deserto Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Mon, 20 Sep 2021 15:57:16 +0000 it-IT hourly 1 Cattedrale nel deserto o elefante bianco: il significato dei modi di dire https://cultura.biografieonline.it/cattedrale-nel-deserto-elefante-bianco-modi-di-dire/ https://cultura.biografieonline.it/cattedrale-nel-deserto-elefante-bianco-modi-di-dire/#respond Mon, 20 Sep 2021 15:57:01 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=35725 Come definire grandi progetti falliti

Sorgerà come una cattedrale nel deserto. Abbiamo sentito questa locuzione tantissime volte, ma cosa vuole intendere chi fa questa constatazione? E chi la usa sa che sta facendo riferimento alla storia moderna del nostro Paese? Il termine cattedrale nel deserto si riferisce a un’impresa dal grande costo che sorge in una zona considerata inadatta, per poi fallire. Si usa nel linguaggio dell’economia, del lavoro, della politica e nel giornalismo.

Cattedrale nel deserto
Cattedrale nel deserto (illustrazione)

La prima cattedrale nel deserto e don Sturzo

La locuzione si farebbe risalire a don Luigi Sturzo, presbitero e politico italiano. Avrebbe coniato questa metafora nel 1958. Succedeva nel periodo in cui il Governo italiano aveva spinto molto per nuovi incentivi finanziari e, di conseguenza, investimenti. In particolare nel Mezzogiorno italiano.

Succede però che la Cassa del Mezzogiorno non realizza né infrastrutture né investimenti né trasferimenti di imprese. Il Governo interviene e decide di “obbligare” le aziende pubbliche, in seno all’IRI, a investire un proprio 40% nel Sud.

Obiettivo: creare i cosiddetti “poli di sviluppo” ovvero nuovi centri industriali capaci di assorbire la grande disoccupazione in cui versa il Sud Italia in quel momento storico.

Nascono poli di sviluppo diventano cattedrali nel deserto

Nulla di tutto questo avviene. I poli di sviluppo, nella pratica, diventano cattedrali nel deserto. L’IRI di Taranto, le raffinerie ANIC a Gela o l’impianto chimico Montecatini a Brindisi sono esempi di questa esperienza industriale del Paese.

Le aziende partono di fatto, ma deludono ogni aspettativa: non creano occupazione né generano indotto sul territorio.

Per questo, la locuzione cattedrale nel deserto sottende una intenzionalità polemica. C’è una cattedrale che esprime grandezza, ma si colloca in pieno deserto, nel nulla, con tutte le disfunzionalità economiche e sociali derivate.

In inglese è un elefante bianco (white elephant)

Se questa storia sembra tutta italiana, l’espressione cattedrale nel deserto trova dei paralleli anche in altre lingue. In particolare, in inglese la cattedrale nel deserto trova il suo omologo nell’espressione white elephant, elefante bianco.

elefante bianco
Elefante bianco (white elephant)

Gli anglofoni parlano di “white elephant” come gli italiani di “cattedrale nel deserto” quindi per indicare un’impresa impegnativa e improduttiva o, più semplicemente, un bene molto costoso ma obsoleto.

La storia del white elephant affonda in una antica pratica del popolo siamese. I sovrani siamesi offrono in regalo l’elefante bianco ad aristocratici, ma per finalizzare una sorta di scopo punitivo. Questo perché mantenere un elefante bianco richiede un grande dispendio di risorse economiche, e non solo. L’animale in quanto sacro va dotato di ogni sorta di comfort.

Inoltre, l’elefante bianco non contribuisce in nessun modo all’economia del palazzo. Quindi, in sintesi, costa e non produce: l’elefante come la cattedrale.

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Campagna del Nordafrica o Guerra nel deserto (II Guerra Mondiale) https://cultura.biografieonline.it/campagna-nordafrica-1940/ https://cultura.biografieonline.it/campagna-nordafrica-1940/#comments Thu, 05 Mar 2020 07:45:34 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=28005 La Campagna del Nordafrica è storicamente conosciuta anche come Guerra nel deserto: fu un importante capitolo della Seconda Guerra Mondiale. Ebbe luogo nei paesi: Libia, Algeria, Marocco, Tunisia ed Egitto. Gli scontri avvennero tra il 1940 e il 1943 e videro italiani e tedeschi, fronteggiare gli Alleati in un susseguirsi di scontri. Proviamo in questo articolo ad ordinare i fatti e raccontare gli scenari della Campagna del Nordafrica.

