felicità Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Mon, 01 Apr 2024 14:36:43 +0000 it-IT hourly 1 La signorina Felicita ovvero la felicità: analisi della poesia di Gozzano https://cultura.biografieonline.it/signorina-felicita-analisi-poesia/ https://cultura.biografieonline.it/signorina-felicita-analisi-poesia/#respond Mon, 27 Jun 2022 08:31:47 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=40046 Questa poesia è una delle più famose composizioni di Guido Gozzano; si intitola La signorina Felicita ovvero la felicità. Essa rappresenta il mondo provinciale semplice e tranquillo, in cui il poeta sente il bisogno di immergersi per godere dei piccoli piaceri della vita e della quiete.

Struttura e metrica

Si tratta di un poemetto di endecasillabi con rime ABBAAB suddivisi in otto sezioni.

Fa parte della raccolta I colloqui (1911).

L’autore: Guido Gozzano

Il poeta Guido Gozzano è considerato il massimo esponente del Crepuscolarismo. Nacque a Torino nel 1883 e morì a soli trentatré anni, nel 1916, a causa della tubercolosi, malattia di cui soffriva da molti anni.

Con la speranza di poter guarire, si recò anche in India nel 1912 e durante questo viaggio scrisse una serie di articoli, poi usciti postumi nell’opera Verso la cuna del mondo.

Sono molto più famose le sue raccolte di poesie:

  • La via del rifugio (1907)
  • I colloqui (1911)

In questi lavori Gozzano descrive il mondo piccolo-borghese con amore, e anche con una certa ironia.

Gozzano - libro Colloqui - poesie
I Colloqui (Gozzano)

La signorina Felicita ovvero la felicità: riassunto e breve analisi

La signorina Felicità è una ragazza conosciuta dal poeta durante una sua villeggiatura nella campagna piemontese. È il ricordo di lei che lo spinge a raccontare nel componimento il tempo passato in sua compagnia.

[ Il testo completo della poesia è in fondo all’articolo ]

Nella seconda strofa il poeta dichiara che inizia a scrivere il giorno dell’onomastico della signorina Felicita, ovvero il 10 luglio (curiosità: guarda qui cosa avvenne in data 10 luglio).

Subito il tono si fa colloquiale: egli si definisce “avvocato” e chiede alla ragazza se lo stia pensando.

Nella terza strofa egli ricorda i giorni trascorsi a Villa Amarena, la casa abitata da Felicita, che un tempo apparteneva ad una Marchesa. Ma il paesaggio diventa lugubre e cupo con la presenza dell’odore del busso, un arbusto utilizzato per le siepi dei cimiteri.

Gozzano introduce poi la figura del padre di Felicita, un borghese arricchito che lo costringe ad ascoltare la lettura di documenti notarili.

L’autore però è stanco di questa situazione e si sente insoddisfatto.

Nella terza strofa c’è anche il ritratto della signorina Felicita: ella viene definita “quasi brutta”, priva di fascino, vestita con abiti di campagna ma con il viso buono, casalingo, i capelli biondi raccolti in trecce che la fanno assomigliare alle ragazze dipinte dai pittori fiamminghi.

La sua bocca è di colore rosso vivo, il viso è di forma quadrata ricoperto da tante lentiggini; gli occhi sono sinceri e di color azzurro.

Donna rossa con camicia bianca, dettaglio
Dettaglio del quadro Donna rossa con camicia bianca (1889, Henri de Toulouse-Lautrec)

Il poeta racconta che fu il farmacista a presentarli, e che egli trascorreva quasi tutti i pomeriggi a casa di lei, ma non amava giocare con gli altri poiché era un giocatore distratto; piuttosto adorava stare in cucina ad ammirare la bellezza di Felicita.

Il loro idillio si consuma poi nel solaio, che viene quasi paragonato ad una tomba (sezione IV e V).

Il poeta chiede alla signorina Felicita se lo accetterebbe come sposo nel caso in cui lui guarisse, ma Felicita risponde che un bravo avvocato come lui non potrà certo sposare una donna bruttina come lei.

Nella sezione VI il poeta scrive che vorrebbe trascorrere tutta la sua vita con lei, perché Felicita non è come tutte le altre donne: lei è una ragazza semplice, che gli potrebbe donare tanta serenità, al contrario della letteratura che invece lo rende sempre inquieto.

