Giacomo Leopardi Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Wed, 04 Oct 2023 15:04:22 +0000 it-IT hourly 1 A Silvia: analisi della poesia di Leopardi https://cultura.biografieonline.it/a-silvia-leopardi-analisi/ https://cultura.biografieonline.it/a-silvia-leopardi-analisi/#comments Wed, 04 Oct 2023 13:11:32 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8353 A Silvia” è una delle poesie più belle e note di Giacomo Leopardi. È uno dei grandi idilli, quindi fa parte del terzo tempo della lirica leopardiana (1828-1830). I grandi idilli sono differenti dai piccoli idilli per il fatto che, mentre i piccoli idilli hanno un contenuto soggettivo, ovvero contengono la meditazione del poeta sulle vicende personali, i grandi idilli hanno un contenuto oggettivo, contengono cioè la meditazione del poeta sulla condizione umana di miseria e di dolore.

Giacomo Leopardi
Giacomo Leopardi

Come un dialogo

A Silvia (a Selva/natura) è per Leopardi l’inizio di una nuova stagione poetica, tra il 1828 e il 1830. Questo canto, composto a Pisa nel 1828, è dedicato a una ragazza che il poeta conobbe realmente, Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tisi nel 1818. Nella fantasia leopardiana Silvia è soprattutto il simbolo della speranza della giovinezza, fatta di attese, illusioni e delusioni. “A Silvia” non rappresenta una commemorazione funebre, e non è  una canzone per Silvia. Si tratta in realtà di una confessione del poeta. È costruita come un dialogo con Silvia.

Il canto si divide in due parti: la prima parte ha carattere rievocativo, incentrato sulla poetica della memoria, la seconda parte ha carattere riflessivo.

Si veda anche: testo completo della poesia A Silvia.

Prima parte

Nella prima parte, Leopardi domanda a Silvia se, dopo tanti anni, ricorda ancora i giorni felici nei quali si affacciava alla giovinezza.

Quando anche il poeta aveva nel cuore la fiducia nella vita e, come Silvia, aveva pensieri piacevoli, speranze e belli gli apparivano il fato e la vita.

Tuttavia questo è destinato a finire per colpa della natura, che promette negli anni della giovinezza e dell’adolescenza, ma poi non mantiene ciò che ha promesso.

Seconda parte

Nella seconda parte il poeta fa un paragone tra il destino della ragazza e il suo.

Silvia moriva senza veder fiorire la sua giovinezza, senza poter parlare di amore con le compagne e senza godere delle lodi della propria bellezza.

Con la sua morte, tramontava anche la speranza di felicità di Leopardi.

A lui, infatti, come a Silvia, i fati negarono le gioie della giovinezza, dove sogni e speranze dovrebbero diventare realtà.

Svaniti dunque i sogni con l’apparire della realtà dolorosa, non resta altro che la morte per liberarci dalla miseria e dalle amarezze della vita.

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Ad Angelo Mai (Leopardi): testo completo, riassunto analisi e commento https://cultura.biografieonline.it/leopardi-ad-angelo-mai/ https://cultura.biografieonline.it/leopardi-ad-angelo-mai/#comments Sun, 20 Mar 2022 16:35:05 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8366 La canzone Ad Angelo Mai fa parte del gruppo delle canzoni civili, scritte da Giacomo Leopardi.  L’intento è quello di suscitare negli italiani l’amor di patria, grazie al ricordo della loro passata grandezza. Anche questa canzone, come le altre canzoni civili, prende il via da un fatto di cronaca.

Ad Angelo Mai, poesia di Giacomo Leopardi
Un ritratto di Angelo Mai con la foto della targa in marmo che commemora il luogo dove nacque: Schilpario (Bergamo) il 7 marzo 1782.

Chi è Angelo Mai

Angelo Mai è un dotto filologo gesuita della Biblioteca Vaticana, che, sul finire del 1819, aveva ritrovato in un palinsesto del secolo X, sotto un commento di Sant’Agostino ai Salmi, molti frammenti del trattato “De re publica” di Cicerone. Sino allora di Cicerone si conosceva solo il sesto libro, ovvero “Somnium Scipionis”.

 

Il Leopardi, ammiratore del Mai, nel 1820 compose la canzone. Il poeta è entusiasta del ritrovamento dei frammenti del trattato e si rallegra alla notizia del ritrovamento: per merito del dotto filologo, Cicerone e gli altri scrittori antichi tornano a far sentire la loro voce dopo secoli di silenzio.

Così grazie alle ricerche di Angelo Mai sembrano ritornati i giorni del Rinascimento, quando, dopo l’oscura parentesi del Medioevo, risorgevano dall’oblio gli antichi padri.

Segue quindi la rievocazione del periodo del Rinascimento, che per Leopardi va da Dante all’Alfieri.

La canzone civile si chiude con l’esortazione ad Angelo Mai di proseguire la sua opera di ricerca per ridare voce agli antichi eroi.

Le tre parti della canzone

La canzone si divide in tre parti.

  1. Nella prima parte (vv. 1-55) il Leopardi esalta il Mai: egli riscopre le opere degli antichi padri, i quali lasciano quasi il sepolcro, per vedere se all’Italia, oggi, piace essere ancora viva, dopo tanto tempo.
  2. Nella seconda parte (vv. 56-175) il poeta fa una nostalgica rievocazione del Rinascimento, che per lui va dalla morte di Dante all’Alfieri.
  3. Nell’ultima e terza parte (vv. 175-180) il poeta, rivolgendosi ad Angelo Mai, lo esorta a continuare le sue ricerche con la speranza o di spingere gli Italiani a nobili azioni o almeno, a vergognarsi della loro abiezione.

I risvolti autobiografici

La canzone è importante per i ripetuti riferimenti autobiografici, che denotano lo stato d’animo di delusione e di sconforto del poeta: vede crollare le illusioni e vede la propria vita minacciata dal tedio e dal senso del nulla.

Giacomo Leopardi scrive la canzone nel 1820, dopo gli avvenimenti del 1819, culminati nel fallito tentativo di fuga dalla casa paterna. Nel canto le allusioni alle sue frustrazioni sono frequenti. In particolare, quando parla dell’invidia, dell’odio, dell’incomprensione della gente verso gli ingegni sensibili.

Anche le tre figure di poeti che occupano la parte centrale della canzone hanno risvolti autobiografici.

  • L’Ariosto con la sua fervida fantasia, rispecchia la fase giovanile del poeta.
  • Il Tasso anticipa nelle sue vicende dolorose l’analogo destino di dolore del poeta.
  • L’Alfieri invece rispecchia il titanismo romantico del poeta.
  • Infine nella figura di Cristoforo Colombo il Leopardi proietta una sua idea per superare il male di vivere: la vita attiva, l’ardimento e il rischio delle grandi imprese, che, mentre liberano lo spirito dal pensiero, che porta alla scoperta dell’arido vero, del nulla, servono, in qualche modo, a dare uno scopo e un significato alla vita.
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Ecco il testo completo dell’ode.