Guerra nel deserto: carri armati Panzer durante la Campagna del Nordafrica
Guerra nel deserto: i carri armati Panzer sono uno i mezzi più simbolici della Campagna del Nordafrica del 1940-1943

Gli italiani in Libia

Gli Italiani si insediarono in Libia, all’epoca parte dell’Impero ottomano, nel 1911, su impulso del Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti. La regione fu comunque pacificata solo nei primi anni Trenta. Negli anni successivi, il fascismo diede impulso alla colonizzazione, favorendo l’afflusso di coloni dalla madrepatria.

Al momento della dichiarazione di guerra, il 10 giugno 1940, in alcune aree costiere gli Italiani costituivano oltre il 30% della popolazione. Le forze armate schieravano contingenti numericamente importanti ma poco adatti alle peculiari caratteristiche che avrebbe assunto la guerra nel deserto.

Inoltre, c’è un aspetto di massima importanza nell’analisi della campagna del Nordafrica: le unità dipendevano quasi totalmente dall’industria metropolitana per i rifornimenti; in particolare per i carburanti: i ricchi giacimenti petroliferi libici non erano ancora stati scoperti.

I britannici in Egitto

Di contro, l’Egitto faceva parte della sfera di influenza britannica fin dal 1881. Benché fosse formalmente una monarchia indipendente, era di fatto controllato da Londra.

Il canale di Suez, tratto d’acqua di capitale importanza, era sotto il totale controllo britannico e Londra conservava diverse importanti basi nel Paese. Fra tutte, merita menzione il porto di Alessandria d’Egitto che ospitava la quota principale della Mediterranean Fleet.

Fondamentale per l’esito della campagna del Nordafrica si rivelerà anche il possesso dell’isola di Malta da parte della Gran Bretagna.

Campagna del Nordafrica: caratteristiche

La guerra nel deserto fu principalmente un susseguirsi di offensive, lanciate ora dall’una ora dall’altra parte, con conseguente spostamento della linea del fronte verso oriente quando prevalevano le forze dell’Asse, e verso occidente quando erano le offensive alleate a conseguire risultati.

Le caratteristiche geografiche del teatro d’operazioni imponevano l’uso di reparti fortemente meccanizzati e motorizzati, sia per le grandi distanze da superare, sia per la mancanza di posizioni tatticamente forti a cui ancorare la difesa.

D’altronde, la scarsità di strade e di infrastrutture in genere, obbligava gli eserciti a movimenti prevedibili lungo la strada costiera costruita dagli Italiani in Libia o attraverso gli ostacoli naturali del terreno (passi e guadi), oppure a “saltare” da un pozzo a un altro per gli approvvigionamenti idrici.

Il problema dei rifornimenti

Un altro elemento chiave fu rappresentato dalla difficoltà degli approvvigionamenti. Tutto quanto, carburante, armi, munizioni, cibo, acqua, doveva essere trasportato alle truppe combattenti dalle lontane basi principali: Tripoli per il Regio Esercito e Alessandria o Il Cairo per le truppe del Commonwealth, lungo le stesse prevedibili ed esposte strade.

Inoltre, le succitate basi dovevano, a loro volta, essere rifornite via mare. A farlo erano mercantili provenienti dalla madrepatria, per gli Italiani, lungo la rotta del Capo Alessandria; oppure l’ancor più pericolosa rotta mediterranea da Malta e dallo stesso Egitto, quando era necessario ridurre i tempi; di fatto si affrontavano i rischi di far transitare i vulnerabili mercantili attraverso un mare ristretto come il Mediterraneo, a tratti, dominato dall’aviazione tedesca.

Sbarco di carri armati e materiale bellico durante la campagna del Nordafrica
Una foto che mostra lo sbarco di mezzi e materiale bellico

L’offensiva italiana e la controffensiva britannica

Nonostante una consistente superiorità numerica, allo scoppio delle ostilità la situazione tattica dell’Italia era difficile, essendo impegnata su due fronti: lungo il confine con l’Egitto e le truppe inglesi da un lato e, a 1.300 chilometri in linea d’aria, contro le colonie francesi dall’altro.

