documentario Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Sun, 11 Mar 2018 08:01:47 +0000 it-IT hourly 1 L’epico incontro tra Ali e Foreman https://cultura.biografieonline.it/ali-foreman-quando-eravamo-re/ https://cultura.biografieonline.it/ali-foreman-quando-eravamo-re/#comments Tue, 30 Oct 2012 15:38:48 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=4520 Me lo mangerò in un boccone! Sono troppo veloce per lui! Troppo veloce!”. Comincia così uno dei docu-film più appassionanti di sempre, diretto dal regista Leon Gast e dal titolo, emblematico, “Quando eravamo re”. Un prodotto cinematografico epocale, soprattutto per la gestazione dell’opera in sé, durata circa ventidue anni. Al principio il documentario avrebbe dovuto raccontare, quasi esclusivamente, il concerto di musica soul che doveva precedere l’incontro di pugilato tra Muhammad Ali e il campione del mondo George Foreman, a Kinshasa, nella capitale dell’allora stato dello Zaire (poi Congo Belga), avvenuto il 30 ottobre 1974. Ne venne fuori, invece, un ritratto appassionante, formidabile, incentrato sulla figura di Cassius Clay, il pugile nato negli States e convertitosi all’Islam dopo la conquista del suo primo titolo mondiale, esattamente il giorno dopo, nel 1964.

Ali-Foreman, Kinshasa (Zaire), 30 ottobre 1974
Ali-Foreman, Kinshasa (Zaire), 30 ottobre 1974

Veloce come una farfalla e pungente come un’ape

All’epoca, il giovane pugile, definito un atleta politico per la sua determinazione nel farsi portavoce del riscatto del popolo afroamericano, “veloce come una farfalla e pungente come un’ape” (fly like a butterfly, sting like a bee), si appropriò del titolo mondiale mandando al tappeto il campione uscente Sonny Liston – impresa che ripeté l’anno dopo, nel Maine, dopo pochi attimi di gara e con il famoso “pugno fantasma”.

Nel 1974 invece, dopo aver perso il titolo mondiale contro Joe Frazier nel 1971 (la stampa lo definì “L’incontro del secolo”), l’ormai divenuto Muhammad Ali ebbe il coraggio di sfidare il campionissimo George Foreman, uno dei più grandi pugili di sempre, tra l’altro più giovane di lui. Foreman aveva inoltre battuto proprio Frazier, per prendersi il titolo, mandandolo a tappeto sei volte prima del K.O. finale. I bookmaker lo davano come strafavorito, tra l’altro in un momento di forma straordinario, che lo aveva visto sconfiggere in soli due round un altro pugile di enorme qualità e forza, Ken Norton, lo stesso che aveva fratturato la mascella a Muhammad Ali.

Cassius Clay a Kinshasa
Cassius Clay a Kinshasa

Entrambi i pugili passarono l’estate intera nello Zaire, per allenarsi e acclimatarsi all’ambiente africano. Per Ali fu un ritorno alle origini, un rientro a casa, che sfruttò fino all’ultimo, cavalcando il sogno di un riscatto africano a tutti gli effetti, in un momento cruciale della storia dei neri d’America e non solo. L’incontro si sarebbe dovuto tenere il 25 settembre, ma Foreman si ferì durante gli allenamenti e venne procrastinato di un mese.

Quando eravamo Re: il docu-film

Nel documentario di Leon Gast, scorrono le immagini preparatorie del match, gli allenamenti, le interviste ad Ali, le sue parole, le sfide più o meno audaci che lancia di continuo al suo sfidante, le provocazioni assurde e assolutamente d’impatto. “Lo manderò in pensione” dice Ali, “manderò in pensione il campione George Foreman”, “la cosa farà più scalpore delle dimissioni di Nixon, vedrete!”.

When we were kings - Quando eravamo re
When we were kings – Quando eravamo re

Emerge, chiaramente, il carisma di uno sportivo che sapeva bene d’essere più debole, ai pugni, del suo avversario, ma consapevole del fatto che, se fosse riuscito a portare dalla sua parte il pubblico, avrebbe potuto godere di un vantaggio psicologico non indifferente nei confronti di un pugile che faceva della stazza e della potenza fisica le proprie armi – gli esperti più volte parlarono di Foreman come l’atleta più forte in assoluto che sia mai esistito.