Ad Angelo Mai, testo completo

Italo ardito, a che giammai non posi
di svegliar dalle tombe
i nostri padri? ed a parlar gli meni
a questo secol morto, al quale incombe
tanta nebbia di tedio? E come or vieni
sì forte a’ nostri orecchi e sì frequente,
Voce antica de’ nostri,
Muta sì lunga etade? e perché tanti
Risorgimenti? In un balen feconde
Venner le carte; alla stagion presente
I polverosi chiostri
Serbaro occulti i generosi e santi
Detti degli avi. E che valor t’infonde,
Italo egregio, il fato? O con l’umano
Valor forse contrasta il fato invano?

Certo senza de’ numi alto consiglio
Non è ch’ove più lento
E grave è il nostro disperato obblio,
A percoter ne rieda ogni momento
Novo grido de’ padri. Ancora è pio
Dunque all’Italia il cielo; anco si cura
Di noi qualche immortale:
Ch’essendo questa o nessun’altra poi
L’ora da ripor mano alla virtude
Rugginosa dell’itala natura,
Veggiam che tanto e tale
È il clamor de’ sepolti, e che gli eroi
Dimenticati il suol quasi dischiude,
A ricercar s’a questa età sì tarda
Anco ti giovi, o patria, esser codarda.

Di noi serbate, o gloriosi, ancora
Qualche speranza? in tutto
Non siam periti? A voi forse il futuro
Conoscer non si toglie. Io son distrutto
Né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro
M’è l’avvenire, e tutto quanto io scerno
È tal che sogno e fola
Fa parer la speranza. Anime prodi,
Ai tetti vostri inonorata, immonda
Plebe successe; al vostro sangue è scherno
E d’opra e di parola
Ogni valor; di vostre eterne lodi
Né rossor più né invidia; ozio circonda
I monumenti vostri; e di viltade
Siam fatti esempio alla futura etade.

Bennato ingegno, or quando altrui non cale
De’ nostri alti parenti,
A te ne caglia, a te cui fato aspira
Benigno sì che per tua man presenti
Paion que’ giorni allor che dalla dira
Obblivione antica ergean la chioma,
Con gli studi sepolti,
I vetusti divini, a cui natura
Parlò senza svelarsi, onde i riposi
Magnanimi allegràr d’Atene e Roma.
Oh tempi, oh tempi avvolti
In sonno eterno! Allora anco immatura
La ruina d’Italia, anco sdegnosi
Eravam d’ozio turpe, e l’aura a volo
Più faville rapia da questo suolo.

Eran calde le tue ceneri sante,
Non domito nemico
Della fortuna, al cui sdegno e dolore
Fu più l’averno che la terra amico.
L’averno: e qual non è parte migliore
Di questa nostra? E le tue dolci corde
Susurravano ancora
Dal tocco di tua destra, o sfortunato
Amante. Ahi dal dolor comincia e nasce
L’italo canto. E pur men grava e morde
Il mal che n’addolora
Del tedio che n’affoga. Oh te beato,
A cui fu vita il pianto! A noi le fasce
Cinse il fastidio; a noi presso la culla
Immoto siede, e su la tomba, il nulla.

Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,
Ligure ardita prole,
Quand’oltre alle colonne, ed oltre ai liti
Cui strider l’onde all’attuffar del sole
Parve udir su la sera, agl’infiniti
Flutti commesso, ritrovasti il raggio
Del Sol caduto, e il giorno
Che nasce allor ch’ai nostri è giunto al fondo;
E rotto di natura ogni contrasto,
Ignota immensa terra al tuo viaggio
Fu gloria, e del ritorno
Ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto
L’etra sonante e l’alma terra e il mare
Al fanciullin, che non al saggio, appare.

Nostri sogni leggiadri ove son giti
Dell’ignoto ricetto
D’ignoti abitatori, o del diurno
Degli astri albergo, e del rimoto letto
Della giovane Aurora, e del notturno
Occulto sonno del maggior pianeta?
Ecco svaniro a un punto,
E figurato è il mondo in breve carta;
Ecco tutto è simile, e discoprendo,
Solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta
Il vero appena è giunto,
O caro immaginar; da te s’apparta
Nostra mente in eterno; allo stupendo
Poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
E il conforto perì de’ nostri affanni.

Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo
Sole splendeati in vista,
Cantor vago dell’arme e degli amori,
Che in età della nostra assai men trista
Empièr la vita di felici errori:
Nova speme d’Italia. O torri, o celle,
O donne, o cavalieri,
O giardini, o palagi! a voi pensando,
In mille vane amenità si perde
La mente mia. Di vanità, di belle
Fole e strani pensieri
Si componea l’umana vita: in bando
Li cacciammo: or che resta? or poi che il verde
È spogliato alle cose? Il certo e solo
Veder che tutto è vano altro che il duolo.

O Torquato, o Torquato, a noi l’eccelsa
Tua mente allora, il pianto
A te, non altro, preparava il cielo.
Oh misero Torquato! il dolce canto
Non valse a consolarti o a sciorre il gelo
Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda,
Cinta l’odio e l’immondo
Livor privato e de’ tiranni. Amore,
Amor, di nostra vita ultimo inganno,
T’abbandonava. Ombra reale e salda
Ti parve il nulla, e il mondo
Inabitata piaggia. Al tardo onore
Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,
L’ora estrema ti fu. Morte domanda
Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.

Torna torna fra noi, sorgi dal muto
E sconsolato avello,
Se d’angoscia sei vago, o miserando
Esemplo di sciagura. Assai da quello
Che ti parve sì mesto e sì nefando,
È peggiorato il viver nostro. O caro,
Chi ti compiangeria,
Se, fuor che di se stesso, altri non cura?
Chi stolto non direbbe il tuo mortale
Affanno anche oggidì se il grande e il raro
Ha nome di follia;
Né livor più, ma ben di lui più dura
La noncuranza avviene ai sommi? o quale,
Se più de’ carmi, il computar s’ascolta,
Ti appresterebbe il lauro un’altra volta?

Da te fino a quest’ora uom non è sorto,
O sventurato ingegno,
Pari all’italo nome, altro ch’un solo,
Solo di sua codarda etate indegno
Allobrogo feroce, a cui dal polo
Maschia virtù, non già da questa mia
Stanca ed arida terra,
Venne nel petto; onde privato, inerme,
(Memorando ardimento) in su la scena
Mosse guerra a’ tiranni: almen si dia
Questa misera guerra
E questo vano campo all’ire inferme
Del mondo. Ei primo e sol dentro all’arena
Scese, e nullo il seguì, che l’ozio e il brutto
Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.