L’armistizio che segnò l’uscita francese dalla guerra risolse il problema e Mussolini cominciò a premere sul maresciallo Rodolfo Graziani, comandante supremo dell’Esercito in Libia (nominato dopo la morte di Italo Balbo), perché lanciasse un’offensiva in direzione del canale di Suez.

Il riluttante Graziani dovette alfine piegarsi alla volontà del duce: le truppe mossero all’attacco il 13 settembre del 1940. L’offensiva raggiunse Sidi el Barrani, dove si arenò immediatamente. Anzi, il generale inglese Archibald Wavell decise di prendere l’iniziativa e spinse il suo abile sottoposto, generale Richard O’Connor, a contrattaccare, sfruttando la piccola ma totalmente motorizzata forza, allora denominata Western Desert Force.

La 7a Divisione Corazzata, dotata degli allora efficienti carri armati Matilda, fu la punta avanzata dell’offensiva britannica che si esaurì soltanto dopo l’occupazione dell’intera Cirenaica (regione della Libia orientale).

Al termine dell’operazione, le perdite italiane ammontavano a 130.000 uomini, principalmente prigionieri, 845 cannoni e 380 carri armati. In sintesi, una disfatta.

L’arrivo dei tedeschi

L’evidente inferiorità di mezzi, operativa e dottrinale faceva apparire la situazione italiana talmente disperata che Mussolini, sia pure a malincuore, dovette cedere alle pressioni dell’alleato nazista e accettare l’invio di truppe di rinforzo dalla Germania.

La Regia Marina si rese allora protagonista di una delle più sottovalutate imprese dell’intera guerra, riuscendo a trasportare senza perdite le unità che presero il nome di Afrikakorps, la 5ª Divisione leggera poi seguita dalla 15a Panzer Division.

Gli uomini del generale Erwin Rommel furono pronti ad attaccare in primavera, nonostante lo scetticismo che imperava presso lo stesso Comando supremo della Wermacht, che avrebbe preferito un approccio difensivo finalizzato a puntellare la resistenza italiana e a scongiurare l’uscita dalla guerra dell’alleato.

L’audacia di Rommel, la superiorità qualitativa dei carri armati Panzer e dei cannoni antiaerei 8,8 cm Flak – spesso usati come armi anticarro – e l’eccellenza di soldati e ufficiali tedeschi, furono tra i principali fattori che determinarono l’inatteso successo dell’offensiva.

Non si può però trascurare anche la debolezza del sistema difensivo alleato: buona parte delle unità migliori erano state ritirate e inviate in soccorso dell’alleato greco, invaso dagli italo-tedeschi.

Di fatto, gli anglo-australiani furono respinti fino all’originale confine egiziano, riuscendo però a conservare l’importante piazzaforte di Tobruk che, rifornita dal mare resistette per molti mesi.

Operazione Crusader

Gli inglesi, che consideravano il Nordafrica un teatro bellico di primaria importanza, non potevano rassegnarsi alla situazione. Fu soprattutto l’energica volontà di Winston Churchill a determinare l’invio di cospicui rinforzi.

Nel maggio del 1941 venne avviata l’operazione Tiger: l’invio attraverso la pericolosa rotta del Mediterraneo di un convoglio di rifornimento con 250 carri armati. Grazie anche a questi rinforzi, fu possibile lanciare una limitata offensiva già il mese successivo (operazione Battleaxe).

I tedeschi si dimostrarono però pronti a riceverla: dopo limitati successi tattici britannici, passarono al contrattacco, riconquistando le posizioni perse al Forte Capuzzo, al passo Halfaya e nell’area di Sollum.

L’arrivo del generale Auchinleck

L’insuccesso irritò Churchill che decise di sostituire Wavell con il generale Claude Auchinleck. Presto, però, Londra entrò in rotta di collisione anche con il nuovo comandante: ad Auchinleck venne chiesta una nuova offensiva che, in tempi brevi, potesse cogliere un risultato risolutivo.

Auchinlek, invece, riteneva che le sue forze non fossero sufficienti per conseguire il successo; chiese così nuovi cospicui rinforzi, oltre che tempo per l’addestramento.

