La Legenda Aurea (spesso italianizzata per assonanza in Leggenda Aurea – con due g) è una raccolta di biografie agiografiche (vite dei santi) risalente al Medio Evo.
Fu composta in latino dal frate domenicano e vescovo di Genova, Jacopo da Varazze.
Nella Legenda Aurea un capitolo è dedicato proprio a San Giorgio: da questa leggenda nacque il mito di Giorgio e numerosi ordini cavallereschi a lui ispirati.
Si racconta che in una città della Libia di nome Selem vi fosse uno stagno di grandi dimensioni in cui si nascondeva un drago. La creatura, con il suo fiato, era in grado di uccidere chiunque.
Per placare la sua ira e sopravvivere, gli abitanti del posto erano soliti offrirgli due pecore ogni giorno. Ben presto però i capi di bestiame iniziarono a diventare pochi. Così il popolo decise che l’offerta quotidiana dovesse essere composta da una pecora e un giovane estratto a sorte.
Un giorno, a essere estratta fu la principessa Silene, la giovane figlia del re. Egli, spaventato, offrì a metà del regno il proprio patrimonio: il popolo, tuttavia, non accettò lo scambio, visto che già tanti giovani erano periti per colpa del drago.
Nonostante diversi tentativi e numerose trattative che si erano protratte per giorni e giorni, alla fine il monarca fu costretto a cedere. Così Silene si avviò verso lo stagno.
Mentre procedeva incontro al suo infausto destino Silene si imbatté in Giorgio. Il giovane cavaliere, venuto a sapere del sacrificio che di lì a poco si sarebbe compiuto, promise alla ragazza, tranquillizzandola, che sarebbe intervenuto per farla scampare alla morte.
Disse quindi alla principessa di avvolgere al collo del drago la sua cintura, senza timore.
In effetti, così facendo la fanciulla riuscì a convincere la bestia a seguirla verso la città.
La popolazione fu sorpresa nell’osservare il drago così vicino, ma ci pensò Giorgio a infondere loro fiducia, riferendo che era stato Dio a mandarlo ivi per sconfiggere l’ira del drago.
Il mostro sarebbe stato ucciso solo se gli abitanti avessero abbracciato il cristianesimo e si fossero fatti battezzare.
Così avvenne: la popolazione si convertì, e anche il re. Il cavaliere Giorgio uccise il drago, il quale fu trascinato da otto buoi e portato fuori dalla città.
Questa leggenda nacque all’epoca delle Crociate, derivante con tutta probabilità da un’immagine trovata a Costantinopoli che ritraeva l’imperatore cristiano Costantino intento a schiacciare un drago enorme con il piede.
In epoca medioevale, poi, la lotta di San Giorgio contro il drago (e quindi la Leggenda Aurea) è stata scelta come simbolo della lotta tra il bene e il male. Ecco perché il culto del santo è cresciuto non solo in Occidente, ma anche nell’Oriente bizantino, dove compare con la definizione di “tropeoforo“, cioè “il vittorioso”, “il trionfatore”.
Oggigiorno sono numerosi gli Ordini cavallereschi che portano il nome di San Giorgio, dal Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio all’Ordine Teutonico; dall’Ordine della Giarrettiera all’Ordine Militare di Calatrava.
]]>Il personaggio di Agilulfo esiste solo come figura che deve adempiere alle regole e ai protocolli di cavalleria. Il cavaliere rappresenta “il simbolo dell’uomo ‘robotizzato’, che adempie a tutti gli atti burocratici con quasi assoluta incoscienza”. Il cavaliere inesistente sopravvive solo grazie alla sua indomabile forza di volontà.
L’uomo non presenta più la dimensione dell’essere, ma comunque la sua volontà indomita lo rende un personaggio mitico. L’idea della confusione della propria identità con quella degli altri e con il mondo esterno è un tema costante della poetica di Italo Calvino e la si nota nel personaggio di Gurdulù (scudiero di Agilulfo) che non possiede una precisa coscienza di sé e del mondo, tendendo inoltre ad identificarsi con tutto ciò che gli sta attorno.