Disdegnando e fremendo, immacolata
Trasse la vita intera,
E morte lo scampò dal veder peggio.
Vittorio mio, questa per te non era
Età né suolo. Altri anni ed altro seggio
Conviene agli alti ingegni. Or di riposo
Paghi viviamo, e scorti
Da mediocrità: sceso il sapiente
E salita è la turba a un sol confine,
Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso,
Segui; risveglia i morti,
Poi che dormono i vivi; arma le spente
Lingue de’ prischi eroi; tanto che in fine
Questo secol di fango o vita agogni
E sorga ad atti illustri, o si vergogni.

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Il Romanticismo nella letteratura italiana https://cultura.biografieonline.it/romanticismo-letterario-italiano/ https://cultura.biografieonline.it/romanticismo-letterario-italiano/#comments Thu, 16 Mar 2017 14:18:13 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=21740 Con il termine Romanticismo italiano si indicano il pensiero e le opere di una serie di autori attivi in Italia nel periodo tra il Congresso di Vienna e l’Unità d’Italia. Questo movimento nasce in piena continuità con il Romanticismo europeo, esaltandone in particolare i caratteri patriottici e politici. La corrente romantica europea era una reazione all’arida poetica illuminista per proporre un ritorno ai valori religiosi, sentimentali e patriottici.

Romanticismo in Italia - Romanticismo italiano
Frontespizio di “Storia della letteratura italiana”, di Francesco de Sanctis

Il Romanticismo, infatti, si diffonde in tutta Europa a partire dall’inizio dell’Ottocento e propone il recupero del passato medievale e dell’identità linguistica e culturale dei popoli. Il termine Romanticismo deriva proprio dall’aggettivo romance e roman che, nel francese antico e nello spagnolo, designavano le opere scritte nelle lingue romanze. L’aggettivo romantico ha poi assunto il significato di “incline al sentimentalismo” proprio collegandosi al movimento che nacque nella prima metà dell’Ottocento.

Il Romanticismo italiano è stato un momento letterario fondamentale per la storia culturale del paese. Ha dato spunti importanti a due grandi autori della letteratura come Leopardi e Manzoni ed ha contribuito alla nascita di un’ideologia politica improntata sulla coscienza di appartenere ad un unico popolo.

Il Romanticismo in Italia

Le caratteristiche principali del Romanticismo europeo si diffondono anche in Italia ma in maniera più velata, come era accaduto per quasi tutti i movimenti letterari. In Italia, infatti, lo slancio sentimentale dei grandi romanzieri tedeschi e inglesi era decisamente attenuato. Ciò perché i letterati che si avvicinavano al Romanticismo sceglievano la sua vena realistica e storica.

Alcuni letterati italiani possono quindi definirsi preromantici. Una figura che bisogna ricordare è quella di Ugo Foscolo, certamente affine a questo movimento. Tra i preromantici si annovera inoltre Vittorio Alfieri. Le sue opere sono imperniate su alcuni elementi romantici come l’individualismo e la concezione tragica dell’esistenza.

La nascita del Romanticismo italiano

La data convenzionale della nascita del Romanticismo italiano è il 1816. Nel gennaio di quest’anno, infatti, venne fondata la rivista «Biblioteca italiana» dove comparve l’articolo di Madame de Staël “Sulla maniera e la utilità delle traduzioni“.

Foto di Madame de Staël
Madame de Staël

Lo scritto avviò la discussione tra sostenitori del Romanticismo e sostenitori del Classicismo. La pubblicazione di questo articolo diede il via alla polemica tra letterati italiani classicisti e romantici. Tale polemica si protrasse fino al 1825.

In Italia il Classicismo era una realtà molto presente perché lo studio degli autori classici non era mai caduto in disuso. Esso era anzi una colonna portante da un punto di vista culturale. Quando la ventata del Romanticismo iniziò a diffondersi nei circoli letterari, venne a crearsi molto scompiglio.

Dal Classicismo al Romanticismo nella letteratura italiana

Madame de Staël, nel suo articolo che apriva la pista a tutte le altre polemiche, affermava che la letteratura italiana non doveva soltanto guardare ai modelli del passato ma doveva svecchiarsi e orientarsi verso i nuovi modelli letterari contemporanei europei.

I poeti non uscivano dalle parole né dalle dizioni de’ classici: e l’Italia, udendo tuttavia sulle rive del Tevere e dell’Arno e del Sebeto e dell’Adige la favella de’ Romani, ebbe scrittori che furono stimati vicini allo stile di Virgilio e di Orazio […] dei quali però se non è oggidì spenta la fama, giacciono abbandonate le opere, che dai soli molto eruditi si leggono: tanto è scarsa e breve la gloria fondata sulla imitazione. E questi poeti di rinnovata latinità furono rifatti Italiani dai lor concittadini: perocché è opera di natura che la favella, che è compagna e parte continua di nostra vita, sia anteposta a quella che da’ libri s’impara, e si trova solamente ne’ libri. (Madame de Staël)

Nonostante le polemiche dei classicisti, molti letterati accettarono le critiche della Staël e cercarono di comprendere il fenomeno romantico per interiorizzarlo. Tra essi si ricorda Giovanni Berchet, autore del manifesto del Romanticismo milanese Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo.

La polemica assunse quindi anche caratteri politici. I classicisti sostenevano la dominazione austriaca mentre i romantici professavano gli ideali della libertà e dell’indipendenza della nazione.

Il Romanticismo italiano e la poesia

Per quanto riguarda la poesia, venne rifiutata la tradizione classica. Venne altresì espressa una maggiore esigenza di verità, senza l’utilizzo di troppi artifici retorici. Si ritornò anche alla poesia dialettale. Importanti autori del periodo furono il romano Giuseppe Gioachino Belli e il milanese Carlo Porta.

Come non citare la sensibilità romantica di Giacomo Leopardi e di Alessandro Manzoni. Il primo non fu un romantico vero e proprio, ma la sua poesia lirica e intimistica certamente fu molto vicina ai temi del Romanticismo europeo.

Leopardi con la sua lirica espresse proprio i conflitti dell’animo, la tendenza all’infinito, il difficile rapporto con la realtà e il pessimismo.

Alessandro Manzoni
Alessandro Manzoni

Manzoni con la sua poetica invece aderì in maniera convinta al nuovo modello letterario. Nelle sue opere si nota la sua religiosità cattolica e soprattutto il suo storicismo. Tutte le sue opere, oltre al suo capolavoro I promessi sposi, sono immerse nel contesto storico per esprimere il suo desiderio profondo: dare all’Italia una lingua nazionale. Per un approfondimento, si legga Manzoni e la questione della lingua.

Un altro esponente del Romanticismo italiano che bisogna ricordare fu Francesco de Sanctis. Egli fu autore della Storia della letteratura italiana, uscita in due volumi tra il 1870 e il 1871. Critico letterario e storico, volle dedicarsi alla stesura di quest’opera proprio per formare l’identità letteraria e civile degli italiani. In essa sono annoverati tutti gli autori più importanti della nostra tradizione.