Ad ogni modo, nonostante fossero entrambi di chiare origini africane, è Foreman che viene subito individuato come l’Occidentale, l’americano imperialista da mandare al tappeto per riscattare un intero continente. Muhammad Ali si appropria del pubblico, lo incanala dalla sua parte, come spiega il grande regista Spike Lee, uno degli intervistati nel docu-film “Quando eravamo re”: “Per quei due pugili afroamericani – afferma il cineasta – era molto importante ritornare in Africa; Hollywood e la televisione ci avevano insegnato ad odiare l’Africa, un tempo se chiamavi “africano” un nero rischiavi il pestaggio”.

Ali si appropria del termine e, com’è riportato nel documentario, durante le svariate interviste preparatorie all’evento, senza mezzi termini manda al diavolo l’America e afferma solennemente l’appartenenza dei neri, degli afroamericani, alla grande mamma Africa. Secondo lo scrittore Norman Mailer invece – che anche lui descrisse la vicenda epocale in più di un lavoro – Muhammad Ali aveva paura, e sapeva che questa sarebbe aumentata con l’avvicinarsi dell’evento e aveva bisogno di esorcizzarla, di farla propria, di trasformarla in boxe.

Il prodotto di Leon Gast, ad ogni modo, venne fuori solo nel 1996 e vinse numerosi riconoscimenti: l’Oscar, innanzitutto. Ma anche il “Broadcast Film Critics Association Award”, “l’Independent Spirit Award”, il “New York Film Critics Circle Award”, il premio come miglior documentario da parte del “National Society of Film Critics Award”, e molti altri. Nel docu-film la musica ebbe un ruolo importante, come da copione, almeno inizialmente, con sprazzi di concerti molto intensi, come quello dell’eroina Miriam Makeba e dei Crusades.

Ma, oltre alla vicenda di Ali, alla sua carriera, alle sue provocazioni continue e affermazioni più o meno politiche, fu soprattutto il combattimento tra i due pugili ad avere un ruolo centrale.

Terremoto nella giungla

Ali bomaye! Ali bomaye! Ali bomaye!”. Il 30 ottobre 1974, allo Stade Tata Raphaël di Kinshasa, nell’allora Zaire, il pubblico ha già scelto per quale pugile fare il tifo e, per tutta la durata dell’incontro, non fa che ripetere quel coro: “Ali, uccidilo!“.

Il match passerà alla storia come “Il terremoto nella giungla” (A Rumble in the Jungle) e, soprattutto, per l’impresa di Muhammad Ali: l’unico, dopo Floyd Patterson, capace di riprendersi il titolo dei Pesi Massimi dopo averlo perduto.

L’incontro cominciò alle 5 di mattina secondo l’ora di Kinshasa, in modo che tutte le televisioni potessero trasmetterlo, in particolar modo la tv americana, con il consueto commento di Bob Sheridan. All’incontro, tra il pubblico, erano presenti anche i “grandi sconfitti” Ken Norton e Joe Frazier.

La vittoria di Ali segnò un cambio di passo epocale nella storia della boxe: fu un risultato figlio di una pianificazione tattica senza precedenti, rappresentata da quella che lo stesso Ali, più volte anche prima del match, aveva definito anche ai suoi stessi allenatori come la sua “tattica segreta”.

Io sono il più grande
Muhammad Ali: Il più grande

Il futuro campione, dopo i primi due round nei quali diede sfoggio della sua capacità atletica e della velocità di gambe, intuì che non avrebbe potuto reggere per tutto l’incontro quei suoi stessi ritmi. Assestò alcuni colpi a Foreman, leggeri ma precisi, giocò d’astuzia per tutti i round, provocandolo con frasi come “mi avevano detto che sapevi dare pugni” e altre, le quali non facevano altro che innervosire l’avversario, di fatto deconcentrandolo.

Ma ben presto si incollò alle corde, per oltre sei riprese, dando la possibilità a Foreman di sfogarsi: un’idea rischiosa ma, a suo modo, geniale. L’azione elastica delle corde infatti, attutiva i colpi, rendendoli meno potenti, consentendo ad Ali tempi di ripresa superiori, preziosi in una condizione del genere. Nel frattempo, ogni volta che gli riusciva, Ali colpiva Foreman al collo e in pieno viso, destabilizzandolo.

L’ottavo decisivo round

All’ottavo round, Foreman era stremato. Nonostante avesse tenuto in mano l’incontro per tutti i round, era quello che riportava i segni più netti sulla faccia, mal ridotta dalle puntata del suo sfidante, come sempre velocissimo e astuto nell’assestare i suoi colpi.