Il poeta nella sezione VIII decide di congedarsi da Felicita; ciò avviene quando capisce che la guarigione sperata non è arrivata. Le promette tuttavia la fedeltà.

Gozzano si sente molto diverso dal superuomo dannunziano (ne abbiamo parlato qui: Le opere di Gabriele D’Annunzio) perché capisce che la sua malattia lo rende molto debole.

Commento

La poesia La signorina Felicita ovvero la felicità si caratterizza per il suo stile colloquiale. Spesso l’autore fa ricorso addirittura al discorso diretto.

È inoltre ricca di ironia: il poeta non è pessimista, ma riesce con sottili battute di spirito (es. la rima camicie / Nietzsche vv.308-311) a rendere meno amara la sua condizione.

Al tempo stesso però il componimento è un inno del Crepuscolarismo: egli sa che la sua esistenza accanto alla ragazza è solo una mera illusione poiché la malattia sta prendendo il sopravvento.

C’è sempre un cenno alla morte imminente, anche nella descrizione delle ambientazioni.

Nonostante il tono sia lieto, il poeta è consapevole che non può vivere una vita semplice e felice accanto alla ragazza.

Ciò che trasmette è un messaggio importante: è inutile voler cambiare la propria condizione, bisogna vivere per ciò che si è.

Il poeta incarna così l’uomo crepuscolare: vive alla fine della Belle Époque ed è consapevole che ormai il mondo sta cambiando definitivamente.

Testo completo

Parte I

Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.

Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui: che pensa a te.

Pensa i bei giorni d’un autunno addietro,
Vill’Amarena a sommo dell’ascesa
coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa
dannata, e l’orto dal profumo tetro
di busso e i cocci innumeri di vetro
sulla cinta vetusta, alla difesa….

Vill’Amarena! Dolce la tua casa
in quella grande pace settembrina!
La tua casa che veste una cortina
di granoturco fino alla cimasa:
come una dama secentista, invasa
dal Tempo, che vestì da contadina.

Bell’edificio triste inabitato!
Grate panciute, logore, contorte!
Silenzio! Fuga delle stanze morte!
Odore d’ombra! Odore di passato!
Odore d’abbandono desolato!
Fiabe defunte delle sovrapporte!

Ercole furibondo ed il Centauro,
la gesta dell’eroe navigatore,
Fetonte e il Po, lo sventurato amore
d’Arianna, Minosse, il Minotauro,
Dafne rincorsa, trasmutata in lauro
tra le braccia del Nume ghermitore….

Penso l’arredo – che malinconia! –
penso l’arredo squallido e severo,
antico e nuovo: la pirografia
sui divani corinzi dell’Impero,
la cartolina della Bella Otero
alle specchiere…. Che malinconia!

Antica suppellettile forbita!
Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi pazïente…. Avita
semplicità che l’anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!

Parte II

Quel tuo buon padre – in fama d’usuraio –
quasi bifolco, m’accoglieva senza
inquietarsi della mia frequenza,
mi parlava dell’uve e del massaio,
mi confidava certo antico guaio
notarile, con somma deferenza.

«Senta, avvocato….» E mi traeva inqueto
nel salone, talvolta, con un atto
che leggeva lentissimo, in segreto.
Io l’ascoltavo docile, distratto
da quell’odor d’inchiostro putrefatto,
da quel disegno strano del tappeto,

da quel salone buio e troppo vasto….
«…. la Marchesa fuggì…. Le spese cieche….»
da quel parato a ghirlandette, a greche….
«dell’ottocento e dieci, ma il catasto….»
da quel tic-tac dell’orologio guasto….
«….l’ipotecario è morto, e l’ipoteche….»

Capiva poi che non capivo niente
e sbigottiva: «Ma l’ipotecario
è morto, è morto!!…» – «E se l’ipotecario
è morto, allora….» Fortunatamente
tu comparivi tutta sorridente:
«Ecco il nostro malato immaginario!»

Parte III

Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga….

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia….

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Ogni giorno salivo alla tua volta
pel soleggiato ripido sentiero.
Il farmacista non pensò davvero
un’amicizia così bene accolta,
quando ti presentò la prima volta
l’ignoto villeggiante forestiero.