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Operette Morali (di Giacomo Leopardi), riassunto https://cultura.biografieonline.it/operette-morali-leopardi/ https://cultura.biografieonline.it/operette-morali-leopardi/#comments Wed, 31 Aug 2016 09:33:48 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19227 Le Operette Morali rappresentano la principale opera in prosa di Giacomo Leopardi. La prima edizione venne pubblicata nel 1827 e comprendeva 20 testi già strutturati come nell’edizione definitiva del 1845, edita postuma. Si tratta di 24 prose satiriche composte dall’autore intorno al 1824, momento durante il quale abbandonò temporaneamente la poesia. La prima idea dell’opera, però, risalirebbe al 1819, quando l’autore si ispirò ai Dialoghi di Luciano di Samosata (II secolo d.C.).

Operette Morali

Leopardi, infatti, visse una travagliata esistenza, con vicende personali molto complicate. Tali vicende lo spinsero ad un’amara riflessione sulla condizione dell’uomo e sulla sua felicità.

Il viaggio a Roma

Le Operette Morali furono composte a seguito di un viaggio a Roma (1822), ospite dallo zio materno. Leopardi però non si ambientò tra i salotti e l’aristocrazia romana, anzi, rimase profondamente deluso da questa esperienza. Si convinse così che l’infelicità era un dato esistenziale che coinvolgeva tutti gli uomini, e non solo lui che viveva nel natio borgo selvaggio.

Così, tra il 1823 e il 1828, Leopardi abbandonò la poesia dei Piccoli Idilli, ricchi di suggestioni romantiche, per abbracciare lo stile della prosa e riflettere sul significato dell’esistenza. Sono gli anni dell’amaro pessimismo cosmico: l’infelicità è un dato universale che coinvolge tutti gli uomini.

Lo scopo e il significato delle Operette Morali

L’opera in esame, Operette Morali, si propone quindi di mostrare agli uomini l’arido vero nel quale sono immersi: la sofferenza che coinvolge ogni essere vivente. Il nome “Operette” allude alla scelta di raccontare la condizione degli uomini utilizzando dialoghi satirici. L’aggettivo “morali” vuole invece innalzare il tono dell’opera e regalargli dignità.

Anche se Leopardi vuole dare un’unità all’opera, all’interno le operette hanno diverse strutture: si trovano narrazioni, dialoghi, brevi trattati e racconti mitologici. Spesso i protagonisti sono personaggi storici (Torquato Tasso, Cristoforo Colombo) mitologici (Ercole e Atlante) oppure entità astratte personificate (famosissima è la personificazione della Natura in Dialogo della Natura e di un Islandese).

Lo stile, medio e misurato, garantisce unità all’opera: il tono è infatti distaccato, ironico, l’autore infatti guarda con occhio disilluso alle vicende umane.

I titoli delle Operette Morali

  1. STORIA DEL GENERE UMANO
  2. DIALOGO D’ERCOLE E DI ATLANTE
  3. DIALOGO DELLA MODA E DELLA MORTE
  4. PROPOSTA DI PREMI FATTA DALL’ACCADEMIA DEI SILLOGRAFI
  5. DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO
  6. DIALOGO DI MALAMBRUNO E DI FARFARELLO
  7. DIALOGO DELLA NATURA E DI UN’ANIMA
  8. DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA
  9. LA SCOMMESSA DI PROMETEO
  10. DIALOGO DI UN FISICO E DI UN METAFISICO
  11. DIALOGO DI TORQUATO TASSO E DEL SUO GENIO FAMILIARE
  12. DIALOGO DI UN ISLANDESE
  13. IL PARINI OVVERO DELLA GLORIA
  14. DIALOGO DI FEDERICO RUYSCH E DELLE SUE MUMMIE
  15. DETTI MEMORABILI DI FILIPPO OTTONIERI
  16. DIALOGO DI CRISTOFORO COLOMBO E DI PIETRO GUTIERREZ
  17. ELOGIO DEGLI UCCELLI
  18. CANTICO DEL GALLO SILVESTRE
  19. FRAMMENTO APOCRIFO DI STRATONE DA LAMPSACO
  20. DIALOGO DI TIMANDRO E DI ELEANDRO
  21. IL COPERNICO
  22. DIALOGO DI PLOTINO E PORFIRIO
  23. DIALOGO DI UN VENDITORE DI ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE
  24. DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO

Approfondimenti

Tutti i testi sono comunque legati da tematiche similari. Molti di essi, infatti, trattano il tema dell’infelicità umana e della teoria del piacere. Ad esempio la prima prosa “Storia del genere umano” riflette, con esempi mitologici, sulla storia della ricerca della felicità da parte dell’uomo nelle diverse tappe storiche.

Leopardi Giacomo
Giacomo Leopardi

Sulla stessa scia si trova il “Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare” che insiste sul fatto che solo nel ricordo può trovarsi l’illusione di un piacere raggiungibile. Seguendo il tema dell’illusione di una speranza raggiungibile, si ricollega anche “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere“. In esso si racconta come l’attesa del futuro stimoli l’illusione di un piacere che però non arriverà mai.

Altre operette sono una satira dell’antropocentrismo. Secondo l’autore infatti, è ridicolo credere che tutto l’universo sia stato costruito per il benessere dell’uomo. In “Il Copernico” il Sole viene rappresentato come stanco di girare intorno alla terra e vuole cambiare le parti.

In “Cantico del gallo silvestre” è presente una profezia sulla scomparsa del genere umano. La consapevolezza che la Natura non si cura dell’uomo culmina in “Dialogo della Natura e di un Islandese“, che esprime pienamente l’indifferenza di essa verso il destino degli uomini.

Nel “Dialogo di Plotino e di Porfirio” si tratta il tema del suicidio, visto però come una scelta egoistica, che farebbe solo soffrire le persone care. Nell’ultima operetta, “Dialogo di Tristano e di un amico“, l’autore finge di cambiare idee ma in realtà non fa altro che ribadire il suo pessimismo cosmico.

Breve commento

Le Operette Morali rappresentano quindi la testimonianza diretta del pensiero più profondo dell’autore resa in chiave satirica, come solo il genio di Leopardi era in grado di fare. Da argomenti apparentemente semplici, il lettore è spinto a riflettere sul proprio destino, caratteristica che rende quest’opera sempre leggibile ed attuale.

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La quiete dopo la tempesta (Leopardi): analisi, parafrasi e commento https://cultura.biografieonline.it/la-quiete-dopo-la-tempesta/ https://cultura.biografieonline.it/la-quiete-dopo-la-tempesta/#respond Tue, 23 Aug 2016 13:25:05 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19185 La lirica “La quiete dopo la tempesta” è stata composta da Giacomo Leopardi tra il 17 e il 20 settembre del 1829, qualche giorno prima dell’altrettanto celebre Sabato del villaggio. La poesia appartiene alla raccolta dei Canti leopardiani. Venne pubblicata per la prima volta nell’edizione del 1831, nella sezione dei Grandi Idilli o Canti pisano-recanatesi.

