Cimabue Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Sat, 14 Jan 2017 16:25:32 +0000 it-IT hourly 1 Maestà di Santa Trinita, opera di Cimabue https://cultura.biografieonline.it/maesta-santa-trinita-cimabue/ https://cultura.biografieonline.it/maesta-santa-trinita-cimabue/#comments Tue, 05 Apr 2016 09:46:49 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17620 La “Maestà di Santa Trinita” (1280), realizzata da Cimabue per la chiesa di Santa Trinita di Firenze, patì gli esiti di vicende complesse, legate alle vicissitudini della chiesa ospitante e di una nicchia culturale di estimatori forse troppo tardiva. La complessità delle opere di Cimabue colpisce ogni tipo circostanza analitica, stagliandosi nell’orbita di un’emozionalità connaturata nello spirito religioso del motivo della reale e sacra figura madonnale accompagnata dal Bambino.

Maestà di Santa Trinita - Cimabue
Maestà di Santa Trinita – opera di Cimabue databile tra il 1290 e il 1300 • Tempera su tavola; dimensioni: 385 x 223 cm

Nella completa comprensione del Trecento fiorentino, quale proscenio di lunghe e fulgenti rinascite artistiche, è facile dedurre il ruolo anticipatore di un’ arte non più rigidamente bizantina, ma nata progressivamente dalle intuizioni dei grandi protagonisti della Firenze guelfa e ghibellina.

Anche questa volta la Galleria degli Uffizi di Firenze si raffigura come luogo sacro alla custodia di un ennesimo capolavoro artistico, nell’uso di direttive espositive volte a far emergere le sottili linee evolutive che raffrontano la tabula cimabuesca con la “Madonna Rucellai” (1285) di Duccio di Buoninsegna e la “Maestà di Ognissanti” (1310) di Giotto.

Genesi dell’opera

Nell’attenta analisi cronologica e tecnica dei “primitivi” senesi e fiorentini, emerge il netto contrasto, in termini valutativi, grandemente operante nel contesto dotto dell’opera di committenza delle grandi cerchie religiose nei confronti di un avanguardismo pittorico nascente, e di un apprezzamento tardivo rispetto alla tangibile pregevolezza dell’opera.

I grandi capolavori di Cimabue subirono, in via quasi del tutto esclusiva, una sorte favorevole, in una completa combinazione tra il riconoscimento dell’ingegno tecnico e la conseguente approvazione da parte del pubblico contemporaneo. Un’eccezione affiora proprio dallo studio dei percorsi che legano la pala lignea della Maestà di Santa Trinita alle varie collocazioni, a partire dal periodo successivo alla sua destinazione originaria:

Avendo poi preso a fare per i monaci di Vall’Ombrosa nella badia di Santa Trinita di Fiorenza […] la qual tavola finita fu posta da’ quei monaci in sull’altar maggiore di detta chiesa, donde essendo poi levata, per dar quel luogo alla tavola che v’è oggi di Alesso Baldovinetti, du messa in una cappella minore della navata sinistra di detta chiesa.  (Vasari)

Da questo breve estratto vasariano sembra che al momento della sua realizzazione, la “Maestà di Santa Trinita” di Cimabue, dopo la prima fase di consenso, avesse perso il fascino nativo del dorato culto ieratico della Madonna col Bambino al di là della “maniera” bizantineggiante, almeno fino al 1471, quando venne crudelmente rimpiazzata dalla “Trinità con San Benedetto e San Giovanni Gualberto” del fiorentino Alesso Baldovinetti, per raggiungere le infauste sorti di una collocazione di minore influenza in cappelle di ordine secondario o addirittura destituita ad opera di manchevole fattura all’interno dell’infermeria del monastero.

La tabula lignea della “Trinità con San Benedetto e San Giovanni Gualberto”, realizzata per la famiglia Gianfigliazzi, nelle persone di Messer Giovanni e Messer Gherardo, testimonia agli occhi dei critici moderni il venir meno delle capacità immaginative dell’artista fiorentino, raffigurandosi, di fatti, come opera comparativa di forte contrasto rispetto all’ingiusta sorte toccata alla pala cimabuesca, quale cardine primo nell’esatta funzione di superamento della “scabrosa, goffa e ordinaria […] maniera greca (bizantina)“.

Il ruolo dei “primitivi”, che, nel paradigma storiografico rinascimentale, avevano precorso Michelangelo Merisi, Raffaello Sanzio e gli altri grandi esponenti del Cinquecento italiano, subì un’incredibile riconsiderazione tra il Settecento e l’Ottocento, grazie all’opera dei grandi collezionisti europei e nostrani; tale atteggiamento rivalutativo destò la sopita attenzione verso l’ormai dimenticata pala di Cimabue che, nel 1810, raggiunse l’Accademia fiorentina, per variare nuovamente destinazione un secolo dopo, con la disposizione dell’attuale allestimento dei “primitivi“, nella Galleria degli Uffizi.

