discorsi storici Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Thu, 19 Sep 2024 21:21:32 +0000 it-IT hourly 1 Senza sforzo è un mito. Un punto è solo un punto. Il celebre discorso di Federer https://cultura.biografieonline.it/celebre-discorso-roger-federer/ https://cultura.biografieonline.it/celebre-discorso-roger-federer/#respond Mon, 12 Aug 2024 17:33:26 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=42268 Il super campione di tennis Roger Federer venne insignito di una laurea “honoris causa” in Lettere Umanistiche dal Dartmouth College, università statunitense, situata ad Hanover, nella contea di Grafton (nello stato del New Hampshire). Qui tenne il Commencement speech, tradizionale discorso rivolto ai neolaureati in occasione della cerimonia di consegna dei diplomi.
Questo discorso è rimasto celebre.

Roger Federer - celebre discorso del 2024
Roger Federer durante il suo celebre discorso del 9 giugno 2024

Tre lezioni

Il discorso, straordinariamente efficace e motivazionale, si divide in quattro parti: una introduzione e tre lezioni.

Queste lezioni appaiono semplici ma il loro valore è altissimo.

Queste tre lezioni si possono riassumere così, con questi titoli:

  1. Fare le cose “senza sforzo” è un mito.
  2. Un punto è solo un punto.
  3. La vita è più grande del campo.

Di seguito il testo completo del celebre discorso di Federer tradotto in italiano.

[9 giugno 2024]

Il celebre discorso: introduzione

Grazie!

Ciao, classe del 2024!

È una sensazione incredibile essere qui con voi.

Sono così emozionato di unirmi a voi oggi.

Davvero, non avete idea di quanto io sia emozionato. Tenete presente che questa è letteralmente la seconda volta che metto piede in un campus universitario. La seconda volta in assoluto.

Ma per qualche motivo, mi state conferendo un dottorato.

Sono venuto qui solo per fare un discorso, ma potrò tornare a casa come “Dr. Roger”. È un bel bonus.

“Dr. Roger”. Questa deve essere la mia vittoria più inaspettata di sempre!

Presidente Beilock, Consiglio di amministrazione, membri della facoltà, grazie per questo onore.

Presidente Beilock, sono incredibilmente grato. E farò del mio meglio per non soffocare.

Sono un po’ fuori dalla mia zona di comfort oggi. Questa non è la mia solita scena…

E questi non sono i miei soliti vestiti.

Vi vestite così tutti i giorni a Dartmouth?

La toga è difficile da indossare. Tenete presente che ho indossato pantaloncini corti quasi ogni giorno negli ultimi 35 anni.

Non sono una persona che fa molti discorsi come questo. Forse il peggiore… ma un discorso importante… è stato quando ho iniziato nella nazionale svizzera. Avevo 17 anni ed ero così nervoso che non riuscivo nemmeno a dire più di quattro parole:

“Felice… di… essere… qui”.

Bene, eccoci qui, 25 anni dopo. Mi sento ancora un po’ nervoso, ma ho molto più di quattro parole da dirvi.

Inizio con: Sono felice di essere qui! Felice di essere con voi, qui sull’erba.

Come potreste aver sentito… l’erba è la mia superficie preferita.

“Big Green”… deve essere il destino!

C’è un altro motivo per cui sono qui, e posso riassumerlo in due parole:

Beer pong.

O pong, come lo chiamate voi. E immagino che possiate chiamarlo come volete… mi hanno detto che l’ha inventato Dartmouth!

Ora, questo sport… Aspetta. Il pong è uno sport? O è uno stile di vita?

In ogni caso, Dartmouth è il Wimbledon del pong. E sta anche piovendo, proprio come a Wimbledon.

Sono contento di aver potuto lavorare sui miei colpi con alcuni di voi. In realtà sto pensando di diventare professionista.

Ma so che Dartmouth non è solo il pong. Ho trascorso un paio di giorni fantastici qui ad Hanover e mi avete fatto sentire come a casa. Le montagne qui sono esattamente come le Alpi svizzere. Solo… più corte.

Ma mi piace molto qui. Ho avuto la possibilità di tirare qualche palla con i miei figli al Boss Tennis Center… Ho fatto un Woccom [si tratta di una passeggiata attorno all’Occom Pond di Dartmouth, una parola che mischia le parole ‘Walk’ e ‘Occom’ • n.d.r.] … Sono riuscito a scalare la Baker Tower, ho visto delle viste incredibili e ho portato i miei figli a vedere i libri del Dr. Seuss in biblioteca. Ovviamente ho anche sbriciolato dei biscotti al cioccolato da FoCo… e mangiato un panino al pollo EBA da Lou’s.

Ma c’è un altro grande motivo per cui sono qui: Tony G., classe ’93.

Stiamo rappando ora?

Tony Godsick è il mio socio in affari, il mio agente di lunga data, uno dei miei amici più cari e, cosa più importante… L’orgoglioso padre di Isabella, classe 2024.

Da Tony, e ora da Bella, so quanto questo posto sia davvero speciale. E quanto leali siete l’uno con l’altro, e quanto siete ossessionati da questo colore verde. Ero con la loro famiglia, inclusi Mary Joe e Nico, il giorno in cui Bella è arrivata a Dartmouth. Ricordo quanto fosse follemente felice. Ho visto un sorriso e un livello di eccitazione sul suo viso che non avevo mai visto prima…

Ma poi sono arrivato qui… e in realtà, tutti sorridono così.

Vedo quanto siete orgogliosi di questo posto… e di questo momento.

Avete lavorato così duramente per arrivare fin qui. Nutro un enorme rispetto per tutto ciò che avete ottenuto.

E per la famiglia e gli amici che vi hanno aiutati a ottenerlo. Facciamo loro un grande applauso.

Sono ancora più impressionato, perché ho lasciato la scuola all’età di 16 anni per giocare a tennis a tempo pieno.

Quindi non sono mai andato al college… ma mi sono laureato di recente.

Mi sono laureato in tennis.

So che la parola è “ritirarsi“. “Roger Federer si è ritirato dal tennis”. Ritirato… La parola è orribile.

Non diresti di esserti ritirato dal college, vero? Sembra terribile.

Come voi, ho finito una cosa importante e sto passando alla successiva.

Come voi, sto cercando di capire di cosa si tratta.

Laureati, capisco il vostro dolore.

So cosa si prova quando le persone continuano a chiederti quali sono i tuoi piani per il resto della vita.

Mi chiedono: “Ora che non sei più un tennista professionista, cosa fai?”

Non lo so… e va bene non saperlo.

Quindi cosa faccio del mio tempo?

Sono un padre prima di tutto, quindi, immagino, accompagnerò i miei figli a scuola?

Giocare a scacchi online contro degli sconosciuti?

Passare l’aspirapolvere in casa?

No, in verità, adoro la vita di un laureato in tennis. Mi sono laureato in tennis nel 2022 e voi vi laureerete al college nel 2024. Quindi ho un vantaggio nel rispondere alla domanda su cosa succederà dopo.

Oggi voglio condividere alcune lezioni su cui ho fatto affidamento durante questa transizione.

Chiamiamole… lezioni di tennis.

Spero che saranno utili nel mondo che verrà dopo Dartmouth.

Roger Federer con la toga da laureato

Lezione N° 1: “senza sforzo” è un mito

Ecco la prima:

“Senza sforzo”… è un mito. [“Effortless”… is a myth]

Lo dico sul serio.

Lo dico da persona che ha sentito questa parola molto spesso. “Senza sforzo”.

La gente diceva che il mio gioco era senza sforzo. Il più delle volte, lo intendevano come un complimento… Ma mi frustrava quando dicevano: “Ha appena sudato!”

Oppure “Ci sta almeno provando?”

La verità è che ho dovuto lavorare molto duramente… per farlo sembrare facile.

Ho passato anni a lamentarmi… a imprecare… a lanciare la racchetta… prima di imparare a mantenere la calma.

La sveglia è suonata all’inizio della mia carriera, quando un avversario all’Open d’Italia ha pubblicamente messo in dubbio la mia disciplina mentale. Ha detto: “Roger sarà il favorito per le prime due ore, e poi dopo sarò io il favorito”.

All’inizio ero perplesso. Ma alla fine ho capito cosa stava cercando di dire. Tutti possono giocare bene le prime due ore. Sei in forma, sei veloce, sei lucido… e dopo due ore, le tue gambe diventano traballanti, la tua mente inizia a vagare e la tua disciplina inizia a svanire.

Mi ha fatto capire… Ho così tanto lavoro davanti a me e sono pronto a intraprendere questo viaggio ora. Ho capito.

I miei genitori, i miei allenatori, il mio preparatore atletico, tutti mi avevano davvero chiamato in causa, e ora anche i miei rivali lo facevano.

Giocatori!! Grazie! Vi sarò eternamente grato per quello che avete fatto.

Così ho iniziato ad allenarmi più duramente. Molto più duramente.

Ma poi ho capito: vincere senza sforzo è il massimo risultato.

Ho ottenuto quella reputazione perché i miei riscaldamenti ai tornei erano così casuali che la gente non pensava che mi fossi allenato duramente. Ma avevo lavorato duramente… prima del torneo, quando nessuno mi guardava.

Forse avete visto una versione di ciò a Dartmouth.

Quante volte vi siete sentiti come se i vostri compagni di classe stessero accumulando “A” su “A” senza nemmeno provarci… mentre voi tiravate notte… vi riempivate di caffeina… piangevate piano in un angolo della biblioteca Sanborn?

Spero che, come me, voi abbiate imparato che “senza sforzo” è un mito.

Non sono arrivato dove sono arrivato solo con il talento puro. Ci sono arrivato cercando di superare i miei avversari.

Credevo in me stesso. Ma la fede in te stesso deve essere guadagnata.

C’è stato un momento nel 2003 in cui la mia autostima realmente ha preso piede.

Era alle finali ATP, dove si qualificano solo i migliori otto giocatori al mondo.

Ho battuto alcuni giocatori di alto livello che ammiravo molto, puntando dritto ai loro punti di forza. Prima, scappavo dai loro punti di forza. Se un ragazzo aveva un dritto forte, cercavo di colpire sul suo rovescio. Ma ora… cercavo di colpire il suo dritto. Ho cercato di battere i giocatori di fondo campo dalla linea di fondo campo. Ho provato a battere gli attaccanti attaccando. Ho provato a battere i giocatori di rete giocando a rete.

Ho rischiato facendo così.

Allora perché l’ho fatto?

Per amplificare il mio gioco ed espandere le mie opzioni. Hai bisogno di un intero arsenale di punti di forza… quindi se uno di questi si rompe, ti resta qualcosa.

Quando il tuo gioco funziona in questo modo, vincere è facile, relativamente.

Poi ci sono giorni in cui ti senti semplicemente distrutto.

Ti fa male la schiena… ti fa male il ginocchio… Forse sei un po’ malato… o spaventato…

Ma trovi comunque un modo per vincere.

E queste sono le vittorie di cui possiamo essere più orgogliosi.

Perché dimostrano che puoi vincere non solo quando sei al meglio, ma soprattutto quando non lo sei.

Sì, il talento conta. Non starò qui a dirti che non è così.

Ma il talento ha una definizione ampia.

Il più delle volte, non si tratta di avere un dono. Si tratta di avere grinta.

Nel tennis, un grande dritto giocato con velocità da urlo può essere definito un talento.

Ma nel tennis… come nella vita… anche la disciplina è un talento. E così la pazienza.

Avere fiducia in se stessi è un talento. Abbracciare il processo, amare il processo, è un talento.