La quiete dopo la tempesta - poesia - Leopardi

Questa sezione raccoglie liriche composte tra il 1828 e il 1831,  a seguito di un momento di silenzio poetico durante il quale l’autore compose le Operette morali e si dedicò maggiormente alla prosa. Dei Grandi Idilli fanno parte: Il risorgimento, A Silvia, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio.

Il pessimismo cosmico

Questi componimenti segnano una svolta nel pensiero leopardiano perché l’autore, durante il silenzio poetico, elaborò una nuova fase del suo pessimismo, quello cosmico. L’infelicità investe tutte le creature e gli uomini devono rendersi conto che la natura non si cura minimamente di loro.

Queste liriche presentano dei momenti lieti della vita umana ma con la consapevolezza che ogni illusione dura solo per poco tempo. La visione del mondo dell’autore diventa qui pienamente disillusa.

Analisi della poesia

La lirica in esame, “La quiete dopo la tempesta“, è una canzone libera (detta anche leopardiana) composta da tre strofe di endecasillabi e settenari liberamente rimati. Essa narra dell’arrivo della pace dopo un violento temporale e quindi della ripresa delle attività quotidiane da parte della gente del borgo natio (Recanati). Ma il poeta percepisce che questi momenti di calma sono soltanto brevi interruzioni del dolore, che è inevitabile.

La quiete dopo la tempesta: il testo completo della poesia

Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L’artigiano a mirar l’umido cielo,
Con l’opra in man, cantando,
Fassi in su l’uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
Della novella piova;
E l’erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand’è, com’or, la vita?
Quando con tanto amore
L’uomo a’ suoi studi intende?
O torna all’opre? o cosa nova imprende?
Quando de’ mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d’affanno;
Gioia vana, ch’è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.

O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
E’ diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D’alcun dolor: beata
Se te d’ogni dolor morte risana.

Analisi delle tre strofe

La prima strofa è maggiormente descrittiva. Leopardi infatti racconta come gli abitanti e gli animali riprendano tutte le loro occupazioni dopo la tempesta. Gli uccelli fanno festa, la gallina riprende a chiocciare, l’artigiano si affaccia all’uscio della sua porta, il sole torna a risplendere tra i casolari e il viandante riprende il suo cammino.

La seconda strofa inizia con alcune domande di riflessione. Quand’è che la vita risulta gradita come in questo momento? Il centro della poesia è infatti il verso 32 (Piacer figlio d’affanno). La felicità può nascere soltanto dopo uno scampato pericolo – in questo caso la tempesta che ha scosso le nuvole contro gli uomini – quando finalmente l’animo umano si sente sollevato.

La terza strofa della poesia prosegue con questa riflessione, sviluppandola maggiormente. Il poeta si rivolge direttamente alla natura con grande ironia (vv. 42-44: O natura cortese | son questi i doni tuoi, | questi i diletti sono). Viene ribadito il concetto espresso anche nella seconda strofa, ossia che per gli uomini l’unico motivo di gioia è quando termina un momento di dolore.

Qui l’autore mostra tutto il suo pessimismo cosmico. Il piacere dovuto alla cessazione del dolore (vv. 47-50: Pene tu spargi a larga mano; il duolo | spontaneo sorge e di piacer, quel tanto | che per mostro e miracolo talvolta | nasce d’affanno, è gran guadagno) dura poco. E la morte è l’unica cosa che può far guarire finalmente dal dolore (vv.53-54: beata | se te d’ogni dolor morte risana).

Commento

Dal punto di vista stilistico, la poesia “La quiete dopo la tempesta” può dirsi divisa in due parti: la prima strofa inizia con l’anastrofe “passata è la tempesta“, viene il verbo e rendere più immediato lo stupore della fine del temporale. Tutta la prima strofa è ricca di sensazioni uditive, termini concreti e quotidiani che vengono utilizzati per descrivere il borgo più realisticamente.

La sintassi è piana e il ritmo è veloce grazie all’utilizzo di molti enjambements. Nelle altre due strofe invece domina l’ironia. Leopardi si rivolge agli uomini chiamandoli “cara prole” (v. 51) e alla natura chiamandola “cortese” (v. 42) in antifrasi quindi con ciò che vuole esprimere.

Dal punto di vista lessicale si trovano maggiori termini astratti. La sintassi è spezzata da frasi brevi e periodi più complessi.

In questa fase della vita del poeta, l’unica felicità che l’uomo può ottenere è molto breve perché è dovuta all’interruzione solo temporanea del dolore. Quella felicità eterna, da sempre aspirazione di tutti gli uomini, è quindi raggiungibile solo con la morte.

Gli eventi della vita però, porteranno il poeta ad una maturazione meno pessimistica e più cosciente del suo pensiero nelle fasi successive della sua poetica.

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La ginestra, poesia di Leopardi https://cultura.biografieonline.it/ginestra-leopardi/ https://cultura.biografieonline.it/ginestra-leopardi/#comments Thu, 11 Aug 2016 10:45:07 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19171 La ginestra o Il fiore del deserto è la lirica che chiude i Canti di Giacomo Leopardi, per una precisa scelta in quanto funge da testamento spirituale dell’autore. E’ stata composta a Torre del Greco, in provincia di Napoli, nel 1836. E’ stata poi pubblicata postuma nell’edizione dei Canti del 1845, curata da Antonio Ranieri.

La Ginestra - fiore - poesia
Una foto del fiore che dà il titolo alla poesia di Leopardi: La Ginestra

Un cenno sui Canti

In questa definitiva edizione, i Canti comprendono 41 liriche che sono state ordinate sia secondo criteri cronologici che tematici. L’opera non si pone in continuità con il Canzoniere di Petrarca perché non è unitaria. E’ ugualmente importante perché è la testimonianza dell’evoluzione del pensiero leopardiano. Per brevità, si possono dividere le liriche in tre grandi gruppi che rappresentano le rispettive fasi della produzione dell’autore.

1818-1823 Piccoli idilli

Leopardi vive la fase del pessimismo storico. L’infelicità è infatti dovuta all’evoluzione storica della civiltà perché l’uomo, col passare degli anni, si allontana sempre di più dalla felicità dello stato naturale.

1828-1830 Grandi idilli

Oppure Canti pisano-recanatesi. E’ questa la fase del pessimismo cosmico. L’infelicità investe tutto e la natura diventa matrigna perché spinge gli uomini a desiderare cose che non possono ottenere (illusioni).

1831-1836 Ciclo di Aspasia e ultime liriche

(Tra cui La ginestra) Sono in polemica con il facile ottimismo e sono ricchi di pensiero filosofico.

La ginestra: il testo

La ginestra o fiore del deserto è quindi il testamento poetico dell’autore. L’unico modo per contrastare il destino così maligno verso gli uomini è quello di comportarsi come la ginestra. Attorno al fiore ruota tutto il componimento. Tale pianta si trova alle pendici del Vesuvio. Essa resiste a tutto e diventa il simbolo di una nuova poesia che auspica la fratellanza tra gli uomini (pessimismo sociale).

