disastri Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Tue, 15 Oct 2019 12:56:59 +0000 it-IT hourly 1 Disastro del Vajont. Storia di una strage annunciata https://cultura.biografieonline.it/vajont-disastro-diga/ https://cultura.biografieonline.it/vajont-disastro-diga/#comments Tue, 23 Jul 2019 08:41:34 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=26690 Una frana colpì la diga che provocò un’onda devastante

Uno dei disastri naturali più gravi che si verificarono nel Novecento in Europa è quello ricordato come Disastro del Vajont. La valle del Vajont è un territorio che si trova al confine tra il Friuli Venezia Giulia e il Veneto. La sera del 9 ottobre 1963 una frana fece esondare la diga del Vajont, provocando la morte di circa 2.000 persone e danni ingenti.

Diga del Vajont - Disastro del Vajont - Strage del Vajont
La diga dove del Vajont oggi

L’intera cittadina di Langarone fu interamente rasa al suolo dalla potenza distruttiva della frana. Tale forza fu ritenuta simile a quella di uno “tsunami”. Sparirono altre cinque frazioni circostanti: i terrazzamenti per l’agricoltura vennero distrutti; circa il 30% del patrimonio zootecnico si estinse.

La frana, colpendo la diga e spazzando via tutto ciò che trovò sul suo cammino, sconvolse profondamente l’intero assetto del territorio del Vajont.

Prima del disastro del Vajont: il progetto di costruzione della diga

Se proviamo a ricostruire la storia della costruzione della Diga del Vajont ci accorgiamo che, come molti ritengono, quella del 1963 è stata una tragedia “annunciata”. Nel 1929, in seguito ad un sopralluogo effettuato da due tecnici esperti, la Valle del Vajont fu ritenuta idonea per poterci costruire un bacino idroelettrico. Esso sarebbe stato gestito da SADE (Società Adriatica di Elettricità).

Nel 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale, il progetto della diga del Vajont fu approvato dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici – nonostante il procedimento di approvazione fosse palesemente irregolare. Ma c’era un conflitto mondiale in atto e quindi la cosa passò facilmente in secondo piano.

Furono aperti diversi cantieri nel 1957 per dare il via alla costruzione dell’imponente diga. Questi erano gli anni del cosiddetto “miracolo economico”: la gente rimase colpita dal fatto che per quell’opera pubblica venissero impiegate circa 400 persone.

Le città dell’Italia del Nord (soprattutto quelle dell’asse industriale) si stavano sviluppando assai rapidamente, e l’energia elettrica era diventata una necessità impellente. Proprio per tale motivo, ad un certo punto la SADE decise di apportare un ampliamento rispetto al progetto originario, in modo tale da realizzare la diga più alta del mondo (ben 266 metri di altezza!), che fosse capace di contenere al suo interno 115 milioni di metri cubi di acqua!

Erto e Casso: i timori dei cittadini

Nei pressi della diga sorgevano due paesi, Erto e Casso. I cittadini erano piuttosto allarmati a seguito della costruzione della diga, e lo furono ancora di più quando, nel 1959, a pochi chilometri di distanza, una frana colpì la diga di Pontesei.

L’incidente provocò la morte di un operaio della SADE. In realtà, tutti erano a conoscenza che la diga del Vajont era stata costruita in un territorio ad altissimo rischio di terremoti, frane ed eventi naturali analoghi. Ma, come succede spesso (purtroppo) gli interessi privati hanno prevalso anche sulle regole di buon senso e sicurezza.

Gli abitanti di Erto e Casso, riunitisi in un comitato, percepivano da tempo rumori e segnali inquietanti, che facevano pensare all’arrivo di una frana: proprio di tali sospetti misero al corrente la giornalista dell’Unità Tina Merlin, che scrisse più di un articolo sull’argomento, denunciando il comportamento della SADE che mirava soltanto a salvaguardare i propri ingenti affari.

SADE accusò la giornalista di diffondere notizie false e tendenziose: Tina Merlin fu però assolta tempo dopo dal Tribunale di Milano. I timori (ritenuti per lo più infondati) dei cittadini dei paesi circostanti la diga del Vajont, cozzavano con il clima di grande sviluppo economico che l’Italia come Paese stava vivendo in quegli anni.

La S.A.D.E. è una specie di “Stato nello Stato”, fanno quello che vogliono!