Alì colse il momento al volo e, vedendo Foreman più lento del solito, si lanciò in una serie di jab e uppercut che fecero crollare il rivale al tappeto: prima gli alzò il viso e poi lo stese con un diretto micidiale. Il gigante indietreggiò per quasi mezzo ring, per poi accasciarsi a terra, di schiena. Impiegò nove secondi per rialzarsi ma, anche quando fu sulle ginocchia, l’arbitro decretò la fine del match, sancendo anche il decimo secondo.

Fu la più memorabile delle vittorie per Muhammad Ali.

Muhammad Ali campione
Muhammad Ali esulta a braccia alzate

Il premio Oscar

Alla cerimonia degli Oscar del 1997, vinto da Gast e Sonenberg per il loro “When we were kings” (titolo originale di “Quando eravamo re”), fu proprio Muhammad Ali ad essere chiamato sul palco per ricevere l’ambita statuetta. Affetto dal morbo di Parkinson però, l’ex campionissimo fece fatica a salire i gradini e a raggiungere i presentatori che lo attendevano per la cerimonia di premiazione.

A quel punto, fu proprio l’eterno rivale George Foreman ad aiutarlo a salire le scale. I due infatti, dopo il famoso incontro e, soprattutto, dopo anni di polemiche, erano diventati amici.

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Intervista a Giuseppe Sansonna https://cultura.biografieonline.it/intervista-a-giuseppe-sansonna/ https://cultura.biografieonline.it/intervista-a-giuseppe-sansonna/#respond Wed, 18 Jan 2012 17:53:09 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=167 Giuseppe Sansonna. Regista, pugliese di Conversano, in provincia di Bari, ma da una vita ormai a Roma. Specializzato in documentari d’autore, ha dedicato gli ultimi tre anni della sua carriera professionale all’allenatore di calcio più discusso dell’ultimo ventennio, Zdenek Zeman. Nel suo obiettivo, per la precisione, sono finite le due stagioni vissute dal mister boemo sulla panchina a lui più cara, che lo ha consegnato agli annali: quella del Foggia. Due stagioni distanti circa vent’anni tra loro, la prima, cara ai tifosi rossoneri e agli amanti del calcio spettacolo, andata in scena nel triennio 1991-1994, con quello che è passato alla storia come “Il Foggia dei miracoli”, spavaldo e vincente in serie A. La seconda, durata appena un anno calcistico, quello 2010/2011, che ha segnato il ritorno di Zeman nel calcio che conta, sempre in sella al suo Foggia, questa volta però dalla terza serie professionistica del campionato di Lega Pro. Il risultato di questa avventura firmata da Giuseppe Sansonna è un cofanetto, pubblicato a fine 2011 dalla casa editrice Minimum Fax, il quale mette insieme entrambi i lavori: “Zemanlandia” e “Due o tre cose che so di lui”, con un libretto-reportage a firma sempre del regista pugliese. Tuttavia, come emerge nell’intervista di seguito, l’autore Sansonna non è solo un appassionato di calcio in generale e dell’allenatore praghese in particolare. Ma un regista di nicchia, appassionato di documentari e di ritratti d’autore.

Zeman con il regista Giuseppe Sansonna
Zeman con il regista Giuseppe Sansonna

Dopo “A perdifiato”, dedicato a Michele Lacerenza, il trombettista dei western di Sergio Leone, arriva il lavoro su Rodolfo Valentino, ne “Lo sceicco di Castellaneta”. E, per ultimo, il doppio su Mister Zeman. Più che una passione per il documentario classico, con l’accento posto soprattutto sui fatti narrati, Sansonna sembra avere una predilezione per il ritratto d’autore, è così? Meglio la personalità (o il personaggio) da narrare, per dirla alla Sorrentino, piuttosto che la trama in sé?

Perennemente disorientato dalle derive della mia esistenza, provo a rintracciare senso e percorsi nelle vite altrui. Privilegiando quelle impervie e articolate, che lambiscano il mito, la persistenza nell’immaginario collettivo. Ho sempre in mente il cartello “No trespassing”, inquadrato all’inizio di “Quarto potere”. Cerco di individuare, nei percorsi biografici altrui, situazioni rivelatrici- senza definire identità aprioristiche, lapidarie. I miei lavori sono ibridi che triturano linguaggi disparati, calibrati sull’oggetto in questione.

In generale, quello attuale, che momento è per il documentario d’autore a livello nazionale? E per quale ragione in America questo genere gode di ben altra attenzione rispetto all’Italia? Solo un problema economico?