Maestà di Santa Trinita: note tecniche e descrittive

La “Maestà di Santa Trinita” risulta essere, più del “Crocefisso” rovinato di Santa Croce, l’opera più remota dell’artista “tirato dalla natura“, la cui

unica data sicura nel Duecento, al 1272 a Roma, senza essere collegata a nessuna opera, ci pone di fronte a una pittura che quasi nasce di colpo, armata come Minerva dalla testa di Giove.
(Brandi).

Anche nell’ingegnosa considerazione che tale pala dovesse seguire gli affreschi superiori della Chiesa di Assisi – terminati nel 1283 – si dovrebbe porre la genesi di tale capolavoro in un periodo antecedente il 1285, ovvero alla fase di realizzazione della “Madonna Rucellai” da parte di Duccio di Buoninsegna, che in maniera evidente segue l’esempio ligneo e non precede la sublime Maestà di Cimabue.

L’opera attesta una fase compiutamente matura del pittore fiorentino che, in un’armoniosità lontana dallo stile di Coppo di Marcovaldo e della pittura paleologa, portò in sé, per la prima volta, un’evoluzione stilistica e una pienezza riscontrabili solo nella Maestà della Chiesa inferiore di San Francesco di Assisi, nella “Maestà di Santa Maria dei Servi“, nella Maestà pisana del Louvre (1280) e nel San Giovanni a mosaico dell’abside del duomo di Pisa, dove si assiste all’attenuazione delle aspre regioni facciali tipiche di Cimabue; tale alterazione lascia pensare ad un adeguamento all’arte di Duccio di Buoninsegna nell’uso del colore, sia al codice giottesco relativo all’uso dei trapassi luminosi e levigati.

Nella tabula di Santa Trinita, la solennità del trono architettonicamente emergente dal fondo oro s’impone immediatamente alla vista dell’osservatore, “al punto che, più che una pittura, sembra quasi la facciata di una cattedrale” (BRANDI).

L’immagine ieratica si presenta solidamente frontale, rigidità rigorosa che si interrompe solo nel momento sacro in cui la Madonna ripiega delicatamente il viso indicato l’infante Redentore.
Il trono, contrariamente a ciò che si assiste nella “Maestà di Parigi” e nella “Madonna Rucellai”, risulta essere grandiosamente frontale, incurvandosi nella parte centrale, piuttosto che avanzante sul suppedaneo.

Questa serie di dettagli tecnici designano l’immensa abilità dell’artista di effettuare una rigenerazione dei vecchi schemi, come si configura appunto quello frontale; talento riscontrabile nella stessa capacità di traslare il chiaroscuro paleologo da “semplice oggettivazione dell’immagine a robusta espressione plastica del volume” (BRANDI), in una complessa e insigne monumentalità ravvicinante alla figura di Giotto, anche se dal punto di vista del codice formale la pittura di Cimabue sia lontanissima da quella di Giotto.

Un’altra caratteristica degna di nota è lo straordinario uso delle bizantine gradazioni cromatiche sulle ali degli angeli che, in questo frangente, assumono una funziona differente che in Pietro Cavallini, conferendo quella funzionalità plastica modulante i volti e le pieghe prismatiche dei vestiti.

La sacra raffigurazione è espressa secondo un preciso e fondamentale registro volumetrico, dato da una spazialità caratteristica, quale etere da cui da cui si sviluppa l’immagine e non quale luogo contenente l’immagine.

E’ interessante notare come nel piedistallo del trono delle striature auree tendano a convergere verso un unico punto, allo stesso modo il piedistallo genera al centro un’ esedra concava che indirizza sul piano posteriore la composizione.

Nelle altre Maestà il suppedaneo svolgeva una funziona differente, verticalizzando la composizione sull’orlo del quadro piuttosto che protrarla avanti.

Cimabue
Cimabue

Appare evidente quanto la sottigliezza gotica del trono della Madonna Rucellai abbia influenzato la spazialità di Cimabue, esibendo un’idea di spazialità retrostante all’immagine, in cui l’immagine emerge nei suoi volumi corposi.

L’enfasi della cromaticità plastica delle ali è confermata dall’universale uso di una tonalità bassa nel dipinto, in cui, a parte il profeta David, tutti gli altri colori sono sottotono.

Non è dunque un’opera bizantina nell’uso dei colori, ma si configura come l’esaltazione di un tema plastico già trattato da Nicola Pisano, e che si rivelerà fondamentale come retroscena di Giotto.