Tina Merlin, dal film “Vajont” (2001, interpretata da Laura Morante, regia di Renzo Martinelli)

La diga del Vajont era considerata un’opera pubblica di cui andare orgogliosi, fatta costruire da esperti dell’ingegneria italiana; quindi nessuno (o quasi) pensava ad un eventuale disastro naturale di una portata distruttiva come quello che poi avvenne. Infatti, anche dopo il strage del Vajont, c’è chi sottolineò il fatto che la diga, nonostante la frana fosse caduta con una violenza inaudita, era rimasta miracolosamente in piedi.

La costruzione della diga di Vajont avvenne proprio nel periodo in cui cominciava a profilarsi la nazionalizzazione dell’energia elettrica (e la contemporanea nascita dell’ENEL).

Perizie e controlli della SADE 

In seguito alla frana che colpì la vicina diga di Pontesei, i tecnici della SADE attuarono una serie di perizie, test e sopralluoghi per verificare la sicurezza dei luoghi. Sul monte Toc, nel territorio del Vajont, fu individuata una “paleofrana”; mentre nel 1962 (appena un anno prima del disastro) la SADE accertò che la diga era stata costruita su un un’area a rischio.

Ala fine del 1962 la diga diventò di proprietà dello Stato italiano in seguito alla nazionalizzazione dell’industria elettrica.

Intanto i segnali di un disastro naturale imminente diventavano sempre più inequivocabili anche a Longarone, la cittadina che il 9 ottobre 1963 fu rasa al suolo dalla furia della frana.

Il monte Toc e la zona della frana che provocò il disastro del Vajont
Il monte Toc e la zona della frana che provocò il disastro del Vajont

Il disastro e la strage: le dinamiche e le conseguenze

Sono le ore 22.39 del 9 ottobre 1963 quando un blocco di terra di grandissime dimensioni si stacca dal Monte Toc provocando una frana che precipita ad una velocità di 100 chilometri orari, colpendo il lago artificiale.

L’impatto provocò onde gigantesche di circa 250 metri, una delle quali raggiunse Casso ed Erto, che per fortuna non furono intaccati.

La seconda onda raggiunse la città di Longarone spazzandola via completamente. A perdere la vita furono oltre 1.900 persone, delle quali soltanto 750 riuscirono ad essere identificate.

Il giorno dopo, il 10 ottobre, la cittadina apparve ricoperta da un’immensa distesa di fango. L’allerta per un’altra eventuale frana portò gli abitanti di Erto e Casso a lasciare in fretta e furia le proprie abitazioni.

Pochi giorno dopo il disastro del Vajont, la magistratura aprì un’inchiesta per accertare le responsabilità e i colpevoli di una tragedia “annunciata”.

Finirono sott’accusa alcuni consulenti e tecnici appartenenti alla SADE, insieme ad alcuni funzionari del Ministero dei Lavori Pubblici. Il verdetto dei giudici fu chiaro: quel disastro poteva essere evitato.

Il processo, terminato nel 1972, vide la condanna di un dirigente della SADE, Alberico Biadene, ed un ispettore del Genio Civile.

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Il disastro del Moby Prince avvenuto a Livorno il 10 aprile 1991 https://cultura.biografieonline.it/moby-prince/ https://cultura.biografieonline.it/moby-prince/#respond Wed, 20 Jun 2018 08:08:23 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=24767 Il disastro della nave traghetto Moby Prince avvenne il giorno 10 aprile del 1991. In quella buia sera, entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo nella rada del porto di Livorno. Lo scontro fece divampare un incendio che causò la morte di 140 persone a bordo del Moby Prince. Nell’articolo che segue ricostruiamo i fatti di questo terribile incidente.

Moby Prince
La carcassa della Moby Prince ormeggiata dopo il disastro

Lo scontro tra Moby Prince e la petroliera

Sono le ore 22.03 quando il traghetto Moby Prince della Nav.Ar.Ma. (Navigazione Arcipelago Maddalenino – oggi Moby Lines) molla gli ormeggi dal porto di Livorno per salpare verso Olbia. È il 10 aprile 1991. Mezzora dopo è in fiamme, trasformata in una bara galleggiante. Nella rada del porto toscano, la prua del traghetto è finita contro la petroliera Agip Abruzzo. Intanto, il porto toscano sembra essere diventata una base americana: è pieno di navi militari di ritorno dalla Guerra del Golfo.

