fotografia Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Wed, 03 Feb 2021 16:07:45 +0000 it-IT hourly 1 Mar – museo d’arte di Ravenna e la mostra Studio Luce (Paolo Roversi) https://cultura.biografieonline.it/mar-museo-ravenna-studio-luce/ https://cultura.biografieonline.it/mar-museo-ravenna-studio-luce/#respond Fri, 06 Nov 2020 08:57:00 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=30739 Il MarMuseo d’Arte della città di Ravenna è collocato all’interno del complesso monumentale della Loggetta Lombardesca, il monastero cinquecentesco appartenuto all’Abbazia di Santa Maria in porto. Il museo è un viaggio straordinario fra 300 opere, nello specifico dipinti e sculture, le quali si collocano fra un arco temporale che inizia nel XIV secolo e si conclude nel XX.

Il MAR – Museo d’Arte di Ravenna, si trova in centro città, in Via di Roma al N° 13

Le opere sono tutte di straordinario interesse e il percorso che lo spettatore deve affrontare lo porta ad avere una maggiore consapevolezza sul dialogo artistico fra Ravenna, il Veneto e l’Emilia-Romagna fra il 1300 e il 1400.

L’arte religiosa è mostrata attraverso un percorso che valorizza artisti come Lorenzo Monaco, Taddeo di Bartolo e Antonio Vivarini.

Le opere

Possiamo anche ammirare opere databili fra il ‘400 e i primi del ‘500, la cui funzione artistica e storica è fondamentale per la conoscenza delle vicende che si svilupparono in Romagna fra le corti signorili e la dominazione pontificia.

In particolare, i dipinti di Baldassarre Carrari, Marco Palmezzano, Nicolò Rondinelli, Francesco e Bernardino Zaganelli, insieme a quelle di Bartolomeo Ramenghi e Luca Longhi con i figli Francesco e Barbara, protagonisti della stagione del raffaellismo in Romagna.

Dunque, un museo dove immergersi nella cultura locale, ma non solo. Perché è ampia anche la collezione di quadri e opere dei secoli successivi come, ad esempio, un grande dipinto di Guercino raffigurante San Romualdo. E poi l’importante collezione di opere del ‘900 di Mario Schifano, Mimmo Paladino, Tano Festa, Luigi Vernesi, Maurizio Cattelan e molti altri, fra i quali possiamo ammirare anche un bellissimo disegno di Gustav Klimt.

Studio Luce: mostra temporeanea 2020-2021

Il museo ospita anche mostre temporanee. Dal 10 ottobre 2020 al 31 gennaio 2021 il Mar ospita la mostra Paolo Roversi – Studio Luce a cura di Chiara Bardelli Nonino, con le scenografie di Jean-Hugues de Chatillon e con il progetto esecutivo di Silvestrin & Associati, realizzata dal Comune di Ravenna, Assessorato alla Cultura e MAR, con il prezioso contributo di Christian Dior CoutureDauphin e Pirelli, main sponsor. Essa costituisce un’occasione unica per conoscere a fondo il lavoro del grande fotografo ravennate.

Paolo Roversi - Studio Luce
Paolo Roversi – Studio Luce

Paolo Roversi

Paolo Roversi è nato a Ravenna e lavora a Parigi. Le foto esposte alla mostra “Studio Luce” sono state scattate nel suo atelier in Rue Paul Fort. Lo Studio Luce è il nome che dà anche il titolo alla mostra.

Nelle opere esposte sono numerosi i rimandi a Ravenna, città natale e luogo che più di ogni altro ha influenzato l’immaginario di Paolo Roversi.

La mostra

La mostra si sviluppa su tre piani e comprende moltissime immagini. Nella parte iniziale della mostra appaiono le prime foto che Roversi ha scattato all’inizio della sua carriera, sono immagini che ha creato per la moda, o fotografie di amici dell’artista che ha immortalato nel suo studio; altre, invece, sono immagini di macchine fotografiche o di attrezzi del mestiere.

La parte però più emozionante, a parer mio, è quella dei volti femminili e dei nudi. Gli sguardi colti nello splendore della loro luce sono magnetici, affascinanti e coinvolgenti, perché coinvolgono lo spettatore direttamente nel lavoro di Roversi, che è attendere, osservando il soggetto, fino a quando non emerge il momento decisivo in cui la macchina coglie lo sguardo perfetto.

In una ricerca paziente Paolo Roversi ci mostra i volti di donne diafane, luminose, perfette nel loro momento d’attesa.

Intorno a noi mentre osserviamo le foto e mentre guardiamo il video in cui alcune modelle recitano e raccontano momenti della loro vita, entriamo nello studio del fotografo e ci immergiamo in un contesto di ricerca profonda dell’anima.

Commento video

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Vivian Maier: The Color Work. Poetessa delle fotografie a colori https://cultura.biografieonline.it/vivian-maier-fotografa-libro/ https://cultura.biografieonline.it/vivian-maier-fotografa-libro/#respond Fri, 01 Nov 2019 16:19:06 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=27340 Vivian Maier era una tata di professione, ma anche fotografa: come artista fotografa venne scoperta soltanto nel 2007. Il suo successo è stato postumo. La storia e la biografia di Vivian Maier sono molto curiose: il suo materiale venne acquistato all’asta da un regista che le dedicò poi un film documentario. Oggetto delle foto di Vivian sono: le strade di Chicago, New York e Los Angeles, per circa quattro decenni. E’ nota soprattutto per le sue fotografie in bianco e nero. Nel 2018 è stato pubblicato un volume dal titolo “Vivian Maier: The Color Work” (di Colin Westerbeck). Si tratta di una raccolta con le più belle foto a colori fatte dall’artista. Si sa che le foto in bianco e nero furono scattate con la fedelissima Rolleiflex, mentre le 40.000 fotografie a colori provengono da una Ektachrome, e sono state impresse su di un rullino da 35 millimetri.

Vivian Maier
Vivian Maier

“Ho fotografato i momenti della vostra eternità, perché non andassero perduti”.

Vivian Maier: The Color Work

La prefazione del libro Vivian Maier: The Color Work è a cura di Joel Meyerowitz, che scrive:

“Vivian Maier fu una delle prime poetesse della fotografia a colori. Nelle sue fotografie si può osservare un rapido studio del comportamento umano, del momento in cui si svolgeva, del lampo di un gesto o dell’umore di un’espressione facciale. Brevi eventi che trasformavano la vita quotidiana della strada in una rivelazione per il suo occhio sensibilissimo”.

Il libro, che è stato pubblicato da Harper Collins, è disponibile in Italia soltanto su Amazon.