Talora – già la mensa era imbandita –
mi trattenevi a cena. Era una cena
d’altri tempi, col gatto e la falena
e la stoviglia semplice e fiorita
e il commento dei cibi e Maddalena
decrepita, e la siesta e la partita….

Per la partita, verso ventun’ore
giungeva tutto l’inclito collegio
politico locale: il molto Regio
Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;
ma – poichè trasognato giocatore –
quei signori m’avevano in dispregio….

M’era più dolce starmene in cucina
tra le stoviglie a vividi colori:
tu tacevi, tacevo, Signorina:
godevo quel silenzio e quegli odori
tanto tanto per me consolatori,
di basilico d’aglio di cedrina….

Maddalena con sordo brontolio
disponeva gli arredi ben detersi,
rigovernava lentamente ed io,
già smarrito nei sogni più diversi,
accordavo le sillabe dei versi
sul ritmo eguale dell’acciottolio.

Sotto l’immensa cappa del camino
(in me rivive l’anima d’un cuoco
forse….) godevo il sibilo del fuoco;
la canzone d’un grillo canterino
mi diceva parole, a poco a poco,
e vedevo Pinocchio, e il mio destino….

Vedevo questa vita che m’avanza:
chiudevo gli occhi nei presagi grevi;
aprivo gli occhi: tu mi sorridevi,
ed ecco rifioriva la speranza!

Giungevano le risa, i motti brevi
dei giocatori, da quell’altra stanza.

Parte IV

Bellezza riposata dei solai
dove il rifiuto secolare dorme!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò ch’è stato e non sarà più mai,
bianca bella così che sussultai,
la Dama apparve nella tela enorme:

«È quella che lasciò, per infortuni,
la casa al nonno di mio nonno…. E noi
la confinammo nel solaio, poi
che porta pena…. L’han veduta alcuni
lasciare il quadro; in certi noviluni
s’ode il suo passo lungo i corridoi….»

Il nostro passo diffondeva l’eco
tra quei rottami del passato vano,
e la Marchesa dal profilo greco,
altocinta, l’un piede ignudo in mano,
si riposava all’ombra d’uno speco
arcade, sotto un bel cielo pagano.

Intorno a quella che rideva illusa
nel ricco peplo, e che morì di fame,
v’era una stirpe logora e confusa:
topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!

Tra i materassi logori e le ceste
v’erano stampe di persone egregie;
incoronato delle frondi regie
v’era Torquato nei giardini d’Este.
«Avvocato, perchè su quelle teste
buffe si vede un ramo di ciliegie?»

Io risi, tanto che fermammo il passo,
e ridendo pensai questo pensiero:
Oimè! La Gloria! un corridoio basso,
tre ceste, un canterano dell’Impero,
la brutta effigie incorniciata in nero
e sotto il nome di Torquato Tasso!

Allora, quasi a voce che richiama,
esplorai la pianura autunnale
dall’abbaino secentista, ovale,
a telaietti fitti, ove la trama
del vetro deformava il panorama
come un antico smalto innaturale.

Non vero (e bello) come in uno smalto
a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.

Ecco – pensavo – questa è l’Amarena,
ma laggiù, oltre i colli dilettosi,
c’è il Mondo: quella cosa tutta piena
di lotte e di commerci turbinosi,
la cosa tutta piena di quei «cosi
con due gambe» che fanno tanta pena….

L’Eguagliatrice numera le fosse,
ma quelli vanno, spinti da chimere
vane, divisi e suddivisi a schiere
opposte, intesi all’odio e alle percosse:
così come ci son formiche rosse,
così come ci son formiche nere….

Schierati al sole o all’ombra della Croce,
tutti travolge il turbine dell’oro;
o Musa – oimè – che può giovare loro
il ritmo della mia piccola voce?
Meglio fuggire dalla guerra atroce
del piacere, dell’oro, dell’alloro….

L’alloro…. Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l’alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar altrui….

«Avvocato, non parla: che cos’ha?»
«Oh! Signorina! Penso ai casi miei,
a piccole miserie, alla città….
Sarebbe dolce restar qui, con Lei!…»
«Qui, nel solaio?…» – «Per l’eternità!»
«Per sempre? accetterebbe?…» – «Accetterei!»

Tacqui. Scorgevo un atropo soletto
e prigioniero. Stavasi in riposo
alla parete: il segno spaventoso
chiuso tra l’ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
si librò con un ronzo lamentoso.