I soccorsi sono impegnati sulla petroliera. Poi, per caso, alle 23.35 due ormeggiatori si accostano al traghetto in fiamme: è troppo tardi, le 140 persone a bordo sono già morte. C’è solo un superstite: si tratta del mozzo Alessio Bertrand, che si salva gettandosi in mare e che viene soccorso dagli ormeggiatori.

Da allora sono passati molti anni: secondo la Commissione d’inchiesta parlamentare, che attacca i soccorsi, l’indagine è stata «superficiale».

Le indagini: l’allarme, i dubbi, la ricerca della verità

In quella sera è la petroliera a lanciare l’allarme per un incendio a bordo, dopo la collisione con una bettolina:

«Come abbiamo fatto a scoprire noi che a finire contro la petroliera non era stata una bettolina bensì il Moby Prince? Abbiamo dato retta all’istinto; eravamo sotto l’Agip Abruzzo offrendo aiuto ai marittimi nel caso volessero abbandonarla. Abbiamo sentito che i soccorritori stavano dando l’allarme perché qualcuno aveva notato avvicinarsi una nave che si muoveva come se nessuno la guidasse, era senza più governo in mezzo a quel caos. È stato un flash. Abbiamo capito che doveva avere qualcosa a che fare con qualcosa di strano che avevamo scorto poco prima; come un inverosimile baluginare di fiamme dietro una sagoma scura. E ci siamo buttati da quella parte».

Sono le parole dei soccorritori. I due ormeggiatori sono Valter Mattei e Mauro Valli. Raccontano i due uomini:

«Che si trattava del Moby Prince ce l’ha detto il mozzo Alessio Bertrand, l’unico che ce l’ha fatta»

Si trovano a bordo dell’imbarcazione della Coop ormeggiatori, solo sette metri di vetroresina. La nave è fantasma; dopo aver portato in salvo il superstite, i due ormeggiatori tornano indietro, ributtandosi nella mischia, ma i motori sono ancora in funzione e la Moby Prince continua a girare; seguono una scia di odore di petrolio e la ritrovano: le lingue di fuoco escono dagli oblò.

Agip Abruzzo - disastro Moby Prince
La petroliera Agip Abruzzo in fiamme

Il processo di primo grado a Livorno

La Procura di Livorno, dopo l’incidente, apre un fascicolo per omissione di soccorso e omicidio colposo. Il processo inizia il 29 novembre 1995. Gli imputati sono quattro: si tratta del terzo ufficiale di coperta dell’Agip Abruzzo Valentino Rolla, accusato di omicidio colposo plurimo e incendio colposo; Angelo Cedro, comandante in seconda della Capitaneria di Porto, l’ufficiale di guardia Lorenzo Checcacci, accusati di omicidio colposo plurimo per non avere attivato i soccorsi immediatamente; Gianluigi Spartano, un marinaio di leva, imputato anche lui per omicidio colposo ma per non aver trasmesso la richiesta di soccorso.

In fase istruttoria vengono archiviate le posizioni dell’armatore di Nav.Ar.Ma, Achille Onorato, e quelle del comandante dell’Agip Abruzzo, Renato Superina. Il processo va avanti per due anni. Poi la sentenza arriva nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre del 1997.

Il presidente Germano Lamberti legge la sentenza che assolve i quattro imputati perché «il fatto non sussiste». Quindi si va in appello.

Nel 1999, è il 5 febbraio, la terza Sezione della Corte d’Appello di Firenze afferma di “non doversi procedere nei confronti del Rolla in ordine ai reati ascrittigli perché estinti per intervenuta prescrizione”.

Nella sentenza si legge però: “(…) non si può non rilevare, che l’inchiesta sommaria della Capitaneria, che per alcuni versi è la più importante perché interviene nell’immediatezza del fatto ed è in qualche modo in grado di indirizzare i successivi accertamenti e di influire sulle stesse indagini penali, può essere condotta da alcuni dei possibili responsabili del disastro”.

Dal processo principale al processo parallelo

Insieme al processo principale, in pretura vengono giudicate due posizioni stralciate: sono quelle del nostromo Ciro Di Lauro, che si autoaccusò della manomissione, sulla carcassa del traghetto, di un pezzo del timone; e quella del tecnico alle manutenzioni di Nav.Ar.Ma, Pasquale D’Orsi, nominato da Di Lauro.

