proposta di Calef: lei dovrà scoprire prima dell’alba il suo nome, se questo accade lui morirà. In caso contrario, dovrà accettare di sposarlo.

La principessa si mette disperatamente alla ricerca di tale informazione, mette sotto torchio i servitori per sapere il nome del giovane principe, ma non ci riesce. Sarà Calef a rivelare il suo nome a Turandot, dopo averla baciata appassionatamente. La bella principessa si lascia trasportare dalla passione, giunge dall’imperatore suo padre e annuncia ufficialmente al popolo il nome dello straniero che le ha rapito il cuore: si chiama “Amor”.

Considerazioni finali

Struggente e appassionata, l’ultima opera lirica di Giacomo Puccini esplora un mondo fantastico fatto di regni e principesse, dove l’amore trionfa su tutto e incorona il sogno dei due giovani protagonisti. Alcuni critici musicali ritengono che la difficoltà maggiore riscontrata dal maestro Puccini sia stato proprio l’epilogo amoroso tra Calef e Turandot, che però piace al pubblico ed è degno delle più belle favole d’amore di tutti i tempi.

Nessun dorma

Tra le arie più celebri dell’opera ricordiamo il Nessun dorma, una romanza (basata sull’alternanza tra strofa e ritornello) intonata dal personaggio (tenore) di Calaf all’inizio dell’atto III. A Pechino è notte: in totale solitudine il Principe ignoto attende l’arrivo del nuovo giorno, quando finalmente avrà la possibilità di conquistare l’amore di Turandot, la principessa di ghiaccio (Tramontate stelle, all’alba vincerò).

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La “Tosca” di Puccini https://cultura.biografieonline.it/la-tosca-di-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/la-tosca-di-puccini/#comments Tue, 03 Jul 2012 08:15:51 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2906 Nato a Parigi nel 1831, il giovane insegnante di francese Victorien Sardou si pone in evidenza come apprezzato autore di testi teatrali. La sua copiosa produzione gli conferisce un discreto successo, ma egli è consapevole che si tratta di notorietà effimera che non gli riserverà gloria imperitura nella storia del teatro e, in particolare, della drammaturgia. E così, quando si appresta alla stesura de “La Tosca” – pensata per Sarah Bernhardt – che andrà in scena nel 1887, non immagina che sta invece consegnandosi alla storia non per l’opera teatrale in sé, ma in quanto essa ispirerà il maestro Giacomo Puccini che la convertirà nella celeberrima e omonima opera lirica.

Una scena tratta da "Tosca"
Una scena tratta da “Tosca”, opera lirica in tre atti di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. La prima rappresentazione si tenne a Roma, al Teatro Costanzi, il 14 gennaio 1900.

Tosca incontra Puccini

Il primo incontro fra il musicista lucchese e la rappresentazione teatrale avviene tre anni dopo, nel 1890, in occasione della messa in scena de “La Tosca” a Milano. Puccini viene subito attratto dall’idea di tradurla in melodramma, ma esita nella sua realizzazione per alcuni anni fino a quando torna a rivederla, a Firenze, e questa volta si determina alla realizzazione del progetto caldeggiato, peraltro, anche dal poeta e commediografo Ferdinando Fontana.

Investito il suo editore Ricordi si scopre, però, che l’idea era già venuta al compositore Alberto Franchetti e che il librettista Luigi Illica sta già lavorando alla metrica e, contestualmente, alla riduzione della ponderosa stesura originaria in soli cinque atti. Franchetti, tuttavia, rinuncia al lavoro ben lieto di cederlo all’amico Puccini. Ad Illica viene affiancato Giuseppe Giacosa, che cura i momenti più propriamente melodrammatici dell’opera.

Dopo una intricata serie di disaccordi e scontri fra i vari addetti ai lavori – a cominciare dallo stesso compositore – il cui esito, tra l’altro, è l’ulteriore riduzione del numero degli atti a tre – “Tosca” vede finalmente la luce.

L’opera

L’ambientazione è a Roma, nel giugno dell’Ottocento. La napoleonica Repubblica Romana è appena stata abolita e sono in corso rappresaglie nei confronti degli ex repubblicani. Fra questi Cesare Angelotti, già console della Repubblica che, evaso da Castel Sant’Angelo, trova rifugio nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle. Qui incontra il suo amico pittore Mario Cavaradossi che gli assicura aiuto e collaborazione. Il colloquio fra i due è interrotto dal sopraggiungere della cantante Floria Tosca, amante del pittore, che si lascia andare ad una scenata di gelosia perché si accorge che il volto di Maria Maddalena che Mario sta dipingendo è quello della marchesa Attivanti. Dopo essere stata rassicurata dal pittore, Tosca lascia la chiesa e i due amici fuggono via.

Il resto della storia si sviluppa intorno al personaggio del barone Scarpia, capo delle Guardie Pontificie il quale, venuto a conoscenza dell’intesa fra il fuggiasco ed il pittore, ordisce una trappola per conseguire il duplice obiettivo di sedurre Tosca e catturare Angelotti. Fa dunque arrestare Cavaradossi con l’accusa di cospirazione e poi costringe Tosca, con la promessa di un salvacondotto per il suo amato, a promettersi a lui ed a rivelare il nascondiglio di Angelotti.