Credo che in Italia, salvate le solite eccezioni, sia in atto da decenni un impoverimento del linguaggio filmico. Ormai indistinguibile dal deperibile linguaggio catodico. Le fiction sono un grande collettore fognario di prodotti seriali e anonimi, che non si incidono mai nella memoria collettiva. Fanno ribrezzo in primis ai propri artefici. Oggetti anomali come i documentari sono quasi esclusi dal mercato. In America il cinema è, invece, un’industria ancora fiorente. In quanto tale ha bisogno di coltivare prodotti indipendenti, ai suoi margini. Da copiare, patinando e disinnescando, per renderli fruibili alle grandi masse. Ma intanto lasciano vivere e sperimentare chi ha autentiche necessità espressive.

Entrando nel merito: raccontare il calcio, quale che sia il modo, è sempre un rischio grosso, al cinema. La stessa storia cinematografica è densa di fallimenti, più o meno clamorosi. Alla luce della tua doppia esperienza, cosa non si deve mai fare in un documentario-reportage calcistico? Quali, i rischi più grossi?

Il calcio, per sua natura, tende all’ irrappresentabilità. Puoi solo coglierlo nel suo farsi. Evitando la cosmesi alla Matrix delle pay tv, quell’arsenale di carrelli, dolly, zoomoni improvvisi, atti a enfatizzare il nulla. Omologando tutte le partite. I fuoriclasse e la grandi azioni vengono esaltati dal campo lungo, a camera fissa. Mettere in scena il calcio al cinema conduce poi a esiti pacchiani. Penso alla rovesciata di Pelé in “Fuga per la vittoria”. Compiuti i sei anni, ha smesso di affascinarmi. “Ultimo minuto”, di Pupi Avati, non mostra mai la partita. Filma la panchina. Un’idea che ho ripreso e calato nella realtà, in “Due o tre cose che so di lui”. La panchina è un microcosmo cangiante, una zattera sospesa tra il boato della folla e il campo, animata da improvvise urla belluine alternate a silenzi carichi di tensione.

Quali differenze sostanziali tra quest’ultimo lavoro, “Zemanlandia” e “Due o tre cose che so di lui”, e i tuoi precedenti?

“A perdifiato” e “Lo sceicco di Castellaneta” sono le storie di due defunti, Michele Lacerenza e Rodolfo Valentino. Uno anonimo, l’altro celeberrimo. Il primo, sputando sangue e anima nella sua tromba, ha colorato la sonorità del western leoniano, intridendolo di quel fatalismo mistico, tipico del sud Italia. Il secondo, pioniere del divismo, ha lasciato una Castellaneta che sembrava Aci Trezza, per trasformare Hollywood nella capitale della debordiana società dello spettacolo. Una sproporzione che deflagra ancora oggi, nella memoria orale dei compaesani.
Zeman è vivo, per sua e nostra fortuna. Il problema era indurlo a raccontarsi.

A bruciapelo: perché proprio Zeman?

Ho sempre percepito il volto di Zeman come un’anomalia seducente, una scheggia di cinemascope fluttuante nel piatto flusso catodico delle trasmissioni sportive. Quel ciuffo biondo spento, lo sguardo gelido, la mascella serrata. Le sue pause stranianti, che spiazzavano puntuali la vacua concitazione della stampa. Lo stoicismo rigoroso, immutato negli anni. Inventore di un gioco folgorante e innovativo, riproposto ossessivamente. Una monotonia vitale e sfaccettata, da artista puro. Elementi sufficienti per dedicargli un ritratto approfondito.

Quanto ti ha concesso, secondo te, del suo vero modo di essere? È stato sempre Zeman davanti la telecamera, o a volte ti è sembrato “fare Zeman”?

Cominciando le riprese di Zemanlandia, decisi di rinunciare all’intervista classica e collocai il boemo e il patron Casillo su di un divano. La formula funzionò, creando un clima autentico. Esibirono le opposte prospettive esistenziali , con tempi comici perfetti, da coppia consumata Casillo tracimava, in ogni senso possibile. Zeman ne congelava le emorragie verbali con frasi lapidarie. “Due o tre cose che so di lui” è stato un pedinamento discreto, basato sulla fiducia reciproca, finalizzato a cogliere Zeman nella sua quotidianità lavorativa. Diventando trasparenti, nel corso del tempo. Osservandolo stemperare tensione e noia in infinite partite a carte, circondato dagli amici di una vita. Scandendo il tempo, con un sincretico flusso di coscienza canoro, che tritura e ritesse schegge di immaginario musicale anni sessanta.