Entrambi sono accusati di frode processuale: hanno infatti modificato le condizioni del luogo del delitto, cioè hanno orientato in modo diverso, in sala macchine, la leva del timone da manuale in automatico. Tutto per tentare di addossare la colpa del tragico incidente al comando del Moby Prince. Entrambi non vengono puniti per «difetto di punibilità». In altre parole succede che sia il pretore sia il pubblico ministero concordano sulle responsabilità degli imputati, ma non li ritengono punibili, perché, pur essendoci stata la manomissione, i periti non sono stati tratti in inganno. Tale sentenza sarà confermata sia dal processo di appello sia in Cassazione.

Il Tirreno - disastro Moby Prince - 11 aprile 1991
Il Tirreno: la prima pagina dell’11 aprile 1991, sul disastro del Moby Prince

La procura di Livorno riapre un filone d’inchiesta

È il 2006: su richiesta dei figli del comandante Angelo Chessa che comandava la Moby Prince, la procura di Livorno riapre un filone d’inchiesta sul disastro del traghetto. In particolare i familiari chiedono di indagare sul possibile traffico illecito di armi, e anche della presenza di navi militari o navi fuori dal controllo della Capitaneria di Porto. Il 5 maggio del 2010 il gip (giudice per le indagini preliminari) accoglie la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Livorno.

L’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta

Dopo una campagna per avere verità e giustizia durata due anni, nel 25° anniversario della strage, il 22 luglio 2016 al Senato all’unanimità viene votata l’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Moby Prince. Vengono fuori nuove verità: tra queste nella relazione finale emerge come dalla Capitaneria di porto, dopo la collisione tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo:

«non siano partiti ordini precisi per chiarire l’entità e la dinamica dell’evento e per ricercare la seconda imbarcazione (il Moby)». Emergono strumentazioni inadeguate, dove è a disposizione un solo radar in possesso della stazione piloti, nessuna formazione in caso di incidenti in mare, soccorsi improvvisati non coordinati dalla Capitaneria di Porto.

E ancora: un’inchiesta giudiziaria frettolosa, dalla quale emergono conflitti di interesse. Poi, a distanza di 27 anni, si sono verificate omissioni da parte dei protagonisti che nel corso delle audizioni hanno dato dichiarazioni «convergenti nel negare evidenze in atti a loro attribuiti o fornito versioni inverosimili degli eventi».

Dalla relazione

Dalla relazione emerge anche che:

«Non fu avviata nessuna attività finalizzata alla ricerca del secondo mezzo coinvolto nell’incidente. E neppure di mettersi in contatto radio con i mezzi recenti usciti dal porto. Inoltre, anche quando, con incredibile ritardo, ci si imbatte nel traghetto incendiato, non risultano tentativi di spegnere a bordo e tantomeno di prestare soccorso ai passeggeri del traghetto».

E poi:

«Il contesto emerso, determinato forse dalla convinzione che la nave investitrice fosse una bettolina e non una nave passeggeri, desta sconcerto. Anche in considerazione del fatto che diversi elementi, fra i quali il posizionamento dei corpi nel traghetto, evidenzia che il comando della nave avesse predisposto un vero e proprio piano di emergenza con la raccolta dei passeggeri nel salone De Luxe in attesa che arrivassero i soccorsi. […]

Appare grave come anche all’epoca dei fatti non fossero previste attività periodiche di formazione e addestramento tali da consentire al personale militare e civile di affrontare avvenimenti di tale portata».

La riflessione finale della commissione

«La disamina degli atti porta a una univoca conclusione: la Capitaneria di Livorno, tanto nella fase iniziale dei soccorsi quanto nel momento in cui assunse la direzione delle operazioni il comandante Albanese, non ha valutato l’effettiva gravità della situazione con specifico riferimento al coinvolgimento di una nave traghetto.

Sia perché non sono stati resi disponibili dati utili all’identificazione del traghetto sia per l’incapacità di valutare la situazione, così determinando un’impostazione delle operazioni di soccorso unicamente volte verso la petroliera».