Gestire la propria vita, gestire se stessi… anche questi possono essere talenti.

Alcune persone nascono con questi talenti. Tutti devono lavorarci.

Da questo giorno in poi, alcune persone daranno per scontato che, poiché vi siete laureati a Dartmouth, tutto vi verrà facile.

E sapete una cosa? Lasciate che ci credano…

Purché voi non ci crediate.

Ok, seconda lezione…

Lezione N° 2: è solo un punto

È solo un punto.

Lasciate che vi spieghi.

Potete impegnarvi più di quanto pensate sia possibile… e comunque perdere. A me è successo.

Il tennis è brutale. Non si può ignorare il fatto che ogni torneo finisce allo stesso modo… un giocatore vince un trofeo… Ogni altro giocatore sale su un aereo, guarda fuori dal finestrino e pensa… “come diavolo ho sbagliato quel tiro?”

Immaginate se, oggi, solo uno di voi si laureasse.

Congratulazioni, laureata di quest’anno! Diamole una mano.

Il resto di voi… gli altri mille… avrete più fortuna la prossima volta!

Quindi, sapete, ho cercato di non perdere.

Ma ho perso… a volte alla grande.

Per me, una delle più grandi è stata la finale di Wimbledon nel 2008. Io contro Nadal. Alcuni la chiamano la partita più bella di tutti i tempi. Ok, tutto il rispetto per Rafa, ma penso che sarebbe stato molto molto meglio se avessi vinto.

Perdere a Wimbledon è stato un gran colpo… perché vincere Wimbledon è tutto.

Ovviamente, tranne vincere il titolo di Dartmouth Masters pong, l’estate del secondo anno.

Voglio dire, ho avuto modo di giocare in alcuni luoghi fantastici in giro per il mondo, ma quando hai la possibilità di entrare nel Centre Court di Wimbledon… la cattedrale del tennis… e quando finisci come campione… senti la grandezza del momento. Non c’è niente di simile.

Nel 2008, stavo puntando a un sesto titolo consecutivo da record. Stavo giocando per la storia.

Non vi racconterò la partita, punto per punto. Se lo facessi, staremmo qui per ore.

Quasi cinque ore, per l’esattezza.

Ci sono stati ritardi per pioggia, il sole è tramontato… Rafa ha vinto due set, io ho vinto i due set successivi al tiebreak e ci siamo ritrovati sette pari al quinto.

Capisco perché le persone si concentrano sulla fine… gli ultimi minuti sono stati così bui che riuscivo a malapena a vedere il gesso sull’erba. Ma guardando indietro… mi sento come se avessi perso al primo punto della partita.

Ho guardato oltre la rete e ho visto un ragazzo che, solo poche settimane prima, mi aveva annientato in due set al Roland Garros, e ho pensato… questo ragazzo forse è più affamato di me… E finalmente ha il mio numero.

Ci ho messo fino al terzo set prima che ricordassi a me stesso… ehi, amico, sei il cinque volte campione in carica! E sei sull’erba, tra l’altro. Sai come si fa… Ma è arrivato troppo tardi. E Rafa ha vinto. Ed è stato meritato.

Alcune sconfitte fanno più male di altre.

Sapevo che non avrei mai più avuto la possibilità di vincere Wimbledon sei volte di fila.

Ho perso Wimbledon. Ho perso la mia prima posizione in classifica. E all’improvviso, la gente ha detto: “Ha fatto una grande corsa. È il cambio della guardia?”

Ma sapevo cosa dovevo fare… continuare a lavorare. E continuare a competere.

Nel tennis, la perfezione è impossibile

Nelle 1.526 partite singole che ho giocato nella mia carriera, ne ho vinte quasi l’80%…

Ora, ho una domanda per tutti voi: con quale percentuale di punti pensate che abbia vinto in quelle partite?

Solo il 54%.

In altre parole, ogni altro tennista in cima al ranking vince a malapena più della metà dei punti che gioca.

Quando perdi un punto su due, in media, impari a non soffermarti su ogni colpo.

Impari a pensare: Ok, ho fatto un doppio fallo. È solo un punto.

Ok, sono andato a rete e sono stato superato di nuovo. È solo un punto.

Anche un gran colpo, uno smash di rovescio sopra la testa che finisce nella Top Ten Plays di ESPN: anche quello è solo un punto.

Ecco perché vi sto dicendo questo.

Quando stai giocando un punto, quello è la cosa più importante al mondo.

Ma quando è alle tue spalle, è alle tue spalle.

Questa mentalità è davvero cruciale, perché ti libera per impegnarti completamente nel punto successivo… e in quello dopo ancora… con intensità, chiarezza e concentrazione.

La verità è che, qualunque gioco tu giochi nella vita… a volte perderai.

Un punto, una partita, una stagione, un lavoro… sono montagne russe, con molti alti e bassi.

Ed è naturale, quando sei giù, dubitare di te stesso. Di dispiacerti per te stesso.

E a proposito, anche i tuoi avversari hanno dubbi su se stessi. Non dimenticarlo mai.

Ma l’energia negativa è energia sprecata.

Devi voler diventare un maestro nel superare i momenti difficili. Per me questo è il segno di un campione.

I migliori al mondo non sono i migliori perché vincono ogni punto… È perché sanno che perderanno… ancora e ancora… e hanno imparato come affrontarlo.

Lo accetti. Piangi se ne hai bisogno… poi sforzati di sorridere.

Vai avanti. Sii implacabile. Adattati e cresci.

Lavora di più. Lavora in modo più intelligente.

Ricorda: lavora in modo più intelligente.

Lezione tre…

Mi seguite ancora?

Per un ragazzo che ha lasciato la scuola a 16 anni, sono un sacco di lezioni!

Ok, ecco la terza…

Lezione N° 3: la vita è più grande del campo

la vita è più grande del campo.

Un campo da tennis è un piccolo spazio. 2106 piedi quadrati [196 metri quadrati • n.d.r.] , per l’esattezza. Per le partite in singolare.

Non molto più grande di un dormitorio.

Ok, diciamo tre o quattro dormitori in Mass Row [una via del campus • n.d.r.].

Ho lavorato molto, ho imparato molto e ho corso un sacco di miglia in quel piccolo spazio…

Ma il mondo è molto più grande di così.

Anche quando ho iniziato, sapevo che il tennis mi avrebbe mostrato il mondo… ma il tennis non sarebbe mai stato il mondo.

Sapevo che se fossi stato fortunato, forse avrei potuto giocare a livello competitivo fino ai miei 30 anni. Forse anche… 41!

Ma anche quando ero tra i primi cinque… per me era importante avere una vita… una vita appagante, piena di viaggi, cultura, amicizie e soprattutto famiglia… non ho mai abbandonato le mie radici e non ho mai dimenticato da dove venivo… ma non ho mai perso la voglia di vedere questo mondo immenso.

Ho lasciato la mia casa a 14 anni per andare a scuola nella parte francese della Svizzera, per due anni, e all’inizio avevo una nostalgia orribile di casa… Ma ho imparato ad amare una vita in movimento.

Forse sono queste le ragioni per cui non mi sono mai esaurito.

Ero entusiasta di viaggiare per il mondo, ma non solo come turista… Ho capito molto presto che volevo aiutare altre persone in altri paesi. Motivato da mia madre sudafricana, ho creato una fondazione per dare forza ai bambini attraverso l’istruzione.

L’istruzione nella prima infanzia è qualcosa che diamo per scontato in un posto come la Svizzera. Ma nell’Africa subsahariana, il 75% dei bambini non ha accesso alla scuola materna… Pensaci: il 75%.

Come tutti i bambini… hanno bisogno di un buon inizio se vogliono realizzare il loro potenziale. E finora abbiamo aiutato quasi 3 milioni di bambini a ricevere un’istruzione di qualità, e abbiamo contribuito a formare più di 55.000 insegnanti.

È stato un onore… ed è stato umiliante.

Un onore aiutare ad affrontare questa sfida, e umiliante vedere quanto sia complessa.

Umiliante provare a leggere storie ai bambini in una delle lingue del Lesotho.

Umiliante anche arrivare nella Zambia rurale e dover spiegare cos’è realmente il tennis… Ricordo vividamente di aver disegnato un campo da tennis sulla lavagna perché i bambini lo vedessero, perché ho chiesto loro cosa fosse il tennis, e un bambino ha detto, “è quello con il tavolo, giusto? Con le racchette?”

Di nuovo Pong. È ovunque.

Devo dirti che è una sensazione meravigliosa visitare questi luoghi incredibilmente rurali… e trovare aule piene di bambini che imparano, leggono e giocano, come i bambini di tutto il mondo dovrebbero essere autorizzati a fare.

È anche stimolante vedere cosa diventano da grandi: alcuni sono diventati infermieri… insegnanti… programmatori informatici.

È stato un viaggio emozionante… e ho la sensazione che siamo solo all’inizio… con ancora molto da imparare. Non riesco a credere che abbiamo appena festeggiato vent’anni di questo progetto… Soprattutto perché ho dato vita alla fondazione prima di pensare di essere pronto a farlo.

All’epoca avevo 22 anni, come molti di voi oggi. Non ero pronto per niente che non fosse il tennis. Ma a volte… devi rischiare e poi capire.

La filantropia può significare molte cose. Può significare avviare un’organizzazione non-profit o donare denaro. Ma può anche significare contribuire con le tue idee… il tuo tempo… e la tua energia… a una missione che è più grande di te. Tutti voi avete così tanto da dare e spero che troverete i vostri modi unici per fare la differenza.

Perché la vita è davvero molto più grande del campo.

Come studenti al Dartmouth, avete scelto una specializzazione e siete andati in profondità. Ma avete anche ampliato le direzioni. Gli ingegneri imparavano la storia dell’arte, gli atleti cantavano a cappella e gli informatici imparavano a parlare tedesco.

Il leggendario allenatore di football del Dartmouth Buddy Teevens era solito reclutare i giocatori dicendo ai genitori:

“Vostro figlio sarà un grande giocatore di football quando sarà il momento del football, un grande studente quando sarà il momento accademico e una grande persona per tutto il tempo”.

Ecco cosa significa un’istruzione al Dartmouth.

Il tennis mi ha regalato così tanti ricordi. Ma le mie esperienze fuori dal campo sono quelle che porto con me altrettanto spesso… I posti in cui sono andato… il sistema che mi consente di restituire… e, soprattutto… le persone che ho incontrato lungo il cammino.

Il tennis… come la vita… è uno sport di squadra.

Sì, sei solo dalla tua parte della rete. Ma il tuo successo dipende dalla tua squadra. I tuoi allenatori, i tuoi compagni di squadra, persino i tuoi rivali… tutte queste influenze contribuiscono a renderti ciò che sei.

Non è un caso che la mia partnership commerciale con Tony si chiami “TEAM8”. Un gioco di parole… “Compagno di squadra” [Team Mate • n.d.r.]. Tutto il lavoro che facciamo insieme riflette quello spirito di squadra… il forte legame che abbiamo tra di noi e con i nostri colleghi… con gli atleti che rappresentiamo… e con i partner e gli sponsor. Queste relazioni personali sono le cose che contano di più.

Ho imparato questo modo di pensare dai migliori… i miei genitori. Mi hanno sempre sostenuto, mi hanno sempre incoraggiato e hanno sempre capito cosa desideravo e di cui avevo bisogno.

Una famiglia è una squadra.