Vivian Maier: The Color Work – Foto dalla copertina del libro
Foto dalla copertina del libro

Oltre 150 immagini di Vivian Maier quasi inedite

Il libro presenta circa 150 immagini a colori, quasi tutte mai pubblicate. Nel corso della sua vita Vivian Maier ha realizzato oltre 150.000 immagini. Fotografie che sono rimaste segrete: ha scelto di non mostrarle a nessuno. Maier è stata un modello per la fotografia di strada (Street photography).

Foto di Vivian Maier: era solita fotografarsi allo specchio.
Una foto a colori di V. Maier: la fotografa era solita fotografarsi allo specchio.

Dagli anni Settanta sino alla morte dell’artista

La maggior parte degli scatti di questo libro contiene foto che sono state trovate nelle diapositive Kodak Ektachrome. La maggior parte dei suoi lavori a colori – che risalgono dagli anni Settanta sino alla sua morte – è stata caratterizzata da uno stile più astratto rispetto alle immagini in bianco e nero.

Il suo lavoro a colori si concentrava più sugli oggetti, come, ad esempio, giornali o immagini fisse di eventi che si svolgevano per strada.

Le foto sono sorprendenti: in esse si legge l’umorismo, la commozione, la bellezza e ancora: tutte le sfaccettature della vita quotidiana cittadina nell’età d’oro del dopoguerra in America.

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Heaven to Hell di David LaChapelle, il glam applicato alla storia dell’arte https://cultura.biografieonline.it/heaven-to-hell-lachapelle/ https://cultura.biografieonline.it/heaven-to-hell-lachapelle/#respond Tue, 16 Oct 2018 16:34:58 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=25314 Nel 2006, il visionario fotografo e regista statunitense David LaChapelle pubblica il libro fotografico “Heaven to hell”. La copertina passerà alla storia come la rivisitazione della Pietà di Michelangelo più glamour di sempre.

Pietà - David LaChapelle (Heaven to Hell)
La Pietà, di David LaChapelle (2006) è rappresenta sulla copertina del suo libro fotografico “Heaven to hell”.

La Pietà, versione 2006

Ci viene regalato il paradiso e lo trasformiamo nell’inferno.

Sono le parole dell’eclettico David LaChapelle, non nuovo ai ritratti di artisti lanciati extra-contesto. Il concept della foto è La pietà di Michelangelo, opera che il fotografo ha dichiarato di amare moltissimo. La rivisita lasciando ovviamente intatta la posizione, simbolo nei secoli del commiato post morte e, nel particolare, facendo sua la geometria perfetta della madre che tiene fra le sue braccia il corpo del figlio ormai spirato.

Ciò che muta sono gli interpreti. La Madonna è una rock star bionda platino che ha fatto dello scandalo il suo metro di espressione, l’ex leader delle Hole, Courtney Love. Il Cristo è un sosia del marito di lei, Kurt Cobain, morto suicida nel 1994. Eppure il fotografo ha spiegato che non era sua primaria intenzione che il Cristo fosse incarnato dall’immagine di Cobain.

Heaven to Hell: il Cristo si chiama Brett

Lo stesso David LaChapelle ha rilasciato una lunga dichiarazione in cui racconta la storia del perduto Brett, un fattorino che l’artista conobbe a New York e col quale visse una storia d’amore. Idillio che subisce un forte arresto quando LaChapelle scopre che Brett è dipendente da eroina. Da lì i due si perdono, finché tempo dopo LaChapelle riceve una telefonata in cui una donna, presunta amante di Brett, disperata chiede aiuto per l’avvenuta morte del ragazzo a causa di una implacabile overdose.

[…] stavo pensando a Brett che muore in questo appartamento solitario. Stavo pensando a tutte le piccole morti che accadono ogni giorno […]; persone che muoiono da sole o con una sola persona lì per loro. Tutti i piccoli pietas che accadono in tutto il mondo, sul campo di battaglia, appartamenti solitari e case di riposo.

Il Cristo di “Heaven to hell”, infatti, non mostra solo le stimmate o meglio i fori della crocifissione. Sul corpo senza vita di Kurt-Brett ci sono i morsi dell’eroina, lungo tutto l’arto che pende dall’abbraccio della Madonna-Courtney.

Abbiamo notato tutti la somiglianza di Walker (il modello, ndr) con Kurt sul set, ma quella roba tende a succedere ai miei scatti. È qualcosa con cui sto bene. È qualcosa che aggiunge strati, profondità alle fotografie. Ho adorato Kurt, adoro Courtney e adoro questa foto. Questa è una delle mie foto preferite che abbia mai fatto. In effetti è il mio preferito, ma per me sarà sempre l’immagine di Brett che vedo nella mia Pietà.

Con la Madonna e il Cristo, anche il Cherubino

La terza figura che si staglia all’interno di questo racconto iperrealista di LaChapelle è il Cherubino, in basso fra i cubi sul pavimento. La raffigurazione è quella tipica degli angioletti, come da tradizione pittorica cristiana e non solo. Abito color del cielo, come, presumibilmente, gli occhi, casco di ricci color dell’oro in testa.

Quello che distingue questo Cherubino da molti altri è il dettaglio del legame con la rappresentazione di LaChapelle. O meglio, questo angioletto poggia la sua candida manina sul cubo con la lettera “T”.

Due le interpretazioni in circolazione. Da una parte si pensa che sottolineando il “To” il fotografo abbia voluto indicare la direzione verso la quale, da Paradiso a Inferno, si sia direzionato Kurt. Dall’altra, invece, forse in maniera meno indispettita, si vede questo posizionamento come intermedia fra Paradiso e Inferno, una sorta di Limbo in cui l’autore si è sentito di mettere il puttino.

La pitto-fotografia: qualche dettaglio sulla tecnica

Quello che colpisce e sempre colpirà il fruitore di David LaChapelle è il senso di presenza e abbraccio che l’opera offre. Porsi davanti a “Heaven to hell”, come a molte altre stupende fotografie di LaChapelle, ci fa sentire molto piccoli e, contestualmente, irrimediabilmente dentro il dramma. Una possibilità ereditata dai grandi maestri della pittura che LaChapelle ha fatto propria nella fotografia.

In particolare, anche “Heaven to hell” è stata realizzata con la tecnica dell’High Dynamic Rang o Hdr. La definizione si può tradurre con “Gamma dinamica elevata”. Sostanzialmente, a differenza dell’occhio umano, il sensore della fotocamera non riuscirebbe a registrare livelli di luminosità molto distanti fra loro. L’hdr lavora in questo senso lavorando una serie di scatti ad esposizioni diverse per poi metterli in relazione in un’unica immagine ad elevata gamma dinamica. Come dire, facendo una sorta di media grafica fra uno scatto sovraesposto e uno sottoesposto.