Il personaggio che meglio rappresenta “l’unione”, il “punto di incontro” tra Gurdulù e Agilulfo è Rambaldo. Il ragazzo viene descritto da Calvino da una parte come una persona razionale e dall’altra parte come un individuo che si lascia guidare dal suo cuore.
Un altro tema predominante nell’opera di Calvino è quello “dell’essere e dell’apparire”. Lo si denota nel cavaliere inesistente, in Suor Teodora e in Gurdulù.
Calvino, nella sua opera, si sofferma anche su altre tematiche, quali la consapevolezza di sé stessi, la formazione dell’essere ed infine la ricerca interiore.
Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l’esercito di Francia. Carlomagno doveva passare in rivista i paladini. Già da più di tre ore erano lì; faceva caldo; era un pomeriggio di prima estate, un po’ coperto, nuvoloso; nelle armature si bolliva come in pentole tenute a fuoco lento. (INCIPIT)
La trama del romanzo narra le vicende di un cavaliere inesistente che si chiama Agilulfo (ricordato solo per la lucida armatura vuota) e del giovane Rambaldo di Rossignore, arruolatosi per vendicare la morte di suo padre, il marchese Gherardo di Rossignore ucciso dall’argalif Isoarre. Il giovane Rambaldo riesce nell’intento di sconfiggere l’assassino di suo padre ma viene in seguito condotto in una trappola da due infedeli. Per sua fortuna, arriva in suo soccorso un soldato che riesce a sconfiggere i due infedeli. A quel punto, Rambaldo vuole conoscere il suo salvatore scoprendo così che il cavaliere misterioso è in realtà una donna, che si chiama Bradamante e di cui si innamorerà perdutamente. La donna viene descritta come un’amazzone sempre precisa, vestita di tutto punto e infatuata del cavaliere inesistente.
Nel frattempo, l’esercito di Carlo Magno, che è pronto ad insorgere contro gli infedeli, si imbatte in un povero contadino che si chiama Gurdulù, che in seguito verrà affidato dallo stesso Carlo Magno come scudiero ad Agilulfo.
La vicenda si sblocca grazie alle scioccanti rivelazioni del giovane Torrismondo, che mette in dubbio la liceità del titolo del cavaliere inesistente che anni fa aveva salvato la vergine Sofronia, figlia dei duchi di Cornovaglia da due briganti e, all’epoca, salvare una donna pura valeva la nomina di paladino. A quel punto, il cavaliere inesistente si vede così costretto a portare all’Imperatore Carlo Magno delle prove certe sulla liceità del suo titolo. Parte alla ricerca di Sofronia, seguito a ruota dal suo fedele scudiero, da Bradamante infatuata di lui e da Rambaldo (innamorato di lei). Nella stessa sera, anche Torrismondo parte alla ricerca di suo padre, ovvero uno dei cavalieri de “Il Sacro Ordine dei Cavalieri del Santo Graal”.
Dopo varie peripezie che lo portano prima a cercare la donna in Scozia e poi in Marocco, Agilulfo trova finalmente Sofronia. A quel punto, Agilulfo decide di portare la donna nei pressi del campo di battaglia dei Franchi, per raccontare a Carlo Magno la verità sull’accaduto passato, ma la situazione precipita quando Torrismondo, recandosi nei pressi della caverna dove si era nascosta la sua presunta madre Sofronia, cede insieme alla donna alla passione amorosa. A questo punto Agilulfo non può più provare la verginità della donna e Torrismondo commette un grave errore che gli costerà la conseguente perdita del titolo.
Nel finale, si scopre che Torrismondo è figlio della regina di Scozia e del Sacro Ordine, mentre Sofronia è figlia del re di Scozia e di una contadina. I due possono vivere il loro amore felici e contenti. A questo punto, Agilulfo, convinto di non poter mai confermare la validità del suo titolo di cavaliere, decide di togliersi la vita, senza così mai venire a conoscenza della verità. Agilulfo in ultimo lascia in eredità la sua bianca armatura al giovane Rambaldo. Il finale è epico. Rambaldo si incontra con Bradamante che, scambiandolo per il cavaliere inesistente cede alle sue lusinghe, ma appena scoperto l’inganno, Bradamante decide di tornare alla vita della clausura in convento. Nel finale del romanzo, Rambaldo parte alla volta del monastero per convincere Bradamante a fuggire con lui. A narrare l’intera vicenda del romanzo è una monaca, suor Teodora, che solo nel finale confessa la sua vera identità, ovvero di essere Bradamante.