Mi sento davvero fortunato che la mia incredibile moglie, Mirka… che rende ogni gioia della mia vita ancora più luminosa… e i nostri quattro fantastici figli, Myla, Charlene, Leo e Lenny, siano qui con me oggi.

E ancora più importante, che siamo qui l’uno per l’altro ogni giorno.

Laureati, so che lo stesso vale per voi. I vostri genitori, le vostre famiglie… hanno fatto sacrifici per portarvi qui… Hanno condiviso i vostri trionfi e le vostre lotte… Saranno sempre, sempre al vostro fianco.

E non solo loro. Mentre vi dirigete verso il mondo, non dimenticate: potete portare tutto questo con voi… questa cultura, questa energia, queste persone, questo colore verde… Gli amici che vi hanno spinto e sostenuto a diventare la versione migliore di voi stessi… gli amici che non smetteranno mai di fare il tifo per voi, proprio come oggi.

E continuerete a fare amicizia nella comunità di Dartmouth… Forse anche oggi… Quindi, ora, rivolgiti alle persone alla tua sinistra e alla tua destra… Forse questa è la prima volta che vi incontrate. Potreste non condividere esperienze o punti di vista, ma ora condividete questo ricordo. E molto altro ancora.

Quando ho lasciato il tennis, sono diventato un ex giocatore di tennis. Ma voi non siete ex di niente.

Siete futuri detentori di record e viaggiatori del mondo… futuri volontari e filantropi… futuri vincitori e futuri leader.

Sono qui per dirvi… dall’altra parte della laurea… che lasciare un mondo familiare alle spalle e trovarne di nuovi è incredibilmente, profondamente, meravigliosamente eccitante.

Finale

Quindi, Dartmouth, ecco le vostre lezioni di tennis per oggi.

  • La semplicità è un mito.
  • È solo un punto.
  • La vita è più grande del campo.

Aspettate, aspettate, ho un’altra lezione.

Presidente Beilock, posso avere la mia racchetta ora?

Ok, quindi, per il dritto, dovresti usare una presa orientale. Tieni le nocche un po’ divaricate. Ovviamente, non dovresti stringere troppo la presa… passare dal dritto al rovescio dovrebbe essere facile… Inoltre, ricorda che tutto inizia con il gioco di gambe e il take-back è importante quanto il follow-through.

No, questa non è una metafora! È solo una buona tecnica.

Dartmouth, questo è stato un onore incredibile per me.

Grazie per la laurea honoris causa.

Grazie per avermi reso partecipe del vostro giorno davvero importante.

Sono felice di aver incontrato così tanti di voi in questi ultimi giorni. Se mai vi trovate in Svizzera, o in qualsiasi altro posto al mondo, e mi vedete per strada… anche tra 20 o 30 anni… che abbia i capelli grigi o no… Voglio che mi fermiate e diciate… “Ero lì quel giorno sul Green. Sono un membro della vostra classe… la classe del 2024”.

Non dimenticherò mai questo giorno, e so che nemmeno voi lo farete.

Avete lavorato così duramente per arrivare fin qui, e non avete lasciato nulla in campo… o sul tavolo da pong.

Da un laureato all’altro, non vedo l’ora di vedere cosa farete tutti dopo.

Qualunque gioco scegliate, date il massimo.

Fate i vostri tiri. Giocate liberi. Provate tutto.

E soprattutto, siate gentili gli uni con gli altri… e divertitevi là fuori.

Congratulazioni ancora, Classe del 2024!

Il video e il testo originale in lingua inglese

Qui il testo originale in lingua inglese, direttamente del sito del college:

https://home.dartmouth.edu/news/2024/06/2024-commencement-address-roger-federer

Di seguito il video:

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https://cultura.biografieonline.it/celebre-discorso-roger-federer/feed/ 0
I have a dream, il discorso di Martin Luther King https://cultura.biografieonline.it/i-have-a-dream-discorso-italiano/ https://cultura.biografieonline.it/i-have-a-dream-discorso-italiano/#comments Wed, 16 Mar 2022 19:46:04 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=23186 Quello che segue è il testo completo – tradotto in italiano – del celebre discorso “I have a dream” (Io ho un sogno), di Martin Luther King. Il discorso venne tenuto a Washington il 28 agosto 1963. Il contesto fu quello di una marcia di protesta per i diritti civili. A conclusione della manifestazione, davanti al Lincoln Memorial, MLK espresse questo discorso, che è ricordato come uno dei discorsi più famosi di sempre.

Martin Luther King - I have a dream - Io ho un sogno
Martin Luther King

In esso si parla di speranza.

In particolare della speranza di ottenere e godere degli stessi diritti tra bianchi e neri.

Di fatto il discorso stesso – che contiene alcune delle più celebri frasi di Martin Luther King – è un simbolo storico della lotta contro il razzismo negli Stati Uniti.

In un altro articolo abbiamo pubblicato il testo del discorso in lingua originale.

I have a dream (io ho un sogno), il discorso di Martin Luther King

Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’Emancipazione. Questo fondamentale decreto venne come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività.

Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo, il negro langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra.

La metafora dell’assegno

Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un “pagherò” del quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questo “pagherò” permetteva che tutti gli uomini, sì, i negri tanto quanto i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.

È ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questo “pagherò” per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: “fondi insufficienti”.

Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presentazione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia.

Siamo anche venuti in questo santuario per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia.; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio.

Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento. Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà ed uguaglianza.

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Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo.

La ricerca dei diritti con una rivoluzione pacifica

Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia.

Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste.

Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima.

Foto di Martin Luther King
Foto di Martin Luther King

Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato col nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli.

L’obiettivo

E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti civili: “Quando vi riterrete soddisfatti?”

Non saremo mai soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori a cui viene sottoposto dalla polizia.

Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti sociali davvero permessi ai negri saranno da un ghetto piccolo a un ghetto più grande.

Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono: “Riservato ai bianchi”. Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente.

Sofferenti creativi

Non ho dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice.

Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.

Il sogno

E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.

Io ho un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.

Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Io ho un sogno, oggi!

Io ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.

Martin Luther King - I have a dream - discorso
28 agosto 1963: Martin Luther King Jr. davanti alla folla, dai gradini del Lincoln Memorial dove ha pronunciato il suo famoso discorso.

La fede e la libertà

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.

Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.

Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.

Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.

Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.

Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.

Ma non soltanto.

Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.

Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.

Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.

E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: “Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente”.

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Quella fu la loro ora migliore. Il celebre discorso di Winston Churchill https://cultura.biografieonline.it/ora-migliore-discorso-famoso-di-churchill/ https://cultura.biografieonline.it/ora-migliore-discorso-famoso-di-churchill/#respond Wed, 07 Apr 2021 09:39:15 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=33570 Lo statista inglese Winston Churchill è ricordato dalla storia per la sua arte oratoria. Tra i suoi discorsi più celebri trova post quello – cosiddetto – dell’ora migliore: This was their finest hour (in italiano: quella fu la loro ora migliore). Ripercorriamo qui il contesto storico in cui venne pronunciato. La sua grande caratteristica di oratore è ben narrata nel libro biografico Churchill. La biografia, di Andrew Roberts (2020).

Quella fu la loro ora migliore - This was their finest hour
This was their finest hour: sono le parole conclusive di uno dei più famosi discorsi di Churchill

Il contesto storico del celebre discorso di Churchill

Il famoso discorso venne pronunciato da Churchill alla Camera dei Comuni del Regno Unito il 18 giugno 1940. Era passato poco più di un mese dopo aver assunto la carica di Primo Ministro. Churchill si trovava a capo di un governo di coalizione composto da tutti i partiti. Questo fu il terzo di tre discorsi – oggi considerati tutti celebri e storici – che tenne durante il periodo della Campagna di Francia. I tre discorsi vengono ricordati con queste parole:

  1. “Sangue, fatica, lacrime e sudore”, pronunciato il 13 maggio 1940;
  2. “Combatteremo sulle spiagge”, pronunciato il 4 giugno 1940;
  3. “Quella fu la loro ora migliore”, pronunciato il 18 giugno 1940.

Questo terzo discorso fu pronunciato dopo che la Francia aveva chiesto un armistizio, la sera del 16 giugno.

Winston Churchill
Winston Churchill

Il contenuto

Churchill giustificò il basso livello di sostegno che era stato possibile dare alla Francia dall’evacuazione di Dunkerque (operazione Dynamo) e riferì del successo dell’evacuazione della maggior parte delle forze di supporto. Esaminò le forze ancora disponibili per prevenire o respingere qualsiasi tentativo di invasione, riassumendo così:

Ho pensato che fosse giusto in questa occasione fornire alla Camera e al Paese qualche indicazione dei solidi motivi pratici su cui basiamo la nostra inflessibile determinazione a continuare la guerra, e posso assicurare loro che i nostri consulenti professionali dei tre Servizi consigliano unitamente che dovremmo farlo, e che ci siano buone e ragionevoli speranze per la vittoria finale.

Churchill giustificò la fiducia nella vittoria, anche se non appariva ancora chiaro come tale vittoria potesse essere raggiunta.

Nel redigere questo terribile bilancio, contemplando i nostri pericoli con occhio disilluso, vedo ottime ragioni per un’intensa vigilanza e sforzo, ma nessuna per il panico o la disperazione. Durante i primi quattro anni dell’ultima guerra gli Alleati vissero, … nient’altro che disastro e delusione, eppure alla fine il loro morale era più alto di quello dei tedeschi, che erano passati da un trionfo aggressivo all’altro. Durante quella guerra ci siamo posti ripetutamente la domanda: “Come vinceremo?” e nessuno è mai stato in grado di rispondere con molta precisione, finché alla fine, all’improvviso, del tutto inaspettatamente, il nostro terribile nemico crollò davanti a noi.

Il testo del discorso

In un momento di grande apparente pericolo per la sopravvivenza nazionale britannica, le parole di Churchill parlano non solo di sopravvivenza e interesse nazionale ma anche di cause nobili, quali: libertà, civiltà cristiana e diritti delle piccole nazioni. Per questi valori la Gran Bretagna stava combattendo e per essi Churchill pensava che anche gli Stati Uniti avrebbero dovuto combattere – e alla fine l’avrebbero fatto.

La rivista The War Illustrated pubblicò il testo del discorso con questo titolo: If the Empire lasts a thousand years men will say, this was their finest hour (Se l’Impero dura mille anni gli uomini diranno, questa era la loro ora più bella). Esse furono le parole conclusive del discorso. Il testo originale è molto lungo e ricco. Quella che segue è una porzione significativa del testo.

Quella fu la loro ora migliore

… Comunque vadano le cose in Francia o con il governo francese o con un altro governo francese, noi in quest’isola e nell’Impero Britannico non perderemo mai il nostro senso di cameratismo con il popolo francese. Se ora siamo chiamati a sopportare ciò che hanno sofferto, emuleremo il loro coraggio, e se la vittoria finale premia le nostre fatiche condivideranno i guadagni, sì. E la libertà sarà restituita a tutti. Non attenuiamo nulla delle nostre giuste richieste – cechi, polacchi, norvegesi, olandesi, belgi, tutti coloro che hanno unito le loro cause alle nostre saranno risanati.

Quella che il generale Weygand ha chiamato la Battaglia di Francia è finita … la Battaglia d’Inghilterra sta per iniziare. Da questa battaglia dipende la sopravvivenza della civiltà cristiana. Da essa dipende la nostra vita britannica e la lunga continuità delle nostre istituzioni e del nostro Impero. Tutta la furia e la potenza del nemico devono presto essere rivolte a noi. Hitler sa che dovrà distruggerci su quest’isola o perdere la guerra. Se riusciamo a tenergli testa, tutta l’Europa potrà essere liberata e la vita del mondo potrà avanzare verso vasti altopiani illuminati dal sole.