L’operazione Crusader venne così lanciata solo il 18 novembre 1941, non senza che da Malta fosse stata avviata una violenta e prolungata offensiva contro il traffico mercantile proveniente dalla Penisola e diretto in Nordafrica.

La situazione logistica dell’Armata italo-tedesca era quindi precaria; la scarsità di carburante era particolarmente sentita. Ciononostante, i tedeschi conseguirono i primi successi tattici, la cui importanza però Rommel sovrastimò.

Decise quindi di guidare personalmente un’offensiva; ma, una volta inoltratosi in territorio egiziano, subì pesanti perdite e si trovò isolato e nell’impossibilità di dirigere la battaglia.

Contemporaneamente, Auchinlek aveva sostituito l’irresoluto comandante della VIII armata con il generale Neil Ritchie, assumendo personalmente il comando della battaglia. La 2a Divisione neozelandese riuscì a raggiungere gli assediati a Tobruk, liberando la piazzaforte.

Epilogo dell’operazione Crusader

Nonostante qualche ulteriore e limitato successo tattico, alle truppe dell’Asse non rimanevano più che poche decine di carri armati, insufficienti ad opporsi alla marea montante alleata.

Entro dicembre, i tedeschi, lasciandosi dietro le truppe di guarnigione e molte unità di fanteria, avevano evacuato la Cirenaica ed erano tornate a difendere la Tripolitania.

Battaglia di Gazala

Agli alti comandi tedesco e italiano apparve subito chiara la principale causa della sconfitta di novembre: la carenza dei rifornimenti.

La neutralizzazione di Malta

Venne quindi ordinata un’intensificazione degli attacchi contro Malta e contro la Royal Navy.

Hitler ordinò quindi l’invio nel Mediterraneo di alcuni U-boat e del FliegerKorps II. Fu, in particolare, l’azione di quest’ultimo a rendere impossibile l’ulteriore utilizzo di Malta in funzione offensiva. Al culmine della battaglia, gli attacchi degli apparecchi del Maresciallo Albert Kesselring si ripetevano quotidianamente sull’isola, le cui popolazione e guarnigione erano ridotte a vivere in rifugi sotterranei con razioni sempre più scarse.

Una nuova offensiva tedesca

Ripristinata così la linea dei rifornimenti, Rommel poté ricevere quanto necessario a rimettersi in marcia. Il 21 gennaio, muovendo lungo una duplice direttiva, il contingente italo-tedesco ottenne la più completa sorpresa tattica.

Il 3 febbraio 1942 Rommel raggiunse l’imbocco del Golfo di Bomba, a poco più di 100 chilometri da Tobruk. In pochi giorni, gli inglesi avevano perso 370 carri e oltre 3.300 uomini.

Nonostante l’opposizione dei comandi italiano e tedesco, Rommel, che riteneva possibile raggiungere il delta del Nilo e Alessandria con una nuova offensiva terrestre, ottenne l’approvazione di Hitler e poté pianificare una nuova avanzata. Ottenne anche il massimo supporto di uomini e rifornimenti, parte dei quali vennero stornati dalle aliquote previste per l’operazione Herkules (o operazione C3), nome in codice per il progetto d’invasione di Malta.

Erwin Rommel con il suo staff nel 1941, nel deserto durante la campagna del Nordafrica
1941. Erwin Rommel con il suo staff nella guerra nel deserto. Il generale tedesco è storicamente noto con il soprannome di volpe del deserto.

Il 26 maggio 1942, Rommel riprese l’attacco contro la linea difensiva nemica, ancorata a Gazala. Le operazioni di aggiramento, benché dirette personalmente dalla “volpe del deserto”, incontrarono inizialmente una seria opposizione. Gli alti ufficiali britannici non riuscirono però a coordinare le loro azioni e dettero al nemico il tempo per riorganizzarsi.

Il 12 e 13 giugno ebbe luogo una grande battaglia di carri armati e la superiore capacità tattica tedesca ne determinò l’esito. L’VIII Armata rimase con soli 70 mezzi ancora efficienti e dovette ripiegare verso est, lasciando isolata Tobruk.

La piazzaforte era ancora ben difesa ma il morale delle truppe era basso. La resistenza si sfaldò presto: il 21 giugno Tobruk si arrendeva lasciando nelle mani dei tedeschi 33.000 prigionieri e grandi quantità di armi e rifornimenti.