Il successo dell’opera fu evidente tanto che, nel 1971, Pino Zac realizzò un film in tecnica mista intitolata appunto “Il Cavaliere inesistente”. Lo stesso regista Sergio Leone pensò a sua volta, visto il successo dell’opera, di girarne un film omonimo.
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Usare l’espressione “spezzare una lancia a favore di” significa oggi, in via generale, sostenere. Volendo rintracciare situazioni più specifiche, possiamo notare come questo modo di dire sia molto in uso nella dimostrazione di un supporto a livello verbale verso una tesi o una persona che si fa portatore di una tesi.
L’espressione spezzare una lancia può essere utilizzata anche nell’accezione di aggiungere una nota positiva nella discussione sulla persona stessa, più generalmente, e sulla sua stessa reputazione. Insomma, con l’utilizzo di questo modo di dire, ci facciamo sostenitori di qualcuno o qualcosa che richiamiamo, perché pertinente, nel nostro discorso.
Questa espressione ha fatto un lunghissimo viaggio nel tempo. Senza saperlo quando diciamo “spezzare una lancia a favore di” andiamo a smuovere un capitolo della storia umana ormai lontanissimo. Si tratta del mondo delle corti, dei signori e dei loro cavalieri. Parliamo del Medioevo.
Divenire cavalieri, nel Medioevo, significava abbracciare un codice di comportamento ben specifico e, altresì, uno stile di vita particolare. I cavalieri, infatti, venivano investiti di una serie di doveri fra cui, in primis, quello di difendere il proprio sovrano. Ma non si trattava solo di questo.
Quella del cavaliere – pensiamo anche nella letteratura – è la figura che simboleggia il valore e, per traslato, la difesa dei più deboli, che fossero più o meno impegnati nella battaglia.
Questo atteggiamento insito nella figura del cavaliere rende bene a livello iconico l’idea del lanciarsi avanti nella battaglia, contro il nemico, con una foga tale da spezzare la propria lancia.
Perché?
Per difendere, per sostenere ora il sovrano, ora chi veniva vessato in vario modo da quello che ben presto diveniva il nemico.
Tale prassi, tutta interna al ruolo del cavaliere, si può legare non solo al momento puro e utile della battaglia, ma anche a quello dei tornei medievali, delle giostre, dell’esercizio delle armi. In questo quadro, l’espressione spezzare una lancia assume una sfaccettatura in più.
Resta sempre valido il principio di lanciarsi a difesa di qualcuno al punto da spezzare la lancia, ma si insidia anche il significato più ampio, ma più realistico, del lanciare la sfida stessa o per lo meno del dichiararsi pronti a battersi.
Poco cambia, in fondo, nella trasposizione odierna: che sia in difesa dei più deboli o in attacco per sé stessi e per il proprio valore, resta chiaro il concetto del buttarsi in prima linea per sostenere attivamente qualcuno o qualcosa.
I primi tornei medievali, anche detti giostre, risalgono al IX secolo. Nacquero corredati di un preciso cerimoniale e di un codice d’onore molto puntuale. Vi partecipavano attivamente, sfidandosi, anche aristocratici e sovrani. Lo scopo ultimo era il far festa d’armi e il praticare l’arte della guerra.
Questa tradizione, in Italia, è stata riesumata, per lo più, nel ventennio fascista e sopravvive ancora. Sono numerose le città, su tutta la penisola, che ogni anno si misurano in rievocazioni storiche di grande bellezza e pregio, note in tutto il mondo, fra palii, giostre e quintane.
]]>Il cavaliere è un’ancora di salvezza, messaggero di una nuova era in cui il bene trionfa sul male. La figura del cavaliere inoltre assume un doppio significato, non rilegandosi solo nella figura dell’eroe romantico: essa diventa simbolo della missione dell’artista, una lotta contro le convenzioni artistiche per far valere la libertà dell’arte astratta. “Come tutti i bambini, mi piaceva enormemente cavalcare. Per accontentarmi, il nostro cocchiere mi foggiava a guisa di cavallo bastoni sottili da cui ritagliava strisce di corteccia a spirale (…)” diceva l’artista.