Ma se falliamo, allora il mondo intero, inclusi gli Stati Uniti, compreso tutto ciò che abbiamo conosciuto e a cui teniamo, sprofonderà nell’abisso di una nuova era oscura resa più sinistra, e forse più protratta, dalle luci della scienza perversa. Prepariamoci quindi ai nostri doveri, e quindi rendiamoci consapevoli che se l’Impero britannico e il suo Commonwealth dureranno per mille anni, gli uomini continueranno a dire: “Quella fu la loro ora migliore”.

Testo originale in inglese

…However matters may go in France or with the French Government or with another French Government, we in this island and in the British Empire will never lose our sense of comradeship with the French people. If we are now called upon to endure what they have been suffering, we shall emulate their courage, and if final victory rewards our toils they shall share the gains, aye. And freedom shall be restored to all. We abate nothing of our just demands – Czechs, Poles, Norwegians, Dutch, Belgians, all who have joined their causes to our own shall be restored.

What General Weygand has called the Battle of France is over… the Battle of Britain is about to begin. Upon this battle depends the survival of Christian civilisation. Upon it depends our own British life, and the long continuity of our institutions and our Empire. The whole fury and might of the enemy must very soon be turned on us. Hitler knows that he will have to break us in this island or lose the war. If we can stand up to him, all Europe may be freed and the life of the world may move forward into broad, sunlit uplands.

But if we fail, then the whole world, including the United States, including all that we have known and cared for, will sink into the abyss of a new dark age made more sinister, and perhaps more protracted, by the lights of perverted science. Let us therefore brace ourselves to our duties, and so bear ourselves, that if the British Empire and its Commonwealth last for a thousand years, men will still say, “This was their finest hour.”

This was their finest hour: l’audio

Curiosità sul discorso

  • Il discorso dell’ora migliore venne pronunciato nel pomeriggio alle ore 15:49 inglesi.
  • Durò 36 minuti.
  • Churchill, come sua abitudine, apportò revisioni al suo dattiloscritto di 23 pagine fino al momento e anche durante il discorso.
  • Il passaggio finale del suo dattiloscritto presenta spazi vuoti: biografi, storici e studiosi di Churchill considerano che tale caratteristica del suo stile oratorio rifletta l’influenza dei Salmi.
  • Nello stesso giorno in Francia, il generale Charles de Gaulle pronunciò un altro celebre discorso: il cosiddetto Appello del 18 giugno (L’Appel du 18 Juin). Questo fu il suo primo discorso a Radio Londra e rappresentò una chiamata alle armi; incitò a non smettere di combattere contro i nazisti e predisse che la guerra si sarebbe estese su scala mondiale.
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I have a dream: testo in lingua originale del discorso di Martin Luther King https://cultura.biografieonline.it/have-dream-testo-lingua-originale-del-discorso-martin-luther-king/ https://cultura.biografieonline.it/have-dream-testo-lingua-originale-del-discorso-martin-luther-king/#comments Wed, 26 Apr 2017 08:13:42 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=23199 Proponiamo di seguito il testo in lingua originale del celebre discorso di Martin Luther King “I have a dream” (Io ho un sogno).

Martin Luther King - I have a dream - discorso
Nella foto: Martin Luther King Jr. affronta una folla dai gradini del Lincoln Memorial dove ha pronunciato il suo famoso discorso “I have a dream“, durante il 28 agosto 1963 a Washington.

I have a dream, testo originale in lingua inglese

I am happy to join with you today in what will go down in history as the greatest demonstration for freedom in the history of our nation.

Five score years ago, a great American, in whose symbolic shadow we stand today, signed the Emancipation Proclamation. This momentous decree came as a great beacon light of hope to millions of Negro slaves who had been seared in the flames of withering injustice. It came as a joyous daybreak to end the long night of their captivity.

But one hundred years later, the Negro still is not free. One hundred years later, the life of the Negro is still sadly crippled by the manacles of segregation and the chains of discrimination. One hundred years later, the Negro lives on a lonely island of poverty in the midst of a vast ocean of material prosperity. One hundred years later, the Negro is still languished in the corners of American society and finds himself an exile in his own land. And so we’ve come here today to dramatize a shameful condition.

In a sense we’ve come to our nation’s capital to cash a check. When the architects of our republic wrote the magnificent words of the Constitution and the Declaration of Independence, they were signing a promissory note to which every American was to fall heir. This note was a promise that all men, yes, black men as well as white men, would be guaranteed the “unalienable Rights” of “Life, Liberty and the pursuit of Happiness.” It is obvious today that America has defaulted on this promissory note, insofar as her citizens of color are concerned. Instead of honoring this sacred obligation, America has given the Negro people a bad check, a check which has come back marked “insufficient funds.”

But we refuse to believe that the bank of justice is bankrupt. We refuse to believe that there are insufficient funds in the great vaults of opportunity of this nation. And so, we’ve come to cash this check, a check that will give us upon demand the riches of freedom and the security of justice.

We have also come to this hallowed spot to remind America of the fierce urgency of Now. This is no time to engage in the luxury of cooling off or to take the tranquilizing drug of gradualism. Now is the time to make real the promises of democracy. Now is the time to rise from the dark and desolate valley of segregation to the sunlit path of racial justice. Now is the time to lift our nation from the quicksands of racial injustice to the solid rock of brotherhood. Now is the time to make justice a reality for all of God’s children.

It would be fatal for the nation to overlook the urgency of the moment. This sweltering summer of the Negro’s legitimate discontent will not pass until there is an invigorating autumn of freedom and equality. Nineteen sixty-three is not an end, but a beginning. And those who hope that the Negro needed to blow off steam and will now be content will have a rude awakening if the nation returns to business as usual. And there will be neither rest nor tranquility in America until the Negro is granted his citizenship rights. The whirlwinds of revolt will continue to shake the foundations of our nation until the bright day of justice emerges.

But there is something that I must say to my people, who stand on the warm threshold which leads into the palace of justice: In the process of gaining our rightful place, we must not be guilty of wrongful deeds. Let us not seek to satisfy our thirst for freedom by drinking from the cup of bitterness and hatred. We must forever conduct our struggle on the high plane of dignity and discipline. We must not allow our creative protest to degenerate into physical violence. Again and again, we must rise to the majestic heights of meeting physical force with soul force.

The marvelous new militancy which has engulfed the Negro community must not lead us to a distrust of all white people, for many of our white brothers, as evidenced by their presence here today, have come to realize that their destiny is tied up with our destiny. And they have come to realize that their freedom is inextricably bound to our freedom.

We cannot walk alone.

And as we walk, we must make the pledge that we shall always march ahead.

We cannot turn back.

There are those who are asking the devotees of civil rights, “When will you be satisfied?” We can never be satisfied as long as the Negro is the victim of the unspeakable horrors of police brutality. We can never be satisfied as long as our bodies, heavy with the fatigue of travel, cannot gain lodging in the motels of the highways and the hotels of the cities. We cannot be satisfied as long as the negro’s basic mobility is from a smaller ghetto to a larger one. We can never be satisfied as long as our children are stripped of their self-hood and robbed of their dignity by signs stating: “For Whites Only”. We cannot be satisfied as long as a Negro in Mississippi cannot vote and a Negro in New York believes he has nothing for which to vote. No, no, we are not satisfied, and we will not be satisfied until “justice rolls down like waters, and righteousness like a mighty stream.”

I am not unmindful that some of you have come here out of great trials and tribulations. Some of you have come fresh from narrow jail cells. And some of you have come from areas where your quest — quest for freedom left you battered by the storms of persecution and staggered by the winds of police brutality. You have been the veterans of creative suffering. Continue to work with the faith that unearned suffering is redemptive. Go back to Mississippi, go back to Alabama, go back to South Carolina, go back to Georgia, go back to Louisiana, go back to the slums and ghettos of our northern cities, knowing that somehow this situation can and will be changed.

Let us not wallow in the valley of despair, I say to you today, my friends.

And so even though we face the difficulties of today and tomorrow, I still have a dream. It is a dream deeply rooted in the American dream.

I have a dream that one day this nation will rise up and live out the true meaning of its creed: “We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal.”

I have a dream that one day on the red hills of Georgia, the sons of former slaves and the sons of former slave owners will be able to sit down together at the table of brotherhood.

I have a dream that one day even the state of Mississippi, a state sweltering with the heat of injustice, sweltering with the heat of oppression, will be transformed into an oasis of freedom and justice.

I have a dream that my four little children will one day live in a nation where they will not be judged by the color of their skin but by the content of their character.

I have a dream today!

I have a dream that one day, down in Alabama, with its vicious racists, with its governor having his lips dripping with the words of “interposition” and “nullification” — one day right there in Alabama little black boys and black girls will be able to join hands with little white boys and white girls as sisters and brothers.

I have a dream today!

I have a dream that one day every valley shall be exalted, and every hill and mountain shall be made low, the rough places will be made plain, and the crooked places will be made straight; “and the glory of the Lord shall be revealed and all flesh shall see it together.”

This is our hope, and this is the faith that I go back to the South with.

With this faith, we will be able to hew out of the mountain of despair a stone of hope. With this faith, we will be able to transform the jangling discords of our nation into a beautiful symphony of brotherhood. With this faith, we will be able to work together, to pray together, to struggle together, to go to jail together, to stand up for freedom together, knowing that we will be free one day.

And this will be the day — this will be the day when all of God’s children will be able to sing with new meaning:

My country ’tis of thee, sweet land of liberty, of thee I sing.

Land where my fathers died, land of the Pilgrim’s pride,

From every mountainside, let freedom ring!

And if America is to be a great nation, this must become true.

And so let freedom ring from the prodigious hilltops of New Hampshire.

Let freedom ring from the mighty mountains of New York.

Let freedom ring from the heightening Alleghenies of Pennsylvania.

Let freedom ring from the snow-capped Rockies of Colorado.

Let freedom ring from the curvaceous slopes of California.

But not only that:

Let freedom ring from Stone Mountain of Georgia.

Let freedom ring from Lookout Mountain of Tennessee.

Let freedom ring from every hill and molehill of Mississippi.

From every mountainside, let freedom ring.

And when this happens, and when we allow freedom ring, when we let it ring from every village and every hamlet, from every state and every city, we will be able to speed up that day when all of God’s children, black men and white men, Jews and Gentiles, Protestants and Catholics, will be able to join hands and sing in the words of the old Negro spiritual:

Free at last! Free at last!

Thank God Almighty, we are free at last!

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La storia mi assolverà: celebre discorso di Fidel Castro https://cultura.biografieonline.it/fidel-castro-discorso/ https://cultura.biografieonline.it/fidel-castro-discorso/#comments Sat, 26 Nov 2016 16:06:40 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20490 Quello che segue è il testo del celebre discorso che Fidel Castro pronunciò in sua difesa il 16 ottobre 1953. La sua arringa durò circa quattro ore ed è ricordato con le sue ultime parole: “La storia mi assolverà“. Il tribunale dinnanzi al quale Castro si difese, lo processava con l’accusa di “attentato ai Poteri Costituzionali dello Stato e insurrezione“. Il rivoluzionario cubano organizzò un disastroso assalto armato alla caserma della Moncada, nella provincia di Oriente, il 26 luglio 1953.