La battaglia si sposta a El Alamein

Per arginare la crescente marea tedesca, i comandi di Alessandria decisero la ritirata fino a Marsa Matruh, predisponendo una seconda linea difensiva a El Alamein. I mezzi corazzati dell’Asse, ormai ridotti a solo 100 carri armati, raggiunsero la prima località la sera del 25 giugno.

Nonostante l’inferiorità numerica, impeto, audacia del piano, sorpresa e demoralizzazione del nemico, portarono ancora la vittoria. Non senza difficoltà, i resti della 8a Armata riuscirono a sganciarsi e raggiungere El Alamein.

Qui Rommel li raggiunse il 1° luglio 1942 e attaccò immediatamente. Stavolta però le sue forze erano troppo esigue e la posizione difensiva troppo forte. Il generale Auchinlek, impiegando inglesi, neozelandesi, indiani e sudafricani, respinse il nemico e sferrò locali contrattacchi.

Entrambe le parti si erano però dissanguate in oltre 2 mesi di combattimenti quasi ininterrotti e furono costrette ad attestarsi a El Alamein.

Winston Churchill nel deserto
7 agosto 1942: Winston Churchill nel deserto mentre osserva la posizione di El Alamein

La vittoria alleata

Churchill provvide a riorganizzare i quadri della campagna del Nordafrica, nominando il generale Harold Alexander comandante supremo e il generale Bernard Montgomery comandante dell’VIII Armata. Le forze del Commonwealth ottennero cospicui rinforzi, tra cui 300 carri armati M4 Sherman di produzione statunitense.

Una prima offensiva, condotta da Montgomery con grande impiego di artiglieria e fanteria, venne respinta nell’ultima settimana di ottobre. Ma il 2 novembre, Montgomery scatenò l’assalto decisivo.

La fanteria neozelandese riuscì ad aprirsi un varco nelle linee nemiche: attraverso questa falla si spinsero gli 800 carri armati del X Corpo d’Armata del generale Herbert Lumsden.

I tedeschi riuscirono ancora a combattere una battaglia di arresto, ma rimasero con soli 35 carri armati ancora efficienti. Il 4 novembre l’offensiva britannica riprese e, questa volta, non incontrò praticamente opposizione.

I resti dell’armata tedesca, ridotti a circa 22.000 uomini, si ritirarono definitivamente, lasciando che venissero catturate le unità appiedate, soprattutto italiane.

L’operazione Torch

L’8 novembre prese il via l’operazione Torch: al comando del generale americano Dwight Eisenhower, sbarcò in Marocco e Algeria un contingente anglo-americano, forte di oltre 100.000 uomini. La resistenza delle truppe coloniali francesi fu lenta e disorganizzata.

Il 9 novembre, l’ammiraglio François Darlan, comandante supremo della regione, decise di aderire alla causa degli Alleati; da quel momento cessò la resistenza organizzata, benché alcuni ufficiali rifiutassero di arrendersi.

Più efficace fu la resistenza tedesca, prima assicurata da una testa di ponte di reparti paracadutisti inviati a Tunisi e poi rinforzata dalla nuova 10 Panzer Division.

La cosiddetta “corsa a Tunisi” fu così vinta dall’Asse, le cui truppe entrarono nella città per prime, infliggendo anche dolorose sconfitte agli inesperti americani.

Questi sviluppi avevano però persuaso Rommel che la campagna del Nordafrica fosse ormai una causa persa. Nonostante ordini in contrario e aspre discussioni con il comando, diresse abilmente la lunga ritirata dei resti della sua armata fino alla Tunisia; da qui sperava di evacuare le esperte truppe, affinché combattessero ancora in difesa dell’Italia.

Montgomery poté quindi entrare a Tripoli il 23 gennaio 1943, completando la conquista della Libia.

L’epilogo della guerra nel deserto

Erwin Rommel aveva previsto di schierare le sue truppe lungo la linea del Mareth, fortificata dai francesi prima della guerra. Nel frattempo, il comando delle forze in Tunisia fu affidato al generale Hans-Jürgen von Arnim.

L’ultimo successo tedesco

Sfruttando l’inesperienza americana e il disaccordo tra gli Alleati, von Arnim inscenò alcuni contrattacchi locali coronati da successo, a dispetto della sensibile inferiorità di mezzi e uomini.