E ancora: “Quando mia zia giocava insieme a me con i cavallini, avevamo entrambi una preferenza spiccata per un cavallo color Isabella macchiato di ocra e con una criniera gialla chiara. Seguivamo un severo regolamento che ci dava a turno il diritto di farlo correre, una volta con il suo fantino e una volta con il mio. Ancora oggi la mia passione per i cavalli di quel pelame non è scemata e provo sempre lo stesso piacere a vederne uno che ritorna tutti gli anni nelle vie di Monaco. Compare quando si cominci a innaffiare le strade. Sveglia il sole che vi è in me… E’ immortale. Lo conosco da quindici anni e non diventa mai vecchio. E’ una delle prime impressioni, la più intensa da quando mi sono fermato a Monaco. Me ne stavo a seguirlo con lo sguardo e una promessa inconscia ma piena di sole vibrava nel mio cuore. Trasformava il cavallino di piombo della mia infanzia in una creatura viva, collegando così Monaco con i miei primi anni di vita.”
In “San Giorgio II“, il cavaliere è rappresentato come “il messaggero della nuova era in cui il bene trionfa sul male, il rinnovamento sulla tradizione, lo spiritualismo sul materialismo“. Si tratta di un olio su tela di centimetri 107 x 95, realizzato nel 1911 e conservato al museo di Stato Russo a San Pietroburgo.
San Giorgio è il santo della Cappadocia che riesce a liberare la principessa uccidendo un drago molto feroce. Nella sua rappresentazione, Kandinsky gli conferisce significati spirituali e religiosi. È composto da una enorme linea diagonale gialla, che raffigura appunto la lancia del santo che va ad conficcarsi nelle fauci del drago, di cui si vede anche la cresta.
Una mescolanza di colori chiari e scuri sviluppano il dipinto, colori caldi e freddi, conferendogli un gioco di dissonanza:
La dissonanza pittorica e musicale di oggi non è altro che la consonanza di domani
spiegava l’artista. Ma ciò rende il dipinto in perfetta armonia: è quello su cui puntava appunto Kandinsky, utilizzando forme e colori.
]]>La vita di Chrétien de Troyes risulta purtroppo ben poco definita in quanto in gran parte ricavata dalle antiche quanto brevi introduzioni che precedevano i suoi capolavori: operò nella corte di Troyes tra il 1160 e il 1180, sotto la protezione di Maria di Champagne, per poi essere accolto successivamente nella corte d’Alsazia di Filippo I (1143 – 1191), conte di Fiandra, tra il 1175 e il 1190.
Chrétien de Troyes scrisse canzoni d’amore alla maniera dei trovatori e cinque romanzi:
Nel V secolo d.C. le invasioni barbariche misero duramente alla prova la stabilità dell’Impero Romano d’Occidente. Nel tentativo di frenare l’ondata distruttiva dei Visigoti verso Roma intorno al 410 d.C. , l’esercito Romano decise di abbandonare la Britannia e di riunirsi ai contingenti già presenti nella penisola italica.
Un capo tribù di nome Vortigern insorse e si proclamò re del Britannia, osteggiato dai Pitti, nel 433 d.C. chiese il supporto di orde di mercenari sassoni per rafforzare il suo esercito.
Incapace di saldare i debiti contratti con i mercenari, Vortigern fu privato di vaste porzioni di territorio, possedimenti che vennero riconquistati solo grazie all’intervento del comandante romano Ambrogio Aureliano.
Alla morte di Vortigern, il fratello Uther Pendragone aveva rilevato il trono. Uno dei suoi comandati più impavidi si chiamava Artorius, il leggendario Re Artù.
Fu proprio per merito di Re Artù che “i Sassoni vennero contrastati nel modo più fiero grazie ad una serie battaglie, l’ultima delle quali, lo scontro di Monte Badon del 518 d.C.” (WILSON).
Dopo aver trascorso gli ultimi anni della sua vita a cercare di riunire il suo popolo, Artù morì per mano del nipote Mordred nella battaglia di Camlann.