«Che ronzo triste!» – «È la Marchesa in pianto….
La Dannata sarà, che porta pena….»
Nulla s’udiva che la sfinge in pena
e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto:
O mio carino tu mi piaci tanto,
siccome piace al mar una sirena….

Un richiamo s’alzò, querulo e rôco:
«È Maddalena inqueta che si tardi:
scendiamo: è l’ora della cena!» – «Guardi,
guardi il tramonto, là…. Com’è di fuoco!…
Restiamo ancora un poco!» – «Andiamo, è tardi!»
«Signorina, restiamo ancora un poco!…»

Le fronti al vetro, chini sulla piana,
seguimmo i neri pipistrelli, a frotte;
giunse col vento un ritmo di campana,
disparve il sole fra le nubi rotte;
a poco a poco s’annunciò la notte
sulla serenità canavesana….

«Una stella!…» – «Tre stelle!…» – «Quattro stelle!…»
«Cinque stelle!» – «Non sembra di sognare?…»
Ma ti levasti su quasi ribelle
alla perplessità crepuscolare:
«Scendiamo! È tardi: possono pensare
che noi si faccia cose poco belle….»

Parte V

Ozi beati a mezzo la giornata,
nel parco dei Marchesi, ove la traccia
restava appena dell’età passata!
Le Stagioni camuse e senza braccia,
fra mucchi di letame e di vinaccia,
dominavano i porri e l’insalata.

L’insalata, i legumi produttivi
deridevano il busso delle aiole;
volavano le pieridi nel sole
e le cetonie e i bombi fuggitivi….
Io ti parlavo, piano, e tu cucivi
innebriata dalle mie parole.

«Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah! Rimanere qui, sempre, al suo fianco,
terminare la vita che m’avanzi
tra questo verde e questo lino bianco!
Se Lei sapesse come sono stanco
delle donne rifatte sui romanzi!

Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
educherebbe al tenero prodigio:
mai non comparve sul mio cielo grigio
quell’aurora che dicono: l’Amore….»

Tu mi fissavi…. Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi:
«Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?»

«Perchè mi fa tali discorsi vani?
Sposare, Lei, me brutta e poveretta!…»
E ti piegasti sulla tua panchetta
facendo al viso coppa delle mani,
simulando singhiozzi acuti e strani
per celia, come fa la scolaretta.

Ma, nel chinarmi su di te, m’accorsi
che sussultavi come chi singhiozza
veramente, né sa più ricomporsi:
mi parve udire la tua voce mozza
da gli ultimi singulti nella strozza:
«Non mi ten….ga mai più…. tali dis…. corsi!»

«Piange?» E tentai di sollevarti il viso
inutilmente. Poi, colto un fuscello,
ti vellicai l’orecchio, il collo snello….
Già tutta luminosa nel sorriso
ti sollevasti vinta d’improvviso,
trillando un trillo gaio di fringuello.

Donna: mistero senza fine bello!

Parte VI

Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
luceva una blandizie femminina;
tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina;
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!

Unire la mia sorte alla tua sorte
per sempre, nella casa centenaria!
Ah! Con te, forse, piccola consorte
vivace, trasparente come l’aria,
rinnegherei la fede letteraria
che fa la vita simile alla morte….

Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!

Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi…. E non mediti Nietzsche….
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda….

Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piaci. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.

Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista….

Ed io non voglio più essere io!

Parte VII

Il farmacista nella farmacia
m’elogïava un farmaco sagace:
«Vedrà che dorme le sue notti in pace:
un sonnifero d’oro, in fede mia!»
Narrava, intanto, certa gelosia
con non so che loquacità mordace.

«Ma c’è il notaio pazzo di quell’oca!
Ah! quel notaio, creda: un capo ameno!
La Signorina è brutta, senza seno,
volgaruccia, Lei sa, come una cuoca….
E la dote…. la dote è poca, poca:
diecimila, chi sa, forse nemmeno….»

«Ma dunque?» – «C’è il notaio furibondo
con Lei, con me che volli presentarla
a Lei; non mi saluta, non mi parla….»
«È geloso?» – «Geloso! Un finimondo!…»
«Pettegolezzi!…» – «Ma non Le nascondo
che temo, temo qualche brutta ciarla….»