Leggi il testo completo della poesia La ginestra.

La canzone è composta da strofe libere di endecasillabi e settenari. Essa si apre con un verso del Vangelo di Giovanni (“E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce“).

Leopardi polemizza con quelle persone che scelgono di vivere in uno stato di ignoranza (nelle tenebre), non tenendo conto dei mali del mondo. La luce rappresenta quindi la consapevolezza dell’esistenza di tali mali e non va inquadrata dal punto di vista religioso.

Analisi delle strofe

La prima strofa si apre con la descrizione di un paesaggio desolato, quello del Vesuvio. In questo contesto cresce la ginestra con i suoi fiori profumati. Leopardi ricorda che anche tra le rovine dell’antica Roma è possibile sentire l’odore di questa pianta. Con grande sarcasmo, il poeta invita gli ottimisti (coloro che di solito esaltano la condizione degli uomini) a visitare questo paesaggio desolato per capire come la natura non si cura degli uomini.

La strofa termina con un famosissimo verso: “le magnifiche sorti e progressive“. La citazione è chiaramente sarcastica verso chi pensa che gli uomini vivano sereni sulla terra.

Nella seconda strofa il poeta accusa il XIX secolo di aver abbandonato il razionalismo dell’Illuminismo. Per essere invece tornato a credenze religiose ed irrazionali che portano l’uomo verso un gravissimo regresso culturale. Continua inoltre la polemica verso coloro che si illudono che questa sia la migliore epoca che gli uomini abbiano mai vissuto.

Le strofe centrali

Nella terza strofa, il poeta invita gli uomini a prendere atto della triste condizione di infelicità in cui si trovano e soprattutto esalta la solidarietà tra loro. Bisogna infatti stringersi insieme in una social catena (v. 149). Serve lottare contro la natura perché essa è la principale responsabile dei desideri non soddisfatti dell’uomo e della condizione di infelicità nella quale essi si trovano.

La quarta strofa si apre con la contemplazione della volta celeste. Guardando questi spazi immensi, secondo Leopardi, l’uomo sbaglia a credersi al centro dell’universo e quindi pecca di superbia. Egli polemizza quindi anche con la religione (vv. 190-195) che ha creato delle illusioni perché ha spinto l’uomo a pensare che esso sia al centro dell’universo.

La quinta strofa comincia con una similitudine. Il poeta paragona la distruzione del vulcano con la mela caduta dall’albero che uccide un intero popolo di formiche in un solo istante. In tal modo simboleggia l’assoluto disinteresse della natura nei confronti dello stato umano.

Strofe finali

Questa riflessione sulla natura termina nella sesta strofa. Qui viene descritta l’eruzione del Vesuvio di notte con particolari cupi proprio per dimostrare che la vita dell’uomo è molto breve mentre la natura è eterna e minacciosa.

La poesia termina con una strofa finale dedicata alla ginestra. La struttura quindi è perfettamente circolare. Il fiore viene esaltato perché è capace di sottostare al proprio destino senza alzare il capo. E quindi è capace di diventare superbo, senza supplicare il vulcano di risparmiarla. Gli uomini dovrebbero quindi evitare sia la viltà che l’orgoglio e diventare umili ma tenaci come la ginestra per continuare a vivere la loro esistenza in maniera degna.

Commento

Dal punto di vista formale, il poeta abbandona le suggestioni indefinite per adottare una poesia più filosofica e razionale e soprattutto preferisce utilizzare strofe ampie per sviluppare il suo discorso.

La sintassi diventa complessa e articolata con periodi ricchi di subordinate, lo stile diventa quasi quello di una prosa. Prevale anche l’utilizzo di suoni aspri perché il paesaggio rappresentato desolato ed arido e l’utilizzo di pronomi deittici (or, qui, questo etc.). Sono presenti inoltre molte sentenze morali.

La ginestra diventa quindi un modello morale da seguire perché accetta il suo destino senza essere superba e neppure vigliacca: nella sua semplicità sa essere molto più coraggiosa dell’uomo. Leopardi vuole così lasciare il suo messaggio all’umanità.

Egli infatti non è un poeta pienamente pessimista come si può pensare, ma crede fortemente nella solidarietà tra gli uomini, che diventa così il valore più importante per contrastare i mali della vita.

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La ginestra, testo completo della poesia https://cultura.biografieonline.it/ginestra-testo-poesia/ https://cultura.biografieonline.it/ginestra-testo-poesia/#comments Thu, 11 Aug 2016 10:34:15 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19408 Quello che segue è il testo completo della poesia La ginestra, composta da Giacomo Leopardi.

Ginestra
Ginestra: una foto del fiore

Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E’ il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch’a ludibrio talora
T’abbian fra se. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che obblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell’aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama se nè stima
Ricco d’or nè gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma se di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così, qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.

Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e sulla mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto Seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.

Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l’opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l’assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d’alto piombando,
Dall’utero tonante
Scagliata al ciel, profondo
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli,
O pel montano fianco
Furiosa tra l’erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d’infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l’estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell’uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell’altra è la strage,
Non avvien ciò d’altronde
Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall’ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell’ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall’inesausto grembo
Sull’arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l’acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontano l’usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all’aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
Per li vacui teatri, per li templi
Deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per voti palagi atra s’aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l’ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino,
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.

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La poetica di Leopardi https://cultura.biografieonline.it/leopardi-poetica/ https://cultura.biografieonline.it/leopardi-poetica/#comments Sun, 10 Nov 2013 17:20:42 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8496 La poetica di Leopardi è in sintesi la concezione della poesia, che ebbe il poeta italiano. Si distinguono due momenti nella poetica di Giacomo Leopardi: il momento classicistico e il momento romantico.

Leopardi Giacomo
Giacomo Leopardi

Il momento classicistico

Negli anni della polemica in Italia tra classicisti e romantici (1816) Leopardi prende le difese del classicismo. Lo fa con una lettera inviata alla Biblioteca italiana. Con la lettera il poeta difende il classicismo. Ma la sua difesa in fondo si trasforma in una prima adesione al romanticismo. Infatti il poeta non difende tutto il classicismo ma solo quello primitivo. Ovvero quello dei poeti più antichi, tra i quali Omero. Poeti che osservano e imitano la natura.

Una concezione diversa dal classicismo di tipo rinascimentale ed arcadico, che si fonda sull’imitazione dei modelli ed è per questo motivo falso e artificioso. Difendendo il classicismo primitivo, il Leopardi si accostava alla teoria vichiana del poeta primitivo e al Romanticismo per il quale la poesia è espressione del sentimento. E ancora quando riconosce nella poesia del Romanticismo l’importanza del “patetico”, sentimento del dolore universale.