Il corpo senza vita di Re Artù venne seppellito nella vecchia isola di Avalon, l’attuale Glastonbury e “poiché il luogo della sepoltura doveva necessariamente restare segreto per impedire ai Sassoni di profanare la tomba, nacque la leggenda secondo cui Re Artù era ancora vivo e pronto ad aiutare il suo popolo in caso di bisogno” (Wilson).
Sono poche le storie a perdurare nel mito e la storia del Graal è una di queste. La figura del Graal comparve per la prima volta nel Perceval di Chrétien de Troyes, dove viene presentata ai lettori con le sembianze di un piatto incastonato di pietre preziose, ma secondo la teoria più nota, anche grazie alla fama dei Templari, non sarebbe altro che una coppa che in un primo momento venne usata dal Messia per celebrare il sacramento eucaristico, e che in seguito venne impiegata da Giuseppe di Arimatea per raccogliere il sangue di Cristo dopo la crocifissione.
Attribuire una funzione o una forma al Graal è del tutto impossibile; Dan Brown nel suo Codice da Vinci la individua nell’utero di Maria, identificandosi non più come mero oggetto ma come scrigno umano del corpo e del sangue di colui che avrebbe redento il mondo.
Secondo leggende più antiche il Graal sarebbe una pietra caduta dalla corona di Lucifero durante lo scontro tra bene e male, mentre di recente lo storico Daniel Scavone ha ipotizzato che il Graal fosse in realtà la Sacra Sindone, in quanto oggetto legato alla morte di Gesù e che forse era entrato in contatto con il sangue del Redentore.
La ricerca del Graal non è legata marginalmente al ritrovamento di un oggetto, ma ad essa si accompagna “una rivelazione esoterica riguardante i misteri più alti della fede“.
Note Bibliografiche
C. Wilson, D. Wilson, Il grande libri dei misteri irrisolti, Newton & Compton Editori, Roma, 2005
G. Baldi, S. Giusso, M. Razzetti, G. Zaccaria, Dal testo alla storia dalla storia al testo, Paravia, Torino,1994
R. Villari, Storia Medievale, Editori Laterza, Roma, 1975
Perceval viene allevato dalla madre Herzeloide nella solitudine di una sperduta foresta, nel tentativo di tenere il figlio lontano dal pericolo delle armi ed evitando che si realizzi la sorte invece toccata al padre Gamuret e al fratello, morti entrambi in battaglia. Perceval incontra per caso quattro cavalieri dalla luminosa armatura e dopo aver affrontato un combattimento giunge alla corte di Re Artù, dove diventa cavaliere, rendendo vani tutti i tentativi fatti dalla madre per proteggerlo.
Viene educato alla vita di corte dal vecchio Gurnemanz, pertanto grazie al suo coraggio ottiene in sposa la bella Kondwiramur.
Mentre si accinge a ritornare dalla madre, già morta a sua insaputa, ha la visione del Graal, il calice che aveva raccolto il sangue di Gesù Cristo crocifisso. Poiché si credeva che tale reliquia sarebbe stata ritrovata solo da un cavaliere puro, Perceval decide di partire alla ricerca del Graal.
Dopo varie peripezie raggiunge il castello del Graal, ma purtroppo non avendo chiesto le ragioni dell’infermità del Re Anfortas perde l’occasione di diventare Re del Graal.
In preda allo smarrimento provocato dal fallimento e dalle accuse di Kundrie, la messaggera del Graal, vaga senza meta per molti anni prima di tornare finalmente alla corte di Re Artù, qui si ricongiunge con la sua famiglia e ritentando l’impresa del Graal diviene infine Re.
In 25 mila versi, il Perceval, vede come protagonisti i cavalieri della tavola rotonda di Re Artù, i quali realizzano il fine della quête affrontando avventure straordinarie in un mondo dalle connotazioni fiabesche e ricco di magia. Il superamento degli ostacoli conferisce perfezione ed ardimento all’eroe, difficoltà che permettono di conquistare l’amore della dama.