Tosca cede al ricatto ma, non appena ottenuto il documento, estrae un coltello ed uccide Scarpia. Corre dunque a salvare il suo uomo ma giunge tardi perché, nel frattempo, Mario è stato fucilato. Colta dalla disperazione, Tosca si toglie la vita gettandosi nelle acque del Tevere.

I momenti più intensi del melodramma pucciniano sono probabilmente contenuti nelle arie “Vissi d’arte”, nel II atto, ed “E lucevan le stelle”, nel III. In “Vissi d’arte”, romanza divenuta celebbre, si coglie la poetica disperazione e lo smarrimento di Tosca che, sotto l’atroce ricatto di Scarpia, si scopre incapace di concepire e di comprendere tanta cattiveria e si rivolge a Dio con toni di supplica ma anche di risentimento: “Vissi d’arte, vissi d’amore, non feci mai male ad anima viva!… Nell’ora del dolore, perché, perché Signore, perché me ne rimuneri così?

In “E lucevan le stelle”, romanza ancor più famosa, il pittore Cavaradossi rinchiuso in carcere e consapevole del destino che lo attende di lì a poco, ripercorre con la mente i bei momenti trascorsi con la sua amata in un insieme di nostalgia, passione e scoramento: “… Oh! dolci baci, o languide carezze, mentr’io fremente le belle forme disciogliea dai veli! Svanì per sempre il sogno mio d’amore… L’ora è fuggita… E muoio disperato! E non ho amato mai tanto la vita!… ”.

La prima

Il quadro politico dell’Italia, nei primi del Novecento, è caratterizzato da malcontento e tensioni. Movimenti antiunitari, antimonarchici e anarchici esercitano, ognuno per proprio conto, azioni di disturbo anche attraverso iniziative violente e sanguinarie; a ciò si aggiungano l’ostilità mai sopita del Vaticano che si ostina a non riconoscere il Regno d’Italia, una severa crisi economica e l’isolamento internazionale dell’Italia.

Questo è il clima preoccupante con il quale, nel gennaio 1900, ci si appresta ad accogliere la prima della Tosca di Puccini, e che non mancherà di condizionare l’importante evento. A Roma, la sera del 14 gennaio 1900, infatti, con un Teatro dell’Opera (detto anche Teatro Costanzi) ridondante di pubblico, poco prima dell’apertura del sipario il direttore d’orchestra Leopoldo Mugnone è raggiunto da un funzionario di polizia che lo informa del concreto rischio di un attentato nel corso della serata, cosa già accaduta in altri teatri.

Si paventano iniziative di disturbo da parte dei rivali di Puccini ma, soprattutto, la annunciata presenza in sala della regina Margherita fa temere iniziative terroristiche da parte degli anarchici.

Alla prima saranno inoltre presenti personalità politiche e del mondo culturale di primissimo piano. Con queste premesse e con conseguente pessimo stato d’animo il maestro Mugnone raggiunge dunque il suo posto e la serata ha inizio. Fortunatamente, dopo un iniziale rumoreggiare dei soliti detrattori che determina una breve sospensione dell’esecuzione, la rappresentazione riprende e giunge felicemente a conclusione con un grande successo.

La critica

Tra le opere di Puccini, la “Tosca” rimarrà la più maltrattata nelle recensioni della stampa specializzata. Scriverà Colombani, sul “Corriere della Sera”:

…Con tutta la deferenza pel grande drammaturgo francese, io vorrei affermare che il suo lavoro fu migliorato prima dall’Illica e dal Giacosa, che ne affinarono i principali elementi, poi dal Puccini che con una tavolozza delicata e aristocratica ne nobilitò la rappresentazione. Ma – per quanto abilmente mascherato – il difetto originale del dramma a tinte troppo forti, e povero di ogni elemento psicologico, rimane visibile ostacolo ad una libera estrinsecazione della fantasia musicale di Giacomo Puccini…”.

Di tenore analogo sono i commenti del “Secolo” e di altri quotidiani, che trovano l’opera musicalmente poco originale e la trama eccessivamente appesantita da torture, assassini e suicidi. Nonostante le perplessità della critica, però, la “Tosca” viene promossa a pieni voti dal pubblico ed inizia a fare il giro del mondo, dall’Europa all’intero continente americano passando per Costantinopoli e Il Cairo, fregiandosi negli anni delle più prestigiose interpreti fino a Maria Callas, nel 1941.

Maria Callas
Maria Callas

“Tosca”, insieme a “Manon Lescaut” (1893), “La Bohème” (1896), “Madama Butterfly” (1904), “Turandot” (1926), costituiscono solo una parte della copiosa produzione pucciniana che fa del maestro lucchese uno dei massimi rappresentanti della nuova scuola operistica italiana e lo iscrive fra più grandi compositori della storia della musica.

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