La commissione non riesce neppure a dare una risposta:

«Non è dato comprendere come e per quali motivi il comando della Capitaneria non sia riuscito a correlare l’avvenuta partenza di un’unica nave dal porto con la collisione; né a richiedere informazioni al personale presente sulla torre degli Avvisatori. È di palmare evidenza che se ciò fosse stato fatto si sarebbe tempestivamente apprezzato che l’altro natante coinvolto nella collisione era il Moby Prince».

Da qui la commissione ritiene che l’autorità marittima: «avrebbe – vista la situazione – dovuto valutare la possibilità di un intervento dei mezzi dipendenti dell’alto Comando periferico della Marina», invece – affermano – «durante le prime ore cruciali, prima e dopo il ritrovamento del traghetto, la Capitaneria appare del tutto incapace di coordinare l’azione di soccorso verso il Moby Prince».

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Marcinelle (Belgio): gli italiani morti in miniera https://cultura.biografieonline.it/disastro-marcinelle/ https://cultura.biografieonline.it/disastro-marcinelle/#respond Wed, 17 Jun 2015 09:43:40 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14477 Ricordato come “Disastro di Marcinelle“, esso fu un terribile incidente che avvenne la mattina dell’8 agosto 1956 nella miniera di carbone Bois du Cazier a Marcinelle, in Belgio. Persero la vita 262 persone su 275 al lavoro quel giorno.

Marcinelle (Belgio) disastro in miniera - 8 agosto 1956
Marcinelle (Belgio) : una foto storica che ricorda il disastro avvenuto in miniera il giorno 8 agosto 1956

La causa sarebbe stato un incendio innescato da una scintilla elettrica vicino al condotto dell’aria che provocò la diffusione del fumo in tutta la miniera, soffocando tutti i lavoratori lì presenti. L’incidente ebbe un impatto impressionante sulle coscienze della gente, restando per tanti anni uno dei più gravi nel suo genere mai avvenuti in Europa.

I lavoratori italiani coinvolti nel disastro

Gli operai provenivano per la maggior parte dall’Italia: persero la vita 136 italiani, 95 belgi e altri lavoratori provenienti da tutta Europa. L’Italia aveva sottoscritto un accordo con il Belgio il 20 giugno 1946, al termine della Seconda Guerra Mondiale, nel quale si impegnava ad inviare 50.000 lavoratori nelle miniere in cambio di carbone.

Questo accadde perché il Belgio, non essendo molto popolato, perse ancor più forza lavoro a causa delle vittime della guerra e pertanto aveva un forte bisogno di manodopera proveniente dall’estero. La situazione dei lavoratori italiani all’epoca era molto precaria e molti, specie provenienti dalle zone più povere del paese, scelsero di andare a lavorare all’estero in cerca di fortuna.

Si intensificarono così i flussi migratori verso i paesi del nord Europa e, in modo particolare, nelle miniere belga, tedesche e francesi. Nel 1956 su un totale di 142.000 impiegati nelle miniere del Belgio ben 44.000 erano italiani.

Per convincere le persone ad emigrare in Belgio e a lavorare in miniera, erano state avviate in Italia molte campagne pubblicitarie e il bel paese veniva tappezzato di manifesti di colore rosa. Qui venivano presentati i vantaggi di questo mestiere: pensionamento anticipato, carbone e viaggi in ferrovia gratuiti, buono stipendio, assegni familiari etc.

Tuttavia non era incluso nessun cenno ai pericoli ai quali erano esposti questi lavoratori, dovuti in alla mancanza del rispetto delle elementari norme di sicurezza.

Dopo il disastro di Marcinelle, si ridusse notevolmente il numero di italiani immigrati in Belgio; attualmente vi risiedono stabilmente soltanto 190.000 italiani.

Le cause dell’incidente e il corso degli eventi

L’incendio, che causò poi la diffusione del fumo che soffocò i minatori, fu provocato da una scintilla elettrica vicino a dell’olio ad alta pressione. L’errore fu causato probabilmente da un equivoco di segnali che dovevano scambiarsi due lavoratori: Antonio I. addetto alle manovre, e il suo aiutante Vaussort.

Nell’atto di caricare l’ascensore, i due vagoncini, col carico di carbone da trasportare in superficie, sporgevano e per questo andarono ad urtare un’asse di acciaio (putrella) che a sua volta andò ad urtare il condotto di olio, il filo della corrente elettrica e le condotte di aria compressa.