Giacomo Leopardi però toglie il merito della scoperta del patetico ai romantici in quanto si trovava già nei classici, in Omero, Catullo, Virgilio, Petrarca, Tasso, che lo esprimevano con misura, al contrario dei romantici che lo esprimevano con esagerazione, esasperandolo con sospiri e lacrime.

Il momento romantico della poetica di Leopardi

La poesia del Leopardi vede il momento romantico quando il poeta fa sua la distinzione dei romantici tedeschi: poesia di immigrazione e di sentimento.

La poesia di immigrazione è considerata la poesia vera, perfetta e inimitabile fatta di miti e di fantasie. Come la poesia di Omero e degli antichi, che credevano nei miti che cantavano. La poesia di sentimento è quella dei tempi moderni e si nutre di affetti e idee filosofiche, morali e sociali.

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La lirica leopardiana https://cultura.biografieonline.it/leopardi-lirica/ https://cultura.biografieonline.it/leopardi-lirica/#comments Fri, 08 Nov 2013 16:25:41 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8400 Possiamo suddividere la lirica leopardiana in quattro periodi:

  1. il primo è il periodo delle poesie giovanili, scritte prima del 1818;
  2. segue il periodo delle canzoni civili e filosofiche e dei piccoli idilli, che va dal 1818 al 1823;
  3. il terzo è il periodo della composizione dei grandi idilli, che va dal 1828 al 1830;
  4. infine abbiamo il periodo della composizione del “ciclo di Aspàsia”, e del soggiorno a Napoli che va dal 1831 al 1837.
Giacomo Leopardi
Giacomo Leopardi

Primo periodo

Il primo periodo della lirica leopardiana comprende i versi scritti da Giacomo Leopardi adolescente, prima del 1818. Le più importanti poesie di questo periodo sono quelle che egli incluse nei Canti. Esse sono: L’Appressamento della morte (1816) e due elegie: Elegia prima ed Elegia seconda, entrambe scritte, tra il 1817 e il 1818.

Nell’Appressamento della morte il Leopardi pensa di dover morire giovane e di dover quindi rinunciare alle sue dolci illusioni, soprattutto a quella della gloria.

Le due elegie raccontano della storia del suo amore, tutto intimo e segreto per la cugina del padre Gertrude Cassi-Làzzari, arrivata da Pesaro per accompagnare la figlia in un convento di suore, ed ospite per tre giorni dei Leopardi.

Le canzoni civili e filosofiche

Le canzoni civili sono così chiamate, perché hanno ispirazione patriottica e oratoria, e sono scritte con l’intento di ispirare negli Italiani l’amor di patria e il ricordo della sua passata grandezza. Le canzoni civili sono cinque: All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina,  Ad un vincitore nel gioco del pallone.

Tutte presentano un unico schema, che resterà poi la caratteristica della poesia di Leopardi. Prendono, infatti, lo spunto da una fatto di cronaca (i soldati italiani morti nella campagna di Russia, per la canzone All’Italia; il monumento di Dante Alighieri che si preparava a Firenze; la scoperta del De re publica di Cicerone ad opera dei Car­dinale Angelo Mai; le nozze imminenti della sorella Paolina, che poi non avvennero più, per la rottura del fidanzamento; la vittoria sportiva del recanatese Carlo Dìdimi), ed esprimono la condanna del presente e la nostalgia del passato.

Le canzoni civili sono frutto dell’amicizia col Giordani, che era di idee liberali, e della cosiddetta “conversione” politica del Leopardi, in più sono l’espressione della sensibilità romantica del poeta, che è soffocato dal presente e vuole evadere, trasferendosi idealmente nel passato.

In un primo momento questo passato eroico da prendere come riferimento è per il Leopardi l’età classica, l’età degli eroi greci e romani, le cui virtù morali e civili sono, secondo il poeta, da prendere come esempio ed incitamento, agli Italiani degeneri del suo tempo. Anche nel passato, però, il Leopardi proietta la sua tristezza e il suo dolore, scoprendo anche nel passato la vanità delle illusioni e il sentimento della umana infelicità.

Deluso quindi dall’età classica, il poeta si rifugia in un’età ancora più remota di quella classica, al tempo dei primordi del genere umano, anteriore alla scoperta amara della ragione, rievocata nella canzone Alla Primavera, che rappresenta la primavera del genere umano, quando la natura era madre benigna e dispensatrice di felicità e di illusioni agli uomini.

Nell’Inno ai patriarchi, questo periodo di felicità è portato al mondo biblico di Abramo e dei primi padri, quasi per dire che esso non è mai esistito e che gli uomini sono stati sempre e dovunque infelici.

L’ultima canzone di questo periodo è quella “Alla sua donna”, che possiamo inserire per il suo contenuto nel pensiero del Leopardi che identifica come pessimismo cosmico.

Il Leopardi qui esprime l’illusione dell’amore. Quella rappresentata nella canzone non è una donna reale, ma si tratta dell’immagine consolatrice della “donna che non si trova“, come scrisse il Leopardi: è la donna dell’immaginazione e della fantasia. È una donna sognata che, se esistesse realmente, farebbe felice l’uomo che la ama, andando contro le disposizioni del fato, che ha destinato l’uomo all’infelicità.

Allo svolgimento di contenuto, che va alla ricerca del passato e della felicità, corrisponde lo svolgimento della forma.

Le canzoni civili e filosofiche sono molto elaborate e contengono elementi retorici e sono caratterizzati da una sintassi complessa, da un linguaggio classicheggiante. Tuttavia, dalla canzone All’Italia alla canzone Alla sua donna, troviamo una purificazione della forma che tende a liberarsi dalla retorica e a diventare più semplice.

I piccoli idilli

Questa purificazione della forma la troviamo nei “piccoli idilli”, scritti dal Leopardi nel periodo che va dal 1828 al 1830. I piccoli idilli sono:

  1. La sera del dì di festa;
  2. L’infinito;
  3. Alla luna;
  4. Il sogno;
  5. La vita solitaria;
  6. Il frammento “Odi, Melisso”, pubblicato col titolo “Lo spa­vento notturno”.

I piccoli idilli rappresentano il tentativo del Leopardi di esprimere una poesia pura, immune cioè da elementi intellettualistici, eruditi, retorici, ed espressione ingenua, semplice, ed essenziale del sentimento.

I grandi idilli

Il terzo periodo della lirica leopardiana riguarda la composizione dei grandi idilli. Con il Risorgimento si apre il nuovo ciclo dell’attività poetica del Leopardi, che si conclude nel 1830 e comprende la composizione dei grandi idilli. Questi sono:

  1. A Silvia;
  2. Le Ricordanze;
  3. La quiete dopo la tempesta;
  4. Il sabato del villaggio;
  5. Il passero solitario;
  6. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

La struttura dei grandi idilli è analoga a quella dei piccoli idilli. L’importanza dei grandi idilli è nel contenuto universale, ma anche nell’attuazione della lirica pura, intesa come voce del cuore, che il Leopardi era venuto elaborando nella sua poetica. Ad attuare la lirica pura dei grandi idilli contribuiscono, oltre al contenuto tutto rievocativo e sentimentale, anche la varietà e la libertà della canzone leopardiana, e il linguaggio vago ed  indefinito, che il Leopardi aveva pure teorizzato nella sua poetica. Una caratteristica di questo linguaggio è che è composto da un linguaggio parlato, impreziosito da qualche elemento della tradizione colta.