Questa tecnica in LaChapelle, e in particolare anche in “Heaven to hell”, diventa la totale eliminazione delle ombre e quindi la diminuzione drastica della tridimensionalità. LaChapelle, praticamente, fa la magia di rendere dipinto una foto.

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London Calling (The Clash): la celebre foto di Pennie Smith https://cultura.biografieonline.it/foto-london-calling-clash-pennie-smith/ https://cultura.biografieonline.it/foto-london-calling-clash-pennie-smith/#respond Thu, 03 Aug 2017 12:59:48 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=22928 Il disco London Calling fu pubblicato il 14 dicembre 1979. E’ il terzo lavoro della punk rock band The Clash. L’album passato alla storia non solo perché contiene moltissimi generi musicali, ma proprio grazie alla sua copertina, ancora oggi molto riconoscibile. La grafica riprende il primo lavoro discografico di Elvis Presley.

The Clash - London Calling - Famous rock photo - Pennie Smith
La celebre foto di Pennie Smith scattata il 21 settembre 1979

Come nasce la celebre foto della copertina

Pare infatti che alla fine del concerto, tenuto a New York il 21 settembre 1979, Paul Simonon (bassista), insoddisfatto della performance decide di spaccare il proprio basso sul palco. Da qui lo scatto della fotografa inglese Pennie Smith, che si trova sul bordo del palco. Lo scatto è destinato a fare il giro del mondo. La fotografa cattura la scena senza staccare le mani dalla camera. Utilizza una Pentax ESII con una pellicola TRIX400 ASA. Compie tre scatti mentre il musicista si sfoga distruggendo il suo strumento. Oggi il basso elettrico esposto al Rock and Roll Hall Of Fame and Museum.

Si tratta di una delle fotografie più famose della storia del rockSi vede il bassista colto in modo naturale durante lo spettacolo al Palladium, a New York. La foto si è aggiudicata il riconoscimento di migliore fotografia rock and roll di tutti i tempi.

The Clash - London Calling - Cover album
The Clash, “London Calling”: la copertina del disco del 1979

Chi è Pennie Smith

La fotografia di Pennie Smith influenza una giovane generazione di fotografi. Lei è specializzata in bianco e nero. Il suo primo incarico è per la rivista NME: ci sono i Led Zeppelin in tour. Ma vediamo un aneddoto sulla foto scelta dalla band per la copertina del vinile.

La fotografa inglese sconsiglia al gruppo di utilizzarla perché sfuocata e troppo vicino al soggetto che lei fotografa, cioè il bassista intento a rompere il basso. Mentre i Clash ritengono opportuno utilizzarlo proprio per questo “difetto” che, secondo loro, ben ritrae la loro musica.

Pennie Smith
Pennie Smith

La Smith ha lavorato per le più importanti riviste musicali inglesi, ha pubblicato diversi libri, ha esposto i suoi lavori in molte gallerie in giro per il mondo, e ha continuato la sua carriera da freelance.

La band londinese

I The Clash sono nati a Londra, nel 1976, e sono stati attivi sino al 1986.  Senza neppure aver pubblicato un disco, sono riusciti a entrare nel giro delle punk band di Londra e ad esibirsi in numerosi concerti con altri gruppi famosi, quali, ad esempio, Sex Pistols, Buzzcocks e Damned. Un anno dopo dalla formazione, la band viene messa sotto contratto dalla Columbia, all’epoca una delle etichette più importanti.

Nasce così, dopo soli tre mesi, The Clash, un disco (omonimo) punk, vario e leggero. I membri storici della band sono: il cantante Joe Strummer (stroncato nel 2002 da un infarto), il chitarrista Mick Jones e il già citato bassista Paul Simonon.

Il successo per loro arriva nel 1978. Un anno dopo, nel 1979, viene registrato London Calling, un disco che esce come doppio al prezzo di uno. Esso contiene 19 brani. Inizialmente doveva essere intitolato The New Testament, titolo poi abbandonato a favore dell’altro. Il lavoro della band vende oltre due milioni di copie nel mondo, certificato disco di platino e disco d’oro negli Stati Uniti, nonché disco d’oro e d’argento nel Regno Unito.

Il doppio disco si apre con il brano omonimo.

London Calling, la canzone

La canzone recita:

The ice age is coming…the sun is zooming in
Engines stop running and the wheat is growing thin
A nuclear error… but I have no fear
London is drowning… and I…
I live by the river!”

che tradotta significa:

Sta arrivando l’era glaciale…il sole sta precipitando
I motori si fermano e il frumento avvizzisce
Un errore nucleare…ma io non ho paura
Londra sta annegando… ed io…
Io vivo vicino al fiume!

Il significato della canzone

Insomma non si tratta di una canzone felice, in quanto richiama tensioni sociali e la paura causata dall’incidente nucleare di Three Mile Island, avvenuto proprio nel 1979. Eppure è stata proposta come “jingle” per il countdown verso le Olimpiadi londinesi del 2012.

La canzone comincia con le parole: “London calling to the faraway towns, now that war is declared and battle come down. (“Londra sta chiamando le città lontane, ora che la guerra è dichiarata e la battaglia è arrivata”).

In pratica “Londra sta chiamando” è la traduzione letterale del titolo e allude al messaggio che trasmetteva la BBC in radio nel corso della Seconda Guerra Mondiale nei paesi occupati. La frase era pronunciata dall’annunciatore radiofonico Edward R. Murrow.

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Migrant Mother, celebre fotografia di Dorothea Lange https://cultura.biografieonline.it/migrant-mother-foto-famosa/ https://cultura.biografieonline.it/migrant-mother-foto-famosa/#comments Thu, 27 Jul 2017 10:12:01 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=22926 The Migrant Mother (titolo originale Destitute Pea Picker – indigente raccoglitrice di piselli) è un ritratto scattato dalla fotografa statunitense Dorothea Lange, nel 1936. È uno scatto in bianco e nero, che ritrae Florence Owens Thompson, insieme ai suoi figli.

Migrant Mother - Florence Owens Thompson - foto - photo - pic by Dorothea Lange
Migrant Mother – La famosa fotografia di Dorothea Lange

Migrant Mother: storia della celebre foto

Florence è una vedova, madre di sette figli e che da sola deve provvedere a mantenerli. La fotoreporter scatta sei immagini con la sua Grafex 4 x 5. Si ritrova per caso davanti a quella donna che con lo sguardo triste parla di fame e disperazione. Ma che, nello stesso tempo, riesce a trasmettere la sua forza. Il suo è uno sguardo che resta immortale, destinato a rimanere nella storia.