La storia mi assolverà - Il celebre discorso di Fidel Castro
Fidel Castro

Fidel Castro, dopo gli studi in Legge fece praticantato in un piccolo studio associato dal 1950 al 1952. Sua intenzione era poi di candidarsi al parlamento per il “Partito Ortodosso”. Tuttavia il colpo di Stato del generale Fulgencio Batista rovesciò il governo di Carlos Prio Socarras e portò alla cancellazione delle elezioni. Castro denunciò allora Batista in tribunale per violazione della costituzione, ma la sua petizione venne rifiutata. In risposta Fidel Castro organizzò l’assalto che portò all’arresto suo e dei suoi compagni.

La maggior parte dei compagni venne giustiziata in carcere, non prima di aver subìto barbare torture. Castro venne in seguito rilasciato nel maggio 1955, grazie a una amnistia generale. Andò in esilio in Messico e negli Stati Uniti.

Gli estratti del testo che seguono testimoniano il valore umano di Castro e la personalità che ricoprì a livello storico per la rivoluzione, per Cuba e per il mondo intero.

Foto di Fidel Castro
Foto di Fidel Castro

Dal famoso discorso di Fidel Castro del 16 ottobre 1953

Signori Giudici,

mai un avvocato ha dovuto esercitare il suo ufficio in tali difficili condizioni; mai contro un accusato sono state commesse un tal cumulo di irregolarità schiaccianti. L’uno e l’altro sono in questo caso la stessa persona. Come avvocato, non ho potuto vedere il verbale né lo vedrò e, come accusato, da settantasei giorni sono chiuso in una cella solitaria, totalmente e assolutamente isolato, oltre tutte le prescrizioni umane e legali.

Chi sta parlando aborrisce con tutta la sua anima la vanità puerile e non sono parte del suo animo né del suo temperamento qualsiasi posa da tribuno né sensazionalismi di nessun tipo. Se ho dovuto assumere la mia propria difesa davanti a questo tribunale è per due motivi. Il primo perché praticamente mi si privò di essa completamente; il secondo perché solo chi era stato ferito tanto profondamente e aveva visto tanto indifesa la patria e avvilita la giustizia, può parlare in una occasione come questa con parole che siano sangue del cuore e organi vitali della verità. […]

Signori Giudici, quante pressioni si sono esercitate affinché mi si spogliasse anche di questo diritto consacrato a Cuba da lunga tradizione. Il tribunale non pote’ acconsentire a tali pretese perché era già lasciare un accusato al colmo della mancanza di difesa. Questo accusato che sta esercitando ora questo diritto, per nessuna ragione al mondo ometterà di dire quello che deve dire. […]

Vi ricordo che le vostre leggi di procedimento stabiliscono che il giudizio sarà “orale e pubblico”; senza dubbio, si è impedito al popolo l’entrata a questa sessione. Solo hanno lasciato passare due avvocati e sei  giornalisti, nei periodici dei quali la censura non permetterà pubblicare una sola parola. Vedo che ho per unico pubblico, in sala e nei corridoi, circa cento tra soldati e ufficiali. Grazie per la seria e amabile attenzione che mi state prestando! Che appaia di fronte a me tutto l’Esercito! Io so che un giorno arderà dal desiderio di lavare la terribile macchia di vergogna e di sangue che le ambizioni di un gruppo di persone senza anima ha lanciato sopra le uniformi militari. […]

Per ultimo devo dire che non si lasciò passare nella mia cella nessuno trattato di Diritto Penale. Solo posso disporre di questo minuscolo codice che mi ha prestato un avvocato, il valente difensore dei miei compagni: il Dott. Baudilio Castellanos. Allo stesso modo si proibì che giungessero nelle mie mani i libri di Martì: sembra che la censura del carcere li considerò troppo sovversivi. O sarà forse perché io dissi che Martì era l’autore intellettuale del 26 luglio? […]

José Martí fu un poeta, intellettuale, scrittore ed eroe cubano della guerra di indipendenza del 1895 contro la Spagna, durante la quale morì combattendo. Il suo alto contributo umano e intellettuale, nonché il suo sacrificio, alla patria cubana ne fanno sicuramente uno dei padri spirituali della Rivoluzione Cubana stessa.

Non importa in assoluto! Porto nel cuore le dottrine del Maestro e nel pensiero le nobili idee di tutti gli uomini che hanno difeso la libertà di tutti i popoli.

Solo una cosa chiedo al tribunale; spero che me la conceda, come compensazione di tanto eccesso e arbitrarietà che ha dovuto soffrire questo accusato senza protezione alcuna delle leggi: che si rispetti il mio diritto ad esprimermi in piena libertà. Senza di ciò non potrete soddisfare neanche la mera apparenza di giustizia e l’ultimo anello della catena sarebbe, più di nessun altro, di ignominia e codardia.

Confesso che qualcosa mi ha sorpreso. Pensavo che il Pubblico Ministero sarebbe venuto con una accusa terribile disposto a giustificare sino alla sazietà le pretese e i motivi per i quali in nome del diritto e della giustizia – e di quale diritto e di quale giustizia? – mi si deve condannare a ventisei anni di prigione. Però no. Si è limitato esclusivamente a leggere l’articolo 148 del Codice di Difesa Sociale, secondo il quale, più circostanze aggravanti, sollecita per me la rispettabile quantità di ventisei anni di prigione. Due minuti mi sembrano molto poco tempo per chiedere e giustificare che un uomo passi al chiuso più di un quarto di secolo. è forse per caso il Pubblico Ministero disgustato del Tribunale? […] Comprendo che è difficile, per un Pubblico Ministero che ha giurato fedeltà alla Costituzione della Repubblica, venire qui in nome di un governo incostituzionale, statuario, di nessuna legalità e minor moralità, a chiedere che un giovane cubano, avvocato come lui, chissà … altrettanto decente come lui, sia inviato a ventisei anni di carcere. Però il Pubblico Ministero è un uomo di talento e io ho visto persone, con meno talento di lui, scrivere lunghe arringhe […]

Signori Giudici: perché tanto interesse a che io taccia? […] è che manchi completamente la base giuridica, morale e politica per focalizzare seriamente la questione? è che si teme tanto la verità? è che si desidera che anche io parli per due minuti e che non tocchi qui i punti che non lascia dormire a certa gente dal 26 luglio? […] non accetterò mai questo bavaglio, perché in questo giudizio si sta dibattendo qualcosa in più della semplice libertà di un individuo: si discute di questioni fondamentali di principio, si dibatte delle basi stesse della nostra esistenza come nazione civilizzata e democratica. […]

[…] il Pubblico Ministero non merita neanche un minuto di replica. […]

E’ un principio elementare del Diritto Penale che il fatto imputato debba accordarsi esattamente al tipo di delitto prescritto dalla legge. Se non c’è legge esattamente applicabile al punto controverso, non c’è delitto.

L’articolo in questione dice testualmente: “Si imporrà una sanzione di privazione della libertà da tre a dieci anni all’autore di un atto diretto a promuovere un sollevamento di gente armata contro i Poteri Costituzionali dello Stato. La sanzione sarà la privazione da cinque a dieci anni se si porta ad effetto l’insurrezione” In che paese sta vivendo il Pubblico Ministero? Chi le ha detto che noi abbiamo promosso un sollevamento contro i Poteri Costituzionali dello Stato? Due cose risaltano alla vista. In primo luogo, la dittatura che opprime la nazione non è un potere costituzionale, ma semmai incostituzionale; nacque contro la Costituzione, oltre la Costituzione, violando la Costituzione legittima della Repubblica. La Costituzione legittima è quella che emana direttamente dal popolo sovrano. […] In secondo luogo, l’articolo parla di Poteri Costituzionali, vale a dire, al plurale, non al singolare, perché considera il caso di una Repubblica retta da un Potere Legislativo, un Potere esecutivo e un Potere Giuridico che si equilibrano e si contrappesano uno con l’altro. Noi abbiamo promosso una ribellione contro un potere unico, illegittimo, che ha usurpato e riunito in uno solo i Poteri  Legislativo, Esecutivo e Giuridico della Nazione, distruggendo tutto il sistema che precisamente cercava di proteggere l’articolo del codice che stiamo analizzando. […]

Vi avverto che vo a iniziare. Se nelle vostre anime resta ancora un pezzetto di amore per la patria, di amore per l’umanità, di amore per la giustizia, ascoltatemi con attenzione. So che mi si obbligherà al silenzio per molti anni; so che cercheranno di occultare la verità con tutti i mezzi possibili; so che contro di me si alzerà la congiura dell’oblio. Però non per questo la mia voce si risparmierà […]

Ascoltai il dittatore il lunedì 27 luglio […] L’accumulo di menzogne e calunnie che pronunciò nel suo linguaggio turpe, odioso e ripugnante, solo si può comparare con l’enorme quantità di sangue giovane e limpido che dalla notte prima stava spargendo, con sua conoscenza, consenso, complicità e plauso, la turba più crudele di assassini che possa mai concepirsi. […]

E’ necessario che mi occupi un pò del considerare i fatti. Si disse, da parte del governo stesso, che l’attacco fu realizzato con tanta precisione e perfezione che evidenziava la presenza di esperti militari nella elaborazione del piano. Niente di più assurdo. Il piano fu tracciato da un gruppo di giovani nessuno dei quali aveva esperienza militare; e rivelo i loro nomi, meno due di loro che non sono né morti né catturati: Abel Santamaria, José Luis Tasende, Renato Guitart Rosell, Pedro Miret, Jesus Montané e colui che parla. La metà sono morti, e con giusto tributo alla loro memoria posso dire che non erano esperti militari, però avevano patriottismo sufficiente per dare, a parità di condizioni, una sonora lezione a tutti quanti i generali del 10 marzo (allusione ai generali che appoggiarono il colpo di Stato di Fulgencio Batista il 10 marzo del 1952, N.d.T.) che non sono militari né patrioti. […]

E’ ugualmente certo che l’attacco si realizzò con coordinazione magnifica. […]

Abel Santamaria con ventuno uomini aveva occupato l’Ospedale Civile; con lui c’erano un medico e due nostre compagne per accudire i feriti. Raul Castro, con dieci uomini, occupò il Palazzo di Giustizia; e a me toccò attaccare l’accampamento con il resto, novantacinque uomini. Arrivai con un primo gruppo di quarantacinque, preceduto da un’avanguardia di otto  […] Il gruppo di riserva, che era in possesso di quasi tutte le armi lunghe, dato che le corte andavano all’avanguardia, prese per una via sbagliata e si perse completamente in una città che non conoscevano. […]

Si fecero sin dai primi momenti numerosi prigionieri, circa venti, e ci fu un momento in cui tre nostri uomini  […] Ramiro Valdez, Jose Suarez e Jesus Montané, riuscirono ad entrare in una baracca e a detenere lì per un certo tempo circa cinquanta soldati. Questi prigionieri testimoniarono davanti al Tribunale, e tutti senza eccezione hanno riconosciuto che furono trattati con assoluto rispetto, senza dover soffrire neanche una parola di insulto. […]

La disciplina da parte dell’Esercito fu abbastanza scarsa. Vinsero alla fine per il numero, che dava loro una superiorità di 15 ad uno, e per la protezione  che loro forniva la difesa della fortezza. […]

Quando mi convinsi che tutti i nostri sforzi per prendere la fortezza erano già vani, cominciai a ritirare i nostri uomini a gruppi di otto e dieci. La ritirata fu protetta da sei cecchini che al comando di Pedro Miret e di Fidel Labrador, bloccarono eroicamente il passo all’Esercito. Le nostre perdite nella lotta erano state insignificanti. Il gruppo dell’Ospedale Civile non ebbe più di una vittima; il resto fu vinto dal situarsi delle truppe dell’esercito di fronte all’unica uscita dell’edificio, e soltanto deposero le armi quando non rimaneva loro più neanche un proiettile. Con loro stava Abel Santamaria, il più generoso, amato ed intrepido dei nostri giovani, la cui gloriosa resistenza lo rende immortale davanti alla storia di Cuba. Vedremo la sorte che loro toccò e come desiderò sradicare Batista la ribellione e l’eroismo della nostra gioventu’.