“Due o tre cose che so di lui” racconta, in sintesi, la storia di un ritorno , di una rinascita, almeno calcistica, la quale poi non è riuscita, almeno stando ai numeri. Più romantico così, nel caso di Zeman? O sarebbe stato molto meglio se fosse finita diversamente?

Una promozione in serie B avrebbe reso la trama più avvincente. Tuttavia, a me le trame interessano relativamente. Mi allettava la chance di raccontare il ritorno di Zeman nel suo habitat naturale. Alle prese con l’odore dell’erba e la ripetitività ossessiva degli schemi, nel silenzio monastico dei campi d’allenamento. Gli amici riuniti dalla voglia di riscatto, il tentativo di cancellare il tempo trascorso. L’impatto con lo Zaccheria adorante, quindici anni dopo. La cruda realtà ha imposto al finale un retrogusto malinconico, chiaroscurale. La nota lieta è il carisma intatto di Zeman, un sessantenne in grado di comunicare nel profondo con i ventenni di oggi. Il suo calcio è ancora vivo e il presente lo dimostra.

Quale aneddoto ricordi con maggiore affetto, di quelli che hanno riguardato il tuo lavoro con il boemo?

Ritiro di Termoli, settembre, Hotel Meridiano, vigila di Foggia-Foligno. Zeman fumava addossato al muro, lo sguardo rivolto al mare in tempesta. Io, seduto a fianco a lui, ascoltavo Franco Altamura, eterno Sancho del boemo, perplesso sulla remuneratività del cinema.”Troppa fatica per pochi soldi”, l’ardua sentenza. Zeman, senza staccare gli occhi dai flutti termolesi, sibilò: “Lui non lo fa per soldi. Queste cose si fanno per pubblico, non per soldi”. Poche parole, con la solita cavernosa atonia, istituendo una commovente analogia fra il suo calcio e il mio cinema.

Scegliendo liberamente tra personaggi di film e attori, al cinema, Zeman, chi potrebbe essere? E Pasquale Casillo?

Zeman è fin troppo aderente al Clint Eastwood di Million Dollar baby e di Gran Torino. Trincerato dietro un’apparente durezza, dotato di grande sensibilità e di una sana smania didattica. A suo agio nei silenzi e nelle surreali sospensioni di Kaurismaki. Casillo è la condensazione estrema dei noir di Scorsese, Abel Ferrara e di tanto hard boiled americano. E’ il sosia sputato di Big Boy Caprice, l’Al Pacino espressionista, nemico giurato del Dick Tracy di Warren Beatty. Un talento attoriale folgorante, una maschera atellana che buca lo schermo.

Ma alla fine è proprio vero questo: o lo ami o lo odi, Zeman? Oppure c’è un’altra possibilità?

Detesto la mitopoiesi di chicchessia. Il mito ha perso il senso profondo che aveva nel mondo greco. Non insegna più nulla. E’ diventato il guscio vuoto e sfavillante, in cui ciascuno sversa il liquame della propria immaginazione. Un’icona deresponsabilizzante, da adorare acriticamente. Io credo che Zeman ambisca ad essere un esempio, più che un mito. Da seguire, ognuno nel suo campo da gioco. Animato da un’utopia semplice, molto concreta, vive il calcio come uno sport da giocare con lealtà, dando l’anima fino al fischio finale ed esaltando il pubblico sugli spalti.

E in ogni caso, dopo il doppio lavoro sul boemo e sul suo Foggia, Sansonna è pronto a lavorare ad un seguito? O sei già proiettato su altre storie, altri ritratti? Qualche cenno?

Mi interessava raccontare lo Zeman foggiano, in omaggio a un’adolescenza spensierata, ultimoperiodo davvero sereno della mia vita. Vivevo la mia intima aventura solitaria a Foggia, partendo da Bari col treno. Mescolandomi anonimo alla folla, come certi personaggi pirandelliani, che si liberano del peso dell’identità. Osservavo la città in visibilio, estasiata e urlante, sedotta dal suo sacerdote afono in trench chiaro. Penso di aver assediato Zeman a sufficienza. Rimane un rapporto d’amicizia, che non ha bisogno di telecamere. Al momento sto lavorando a un nuovo ritratto. Di chi? E’ancora un segreto. Una personalità sulfurea e complessa, da maneggiare con precauzione.

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