La vidi e mi avvicinai alla madre disperata e affamata nella tenda, come se fossi stata attratta da un magnete. Non ricordo come le spiegai la mia presenza o quella della fotocamera, ma ricordo che mi fece delle domande. Ho scattato sei foto, avvicinandomi sempre di più dalla stessa direzione. Non le chiesi il suo nome né la sua storia. Lei mi disse che aveva 32 anni.

Cossi scrive poi la fotografa Dorothea Lange, raccontando i particolari di questo scatto. È il mese di marzo, siamo nel 1936 e la fotografa, dopo aver finito un servizio, un’inchiesta fotografica sui braccianti agricoli della periferia di Los Angeles, commissionato dalla Rural Resettlement Administration (organismo federale di monitoraggio della crisi economica) sta rientrando. Attraversando la Highway 10, attratta da un cartello che segnala un campo di raccoglitori di piselli, decide di tornare indietro e andare nel campo.

Qui trova 2.500 persone tra baracche e tende che cercano di resistere alla fame. Per loro, attirati lì da un’inserzione su un giornale, non c’è nessun lavoro né una paga a causa di una gelata che colpisce il raccolto. Tra questa gente, c’è anche la giovane 32enne, protagonista dello scatto.

Florence Owens Thompson

La giovane donna costretta dalle circostanze, decide di vendere gli pneumatici della sua auto per comprare il cibo per i suoi sette figli. Tale episodio colpisce la fotografa che denuncia la situazione alle autorità competenti per segnalare appunto la situazione di emergenza nel campo per la raccolta dei piselli. Le autorità intervengono mandando 10.000 chili di cibo. Nasce così questo scatto, per caso.

Migrant Mother - Destitute Pea Picker - raccoglitrice di piselli
Un altro scatto che ritrae l’indigente raccoglitrice di piselli (Destitute Pea Picker)

La famosa foto The Migrant Mother in brevissimo tempo, diventa il simbolo della Grande Depressione, ma anche un’icona della forza di una madre che lotta per sopravvivere. La donna ritratta viene riconosciuta 40 anni dopo, nel 1978. La fotografa non le ha mai chiesto il nome. Da qui la donna riceve migliaia di lettere di sostegno, ammirazione, nonché offerte di cure mediche perché colpita dal cancro. E non solo: a raccogliere informazioni sull’identità della donna è l’Associated Press che con la pubblicazione della storia dello scatto, suscita l’ira di Florence che si sente “sfruttata”. E’ lei a scrivere una lettera per esprimere la sua contrarietà all’immagine scattata da Dorothea Lange.

La fotografa Dorothea Lange

Donna sensibile, la Lange, nata a Hoboken il 26 maggio 1895, il cui vero nome era Dorothea Margaretta Nutzhorn (ma che decide di prendere il cognome della madre), da bambina, colpita da poliomielite reagisce al suo handicap studiando fotografia a New York con Clarence White. Compie la sua gavetta in numerosi studi, tra cui quello di Arnold Genthe.

È il 1918 quando decide di girare il mondo, insieme alla sua compagna di viaggi: la macchina fotografica. Finiti i soldi, decise di aprire uno studio a San Francisco. Qui consolida il suo futuro. Si sposa con il pittore Maynard Dixon e diventa madre di due figli, Daniel e John. La sua attività fotografica è dedicata agli immigrati, ai braccianti e agli operai.

Il periodo propizio per lei è tra il 1935 e il 1939, quando fa grandi reportage. Divorzia dal marito, nel 1935, e sposa Paul Taylor, che contribuisce all’attività della moglie con interviste e raccolte di dati.

È il 1947 quando collabora alla nascita della celebre agenzia Magnum (che vede tra i fondatori da Robert Capa e Henri Cartier-Bresson). Poi, nel 1952, è tra i fondatori della rivista “Aperture”. Gli ultimi anni di vita della fotografa sono segnati da una brutta malattia che, di fatto, le impedisce di lavorare: muore a settant’anni a causa di un cancro all’esofago.

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Intervista a Salvatore Mercadante su Robert Capa https://cultura.biografieonline.it/mercadante-su-robert-capa/ https://cultura.biografieonline.it/mercadante-su-robert-capa/#comments Thu, 08 Sep 2016 05:34:57 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19658 Ha vissuto gran parte della sua vita sui campi di battaglia, pur non essendo un soldato. La sua fama infatti è legata alla moltitudine di immagini di guerra da lui scattate in un periodo che va dal 1936 al 1954, ovvero dalla guerra civile spagnola al conflitto tra Cina e Giappone, dalle Seconda Guerra Mondiale al conflitto arabo-israeliano del 1948, infine alla prima guerra d’Indocina, dove lui, Robert Capa, è morto mettendo il piede su una mina antiuomo.

Death in the Making (Robert Capa)
Death in the Making (Robert Capa)

Immagini, le sue, dove si evince l’attimo per eccellenza, un momento unico, utilizzando la fotografia come importante mezzo di documentazione. Una delle sue frasi più note è questa:

Se le tue foto non sono abbastanza buone, significa che non eri abbastanza vicino.

Robert Capa

Capa è considerato il padre del fotogiornalismo moderno. Il suo vero nome era Endre Ernő Friedmann, nato a Budapest il 22 ottobre 1913. Lascia l’Ungheria nel 1931, trasferendosi a Berlino. In origine, egli avrebbe voluto fare il giornalista e lo scrittore, ma un impegno lavorativo come fattorino presso un’importante agenzia fotografica, la Dephot, lo instrada verso il mondo della fotografia.

Robert Capa
Robert Capa

È nel 1933 che – con l’avvento del nazismo – lascia la capitale tedesca e si trasferisce a Parigi, una città che sembra fatta ad hoc per lui. È qui che lavora come fotogiornalista e che si innamora della sua compagna, Gerda Taro, anche lei fotografa. È con lei che inventano lo pseudonimo Robert Capa. Uomo che odia la violenza e ama la pace, si definisce fotografo di guerra che sogna di diventare disoccupato.

Di seguito l’intervista al fotografo palermitano Salvatore Mercadante con cui abbiamo parlato di Robert Capa.

Salvatore Mercadante
Salvatore Mercadante

Intervista a Salvatore Mercadante

D: Capa, testimone dei fatti del mondo, viene inviato in Spagna per documentare la guerra civile, guerra che ha avuto una grande copertura mediatica… che possiamo dire degli scatti di questo periodo?