I nostri piani erano di proseguire la lotta sulle montagne in caso di insuccesso dell’attacco al reggimento. Potei riunire un’altra volta, a Siboney, un terzo delle nostre forze; pero molti si erano già persi d’animo. Una ventina decisero di consegnarsi; già vedremo che cosa fu di loro. Il resto, diciotto uomini, con le armi e l’attrezzatura che rimanevano, mi seguirono sulle montagne. Il terreno era a noi perfettamente sconosciuto. Durante una settimana occupammo la parte alta della Cordigliera della Grande Pietra e l’Esercito occupò la base. né noialtri potevamo scendere né loro si decisero a salire. Non furono, dunque, le armi; furono la fame e la sete che vinsero l’ultima resistenza. Dovetti distribuire gli uomini in piccoli gruppi: alcuni riuscirono a filtrare attraverso le linee dell’esercito, altri  furono consegnati da monsignor Perez Serantes. Quando solo restavano con me due compagni: Jose Suarez e Oscar Alcalde, tutti e tre totalmente stremati, all’alba di sabato 1° di agosto, una forza al comando del tenente Sarria ci sorprese dormendo. Già la mattanza dei prigionieri era cessata in seguito alla tremenda reazione che provocò nella cittadinanza, e questo ufficiale, uomo di onore, impedì che alcuni assassini ci uccidessero  […]

Si è ripetuto con molta enfasi da parte del governo che il popolo non assecondò il movimento. mai avevo udito una affermazione tanto ingenua e, al tempo stesso, tanto piena di malafede. Pretendono evidenziare con ciò la sottomissione e codardia del popolo  […] Se il Moncada fosse caduto in mano nostra persino le donne di Santiago di Cuba avrebbero impugnato le armi!

Molti fucili furono caricati ai combattenti dalle infermiere dell’Ospedale Civile! Anch’esse combatterono. Questo non lo dimenticheremo mai. […]

Il Pubblico Ministero era molto interessato a conoscere le nostre possibilità di successo. Queste possibilità si basano su ragioni di ordine tecnico-militare e di ordine sociale.

Si è desiderato instaurare il mito delle armi moderne come certezza della totale impossibilità della lotta aperta e frontale del popolo contro la tirannia. Le sfilate militari, le grandi parate di materiale bellico, hanno per obiettivo il fomentare questo mito e creare nella cittadinanza un complesso di assoluta impotenza. Nessun arma, nessuna forza è capace di vincere a un popolo che si decide a lottare per i propri diritti. Gli esempi storici passati e presenti sono incontestabili. è ben recente il caso della Bolivia, dove i minatori, con cartucce di dinamite, sconfissero e distrussero a reggimenti dell’esercito regolare.

Pero noi cubani non dobbiamo cercare esempi in altri paesi, perché nessuno è tanto eloquente come quello della nostra patria. Durante la guerra del 1895 c’erano a Cuba circa mezzo milione di soldati spagnoli in armi […] I cubani non disponevano in generale di altra arma che il machete, perché le sue cartucciere erano quasi sempre vuote. c’è un passaggio indimenticabile della nostra guerra di indipendenza narrato dal generale Mirò Argenter […] ” la gente  […] in maggior parte provvista di solo machete, fu decimata […] Attaccarono agli spagnoli con i pugni, senza pistola […]”

Così lottano i popoli quando desiderano conquistare la propria libertà: tirano pietre agli aerei e deviano i carri armati a morsi! […]

Dissi che la seconda ragione sulla quale si basava la nostra possibilità di riuscita era di ordine sociale. perché avevamo la sicurezza di contare sul popolo? Quando parliamo di popolo non intendiamo i settori concilianti e conservatori della nazione, a quelli per cui va bene qualsiasi regime di oppressione, qualsiasi dittatura, qualsiasi dispotismo, prostrandosi dinanzi al reggente di turno sino a rompersi la fronte contro il pavimento.

Intendiamo per popolo, quando parliamo di lotta, la grande massa irredenta, quella a cui tutti offrono e quella che tutti ingannano e tradiscono, quella che anela una patria migliore, più degna, più giusta […]

Noi chiamiamo popolo se di lotta si tratta, ai seicentomila cubani che stanno senza lavoro desiderosi di guadagnarsi il pane con onore senza dover emigrare dalla propria patria in cerca di sostentamento; ai cinquecentomila operai stagionali della campagna che abitano in baracche miserabili, che lavorano quattro mesi e soffrono la fame per il resto dell’anno dividendo con i propri figli la miseria, che non hanno un fazzoletto di terra per seminare e la cui esistenza dovrebbe muovere a più compassione se non ci fossero tanti cuori di pietra; ai quattrocentomila operai industriali e braccianti le cui pensioni, tutte, sono rapinate, […] la cui vita è il lavoro perenne e il cui riposo è la tomba; ai centomila piccoli agricoltori che vivono e muoiono lavorando una terra che non è loro, contemplandola sempre tristemente come Mose’ alla terra promessa, per poi morire senza mai giungere a possederla, che devono pagare per i fazzoletti di terra come servi feudali una parte dei propri prodotti, che non possono amarla, né migliorarla, né abbellirla, o piantare un cedro o un arancio perché non sanno se un giorno verrà un funzionario a dirgli che deve andarsene; ai trentamila maestri e professori tanto pieni di abnegazione, di sacrifici e necessari al destino migliore delle future generazioni e che tanto male li si tratta e paga; ai ventimila piccoli commercianti appesantiti dai debiti, rovinati dalle crisi e ammazzati dalla piaga di funzionari filibustieri e venali; ai diecimila giovani professionisti: medici, ingegneri, avvocati, veterinari, pedagoghi, dentisti, farmaceutici, giornalisti, pittori, scultori, ecc., che escono dalle aule con i propri titoli desiderosi di lotta e pieni di speranza per trovarsi poi in un vicolo senza uscita, tutte le porte chiuse, sorde alle suppliche e al clamore. Questo è il popolo! Quello che soffre tutte le sue disgrazie ed è pertanto capace di combattere con tutto il coraggio! A questo popolo il cui cammino di angustia è lastricato di inganni e false promesse, non andavamo a dire: “Ti daremo” ma semmai: “Ecco prendi, lotta ora con tutte le tue forze perché siano tue la libertà e la felicità!”. […]

Cuba potrebbe albergare splendidamente una popolazione tre volte maggiore; non ci sono dunque ragioni perché esista la miseria  fra i suoi attuali abitanti. […]

A quelli che mi chiamano per questa convinzione sognatore, io rispondo con le parole di Martí: “Il vero uomo non guarda da che lato si vive meglio, ma da che lato sta il dovere; e questo è l’unico uomo pratico il cui sogno di oggi sarà la legge del domani, perché colui che ha posto gli occhi agli organi vitali universali e visto ribollire i popoli, tra lamenti e sangue, nella conca dei secoli, egli sa che il divenire, senza nessuna eccezione, sta dal lato del dovere“.

Unicamente inspirati a tali elevati propositi è possibile concepire l’eroismo di quelli che caddero a Santiago di Cuba. Gli scarsi mezzi materiali, sui quali dovemmo contare, impedirono il sicuro successo. […]

I politici spendono nelle loro campagne milioni comprando coscienze, e un pugno di cubani che desiderarono salvare l’onore della patria dovette affrontare la morte con le mani vuote per carenza di risorse. Ciò spiega da chi è stato governato il paese sino ad ora, non da uomini generosi e fedeli, ma dal bassofondo della politicheria […] Con maggior orgoglio che mai dico che conseguente ai nostri principi, nessun politico di ieri ci ha visti bussare alla sua porta chiedendo un centesimo, che i nostri mezzi furono messi insieme con esempio di sacrificio che non ha paragoni, come quello del giovane Elpidio Sosa che vendette la sua attrezzatura e si presentò da me un giorno con trecento pesos “per la causa; Fernando Chenard, che vendette la apparecchiatura del studio fotografico con il quale si guadagnava da vivere; Pedro Marrero che impegnò il suo stipendio di molti mesi e al quale fu necessario impedire che vendesse persino i mobili della sua casa; Oscar Alcalde, che vendette il suo laboratorio di prodotti farmaceutici; Jesus Montané, che consegnò il denaro che aveva risparmiato per più di cinque anni, e così nello stesso stile molti altri, spogliandosi ognuno di quel poco che aveva.

Bisogna avere una fede molto grande nella propria patria per agire così, e questi ricordi di idealismo mi portano direttamente al capitolo più amaro di questa difesa: il prezzo che fu fatto loro pagare dalla tirannia per il desiderio di liberare Cuba dalla oppressione e dalla ingiustizia. […]

I fatti sono ancora recenti, però quando gli anni passeranno e il cielo della patria si schiarirà, quando gli animi esaltati si quieteranno e la paura non turberà più gli spiriti, si inizierà allora a vedere in tutta la sua spaventosa realtà la magnitudine del massacro, e le generazioni future rivolgeranno terrorizzate gli occhi a questo atto di barbarie senza precedenti nella nostra storia. Però non desidero che l’ira mi accechi, perché ho bisogno di tutta la chiarezza della mia mente e la serenità del cuore distrutto per esporre i fatti così come occorsero, con tutta semplicità, senza drammatismi, perché sento vergogna come cubano, che alcuni uomini senza anima, con i suoi crimini inqualificabili, abbiano disonorato la nostra patria dinanzi al mondo.

Non fu mai il tiranno Batista un uomo di scrupoli che tentenna prima di dire al popolo la più fantastica menzogna. […]

Le cose che affermò il dittatore dal poligono dell’accampamento di Columbia, sarebbero degne di risa se non fossero così impappate di sangue. Disse che gli attaccanti erano un gruppo di mercenari tra i quali c’erano molti stranieri; […] disse che l’attacco era stato ideato dall’ex-presidente Prio e con suo denaro, e si è provato sino alla sazietà l’assenza assoluta di ogni relazione tra questo movimento e il regime passato; disse che eravamo armati di mitragliatrici e granate a mano, e qui i tecnici dell’Esercito hanno dichiarato che avevamo solo una mitragliatrice e nessuna granata a mano; disse che avevamo sgozzato la postazione di guardia, e qui sono apparsi a verbale i certificati di morte e i certificati medici corrispondenti a tutti i soldati morti o feriti, dai quali, risulta che nessuno presentava lesioni di arma bianca. […]

Quando un capo di stato o chi pretende esserlo fa dichiarazioni al paese, non parla per parlare: alberga sempre qualche obiettivo, persegue sempre un effetto, lo anima sempre una intenzione. Se eravamo già stati militarmente vinti, se già non rappresentavamo più un pericolo per la dittatura, perché ci si calunniava in questo modo? Se non è chiaro che era un discorso sanguinario, se non è evidente che si pretendeva giustificare i crimini che si stavano commettendo dalla notte prima e che si andavano a commettere dopo, che parlino per me i numeri: il 27 luglio, nel suo discorso dal poligono militare, Batista disse che gli attaccanti avevano avuto trentadue morti; alla fine della settimana i morti salivano a più di ottanta. In quale battaglia, in quali luoghi, in quali combattimenti morirono questi giovani? Prima che parlasse Batista si erano assassinati più di venticinque prigionieri; dopo che parlò se ne assassinarono cinquanta.