Come osserva Auerbach: “Lo stile diventa realistico, appena si tratta di rappresentare la vita elegante dei castelli; l’alta società feudale dell’epoca viene descritta come viveva, o come desiderava vivere“.
Chrétien de Troyes, traduttore dell’Ars Amandi di Ovidio, si configura come “l’artista della psicologia amorosa […]. La teoria dell’amore cortese voleva la donna come signora assoluta dell’amante che aveva nei suoi confronti un rapporto di servitù e vassallaggio, anche se la donna non manifestasse attenzione verso di lui; ammetteva l’adulterio, anzi le teorizzava come l’unica vera forma di amore disinteressato. Sembra che Chrétien de Troyes non condividesse fino infondo questa teorizzazione, tanto che in Erec e Enide e nell’Ivano celebra l’amore coniugale” (Baldi).
]]>I Celti furono la prima popolazione ad occupare stabilmente il territorio di Rennes le Château quando nel 700 a.C. abbandonarono la Gallia per spostarsi tra Monze e Pepiex. Nelle molte emigrazioni sul territorio francese giunsero anche a Rhedae, città scelta per la posizione strategica verso la Spagna e per la conformazione geologica che la rendeva inattaccabile.
Il predominio dei Galli, diretti discendenti dei Celti, sul territorio francese terminò con l’arrivo dei Romani a Narbonne nel 120 a.C. .
Le testimonianze lasciate dai romani nel Razès sono copiose: parte della strada pavimenta che congiungeva Carcassonne alla Spagna, percorso che comprendeva Rennes le Château e Bezù e che divenne ben presto parte integrante del cammino per Santiago di Compostela; tra i manufatti archeologici non mancano resti di statue e monete con effige oltre alle notissime terme di Rennes les Bains, la località che, situata nelle vicinanze di Rennes le Château, deve il suo nome al termine celtico “Regnes”, ovvero acque rosse, ferruginose.
I Visigoti si stanziarono stabilmente in Francia dopo il sacco di Roma del 410. Con Tolosa capitale Rhedae, l’antica Rennes le Château, divenne molto importante “grazie alla posizione che permetteva di controllare la penisola iberica” (Bordes).
Con il sacco di Roma i Visigoti trafugarono dalla “città eterna” il presunto “Tesoro del tempio”, ovvero quell’immensa ricchezza accumulata da Tito dopo la guerra palestinese del 70 d.C. .
L’incalcolabile capitale che, secondo alcuni storici venne utilizzato per la costruzione del tempio di re Salomone, giunse in Occidente, a Tolosa.
Quando la minaccia dei Franchi sulla capitale divenne più pressante, i regnanti spostarono il bottino proprio nelle vicinanze di Rennes le Château, sulla montagna di Blanchefort.
I Merovingi capeggiati da Clodoveo sconfissero i Visigoti a Vouillè nel 507, sconfitta che indusse i vinti a superare i Pirenei e a fondare il nuovo regno in Spagna.
Dopo aver incendiato Tolosa ed aver riportato alla luce una piccola parte del tesoro di Narbonne, conquistarono Rhedae. Con la salita al potere del saggio Dagoberto II, Rhedae crebbe esponenzialmente, da paese fortificato divenne una cittadina popolosa di tremila abitanti.
Dagoberto II convogliò a nozze con la nobile Giselle del Razès proprio a Rhedae, rafforzando il “legame con la zona e con i Visigoti dai quali discendeva la contessa” (Bordes).
Con la vittoria dei Franchi sui Visigoti e gli arabi, Carlo Magno conferì a Rhedae il rango di “città reale“, avvenimento suggellato dal matrimonio tra Almarico, figlio di un re visigoto, con la principessa Clothilde. Sono questi i decenni dei fasti della corte di Rhedae che, grazie al piccolo ruolo riconosciuto nel Sacro Romano impero, divenne il punto di incontro tra provenzali e catalani.
Il lento declino della supremazia di Rhedae prese avvio con la presa di potere di Limoux nell’undicesimo secolo. La situazione si aggravò ulteriormente con l’annessione di Rhedae alla contea di Carcassonne e alla donazione del castello nel 1002.