R: Parlare di Robert Capa non è mai semplice. Bisogna fare i conti con l’emozione che il padre del fotogiornalismo e la storia più romantica del mondo della fotografia possono suscitare. Il periodo trascorso in Spagna durante il conflitto segnò l’intera vita di Capa, fu proprio in quel periodo che fece i conti con la morte, non solo della sua amata Gerda ma anche di quella, (tanto discussa), del miliziano lealista, ripreso da capa proprio nel momento dell’uccisione.

Le foto di quel periodo mostrano la sua ferma posizione antifascista, posizione che rende i reportage di Capa e della sua compagna, particolarmente diretti e ricchi di dettagli e, grazie ai quali, la coppia otterrà grandi successi, tanto da portare Capa a fondare insieme ad altri grandi fotografi l’agenzia Magnum, una delle più prestigiose agenzie fotografiche del mondo. Un anno dopo la morte di Gerda Taro raccolse nel libro “Death In The Making” le immagini più toccanti di quel periodo e lo dedicò alla compagna scomparsa.

Morte di un miliziano lealista Cordoba Settembre 1936 - foto famosa di Robertt Capa
Morte di un miliziano lealista: la celeberrima foto di Robertt Capa

D: Tra i suoi scatti, molto famosi e discussi, troviamo quello intitolato “Morte di un miliziano lealista, Cordoba, Settembre 1936”, fotografia che è stata scattata vicino Cordoba, in Andalusia. Ci racconta la storia di questa foto?

R: È talmente ricca di significati da essere stata oggetto di critiche e studi e rappresenta ancora oggi la guerra in tutta la sua crudezza, il trapasso dalla vita alla morte e la concezione della morte da parte di quei combattenti per i quali era “meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”.

Della veridicità di questa foto si è molto parlato, nonostante il fedele racconto dello stesso Capa su come l’abbia fatta, ancora oggi non si è giunti ad una conclusione definitiva, arrivando perfino all’ipotesi che vorrebbe la foto costruita solo in parte.

Si dice infatti che Capa stesse fotografando dei miliziani in posa e che per questo siano diventati oggetto di un cecchino nemico. Ci sono numerosi studi legati ad altri ritrovamenti analoghi perfino sul formato fotografico della foto ma ritengo che la cosa che deve interessarci davvero non sia tanto il “come è stata fatta”, ma il “cosa rappresenta” e dunque la dimostrazione di un concetto che caratterizza la produzione di Capa, ovvero quello che i fatti vanno vissuti dall’interno per poterne parlare, questo modo di raccontare segnerà la nostra e la sua vita stessa.

A tal proposito mi permetto una digressione e invito i lettori a leggere le vicissitudini legate alla famosa “valigia messicana”. La “valigia messicana” è una scatola contenente spezzoni di pellicola, appunti e rullini di Capa, Gerda e Seymour (fotoreporter di grande spessore col quale Capa fonderà la Magnum, Nda) e dopo tanti anni in cui s’era persa, dal 2007 si trova all’International Center of Photography di New York e contiene circa 4000 immagini inedite di questi tre fotografi di origini ebraiche impegnati a raccontare dell’uomo e della sua guerra.

D: La compagna Gerda diventa una fotografa indipendente. Tuttavia la sua vita si spezza nel 1937, schiacciata da un carro armato repubblicano, durante una ritirata delle milizie lealiste da un mitragliamento aereo nazista. Al di là della tragica fine della donna, ci può raccontare la storia di questo amore tra Gerda e Capa fatto di complicità?

R: La storia d’amore della coppia rappresenta per me la storia più romantica della fotografia del Novecento. Accadde in Francia, a Parigi, a Settembre, in un cafè, forse il Cafè Capoulade. Chi li conobbe li descrive, belli e liberi, lui un fotografo capace ma poco conosciuto, lei una bellissima e impegnata comunista, già stata in galera per le sue idee politiche. Oltre l’indiscussa bellezza , il giovane fotografo viene rapito dall’energia che anima Gerta, questo il suo vero nome (Nda), quell’energia che durante i giorni di prigionia in Germania l’aveva resa l’idolo delle altre donne prigioniere, molti ricordano ancora quando, arrestata dalle truppe tedesche, in cella, chiese scusa alle altre detenute per l’abbigliamento troppo elegante: «scusatemi – dirà– mi hanno preso mentre andavo ad una festa».

A loro insegnò parole in inglese e francese ed a cantare le canzoni americane, rimarrà per sempre nel cuore e nelle immagini del giovane fotografo. La complicità tra i due li porterà ad inventare un espediente utile, a superare i pregiudizi razziali che iniziavano a serpeggiare tra la popolazione francese, i due ragazzi decideranno di cambiare i loro nomi per rendere meno riconoscibili le loro comuni idee politiche ed usare quel fascino che gli artisti del grande schermo riuscivano ad emanare in quegli anni. Si crede, ed io ci credo, che l’idea sia stata proprio di Gerta, la quale diede il nome di Robert Capa ad Endre, per farlo somigliare a quello del regista americano Frank Capra, e trasformando il suo in Gerda Taro, per l’assonanza con quello della famosa Greta Garbo.

Io voglio immaginarli tra le strade di Parigi sotto un cielo grigio di Settembre: lui al collo la sua macchina fotografica, lei in testa un mondo migliore ed un’idea che cambierà la loro vita. Lei darà al nuovo fotografo il nome e l’eleganza dei fotografi d’oltreoceano, lui alla nuova Gerda le basi della fotografia che la porterà a lasciare il suo lavoro come segretaria ed a diventare fotografa e compagna per sempre di Robert Capa.

Il sodalizio professionale e sentimentale tra i due fu grandissimo, li portò sul terreno di battaglia a raccontare l’umanità delle trincee e le atrocità della guerra, la morte di lei lascerà un vuoto in Capa che fino alla sua morte lo porterà a dire che lei era stata la donna della sua vita e che quel 26 Luglio era morto pure lui.

D: Può sembrare un controsenso, ma Capa testimoniava la sua simpatia per entrambe le parti del conflitto, anche se i soldati rappresentavano il nemico, per il fotografo erano sempre vittime delle strategie di guerra. È così?

R: Io credo che in Capa ci sia la voglia di documentare quello che gli uomini sono capaci di fare e vivere, del resto lo si evince nella sua frase a proposito della guerra che definisce «Un inferno che gli uomini si sono fabbricati da soli».

Robert Capa, libro

D: Abbiamo parlato della foto “Morte di un miliziano” tra quelle più famose. Ce ne sono tantissime, quali per lei sono le immagini più rappresentative di Capa e ne ricorda una in particolare che le è piaciuta maggiormente e perché?