Che grande senso dell’onore quello di quei militari modesti, tecnici e professionisti dell’Esercito, che al comparire dinanzi al tribunale non deformarono i fatti, e relazionarono attenendosi alla stretta verità. Questi si che sono militari che onorano l’uniforme, questi si che sono uomini! né il militare né l’uomo vero è capace di macchiare la sua vita con la menzogna o il crimine. Io so che sono terribilmente indignati con i barbari omicidi che si commisero, io so che sentono con ripugnanza e vergogna l’odore di sangue omicida che impregna sino all’ultima pietra il Quartiere Moncada.

Esorto il dittatore a ripetere ora, se puo’, le sue vili calunnie contro le testimonianze di questi onorevoli militari, lo esorto a che giustifichi davanti al popolo di Cuba il suo discorso del 27 luglio, che non taccia, che parli! Che dica se la Croce d’Onore che pose nel petto agli eroi del massacro era per premiare i crimini ripugnanti che si commisero; che assuma sin da ora la responsabilità davanti alla storia e non pretenda di dire poi che furono i soldati senza suoi ordini, che spieghi alla nazione i settanta omicidi; fu molto il sangue! La nazione ha bisogno di una spiegazione, la nazione lo domanda, la nazione lo esige. […]

Non si ammazzò durante un minuto, un’ora o un giorno intero, ma una intera settimana, i colpi, le torture, […] non cessarono un istante come strumento di sterminio maneggiato da perfetti artigiani del crimine. Il Quartiere Moncada si convertì in un laboratorio di tortura e morte, e alcuni uomini indegni convertirono l’uniforme militare in pannelle da macellai. I muri si incrostarono di sangue; nella parete le pallottole restarono incrostate con frammenti di pelle e capelli umani […]

Le mani criminali che reggono il destino di Cuba avevano scritto per i prigionieri all’entrata di quell’antro di morte, la scritta dell’inferno: “LASCIATE OGNI SPERANZA”. […]

Conosco molti dettagli di come si realizzarono questi crimini, per bocca di alcuni militari che pieni di vergogna, mi riferirono le scene di cui erano stati testimoni. […]

Il primo prigioniero assassinato fu il nostro medico Mario Muñoz, che non portava armi né uniforme e vestiva il suo camice di medico, un uomo generoso e competente che aveva prestato cura con la stessa devozione tanto all’avversario quanto all’amico ferito. Nel cammino dall’Ospedale Civile al Quartiere gli spararono un colpo alla schiena e lo lasciarono lì con la bocca rivolta in basso in una pozza di sangue. Però la mattanza di prigionieri non cominciò sino alle tre del pomeriggio. Fino a questa ora si aspettarono ordini. Arrivò dunque dall’Avana il generale Martin Diaz Tamayo, il quale portò istruzioni concrete uscite da una riunione dove si trovavano Batista, il capo dell’Esercito, il capo del SIM [Servizio di Intelligence Militare] e altri.

Disse che “era stata una vergogna e un disonore per l’Esercito aver avuto nel combattimento tre volte più vittime degli attaccanti e che si dovevano uccidere dieci prigionieri per ogni soldato morto” Questo fu l’ordine! […]

Quello di cui questi uomini avevano bisogno era precisamente questo ordine. Nelle loro mani perì il meglio di Cuba: i più valorosi, i più onorati, i più idealisti. Il tiranno li chiamò mercenari, e lì essi stavano morendo come eroi in mano di uomini che ricevono uno stipendio dalla Repubblica e i quali con le armi che essa ha dato loro perché la difendano, servono piuttosto gli interessi di un manipolo e assassinano i migliori cittadini.

Per mezzo della tortura offrivano loro la vita se tradendo la propria posizione ideologica si prestavano a dichiarare falsamente che Prío [Carlos Prío Socarrás, Ex Presidente cubano in esilio] aveva dato loro il denaro, e come essi rifiutavano indignati la proposta, continuavano torturandoli orribilmente. […]

Le fotografie non mentono e quei cadaveri appaiono distrutti. […]

Questo lo fecero per molti giorni e assai pochi prigionieri di quelli che erano detenuti sopravvissero. […]

Signori Giudici, dove stanno i nostri compagni detenuti nei giorni 26, 27, 28 e 29 luglio che si sa erano settanta nella zona di Santiago di Cuba? Solamente tre e le due ragazze sono ricomparsi; […]

Dove stanno i nostri compagni feriti? Solo cinque sono comparsi; i restanti furono ugualmente assassinati. Qui, al contrario, hanno sfilato venti militari che furono nostri prigionieri e che secondo le loro stesse parole non ricevettero neanche una offesa. Qui hanno sfilato trenta feriti dell’Esercito, molti di loro in combattimenti sulla strada, e nessuno di essi fu giustiziato. Se l’Esercito ebbe diciannove morti e trenta feriti, com’e’ possibile che noi abbiamo avuto ottanta morti e cinque feriti? […]

Come può spiegarsi la favolosa proporzione di sedici morti per un ferito, se non giustiziando i feriti nell’ospedale stesso e assassinando poi gli indifesi prigionieri? Questi numeri parlano senza possibile replica. “E’ una vergogna e un disonore per l’Esercito aver avuto nel combattimento un numero di vittime tre volte superiore agli attaccanti; bisogna ammazzare dieci prigionieri per ogni soldato morto …” Questo è il concetto che hanno dell’onore i caporali divenuti generali il 10 di marzo [il giorno del colpo di stato che portò Batista al potere], e questo è l’onore che desiderano imporre all’Esercito nazionale. Onore falso, onore di apparenza che si basa sulla menzogna, la ipocrisia e il crimine; assassini che plasmano con il sangue una maschera di onore. Chi disse loro che morire combattendo è un disonore? Chi disse loro che l’onore di un Esercito consiste nell’assassinare feriti e prigionieri di guerra? In guerra gli eserciti che assassinano i prigionieri si sono sempre guadagnati il disprezzo e l’esecrazione del mondo. […]

Il militare di onore non assassina il prigioniero indifeso dopo il combattimento, ma lo rispetta; non giustizia il ferito, ma lo aiuta; impedisce il crimine e se non può impedirlo fa come quel capitano spagnolo che sentendo gli spari con cui si fucilavano gli studenti ruppe indignato la sua spada e rinunciò di continuare a servire quell’esercito. […]

Per i miei compagni morti non chiedo vendetta. Dato che le loro vite non avevano prezzo, non potrebbero pagarla con la loro tutti i criminali messi insieme. Non è con il sangue che si può pagare la vita dei giovani che morirono per il bene di un popolo; la felicità di questo popolo è l’unico prezzo degno che si può pagare per quelle vite.

In più i miei compagni non sono dimenticati, né morti; vivono oggi più che mai e i suoi assassini devono vedere terrorizzati come sorge dai loro cadaveri eroici lo spettro vittorioso delle loro idee. Che parli per me l’Apostolo: “c’è un limite al pianto durante la sepoltura dei morti, ed è l’amore infinito per la patria e la gloria che si vede sopra i loro corpi, che non teme, non si abbatte né mai si indebolisce; perché i corpi dei martiri sono l’altare più bello della dignità “.

… Quando si muore
Nelle braccia della patria gradita,
La morte finisce, la prigione si rompe;
Comincia alla fine, con il morir, la vita!

Fin qui mi sono attenuto quasi esclusivamente ai fatti. Come non dimentico che sto davanti ad un Tribunale di Giustizia che mi giudica, dimostrerò ora che unicamente dalla nostra parte sta il diritto e che la sanzione imposta ai miei compagni e quella che si pretende di impormi, non hanno giustificazione dinanzi alla ragione, dinanzi alla società e dinanzi alla vera giustizia. […]

Sto per narrarvi una storia. C’era una volta una Repubblica. Aveva la sua Costituzione, le sue leggi, le sue libertà; Presidente, Parlamento, Tribunali; tutti potevano riunirsi, associarsi, parlare e scrivere in piena libertà. Il governo non soddisfaceva il popolo, però il popolo poteva cambiarlo e già mancavano alcuni giorni per farlo. Esisteva una opinione pubblica rispettata e riverita e tutti i problemi di interesse collettivo erano discussi liberamente. C’erano partiti politici, ore dottrinali di radio, programmi polemici della televisione, atti pubblici e nel popolo palpitava l’entusiasmo. Questo popolo aveva sofferto molto e se non era felice, desiderava esserlo e aveva diritto a ciò. Lo avevano ingannato molte volte e guardava al passato con vero terrore. Credeva ciecamente che questo non poteva tornare; era orgoglioso del suo amore per la libertà e viveva convinto che essa sarebbe stata rispettata come cosa sacra; sentiva una fiducia nobile nella sicurezza che nessuno potesse provare a commettere il crimine di attentare contro le proprie istituzioni democratiche. Desiderava un cambiamento, un miglioramento, un progresso e lo vedeva vicino. Tutta la sua speranza stava nel futuro.

Povero popolo! Una mattina la cittadinanza si svegliò di soprassalto; nelle ombre della notte gli spettri del passato avevano congiurato mentre essa dormiva, e ora la tenevano afferrata per le mani, per i piedi e per il collo. […] Non, non era un incubo; si trattava della triste e terribile realtà: un uomo chiamato Fulgencio Batista aveva commesso il crimine che nessuno pensava.

Successe dunque che un umile cittadino di quel popolo, che desiderava credere nelle leggi della Repubblica e nell’integrità dei suoi giudici  […] cercò un codice di Difesa Sociale per vedere che castigo prescriveva la società per l’autore di un simile fatto e lo trovò come segue:

Incorrerà nella sanzione di privazione della libertà da sei a dieci anni colui che effettuerà qualsiasi atto diretto a cambiare in tutto o in parte, per mezzo della violenza, la Costituzione dello Stato o la forma di governo stabilita.

Si imporrà una sanzione di privazione della libertà da tre a dieci anni all’autore di un atto diretto a promuovere un sollevamento di gente armata contro i Poteri Costituzionali dello Stato. La sanzione sarà la privazione da cinque a dieci anni se si porta ad effetto l’insurrezione”  […]

Senza dire niente a nessuno, con il Codice in una mano e i fogli nell’altra, il menzionato cittadino si presentò nel vecchio edificio della capitale dove funzionava il tribunale competente, che era obbligato a promuovere la causa e castigare i responsabili di quel fatto, e presentò uno scritto denunciando i delitti e chiedendo per Fulgencio Batista e per i suoi diciassette complici la sanzione di 108 anni di prigione come ordinava imporre il Codice di Difesa Sociale con tutte le aggravanti […]

Passarono giorni e mesi. Che tradimento. L’accusato non era molestato, passeggiava per la Repubblica come un barone, lo chiamavano onorevole signore e generale  […]

Passarono ancora giorni e mesi. Il popolo si stancò di abusi e di burle. I popoli si stancano! Venne la lotta, e quindi quell’uomo che stava fuori dalla legge, che aveva occupato il potere con la violenza, contro la volontà del popolo e aggredendo l’ordine legale, torturo’, assassino’, incarcerò e accusò dinanzi ai tribunali quelli che lottavano per la legge e per ridare al popolo la sua libertà.