Nel frattempo era sopraggiunto anche Rommel, con i suoi veterani; i due generali tedeschi ottennero un significativo successo nella battaglia di Sid Bou Zid, annientando un centinaio di carri nemici.

A questo punto, prevalse il piano di Rommel che con le due divisioni corazzate attaccò verso il passo di Kasserine, con l’obiettivo di accerchiare le forze americane in Tunisia. Il 21 febbraio Rommel ottenne una vittoria completa e conquistò il passo.

Fu il canto del cigno: di fronte all’affluire dei rinforzi e al netto predominio nemico nel cielo, i tedeschi si ritirarono sulle posizioni di partenza. La campagna del Nordafrica stava per volgere al termine.

La vittoria finale degli Alleati

Il 20 marzo 1943 iniziò l’offensiva generale alleata. Le linee nemiche furono sfondate il giorno 26; gli italo-tedeschi cominciarono la ritirata.

L’8 aprile Americani e Britannici si congiunsero: al nemico era rimasto da difendere il perimetro attorno a Tunisi e Biserta, con poche decine di migliaia di uomini.

L’epilogo era vicino: a fine aprile gli Alleati lanciarono una nuova offensiva generale, l’operazione Vulcan. Agli uomini di von Arnim e del generale Giovanni Messe restava ben poco da opporre: cominciarono le rese in massa. I tedeschi si arresero l’11 maggio; gli italiani si arresero due giorni dopo, quando venne catturato il generale Messe.

Il successo alleato nella Campagna del Nordafrica si deve alle intelligenti decisioni strategiche e alla caparbietà di Winston Churchill; il primo ministro inglese nemmeno nei momenti più amari mise in dubbio la fondamentale importanza del teatro di operazioni per la complessiva strategia alleata, e alla enorme superiorità di mezzi di cui disposero i comandanti da Montgomery in poi.

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Il deserto dei Tartari: riassunto https://cultura.biografieonline.it/riassunto-deserto-dei-tartari-buzzati/ https://cultura.biografieonline.it/riassunto-deserto-dei-tartari-buzzati/#comments Mon, 04 Nov 2013 11:27:47 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8405 Il deserto dei Tartari è il romanzo più famoso di Dino Buzzati. Fu pubblicato nel 1940 in una collana diretta da Leo Longanesi, che per la casa editrice Mondadori si proponeva di raccogliere, in una serie di pubblicazioni, le opere più originali della letteratura italiana e straniera, biografie e memorie di uomini che avevano fatto la storia e libri di storia che raccontassero fatti e illusioni del passato e del presente.

Il deserto dei Tartari (Dino Buzzati)
Dal romanzo Il deserto dei Tartari è stato tratto l’omonimo film del 1976, diretto da Valerio Zurlini. Nella foto: una scena del film.

Quando Buzzati consegna il romanzo all’editore è il 1939: è giovane e da poco ha compiuto i 33 anni ma è già matura in lui la capacità di raccontare una storia esemplare per linguaggio e tessitura stilistica. Dal 1928 lavora al Corriere della Sera come giornalista e lì sviluppa l’idea del protagonista del romanzo, Giovanni Drogo, che passa i suoi anni migliori in una fortezza isolata nel deserto. Così gli appariva la ripetitiva vita da giornalista di cronaca fra le mura del quotidiano milanese, mentre i suoi colleghi invecchiavano nella speranza di fare carriera o di trovare uno scoop che cambiasse il percorso già tracciato della loro carriera.

Il deserto dei Tartari ebbe una notevole fortuna e fu tradotto in diverse lingue straniere, anche se in Italia, Buzzati, malgrado il successo di pubblico, incontrò una certa ostilità da parte dei critici che ne rivalutarono la figura solo dopo la morte.

Incipit del romanzo:

Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione.
Si fece svegliare ch’era ancora notte e vestì per la prima volta la divisa di tenente. Come ebbe finito, al lume di una lampada a petrolio si guardò allo specchio, ma senza trovare la letizia che aveva sperato.