Note Bibliografiche
A. Tomei, Cimabue, Giunti Editore, Firenze, 1997
C. Brandi, Scritti d’arte, Bompiani, Milano, 2013
G. Vasari, Le opere di Giorgio Vasari pittore e architetto aretino, Davide Passigli e soci, Firenze, 1832 – 1838

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Madonna Rucellai https://cultura.biografieonline.it/madonna-rucellai/ https://cultura.biografieonline.it/madonna-rucellai/#comments Fri, 11 Mar 2016 11:35:45 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17296 http://cultura.biografieonline.it/maesta-santa-trinita-cimabue/Duccio di Buoninsegna (1255 – 1319) trovò, nella sua naturale inclinazione indocile, il fertile campo in cui sviluppare le prime innovazioni della pregevole arte toscana, in particolar modo senese e fiorentina, degli ultimi anni del Duecento. La “Madonna Rucellai” (1285) rientra nella produzione “primitiva” universalmente valutata come lo snodo fondamentale per comprendere un’ arte complessa, placcata di una ricchezza bizantina nell’ampio raggio di una nascente arte gotica.

Madonna Rucellai - dettaglio
Madonna Rucellai (o Madonna dei Laudesi) – dettaglio della Madonna con il bambino

Realizzata in un primo momento per la cappella della Confraternita dei Laudesi, conosciuta un tempo come Cappella Bardi, raggiunse la cappella Rucellai nel 1591, per fissare per sempre il proprio appellativo a quello della nota famiglia fiorentina.

La tavola è attualmente custodita nella Galleria degli Uffizi dove, in presenza della “Maestà della Santa Trinità” (1290 – 1300) di Cimabue e della “Maestà di Ognissanti” di Giotto (1310).

La ”Madonna Rucellai” contraddistingue in valore e intensità un periodo tediato da equivoci di forma interpretativa, molto spesso provocati dalla mancanza di precisi riferimenti storici e dalle convinzioni fin troppo radicate nell’erudito mondo accademico.

La pala Rucellai ha il potere di riportare anche lo spettatore più inesperto alla cognizione di una fase fondamentale dell’arte italiana, quale momento primordiale da cui si irradiò l’ascendente e l’autorevolezza della cultura duecentesca, verso i confini sempre più ampi della nascita di un’arte gotica e infine rinascimentale.

Maestà di Ognissanti - Giotto
Maestà di Ognissanti (Giotto)

Genesi del dipinto “Madonna Rucellai

La Madonna col Bambino e sei angeli” riversa gran parte delle problematiche interpretative nel bacino più complesso della collocazione – ormai superata – nell’ampio margine d’appartenenza a uno dei massimi protagonisti della grande rosa d’artisti senesi e fiorentini della fine del XIII secolo, svincolando la ricerca dalle boriose indagini volte a stabilire i trascorsi e le mete passate della pala lignea che, indiscutibilmente e certamente, subì delle sorti favorevoli e facilmente inquadrabili in un preciso tessuto cronologico e geografico.

La “Madonna Rucellai” fu commissionata a Duccio di Buoninsegna dalla Compagnia dei Laudesi di Santa Maria Novella, a Firenze. Dopo la realizzazione, del 1285, venne spostata dalla cappella Rucellai, nel transetto destro, simmetricamente posta rispetto alla cappella Strozzi di Mantova.

Madonna Rucellai (Duccio di Buoninsegna)
Madonna Rucellai (Duccio di Buoninsegna) – Tempera su tavola, 450×290 cm. E’ collocata presso gli Uffizi di Firenze, in una sala scenografica assieme alla Maestà di Santa Trinità di Cimabue e alla Maestà di Ognissanti di Giotto.

Note tecniche e descrittive

Vasari ricorda come la tavola si presentasse

“qual opera […] di maggiore grandezza, che figura vi fusse stata fatta insin e quel tempo”,

ovvero come la tavola più grande conseguita fino a quel momento.

La divina rappresentazione risentì fortemente della meticolosità cromatica e descrittiva del gotico francese, assumendo una posizione di emergente risalto rispetto alla maniera bizantina: le tenui gradazioni dell’acceso cromismo senese, nell’insieme delle esatte pieghette dei drappeggi, conferiscono quella profondità essenzialmente nuova e lontana dal prezioso e piatto oro della lumeggiatura ad agemina.

Nella tavola, la cornice viene elevata dal suo modesto ruolo decoratore a parte integrante della pala lignea, figurandosi al pubblico nella preziosità dell’oro e della minuziosità incredibilmente realistica dei clipei raffiguranti alcuni personaggi biblici e certuni santi domenicani, compreso San Pietro Martire, il fondatore dei Laudesi.

La Madonna spicca nell’eterna luce di un ambientazione divina e incorrotta, nel trono in tralice evoca l’affetto per l’infante Redentore attraverso un gesto che non si esprime nella movenza ma nella sua inviolata natura.