Signori Giudici,

io sono quel cittadino che un giorno si presentò inutilmente dinanzi al Tribunale per chiedere che castigasse a quegli ambiziosi che violarono le leggi e ridussero in cenere le nostre istituzioni, e ora è a me che si accusa  […] Mi direte che quella volta i giudici della Repubblica non agirono perché glielo si impedì con la forza: dunque, confessatelo: questa volta ugualmente la forza vi obbligherà a condannarmi. La prima volta non poteste castigare il colpevole; la seconda dovrete castigare l’innocente. La donzella della giustizia due volte violentata con la forza. […]

Cuba sta soffrendo un crudele e ignobile dispotismo e voi non ignorate che la resistenza di fronte al dispotismo è legittima; questo è un principio universalmente riconosciuto e la nostra Costituzione del 1940 lo consacrò espressamente nell’articolo 40: “E’ legittima la resistenza adeguata per la protezione dei diritti individuali garantiti anteriormente” […]

Il diritto di insurrezione dinanzi alla tirannia è uno di quei principi che, sia o no incluso nella Costituzione Giuridica, ha sempre piena vigenza in una società democratica. […]

Il diritto alla ribellione contro il dispotismo, Signori Giudici, è stato riconosciuto dalla più lontana antichità sino al presente, da uomini di tutte le dottrine, di tutte le idee e di tutte le credenze. Nelle monarchie teocratiche della più remota antichità in Cina, era praticamente un principio costituzionale che quando il re governasse in modo turpe e dispotico, fosse deposto e rimpiazzato da un principe virtuoso.

I pensatori dell’antica India impararono la resistenza attiva contro gli arbitri dell’autorità. Giustificarono la rivoluzione e tradussero molte volte le proprie teorie in pratica. […]

San Tommaso d’Aquino, nella “Summa Theologica” rifiutò la dottrina della tirannide, e sostenne, senza dubbio, la tesi che i tiranni devono essere deposti dal popolo.

Martin Lutero proclamò che quando il governo degenera in tirannide ferendo la legge, i sudditi sono liberati dal dovere dell’ubbidienza. […] Calvino, il pensatore più notevole della Riforma dal punto di vista delle idee politiche, postula che il popolo ha diritto a prendere le armi per opporsi a qualsiasi usurpazione.

Niente meno che un gesuita spagnolo dell’epoca di Filippo II, Juan Mariana, nel suo libro “De Rege et Regis Institutione”, afferma che quando il governante usurpa il potere, o quando eletto, regge la vita pubblica in maniera tirannica, è lecito l’assassinio […] direttamente, o avvalendosi dell’inganno, con il minor disturbo possibile. […]

Già nel 1649 John Milton scrive che il potere politico risiede nel popolo, il quale può nominare o destituire i re […]

John Locke nel suo “Trattato di Governo” sostiene che quando si violano i diritti naturali dell’uomo, il popolo ha il diritto e il dovere di sopprimere o cambiare il governo: “L’unico rimedio contro la forza senza autorità sta nell’opporre ad essa la forza”. Jean-Jacques Rousseau dice con molta eloquenza nel suo “Contratto Sociale”:

Mentre un popolo si vede forzato a obbedire e obbedisce, fa bene; e non appena può strapparsi il giogo e se lo strappa, fa meglio, recuperando la sua libertà con lo stesso diritto che gli è stato tolto“. […]

Rinunciare alla propria libertà è rinunciare alla qualità dell’uomo, ai diritti dell’umanità, e anche ai doveri. […] Tale rinuncia è incompatibile con la natura dell’uomo; e togliere tutta la libertà alla volontà è togliere ogni moralità alle azioni. […]

La famosa Dichiarazione Francese dei Diritti dell’Uomo lasciò alle generazioni future questo principio:

“Quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per questo il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri”. “Quando una persona si impossessa della sovranità deve essere condannata a morte dagli uomini liberi”

Credo di aver giustificato sufficientemente il mio punto di vista […] Però c’è una ragione che ci assiste più potente di tutte le altre: siamo cubani ed essere cubano implica un dovere, non compierlo è un crimine ed un tradimento. Viviamo orgogliosi della storia della nostra patria; la apprendiamo a scuola e siamo cresciuti udendo parlare di libertà, di giustizia e di diritti. […] Tutto questo apprendemmo e non lo dimenticheremo […]

Nascemmo in un paese libero che ci lasciarono i nostri padri, e sprofonderà l’Isola nel mare prima che acconsentiremo ad essere schiavi di qualcuno. […]

Termino la mia difesa, però non lo farò come fanno sempre tutti gli avvocati, chiedendo la libertà del difeso; non posso chiederla quando i miei compagni stanno soffrendo nell’Isola dei Pini una prigionia ignobile. Inviatemi insieme a loro a condividere la loro sorte, è concepibile che gli uomini che hanno onore siano morti o prigionieri in una repubblica dove è presidente un criminale e un ladro.

Ai Signori Giudici, la mia sincera gratitudine per avermi permesso di esprimermi liberamente senza meschine coazioni […] Resta tuttavia all’Udienza un problema più grave: qui stanno le cause iniziate per i settanta omicidi, cioè per il più grande massacro che abbiamo conosciuto, e i colpevoli restano liberi con l’arma in mano che è una minaccia perenne per la vita dei cittadini; se non cade sopra di essi tutto il peso della legge, per codardia o perché ve lo impediscono, e non rinunciano in pieno tutti i giudici, io ho pietà della vostra dignità e compassione per la macchia senza precedenti che cadrà sopra il Potere Giuridico.

In quanto a me so che il carcere sarà duro come non lo è mai stato per nessuno, pieno di minacce, di vile e codardo rancore, però non lo temo, così come non temo la furia del tiranno miserabile che ha preso la vita a settanta fratelli miei.

Condannatemi. Non importa. La storia mi assolverà.

Fidel Castro

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Il Discorso di Gettysburg https://cultura.biografieonline.it/discorso-gettysburg/ https://cultura.biografieonline.it/discorso-gettysburg/#comments Fri, 15 Aug 2014 06:41:14 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=11798 Era il 19 novembre 1863, un giovedì, quando nel corso del pomeriggio Abraham Lincoln – 16° Presidente degli Stati Uniti d’America – pronunciò uno dei più celebri e famosi discorsi della storia: il Discorso di Gettysburg.

Lincoln ritratto in un disegno mentre pronuncia il Discorso di Gettysburg
19 novembre 1863: Lincoln pronuncia il celebre Discorso di Gettysburg, che rappresenta un momento fondamentale per la storia degli Stati Uniti d’America

Il contesto storico

Il contesto storico è quello della guerra di secessione americana; il luogo, Gettysburg, nella Contea di Adams, in Pennsylvania, è lo stesso della celebre battaglia che porta il nome della città: la battaglia di Gettysburg si svolse nei giorni dal 1° al 3 luglio 1863 (quattro mesi prima del Discorso di Gettysburg) ed è storicamente considerata una delle battaglie più importanti della guerra di secessione americana; la battaglia si concluse con una vittoria schiacciante delle forze dell’Unione dell’Armata del Potomac, che arrestarono l’offensiva dell’esercito confederato dell’Armata della Virginia Settentrionale, in Pennsylvania.

Il Presidente Lincoln, il 19 novembre 1863, pronunciò il Discorso in occasione della cerimonia di inaugurazione del cimitero militare di Gettysburg, 4 mesi e mezzo dopo la storica battaglia.

Il testo in italiano del Discorso di Gettysburg

Or sono sedici lustri e sette anni che i nostri avi costruirono su questo continente una nuova nazione, concepita nella Libertà e votata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali. Adesso noi siamo impegnati in una grande guerra civile, la quale proverà se quella nazione, o ogni altra nazione, così concepita e così votata, possa a lungo perdurare.

Noi ci siamo raccolti su di un gran campo di battaglia di quella guerra. Noi siamo venuti a destinare una parte di quel campo a luogo di ultimo riposo per coloro che qui dettero la loro vita, perché quella nazione potesse vivere. È del tutto giusto e appropriato che noi compiamo quest’atto. Ma, in un senso più ampio, noi non possiamo inaugurare, non possiamo consacrare, non possiamo santificare questo suolo.

I coraggiosi uomini, vivi e morti, che qui combatterono, lo hanno consacrato, ben al di là del nostro piccolo potere di aggiungere o portar via alcunché. Il mondo noterà appena, né a lungo ricorderà ciò che qui diciamo, ma mai potrà dimenticare ciò che essi qui fecero. Sta a noi viventi, piuttosto, il votarci qui al lavoro incompiuto, finora così nobilmente portato avanti da coloro che qui combatterono.

Sta piuttosto a noi il votarci qui al grande compito che ci è dinnanzi: che da questi morti onorati ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero, della devozione, l’ultima piena misura; che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano (per nulla); che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra.

Nota: questo testo in italiano, tradotto dall’originale, è il testo riconosciuto dalla Library of Congress (Biblioteca del Congresso) di Washington.

Quello che segue è invece il testo originale del Discorso.

The Gettysburg Address

Four score and seven years ago our fathers brought forth on this continent a new nation, conceived (started, made) in liberty, and dedicated to the proposition that all men are created equal.

Now we are engaged in a great civil war, testing whether that nation, or any nation, so conceived and so dedicated, can long endure.

We are met on a great battle-field of that war. We have come to dedicate a portion of that field, as a final resting place for those who here gave their lives that nation might live. It is altogether fitting and proper that we should do this. But, in a larger sense, we can not dedicate…we can not consecrate…we can not hallow this ground.

The brave men, living and dead, who struggled here, have consecrated it, far above our poor power to add or detract (take away). The world will little note, nor long remember what we say here, but it can never forget what they did here. It is for us the living, rather, to be dedicated here to the unfinished work which they who fought here have thus far so nobly advanced.

It is rather for us to be here dedicated to the great task remaining before us — that from these honored dead we take increased devotion to that cause for which they gave the last full measure of devotion — that we here highly resolve (decide) that these dead shall not have died in vain (for nothing) — that this nation, under God, shall have a new birth of freedom—and that government of the people, by the people, for the people, shall not perish from the earth.

L’importanza del Discorso di Gettysburg

Nel discorso, Lincoln rivolge i suoi pensieri allo sforzo della nazione nella guerra civile, ma con l’ideale che a Gettysburg nessun soldato, dell’Unione o della Confederazione, del nord o del sud, fosse morto invano.

Foto di Abraham Lincoln
Abraham Lincoln

Riprendendo le parole e i concetti supremi sanciti nella Dichiarazione di Indipendenza, Lincoln sottolinea come gli esseri umani siano uguali. Ricorda come la guerra civile sia stata una lotta non solo per l’Unione, ma soprattutto di come rappresenti “la rinascita della libertà” che avrebbe reso tutti davvero uguali all’interno di un’unica nazione, finalmente unita.

Il discorso inizia con il famoso “Ottantasette anni fa“, riferendosi alla Rivoluzione Americana nel 1776. La cerimonia di Gettysburg è un’occasione per Lincoln per incoraggiare gli uomini ad aiutare la democrazia americana, in modo che il “governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non sia distrutto dalla terra“.

Sebbene il Discorso di Gettysburg sia uno dei più importanti della storia degli Stati Uniti e uno dei più celebri discorsi presenti nei libri di storia, non si è comunque certi delle esatte parole pronunciate da Abramo Lincoln il 19 novembre 1863, in quanto esistono ben cinque manoscritti che lo riportano, ed essi si differenziano l’uno dall’altro, anche se solo per pochi dettagli. Di fatto il Discorso di Gettysburg rappresenta un momento fondamentale nel processo di costruzione della futura nazione americana.

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