«Non tema! Parto.» – «Parte? E va lontana?»
«Molto lontano…. Vede, cade a mezzo
ogni motivo di pettegolezzo….»
«Davvero parte? Quando?» – «In settimana….»
Ed uscii dall’odor d’ipecacuana
nel plenilunio settembrino, al rezzo.

Andai vagando nel silenzio amico,
triste perduto come un mendicante.
Mezzanotte scoccò, lenta, rombante
su quel dolce paese che non dico.
La Luna sopra il campanile antico
pareva «un punto sopra un i gigante».

In molti mesti e pochi sogni lieti,
solo pellegrinai col mio rimpianto
fra le siepi, le vigne, i castagneti
quasi d’argento fatti nell’incanto;
e al cancello sostai del camposanto
come s’usa nei libri dei poeti.

Voi che posate già sull’altra riva,
immuni dalla gioia, dallo strazio,
parlate, o morti, al pellegrino sazio!
Giova guarire? Giova che si viva?
O meglio giova l’Ospite furtiva
che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio?

A lungo meditai, senza ritrarre
la tempia dalle sbarre. Quasi a scherno
s’udiva il grido delle strigi alterno….
La Luna, prigioniera fra le sbarre,
imitava con sue luci bizzarre
gli amanti che si baciano in eterno.

Bacio lunare, fra le nubi chiare
come di moda settant’anni fa!
Ecco la Morte e la Felicità!
L’una m’incalza quando l’altra appare;
quella m’esilia in terra d’oltremare,
questa promette il bene che sarà….

Parte VIII

Nel mestissimo giorno degli addii
mi piacque rivedere la tua villa.
La morte dell’estate era tranquilla
in quel mattino chiaro che salii
tra i vigneti già spogli, tra i pendii
già trapunti di bei colchici lilla.

Forse vedendo il bel fiore malvagio
che i fiori uccide e semina le brume,
le rondini addestravano le piume
al primo volo, timido, randagio;
e a me randagio parve buon presagio
accompagnarmi loro nel costume.

«Vïaggio con le rondini stamane….»
«Dove andrà?» – «Dove andrò! Non so…. Vïaggio,
vïaggio per fuggire altro vïaggio….
Oltre Marocco, ad isolette strane,
ricche in essenze, in datteri, in banane,
perdute nell’Atlantico selvaggio….

Signorina, s’io torni d’oltremare,
non sarà d’altri già? Sono sicuro
di ritrovarla ancora? Questo puro
amore nostro salirà l’altare?»
E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.

Giurasti e disegnasti una ghirlanda
sul muro, di viole e di saette,
coi nomi e con la data memoranda
trenta settembre novecentosette….
Io non sorrisi. L’animo godette
quel romantico gesto d’educanda.

Le rondini garrivano assordanti,
garrivano garrivano parole
d’addio, guizzando ratte come spole,
incitando le piccole migranti….
Tu seguivi gli stormi lontananti
ad uno ad uno per le vie del sole….

«Un altro stormo s’alza!…» – «Ecco s’avvia!»
«Sono partite….» – «E non le salutò!…»
«Lei devo salutare, quelle no:
quelle terranno la mia stessa via:
in un palmeto della Barberia
tra pochi giorni le ritroverò….»

Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine….

M’apparisti così, come in un cantico
del Prati, lacrimante l’abbandono
per l’isole perdute nell’Atlantico;
ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono
sentimentale giovine romantico….

Quello che fingo d’essere e non sono!

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Quando siete felici, fateci caso https://cultura.biografieonline.it/quando-siete-felici-fateci-caso/ https://cultura.biografieonline.it/quando-siete-felici-fateci-caso/#respond Thu, 19 Feb 2015 10:55:59 +0000 http://girolepagine.com/?p=24 io sono una bestiola ignorante [cit.] [la cit. è del moroso che vabbe’ lasciamo stare eh] e quando ho provato a leggere kurtvonnegut, non ci sono riuscita.

però poi è uscita questa raccolta di discorsi agli studenti alla graduation, quando siete felici, fateci caso – minimum fax, 2015 e memore di quanto mi ha preso il cuore lo speech di georgesaunders l’egoismo è inutile – sempre minimum fax, 2014 ho detto “dai, ‘oo provo”.

e per fortuna.
e vorrei solo riportare qui alcune cose perché diosanto, tatuatevele sul cuore, e in testa.