Nel 1170 il re d’Aragona Alfonso II, rivendicando il possesso di parte del territorio, attaccò Rhedae distruggendola, assalto che risparmiò solo la cittadella posta in cima alla collina, l’odierna Rennes le Chateau.
Dopo aver nuovamente riacquistato parte del potere originario, Rhedae divenne, secondo quanto narrano le cronache del tempo, nuovamente vittima indiretta della follia sortita da Innocenzo II ai danni dei Catari di Montsegur.
La crociata contro il popolo eretico vide il coinvolgimento non di comuni guerrieri, bensì di cavalieri straordinari e abili uomini di Chiesa: i Templari.
I Templari giunsero nel Razès nel 1118 e negli anni compresi tra il 1132 e il 1137 stanziarono sul posto grazie al supporto delle due famiglie più importanti della regione: i Blanchefort e gli A Niort.
L’aura di mistero aleggiava intorno a Rennes le Château già nel XIV secolo, quando flotte di soldati, guidati da Henri de Trastamare, giunsero sul luogo attratti dalla ricchezza.
Henri de Trastamare, pretendente al tono di Castiglia, attaccò Rhedae nel 1369. La città venne rese rasa al suolo e pochi anni dopo il paese venne nuovamente messo in ginocchio da un’epidemia di peste che completò la lunga strada verso il declino.
La figura di François Bérenger Saunière è visceralmente legata alla storia di Rennes le Chateau. Con l’arrivo del parroco una serie di fatti inspiegabili furono accolti dalla comunità del tempo con stupore, meraviglia che tuttora colpisce le menti più brillanti.
In relazione alla storia privata dell’abate, la carriera di seminarista appariva raggiante e destinata a culminare in una carriera ecclesiastica di primissimo ordine. Nonostante le premesse, Saunière giunse nel piccolo comune contadino di Razès nel 1885 e su ordine del vescovo di Carcassonne Fèlix Arsène Billard condusse, almeno apparentemente, una vita del tutto umile con uno stipendio di 75 franchi. L’esistenza dimessa del curato di campagna non durò a lungo, i registri contabili riportano un incremento eccezionale di denaro, molto del quale speso per la ristrutturazione della chiesa e del castello della vecchia Rhedae.
Il curato di campagna si impegnò inoltre nella costruzione di una torre, la famosa Torre Magdala, permeando il tutto con misteriosi simbolismi e forti influenze esoteriche.
Secondo le teorie più accreditate la fonte di tali ricchezze fu il ritrovamento di un enorme tesoro nato dall’accumulo di tesori diversi nei secoli, dall’antico tesoro del Tempio di Salomone fino al Tesoro dei Templari.
Altri studiosi supportano un’idea differente: il “tesoro” consisterebbe in una serie di documenti in grado di testimoniare l’arrivo in Francia di Maria Maddalena dopo la crocifissione di Cristo. Temi, questi ultimi ripresi in epoca recente da Dan Brown per il suo best seller “Il codice da Vinci” (2003), da cui poi è stato tratto l’altrettanto celebre film (2006) di Ron Howard con Tom Hanks.
Note Bibliografiche
G. Baietti, L’enigma di Rennes le Chateau, I Rosacroce e il tesoro perduto del Graal, Edizioni Mediterranee, Roma, 2003
I.Bellini, D. Grossi, Atlante dei misteri, Giunti Editore, Milano, 2006
C’era una guerra contro i turchi. Il visconte Medardo di Terralba, mio zio, cavalcava per la pianura di Boemia diretto all’accampamento dei cristiani. Lo seguiva uno scudiero a nome Curzio. Le cicogne volavano basse, in bianchi stormi, traversando l’aria opaca e ferma. (INCIPIT)
L’opera narra le vicende del visconte Medardo di Terralba che, insieme al suo scudiero Curzio, decide di partire alla volta dell’accampamento cristiano in Boemia per partecipare alla guerra contro i Turchi. Durante il conflitto, però, lo sfortunato Visconte viene colpito da una palla di cannone, che lo divide così in due parti. Del suo corpo, si salva solo la parte destra, quella malvagia, che il dottor Trelawney, medico del campo, riesce a fasciare e ricucire salvandogli la vita; mentre quella sinistra, quella buona, non si riesce più a trovare, forse completamente distrutta dall’esplosione.