Quarto periodo

ll quarto periodo della lirica leopardiana comprende le poesie del ciclo di Aspasia e quello del periodo napoletano, che va dal 1831 al 1837 (anno della morte del poeta). Queste poesie sono in genere svalutate dalla critica, perché  elaborate e per la presenza di elementi filosofici, polemici, sarcastici. La poetica dell’idillio è incentrata sulle rimembranze, sul passato, della giovinezza perduta e della felicità sognata, che è il tema degli idilli.

Le poesie dell’ultimo periodo comprendono cinque canti, che sono stati ispirati all’amore infelice del Leopardi per la signora Fanny Targioni-Tozzetti, nell’ultimo soggiorno fiorentino. Essi sono:

  1. Il pensiero dominante;
  2. Amore e morte;
  3. Consalvo;
  4. A se stesso;
  5. Aspasia.

I primi tre rappresentano il sentimento amoroso; A se stesso rappresenta la caduta dell’illusione; Aspasia, composta a Napoli, contiene la vendetta del poeta contro la donna che lo ha deluso.

Altre poesie dell’ultimo periodo sono: la Palinodìa; i nuovi credenti; i Paralipómen;i alla Batracomiomachia. Le migliori poesie del periodo napoletano sono La ginestra, Fiore del deserto e Il tramonto della luna.

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Critica leopardiana https://cultura.biografieonline.it/critica-leopardiana-storia/ https://cultura.biografieonline.it/critica-leopardiana-storia/#comments Fri, 08 Nov 2013 15:25:40 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8316 Se si eccettua Pietro Giordani, che fu suo amico ed ammiratore entusiasta, Giacomo Leopardi non fu un poeta apprezzato dai suoi contemporanei, specialmente dagli scrittori idealisti e cattolici, che gli furono ostili per il suo materialismo ed ateismo. Niccolò Tommaseo, per esempio, ebbe sempre per il Leopardi un’avversione impietosa ed irriverente che arrivò fino al dileggio quando scrisse l’epigramma: “Natura con un pugno lo sgobbò / canta gli disse irata ed ei cantò“.

Questo epigramma non è dissimile per la sua volgarità, dai versetti che i monelli di Recanati gridavano dietro al poeta quando passava per le vie del paese: “Gobbus esto / fammi un canestro. / fammelo cupo, / gobbo fottuto“.

Giacomo Leopardi
Giacomo Leopardi

Tuttavia, se gli Italiani contemporanei del poeta non lo apprezzarono, lo apprezzò subito e lo additò al mondo intero un critico francese di eccezione, Charles Augustin de Sainte-Beuve (1804-1869), il quale annoverò il Leopardi tra i grandi poeti del titanismo europeo, distinguendolo da essi per la sua misura classica. Lo definì, infatti, “il classico per eccellenza tra i romantici“.

Foto di Charles Augustin de Sainte-Beuve
Charles Augustin de Sainte-Beuve

In Italia la prima critica seria, approfondita ed organica su Leopardi comincia col De Sanctis, secondo il quale la poesia leopardiana scaturisce dal contrasto tra la ragione, che scopre la vanità delle illusioni, e il sentimento, che ricrea ciò che la ragione distrugge. Finché è viva questa dialettica di ragione e sentimento, la poesia del Leopardi è altrettanto viva e valida, il che sì verifica soprattutto negli idilli. Quando invece prevale il ragionamento e il sentimento si affievolisce o tace del tutto, anche la poesia del Leopardi si affievolisce e muore, il che avviene nelle canzoni civili e filosofiche, nelle Operette morali e nelle poesie del periodo napoletano.

La critica positivistica, succeduta al De Sanctis, si rese benemerita per la pubblicazione di inediti leopardiani, tra cui lo Zibaldone. Il Carducci poi, che fu il rappresentante più prestigioso della critica positivistica, dato il suo gusto classico, rivalutò, rispetto al De Sanctis, le prime e le ultime canzoni leopardiane, caratterizzate da una grande perfezione tecnica e letteraria.

Successivamente un vero e proprio culto del Leopardi ebbero gli scrittori della rivista “La Ronda” sorta negli anni ’20 (Baldini. Cardarelli. Bacchelli, Cecchi, ecc.). In polemica con i futuristi, i vociani e i dannunziani, da essi considerati eversori della tradizione, i rondisti videro nel Leopardi il punto ideale di riferimento per un ritorno all’ordine e alla disciplina artistica.

All’entusiasmo dei rondisti si contrappone il giudizio limitativo di Benedetto Croce sul Leopardi, condotto sul filo della distinzione tra poesia e non poesia. Secondo il Croce, è poesia soltanto quella degli idilli, di alcuni canti del ciclo di Aspasia e di qualche pagina delle Operette morali; non poesia è tutto il resto, appesantito da alcuni elementi allotri, filosofici, allegorici, eruditi, satirici e polemici. Del resto il Croce, fondamentalmente ottimista e fiducioso nel divenire progressivo della storia, era lontanissimo dalla Weltanschauung (concezione della vita) leopardiana ed era il critico meno adatto a comprendere la personalità e la poesia del Leopardi.

Opposto al giudizio del Croce è quello dì Giovanni Gentile, che rifiuta le distinzioni crociane tra le attività dello spirito e considera pensiero e sentimento due elementi inseparabili della poesia. Perciò il Gentile rivaluta del Leopardi le poesie in cui predomina la riflessione filosofica, ed anche le Operette morali di cui rivendica la organicità e la poeticità.

Più serena e meglio disposta verso il Leopardi è la critica storicistica, per la quale il contributo più importante è rappresentato dal saggio di Walter Binni (La nuova poetica leopardiana), in cui egli traccia il profilo di un Leopardi eroico che si erge dignitoso e fermo contro il destino, e invita alla solidarietà gli uomini. Per Binni, se valida è la poesia degli idilli, ispirati alla poetica appunto dell’idillio, altrettanto valida è la poesia delle canzoni del periodo napoletano, ispirate alla poetica dell’anti-idillio.

Assai favorevole al Leopardi è la critica marxista, che recentemente sia con gli studi di Alberto Asor Rosa sia con quelli del Luporini. ha riassorbito la personalità e l’opera del Leopardi nell’ambito dell’ideologia socialista, prendendo soprattutto lo spunto dall’invito alla solidarietà umana per la costruzione di un mondo nuovo, contenuto nella Ginestra, e dalla critica svolta dal Leopardi sugli aspetti negativi della civiltà borghese dell’800.

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