R: Sono particolarmente legato a questo fotografo per le sue vicende umane e per la sua storia e trovo difficile scegliere una sola foto tra le migliaia che ho visto. Ricordo però che tempo fa andai ad una mostra dedicata proprio a lui, tenutasi a Troina, un paesino siciliano, davvero molto bello, luogo che vide Capa impegnato in uno dei suoi reportage più famosi e importanti.

Visitai il Salone che ospitava la mostra in assoluto silenzio soffermandomi davanti ad ogni foto, guardavo le immagini di quei giorni e riuscivo a percepire gli odori , i colori e i rumori della guerra, quel paesino tranquillo ed ospitale, nelle foto di Capa sembrava un inferno, di quelle stradine silenziose in cui trovai accoglienza, nelle foto di Capa c’erano solo macerie e dolore, il fotografo mi aveva appena dato un ulteriore lezione: le foto non solo narrano la storia e ne testimoniano gli eventi ma aiutano gli uomini a comprendere che possiamo perdere tutto in qualsiasi momento, perché siamo artefici di bellezza e orrore alla stessa maniera, amiamo e odiamo con la stessa intensità

Finora però l’amore ha sempre vinto, l’odio del nazismo non ha vinto sull’amore di Gerta e di Endre, l’odio gli ha poi tolto Gerta, lui ci ha donato la capacità di vedere con i suoi occhi, e sperare che quell’inferno fotografato ci faccia paura a tal punto da non farlo più tornare.

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Intervista a Salvatore Mercadante su Robert Doisneau https://cultura.biografieonline.it/salvatore-mercadante-doisneau/ https://cultura.biografieonline.it/salvatore-mercadante-doisneau/#respond Fri, 17 Jun 2016 11:09:16 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18642 Robert Doisneau era un fotografo nato a Gentilly, Val-de-Marne, nella periferia di Parigi, in Francia. Pioniere del fotogiornalismo, famoso per i suoi scatti in strada. Riusciva a ritrarre gli aspetti curiosi e i più inaspettati della società francese, pur sostenendo che “Io non fotografo la vita reale, ma la vita che mi piacerebbe che fosse“.

Robert Doisneau
Robert Doisneau

Giovanissimo, a soli ventidue anni, venne assunto come fotografo industriale dalla Renault, ma durò poco, perché fu licenziato, in quanto arrivava sempre in ritardo. Passò quindi all’agenzia Rapho, lavorandoci per circa cinquant’anni. Ebbe esperienze lavorative al fronte durante la Seconda Guerra Mondiale, quindi tornò a Parigi dove si dedicò alla fotografia di strada, negli anni Cinquanta e Sessanta.

Collaborò con scrittori come Blaise Cendrars e Jacques Prevert. Mentre i suoi servizi vennero pubblicati dalle riviste “Life” e “Vogue”. Riusciva a ritrarre i bambini mentre giocavano, conferendogli rispetto e serietà.

Il grande maestro francese Robert Doisneau, morto nel 1994, ha realizzato oltre 450.000 fotografie. La prima, scattata nel 1929 a 17 anni. Nelle sue immagini si trovano soprattutto la quotidianità lungo le strade di Parigi, bambini che giocano, momenti di festa, innamorati, animali. Scatti dalla immensa carica emotiva

Foto famose di Robert Doisneau

Tra gli scatti più famosi si ricordano “Il bacio davanti all’hotel De Ville“, 1950, “L’informazione scolastica”, Parigi, 1956, “La diagonale dei gradini”, Parigi 1953, “Autoritratto con Rolleiflex”, 1947.

Intervista a Salvatore Mercadante

D: Robert Doisneau viene definito per i suoi ritratti un esponente della fotografia umanista…

R: Si tratta di un vero e proprio movimento culturale fotografico attraverso il quale la mera documentazione lascia spazio alla poesia, il suo inizio lo si può far risalire al 1930; questa nuova corrente di pensiero mirava alla rivalutazione dell’uomo attraverso il reportage sociale. L’autore ha sempre avuto un ruolo di particolare importanza, rappresentando attraverso le sue fotografie la bellezza di una Parigi con al centro l’uomo ed i suoi sentimenti.

Salvatore Mercadante
Salvatore Mercadante

D: Qual è la foto di Robert Doisneau che più l’ha colpita?

R: Sono comunemente controcorrente e non le dirò che la famosa foto del bacio all’hotel De Ville è la foto che più mi colpisce; rimango colpito invece dalla sua capacità di donare dignità ai “più piccoli” e profonda conoscenza delle dinamiche umane, come a sottolineare la necessità di ricominciare da capo e non dimenticare la semplicità e la voglia di sognare.

"Bacio davanti all'hotel De Ville" (Le Baiser de l'hotel De Ville), 1950
“Bacio davanti all’hotel De Ville” (Le Baiser de l’hotel De Ville), 1950 : la foto più famosa di Robert Doisneau

Ad esempio, nella foto “le bolide” un bambino su un automobile giocattolo si accosta ad un automobile vera ma con una gomma forata; tralasciando i tecnicismi, c’è tutta l’ambizione dell’uomo a diventare grande ma allo stesso tempo la precarietà dell’essere poi adulto: l’automobile simbolo dell’uomo ormai maturo, infatti, è ferma con la gomma forata mentre il bambino, nonostante la sua auto giocattolo, può continuare tranquillamente per la sua strada. I baci, i giochi, i sorrisi sono tutte prove che un mondo migliore può esistere.

A tal proposito, mi permetta una digressione: spesso sentiamo dire, quando si parla di Doisneau, “che il suo intento era quello di voler dimostrare che un mondo migliore poteva esistere”.

Forte di questa affermazione, ho ripreso in mano il libro di Doisneau e riletto le vicende giudiziarie che ebbero al centro della discussione proprio la sua opera maggiore: fu proprio quell’immagine a trasformarsi in prova, non solo dal punto di vista processuale ma, soprattutto, prova di un modo di lavorare di uno dei più grandi esponenti della fotografia del Novecento che ci avvicina alla poesia e all’amore ovunque esso sia.

D: Ci racconta un aneddoto sul maestro francese?

R: Sicuramente, l’aver rubato lo sguardo indiscreto dei passanti. Grazie alla complicità dell’amico antiquario Romi e il giornalista Robert Giraud, preparò una vera e propria trappola utile a catturare le emozioni dei parigini di passaggio, posizionando un quadro di donna dal contenuto per quell’epoca equivoco, nella vetrina della boutique di Romi e, fotografando gli sguardi dei passanti, realizzò un insieme di immagini esilaranti. Ma le chiedo un po’ di clemenza nel farmi fare una mia personale interpretazione.