Il mantello dal blu fosco e adornato dall’oro e nella sua bellezza esaltato dalla luce divina che, in un incredibile accorgimento tecnico, fa emerge una profondità del tutto nuova grazie all’espediente del ginocchio sporgente.

I sei angeli, in una posa irrealistica, appaiono inginocchiati al fianco del Vergine in evidente contrasto con la soluzione adottata da Cimabue.

Maestà della Santa Trinità - Cimabue
Maestà della Santa Trinità (Cimabue)

Influenze e differenze

La “Madonna Rucellai” fu ritenuta per ben tre secoli opera di Cimabue poiché essa rappresenta il massimo punto di vicinanza tra i due artisti. Nel dibattito sulla reale paternità della “magna tabula” è

“sì, opera di Duccio, e non di Cimabue, ma Duccio è uno scolaro, anzi un “creato”, di Cimabue” (CARLI).

Se è dunque vero che l’influenza di Cimabue sia stata indiscussa e consistente sulle componenti della cultura di Duccio, appare in ogni caso evidente l’enorme divario tra i due protagonisti dei Duecento fiorentino e senese: la “Maestà di Santa Trinità” di Cimabue (1280), nella sua severa solennità, esclude ogni possibilità di una maturazione in senso gotico, la “maniera” verso la quale era già nei primordi orientato il bizantinismo di Duccio.

La controversia sull’autore: un approfondimento

I vaghi ricordi documentari assegnati al pittore senese, tributarono un percorso accidentato e lacunoso, ostacolando, di fatti, una ricostruzione accurata del periodo antecedente il 1278 e di ciò che costituì il tessuto biografico e l’eredità, in termini concreti di capolavori, lasciata ai posteri.

E’ dunque vero che, in questo cammino a ritroso sui sentieri della ricerca filologica, è stato possibile assolvere l’arduo compito di riparare ai danni di una falsa attribuzione, che per secoli aveva indotto chiunque si affacciasse sul mondo della storia dell’arte ad attribuire la ben nota “Madonna Rucellai” al fiorentino Cenni di Pepo, Cimabue (1240 – 1320).
Un errore arroventato dall’aggravante di un responsabile noto e celebre: Giorgio Vasari (1511 – 1574).
Nel trattato “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori” (1550), nel profilo biografico consacrato a Cimabue, Vasari cita quest’ultimo come chi

“Fece poi per la Chiesa di Santa Maria Novella la tavola di nostra Donna, che è posta in alto fra la cappella de’ Rucellai e quella de Bardi da Vernio” (VASARI).

Vasari nella biografia dedicata a Cimabue procede nell’analisi della pala lignea, riconoscendo nel suo autore la perspicacia nel aver saputo combinare la maniera bizantina (“greca”) a quella moderna.

L’attendibilità della falsa assegnazione vasariana fu inoltre suggellata da un curioso aneddoto: il biografo riferisce che la creazione di Cimabue colpì così tanto l’interesse “de’ popoli di quell’età” che re Carlo il Vecchio d’Angiò, passando dall’orto presso cui soleva dipingere Cimabue, lusingò il pittore della sua visita; l’arrivo del re spinse tutti gli uomini e le donne di Firenze ad ammirare la pala “con grandissima festa e la maggior calca del mondo“. L’allegrezza decretata da una così nobile visita e dall’entusiasmo di un’opera così eccellente portò ad intitolare il borgo con il nome di “Borgo Allegro“.

Nel 1790 venne pubblicato il primo documento di allogazione attestante il vero autore della “Madonna Rucellai“: la divulgazione del testo in forma aggiornata non riscosse nessun interesse in ambito culturale, tant’è che la tavola continuò ad essere assegnata a Cimabue anche in seguito alla ripubblicazione del Milanesi nel 1854.

La questione ritornò in auge nel 1899 grazie all’erudizione del viennese Franz Wickhoff (1853 – 1909), per rifinire nuovamente nell’oblio con la riaffermazione dell’ipotesi legata a Cimabue o ad un ipotetico “Maestro della Madonna Rucellai“, definito come seguace di Duccio sotto l’influenza di Cimabue o come un seguace di Cimabue sotto l’influenza di Duccio.

La rivendicazione si concretò solo nel 1930, quando il tedesco Curt H. Weigelt dimostrò inconfutabilmente che la tavola del 1285 era opera di Duccio di Buoninsegna, avendovi riconosciuto nella cornice il ritratto di San Pietro Martire, fondatore della Confraternita dei Laudesi da cui Duccio ricevette la commissione.

Note Bibliografiche
E. Carli, I maestri del colore – Duccio, Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1963
G. Vasari, Le opere di Giorgio Vasari pittore e architetto aretino, Davide Passigli e soci, Firenze, 1832 – 2838

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