Tutte queste componenti innescarono un terribile incendio. Ciò avvenne proprio vicino al pozzo di entrata dell’aria e il fumo si diffuse velocemente nelle condotte d’aria e in tutte le gallerie della miniera, provocando il soffocamento dei minatori che vi lavoravano.

Il fuoco divampò invece in una zona circoscritta della miniera. L’allarme venne dato da Antonio I. alle ore 8:25 quando risalì in superficie per primo, anche se si era già capito dalle 8:10 che stava succedendo qualcosa di molto grave poiché iniziarono ad interrompersi le comunicazioni.

La prima squadra di soccorritori arrivò soltanto alle 8:58 ma fu impossibile scendere a causa del troppo fumo. Nessuno riuscì a scendere prima delle 15:00, quando vennero ritrovati solo 3 superstiti, mentre gli ultimi 3 furono scoperti più tardi, in un’altra spedizione.

Marcinelle - Prima pagina giornale (Corriere della sera) - 9 agosto 1956
Disastro di Marcinelle: La prima pagina del Corriere della sera, del 9 agosto 1956

Dopo l’incidente

La mobilitazione generale fu enorme: sul posto si riunirono Croce Rossa, Pompieri, Protezione Civile e Polizia, tentando invano di raggiungere i minatori bloccati sottoterra. Si cercò di aprire anche un cunicolo laterale ma era già troppo tardi. Arrivarono anche semplici cittadini che volevano aiutare i soccorritori nelle ricerche.

Sul posto perfino un esperto francese con l’apparecchiatura radiotelefonica, pronto a captare qualsiasi segnale proveniente da sottosuolo. Da ricordare due personaggi in particolare: G. Ladrière “l’angelo di Cazier”, assistente sociale che tentò di consolare le famiglie delle vittime, e Angelo Galvan “la volpe di Cazier” che cercò fino all’ultimo i suoi compagni superstiti, purtroppo invano.

Il ministro dell’economia Jean Rey creò una commissione di inchiesta composta anche da due ingegneri italiani, Caltagirone e Gallina, tentando di rintracciare i responsabili diretti o indiretti della tragedia. La commissione era composta da 27 membri che si riunirono in 20 sedute, ogni gruppo di membri cercò di difendere i propri interessi anziché ricercare la verità sull’accaduto.

L’inchiesta giudiziaria fu avviata dal magistrato Casteleyn e vide al suo termine un solo condannato: l’ingegnere Calicis; a lui furono dati 6 mesi con la condizionale e una multa di 2000 franchi belga. Le restanti 4 persone vennero assolte e la società Bois du Cazier venne condannata a pagare una parte delle spese per risarcire i parenti delle vittime: la causa si concluse solo nel 1964 con un accordo tra le parti.

Le omissioni

Quel che è certo è che sicuramente la tragedia poteva essere, se non evitata, quando meno ridimensionata. I minatori non morirono serenamente sul loro posto di lavoro ma cercarono di scappare, tant’è vero che molti di loro furono ritrovati cadaveri lontano da dove erano soliti lavorare.

Esisteva un verricello di emergenza, una sorta di ascensore, che doveva funzionare in caso di blocco di quello principale ma non venne mai utilizzato dai soccorritori a causa della scarsa velocità con la quale saliva e scendeva.

Le riserve d’acqua erano piene solo per metà e questo costrinse i pompieri a spegnere l’incendio con l’acqua delle condutture domestiche.

Per quanto riguarda la dinamica dell’incidente principale, non si è arrivati mai alla scoperta della verità in quanto dopo lo spegnimento dell’incendio il vagoncino che doveva sporgere in realtà non si capovolse nemmeno e fu ritrovato al suo posto. Probabilmente la causa era molto più complessa di quella che fu fornita ufficialmente.

Certo è che l’assenza durante quella mattina di alcune figure fondamentali nella direzione del lavoro della miniera  giocò un ruolo fondamentale. Mancavano sul posto di lavoro J. Bochkoltz, il direttore della centrale di soccorso, P. Dassargues, ingegnere ancora in periodo di tirocinio, ed E. Jacquemyn, il direttore generale della miniera, tutti prosciolti.

La giustizia non fece il suo corso e i veri motivi della strage probabilmente non saranno mai chiariti. A distanza di tanti anni resta il dolore per quei tanti lavoratori italiani, emigrati alla ricerca di fortuna e che invece di trovare un buon posto di lavoro, trovarono la morte in un terribile incidente.

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