Quando siete felici fateci caso
Quando siete felici fateci caso (2015, Kurt Vonnegut)

_è tragico, forse, che gli esseri umani riescano a trarre così tanta energia ed entusiasmo dall’odio

_la vendetta genera vendetta, che genera vendetta, che genera vendetta, formando una catena continua di morte e distruzione che lega le nazioni di oggi alle tribù barbare di migliaia e migliaia di anni fa.

_non abbandonate mai i libri. è così piacevole tenerli in mano, col loro peso cordiale. la dolce riluttanza delle pagine quando le sfogliate coi vostri polpastrelli sensibili. gran parte del nostro cervello si dedica a decidere se quello che tocchiamo con le mani ci fa bene o male. anche un cervello da quattro soldi sa che i libri ci fanno bene.

_finché ci sarà una classe inferiore, io ne farò parte. finché ci saranno dei fuorilegge, io sarò uno di loro. finché ci sarà un essere umano in carcere, io non sarò libero.

ma sopratutto. soprattutto.

_di regola io ne conosco una sola: bisogna essere buoni, cazzo.

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Valerio Millefoglie, intervista. Performer teatrale e musicista. https://cultura.biografieonline.it/intervista-a-valerio-millefoglie/ https://cultura.biografieonline.it/intervista-a-valerio-millefoglie/#respond Wed, 20 Jun 2012 20:33:31 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2723 Valerio Millefoglie. Nato a Bari nel 1977, performer teatrale, musicista (ha inciso il disco “I miei migliori amici immaginari” che contiene “Il Lottatore Mascherato con gli Occhiali”, una canzone di wrestling non violento), artista creativo e multidisciplinare, è, soprattutto, autore molto originale, forte già di diverse pubblicazioni nonostante la sua giovane età.

Valerio Millefoglie
Valerio Millefoglie

Dopo aver esordito con “Scontrini. Racconti in forma di acquisto”, scritto a quattro mani insieme con Matteo B. Bianchi, e dopo il libro assolutamente sui generis “Manuale per diventare Valerio Millefoglie” (entrambi editi da BCD),  nel 2012 è arrivata la chiamata dalla casa editrice Einaudi, per il suo ultimo lavoro dal titolo “L’attimo in cui siamo felici” (Stile libero Extra).

Il libro raccoglie i momenti di felicità di alcune persone realmente intervistate dall’autore nativo di Bari, nel corso di una sua ricerca capillare, la quale lo ha portato a distribuire i suoi “Questionari della felicità” nei luoghi di aggregazione sociali: dalle fermate metro ai ristoranti, dai locali notturni ai negozi, passando per bar, chiese, scuole, banche, supermercati e molti altri luoghi.

Per riprendersi dalla scomparsa del padre infatti, ben narrata nel libro attraverso brani di grande impatto emotivo, Valerio Millefoglie decide di verificare le proprietà terapeutiche della felicità. Per questa ragione, distribuisce migliaia di questionari in cui chiede di descrivere e cronometrare i momenti felici in una settimana qualsiasi. Le risposte, i ritratti delle persone comuni, i loro momenti di felicità, costituiscono il libro vero e proprio, il quale ha ottenuto non poche recensioni positive, oltre ad un buon interesse da parte del pubblico. In un’intervista, Valerio Millefoglie ha risposto ad alcune domande intorno al suo ultimo progetto e, anche, alla sua vita di creativo non solo dal punto di vista letterario.

Al termine di questa lunga ricerca, sei riuscito a dare una risposta (o quanto meno ad abbozzarla), alla domanda universale su cosa sia la felicità? O meglio, che idea ti sei fatto, tu, della felicità?

Il Mago Wolf, uno dei soggetti analizzati nel libro, ha scritto come ultimo attimo felice della settimana: “Finalmente ho finito il questionario della felicità”. La felicità cominciava a pesargli. Si sentiva quasi in dovere di viverla. Mi ha detto che forse è più bello non viverla, tenerla lì in attesa. Mi ha raccontato di avere due cassette ormai introvabili di un famoso prestigiatore americano, e una delle due la tiene lì da anni senza ascoltarla. Se l’ascoltasse la felicità si esaurirebbe. Dunque la felicità è qualcosa da non vivere. O da vivere a posteriori, nel ricordo che inevitabilmente ti fa provare malinconia. Mi capita di vivere bei momenti e dopo dieci minuti già mi mancano, nella mia testa sono già un passato lontanissimo cui pensare con rammarico.