Non si tratta a mio avviso di una semplice sequenza ironica di immagini che catturano il quotidiano nonché le emozioni e la curiosità, ci portano con un sorriso vicino all’essenza della fotografia, quella fotografia indiscreta che cattura a nostra insaputa un’intima debolezza che non avremmo voluto mai mostrare.

D: Doisneau sosteneva che “Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere”. Quanto di vero coglie in queste parole?

R: Moltissimo e dona alla fotografia valore sociale; possiamo migliorare il mondo anche attraverso le fotografia. Immagini per un istante in che maniera la fotografia di reportage sociale ha cambiato e continua a cambiare le sorti politiche di intere nazioni.

D: Di recente, la fotografia di Doisneau, il famoso bacio, è diventato il simbolo della forza di Parigi, dopo gli attentati di venerdì 13 novembre 2015…

R: Sembra proprio così, l’autore torna ad emozionarci con le sue immagini che non sono solo belle e toccanti ma ci danno quello slancio emotivo per credere che “un mondo dove stare meglio può esistere”. Grazie.

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California Kiss, foto famosa di Elliott Erwitt https://cultura.biografieonline.it/california-kiss-erwitt/ https://cultura.biografieonline.it/california-kiss-erwitt/#respond Mon, 06 Jun 2016 11:54:48 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18612 Raccontare con semplicità e ironia le emozioni che conferiscono gioia alla nostra quotidianità. Un compito non facile, ma che sicuramente riesce ad esercitare nello spettatore il fotografo statunitense Elliott Erwitt. Il suo sguardo ironico fa pensare a un mondo quasi surreale. Tra le sue foto, quella che raccontiamo in questo articolo, è quella intitolata “California Kiss“: una coppia del 1955 che si bacia dentro un’automobile e in cui l’immagine viene riflessa dallo specchietto retrovisore.

California Kiss - fotografia famosa - Elliott Erwitt
California Kiss (1955): la celebre fotografia di Elliott Erwitt

California Kiss: la storia della fotografia

E’ un bacio dato in riva al mare, immortalato a Santa Monica. Foto originale, romantica e soprattutto spontanea. Dove si intravede sullo sfondo il mare. I suoi scatti “rubano” momenti della vita quotidiana, osservandola da vicino. Tra i soggetti preferiti dal maestro: bambini, cani, spiagge, celebrità, politica. Per lui era importante “cogliere la frazione di secondo perfetta”. La totalità dei suoi scatti sono in bianco e nero, concentrandosi quasi esclusivamente su persone e animali, in grado di suscitare empatia nello spettatore. Emergono così le emozioni degli esseri umani. “Uno dei risultati più importanti che puoi raggiungere, è far ridere la gente. Se poi riesci, come ha fatto Chaplin, ad alternare il riso con il pianto, hai ottenuto la conquista più importante in assoluto. Non miro necessariamente a tanto, ma riconosco che si tratta del traguardo supremo”, sostiene Elliott Erwitt.

Elliott Erwitt
Il fotografo statunitense Elliott Erwitt

Indispensabile nella poetica dell’artista ciò che rappresenta l’anima della fotografia: l’osservazione. Un’analisi attenta della realtà intorno a noi. Osserva Erwitt:

Chiunque può diventare un fotografo con l’acquisto di una macchina fotografica, così come chiunque può diventare uno scrittore con l’acquisto di una penna, ma essere un buon fotografo richiede più che la semplice perizia tecnica. Basta poco per capire se qualcuno è dotato di senso di stile, senso della composizione e una grande istintività. Tuttavia, tutte le tecniche del mondo non possono compensare l’impossibilità di notare le cose.

Inizia la sua carriera fotografica servendo l’esercito americano in Francia e Germania come assistente fotografo. Dopo aver lavorato come fotografo freelance, lavorando per alcune riviste, quali Collier’s, Look, Life e Holiday, entra a lavorare nella prestigiosa agenzia Magnum Photos.

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Intervista a Salvatore Mercadante su Henri Cartier-Bresson https://cultura.biografieonline.it/salvatore-mercadante-bresson/ https://cultura.biografieonline.it/salvatore-mercadante-bresson/#respond Tue, 19 Apr 2016 19:40:52 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18080 Con Henri Cartier-Bresson nasce la “teoria del momento decisivo“: il fotografo ha il compito di cogliere la vita di sorpresa. In lui convivono la passione per la fotografia e per la pittura, a cui si dedica verso la metà degli anni Sessanta. La sua fotografia artistica si basa sull’osservazione continua della vita quotidiana. Immagini senza posa, caratterizzate da realismo e spontaneità e che regalano allo spettatore una misteriosa armonia.

Henri Cartier-Bresson
Una foto di Henri Cartier-Bresson con la sua macchina fotografica

«La fotografia non è come la pittura. Vi è una frazione creativa di un secondo quando si scatta una foto. Il tuo occhio deve vedere una composizione o un’espressione che la vita stessa propone, e si deve saper intuire immediatamente quando premi il clic della fotocamera. Quello è il momento in cui il fotografo è creativo. Oop! Il momento! Una volta che te ne accorgi, è andato via per sempre.».

E’ questo il pensiero del grande fotografo francese, Henri Cartier-Bresson, nato a Chanteloup-en-Brie, un piccolo paesino a pochi passi da Parigi, il 22 agosto del 1908, e morto il 3 agosto del 2004 a Céreste, lasciando al mondo le sue immagini. Per tutta la sua vita ha utilizzato una macchina fotografica 35 mm Leica con un obiettivo di 50 mm.

Foto famose di Bresson

Tra gli scatti più famosi ci sono: Marilyn Monroe sul set del film di John HustonThe Misfits“, Nevada-Usa,1960, Albert Camus, Parigi, 1944, Dessau. Germania, aprile 1945, Alberto Giacometti nella Galleria Maeght. Parigi, 1961, Hyères (Francia), 1932, Srinagar, Cachemire. India, 1948, Domenica sulle rive della Marna. Francia, 1938, Henri Matisse a casa – Matisse, Via Mouffetard. Parigi, 1952, Dietro la stazione Saint-Lazare. Parigi, 1932, Truman Capote a New Orleans. Stati Uniti, 1947.

Quella che segue è un’intervista al fotografo palermitano Salvatore Mercadante sull’arte fotografica di Bresson.

Salvatore Mercadante
Salvatore Mercadante

Intervista

D: Bresson diceva che “ci sono scuole per qualsiasi cosa, dove si impara di tutto e alla fine non si sa niente, non si sa niente di niente. Non esiste una scuola per la sensibilità. Non esiste, è impensabile. Ci vuole un certo bagaglio intellettuale“. Lei cosa ne pensa?