Trama

Giovanni Drogo, protagonista del romanzo, dopo l’accademia militare e con il grado di tenente viene assegnato alla Fortezza Bastiani: una caserma fortificata nel mezzo del deserto dei Tartari. Luogo questo di invenzione narrativa ma che ricorda ambienti isolati tipici di alcuni quadri surrealisti e metafisici. Durante il viaggio di alcuni giorni verso la fortezza, Drogo incontra il capitano Ortiz, con il quale prosegue il viaggio.

Drogo viene istruito dal capitano sul fatto che molti cercano di andarsene dalla fortezza e che comunque di solito il servizio dura due anni e serve a molti per fare carriera. Drogo però non sa per quanto tempo dovrà rimanere in servizio alla Bastiani e quando vede la fortezza e la desolazione che la circonda, spera di andarsene al più presto. Viene, però, convinto dal maggiore Matti a fermarsi per almeno quattro mesi. In questo periodo Drogo scopre tutta l’amarezza del vivere in un luogo isolato, sperimenta una quotidianità ripetitiva dove nulla accade di nuovo.

I nemici, i Tartari, non appaiono mai all’orizzonte e quindi diventano una speranza di riscatto e gloria che col tempo tende ad assopirsi. Passati i quattro mesi, Drogo potrebbe andarsene ma è trattenuto dal farlo; oscure presenze, racconta Buzzati, gli impediscono di partire, parte di queste albergano nel suo animo. Cosa è successo?

Si sta abituando ad un’esistenza diversa da quella che aveva immaginato. La vita militare nella fortezza è cadenzata dallo stesso ritmo quotidiano, dagli stessi volti, dalle stesse ripetute ritualità e questo, malgrado tutto, ha un suo piccolo fascino. Un giorno per sbaglio viene ucciso da una sentinella il soldato Lazzari, perché non risponde alla sentinella, identificandosi con la parola d’ordine. Il soldato era andato a recuperare un cavallo.

In seguito avviene un altro lutto, il tenente Angustina muore di freddo durante una missione amministrativa. Missione che doveva incontrare una delegazione nemica mandata a stabilire i confini. Dopo molti mesi di servizio Drogo ottiene una licenza e ritorna nella sua città natale. La distanza fra lui, la madre e i suoi amici si fa più ampia, perché tutto gli sembra un po’ sbiadito. Gli amici hanno altre vite, la ragazza di cui si era invaghito nel passato, ha intrapreso un’altra strada e la madre è invecchiata. Non gli resta che tornare alla fortezza nella speranza che qualcosa di nuovo possa accadere.

In realtà molti suoi amici partono e a Giovanni rimane solo l’amicizia con Simeoni, il quale un giorno avvista movimenti all’orizzonte ed entrambi immaginano, eccitati, l’approssimarsi della battaglia. Ma non è così, i nemici stanno solo costruendo una strada.

Finale

Un giorno, dopo anni, i nemici si apprestano ad attaccare. La fortezza è tutto un brulicare di uomini in armi, arrivano rinforzi dalla città e finalmente tutti si preparano alla guerra, ma Giovanni è invecchiato e si è ammalato. Non lo possono quindi tenere lì mentre fervono i preparativi per la battaglia. In una carrozza, solo, viene portato in una stanza d’albergo e lì comprende che la sua vita non è stata vana e che l’ultima missione, la prima e ultima battaglia della sua vita, dovrà combatterla con la morte. Mantenendo quella dignità che lo ha contraddistinto per tutta la vita.

Dino Buzzati
L’autore Dino Buzzati al lavoro

Altre considerazioni

Punti fondamentali del romanzo sono lo stile narrativo, lirico e preciso, in cui ogni parola evoca non solo un’immagine ma uno stato d’animo. E la trama, un racconto con spunti autobiografici ma soprattutto una storia che rappresenta con straordinaria profondità la parabola di un’esistenza.

Spesso il libro trascina il lettore in uno stato d’animo annichilito dalle vicende del protagonista, in cui si riflette un’esistenza comune, legata soprattutto alla monotonia del lavoro e degli impegni sociali. Ma a ben guardare “Il deserto dei Tartari” racconta l’animo umano e il suo adattarsi alle circostanze, oltre a rappresentare la trasformazione delle aspettative e delle ambizioni dell’uomo di fronte alla realtà della vita quotidiana, la cui bellezza si esprime in piccoli gesti e in piccoli atti che con dignità il protagonista svolge fino alla fine.

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