Quale, l’episodio, il personaggio, l’attimo di felicità che più ti ha colpito e perché?

Mi viene in mente che il primo soggetto di cui parlo nel libro, che poi è stato anche il primo che ho incontrato, era molto felice con la religione. Ascoltando Radio Maria, andando in chiesa, uscendo a mangiare la pizza con il gruppo di preghiera. Mentre una delle ultime cartelle cliniche del libro parla di XXX, una ragazza che come primo attimo felice ha segnato “Tornare a parlare è bello”, perché si era volutamente tagliata la lingua in due. Poi aveva provato anche le sospensioni, facendosi appendere con dei ganci dietro la schiena. Entrambi mi sembrano due estremi, ma nel momento in cui li ho incontrati e mi hanno raccontato di loro, mi sembravano cose del tutto normali. Ci scandalizziamo sempre quando qualcuno fa qualcosa che noi pensiamo non faremmo mai. È un peccato questo.

Le tue presentazioni sono assolutamente diverse, rispetto alle solite. Come mai l’idea di una seduta psicoanalitica pubblica?

Il mio primo libro, il “Manuale per diventare Valerio Millefoglie”, l’avevo presentato in un teatrino equivoco in cui si esibivano dei trasformisti. Era un libro in cui per diventare me stesso provavo a entrare nei panni di personaggi fondamentali allora per la mia formazione. Dunque mi sembrava il luogo giusto e il periodo giusto. Poi quel locale è stato chiuso e difatti ora un libro come quello non lo scriverei. Allo stesso modo ne L’attimo in cui siamo felici ci sono le cartelle cliniche dei pazienti, persone che ho davvero incontrato e che ho provato a conoscere facendogli domande che non si fanno agli sconosciuti. Ho voluto ricambiare la cosa e in ogni presentazione mi sono steso su un divano e un vero psicoterapeuta del posto ha provato ad analizzare i miei attimi felici. All’inizio è stato bello e curioso, alcune volte mi sono reso conto di perdere un po’ il controllo o di cadere troppo nel cupo. Non so se ne farò altre di sedute, almeno pubbliche.

Anche prendendo in considerazione i tuoi precedenti lavori, è evidente il tuo cercare la gente, il contatto, attraverso esperienze reali, effettive, con poche, pochissime forme di invenzione. Come mai questo?

Io credo invece che le invenzioni ci siano. Partono dalla realtà, ma sono rielaborate. Nel libro è necessaria una borsa giocattolo da medico per trasformarmi in un vero dottor medico. Il primo medico che non cura i pazienti, ma che da loro si fa curare. Non essendo felice lui, che poi sarei io, decide di vivere le felicità con un transfert. Ci sono poi una serie di invenzioni immaginifiche: il suono di una tromba, “parapapà”, diventa una marcia per non ammettere di voler chiamare mio padre ad alta voce.

Ci sono autori che scrivono libri sulla guerra e non hanno manco fatto il militare. Mi sarei potuto immaginare le felicità di un mago illusionista, di un detenuto, mi sarei potuto anche inventare una fiera dell’imprenditoria funeraria, ma mi è sembrato molto più inventivo e forte andare a conoscere un vero mago, entrare in un vero carcere o passeggiare fra le bare con dentro lo champagne per mostrare agli acquirenti il sistema di refrigerazione. In uno degli stand della fiera funeraria mandavano la canzone I will survive. La realtà è molto più forte, bizzarra, fantasiosa e soprattutto vera.

Dal punto di vista musicale invece, qual è la tua ricerca? Può dirsi contigua, in qualche modo, a quella letteraria?

Le canzoni de “I miei migliori amici immaginari” sono in qualche modo narrative. Alla base ci sono sempre un protagonista e la sua storia. A volte le tre strofe potrebbero quasi essere suddivise in incipit, svolgimento e conclusione. Per i pezzi del nuovo disco sto cercando di liberarmi da questo. Già nei set dal vivo utilizzo più le macchine, i sintetizzatori, che comunque ti distolgono dalla cantautorialità. Provo canzoni frammentate, anche se la storia è più forte di me e si ficca ovunque. Dovrei avere una bella delusione d’amore per lasciarmi andare e scrivere canzoni senza capo né coda. Forse però ora fortunatamente mi succede.

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