R: Impossibile trovarsi in disaccordo con un uomo che è stato definito “L’occhio del 900“. Ogni volta che mi trovo a leggere di lui rimango colpito dalla efficacia e dalla profondità, ogni sua considerazione la sviluppo dentro di me facendone oggetto di riflessioni.

In questi giorni ho avuto modo di valutare l’importanza dello studio, non inteso però come viene fatto spesso, l’ho inteso come sinonimo di libertà di esprimersi, libertà di sorprendersi e di sorprendere creando quel terreno fertile per coltivare quella sensibilità che fa parte del bagaglio culturale di ognuno di noi. La stessa scelta di fare un percorso di studi è manifestazione di quella sensibilità che non ci fa smettere di meravigliarci.

Certo ognuno ha poi una sensibilità e ci sono tante scuole.

Lo studio inoltre ci libera da quel vincolo uomo/macchina, che spesso limita la ricerca dell’attimo tanto a cuore a Bresson e che credo sia presente in tutta la storia fotografica del Novecento.

La capacità di vedere comunque non si impara sui banchi di scuola, in un laboratorio fotografico o in un qualsiasi ambito fotografico, credo che la sensibilità possa portare semmai allo studio come ricerca e mai viceversa.

D: E ancora affermava: “Quando mi interrogano sul ruolo del fotografo ai nostri tempi, sul potere dell’immagine, ecc. non mi va di lanciarmi in spiegazioni, so soltanto che le persone capaci di vedere sono rare quanto quelle capaci di ascoltare“. Qual è, secondo lei, il potere dell’immagine?

R: La capacità di vedere, come la capacità di ascoltare sono peculiarità rare, viviamo in un periodo di “iperfotografismo”, i social network ed i media ci sommergono di immagini costantemente, mi viene in mente un sondaggio di alcuni giorni fa in cui un social network si cercava di capire quanti rispondevano per il solo fatto che il messaggio era accompagnato da un’immagine o meno.

Ad oggi la fotografia ha avuto una enorme evoluzione soprattutto nei numeri, diventando essa stessa immagine di una società che cambia.

Tralasciando ogni critica e l’aspetto che riguarda la velocità con la quale raggiunge ogni punto del mondo, vorrei porre l’attenzione sulla capacità di legarla attraverso semplici link a tutte le informazioni necessarie alla sua comprensione donando all’immagine un grande potenziale espressivo tale da rappresentare un evento meglio di mille parole o dibattiti. La sua diffusione, se è vero che permette a chiunque di avere una fotocamera performante non intacca i principi cardine della fotografia lasciando a chi sa vedere la capacità di emozionare.

D: Bresson sottolinea: “Guardi certi fotografi di oggi: pensano, cercano, vogliono, in loro si avverte la nevrosi della nostra epoca attuale… ma la gioia visiva, quella in loro non la sento. Si sentono delle ossessioni, il lato morboso, a volte, di un mondo suicida“. Lei cosa pensa in merito?

R: La fotografia nell’uso comune ha avuto una diffusione talmente vasta che sembra subire tutto l’influsso del valore economico. È un mezzo di sostentamento, di apprezzamento, di valorizzazione del proprio pensiero, molti acquistano in base a quello che il mercato vuole e non in basa alle proprie esigenze. L’autore in questione in una sua citazione afferma : “In realtà la fotografia di reportage ha bisogno solo di un occhio, un dito, due gambe“.  Del resto la complessità del mezzo fotografico potrebbe condizionare la nostra  capacità di ricerca e scelta dell’attimo decisivo. Tutto questo “apparire” ha fatto dimenticare il piacere di vedere… 

D: Quanto è importante la tecnica per un fotografo? Lo studio è fondamentale?

R: Lo studio è fondamentale quando coltiva la nostra sensibilità. Da piccolo ricordo la mia ossessiva voglia di fare con la mia polaroid e l’ammirazione per le mitiche macchine 6×6… iniziai a studiare da autodidatta, alcune fotografie mi lasciavano indifferente altre mi emozionavano fino alle lacrime, alcuni autori dimostravano una profonda sensibilità ma anche una consapevolezza dello scatto, della composizione, della formazione… Alcuni avevano sviluppato delle tecniche sensazionali, ricordo i libri letti e le prove fatte.  Perfino lo studio del corpo macchina diventa fondamentale per gestire il tempo di reazione durante lo scatto. Fondamentale non trovarsi impreparati di fronte a quell’attimo che Bresson mise al centro della sua fotografia.

Ritengo pertanto lo studio, insieme alla capacità di emozionarsi, il valore fondamentale di ogni fotografo.

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Differenza tra jpeg e png https://cultura.biografieonline.it/jpeg-png-differenze/ https://cultura.biografieonline.it/jpeg-png-differenze/#respond Sat, 03 May 2014 00:08:58 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=10734 Parlando di formati di immagini digitali, molto spesso ci si trova a parlare di formato JPEG e PNG. Il formato JPG, l’acronimo di Join Photographic Experts Group (JPEG) è quello più comunemente usato da tutti nel web. Si tratta di un formato leggero. Per questo la sua controindicazione è la qualità dell’immagine che non è sicuramente delle migliori.

png e jpg
Differenze tra i formati grafici png e jpg

Questo formato è usato esclusivamente per le fotografie ed è sconsigliato in modo assoluto per testi, disegni geometrici o icone. Se prendiamo una determinata immagine e la salviamo nel formato jpeg, l’elaborazione va a fare delle interpolazioni (approssimazioni) in modo da ottenere più o meno lo stesso risultato visivo ma con un file molto più piccolo.

Più alta è la compressione dell’immagine, più bassa e più piccola sarà la qualità della stessa. Il formato Jpeg ha il pregio di essere compatibile con tutti i sistemi operativi ed è caratterizzato da colori intensi, ottimo per le fotografie che necessitano di diverse qualità presentando 24-bit di colore, per un massimo di 16 milioni di colore. Di contro, invece, i dati dell’immagine originale vengono persi, il file non può essere animato ed è sconsigliato per la trasparenza.

Il formato PNG, invece, acronimo di Portable Network Graphics, è uno dei formati immagine più giovani presenti nel web. Si tratta di un formato lossless che permette di convertire le immagini in modo tale che la qualità resti identica. Particolarmente usato per icone e disegni con elementi geometrici. I “contro” di questo formato sono che non può essere animato ed è inadatto per immagini di grandi dimensioni, dato che generano file molto grandi in termini di byte.

I lati positivi del formato png, sono in primis l’assoluta qualità e il dettaglio, dati che non vengono persi dopo la compressione del file. Si tratta inoltre di un formato adatto per il web che supporta anche la trasparenza.

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