A questo punto, Medardo torna a Terralba, ma purtroppo predomina in lui solo la parte malvagia, insita nella destra del suo corpo. L’uomo inizia a compiere numerosi atti malvagi tra cui: taglia a metà un uccello inviatogli come regalo dal suo amato padre che, rimanendo colpito dalla cattiveria del figlio, si lascia morire; poi invia a Pratofungo, il paese dei lebbrosi, la vecchia balia Sebastiana pensando che anch’essa fosse ammalata della terribile malattia.
Medardo continua imperterrito con le cattiverie, tentando perfino di uccidere il nipote, cercando di avvelenarlo con dei funghi e opprimendo con tutta la sua rabbia gli ugonotti a causa della loro religione protestante, fonte di forti dissidi con i cattolici. La situazione non cambia neanche quando Medardo si invaghisce di una contadinella che si chiama Pamela, che però non contraccambia il suo amore, allorché si vendica danneggiando e osteggiando in modo grave la famiglia della ragazza.
La svolta del romanzo avviene quando al nipote di Medardo, recatosi a Pratofungo mentre si trova a pescare, appare lo zio nelle sembianze della parte sinistra “quella buona” che, visto lo scarso risultato della pesca, offre un dono al nipote. Questo atto lascia il giovane stupito e, nel mentre cerca di capire la bontà del gesto, lo zio viene morso da un ragno velenoso sulla mano. La mano lesa è quella sinistra e lì, il giovane si rende conto d’aver dinnanzi un altro zio, perché quello che lui conosce ha solo la mano destra. Al contrario della “destra”, la “sinistra” compie sempre atti buoni e predica dottrine per i poveri e i lebbrosi. Ma per la gente la troppa bontà assilla e opprime, esattamente come la troppa cattiveria.
Anche la parte sinistra si invaghisce, come era accaduto alla parte destra, della bella contadina Pamela, ma anch’esso viene respinto ed allontanato. A questo punto, il Visconte destro architetta, mettendosi d’accordo con la madre della ragazza, di organizzare il matrimonio con la sua parte sinistra, così che di fronte alla legge avrebbe comunque sposato il visconte Medardo di Terralba. Il Buono, invece, non ci sta, visto l’inganno e decide di allontanarsi dalla giovane. Il Visconte destro a questo punto decide di sfidare la sua parte sinistra a duello ma dopo una lunga serie di fendenti e colpi, nessuno dei due riesce a uccidere l’altra parte ed alla fine entrambe le metà restano con le bende e le cuciture lacerate dai rispettivi colpi di spada.
Le due metà, a questo punto, rimangono tutte e due sanguinanti nelle rispettive parti monche e, a quel punto, non resta che l’intervento del dottor Trelawney per riunire le due metà riformando interamente il visconte Medardo di Terralba.
Ora, tutto intero e pregno sia della sua bontà che della sua cattiveria, può finalmente recarsi dall’amata Pamela per chiederla in moglie. Medardo raggiunge finalmente la sua completezza, non essendo né troppo cattivo né troppo buono ma semplicemente se stesso, e a Terralba ritorna finalmente il sereno.
In quest’opera, Italo Calvino mette al centro come tema quello dell’uomo dimezzato, cioè incompleto e, proprio a tal fine, il protagonista viene dimezzato secondo la linea di frattura tra bene e male. Le due metà cercano ognuno l’altra, ma solo l’unione dei due mezzi uomini, porta alla rinascita dell’uomo intero e completo anche nell’animo. L’autore utilizza una metafora su tutta la storia, che porta a simboleggiare nelle due parti dimezzate, il bene e il male, l’incompletezza dell’uomo e i possibili suoi stati d’animo.
Lo stesso autore aveva pensato che tutti ci sentiamo in qualche modo e spesso incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra. L’uomo, per essere veramente felice, deve riuscire a convivere con il suo lato buono e quello cattivo al tempo stesso. In questo senso è significativo il dialogo tra Pamela e il Visconte sinistro, sull’incompletezza a cui ciascuno di noi è condannato che mette in evidenza il tema centrale dell’opera di Calvino.
Nell’opera di Italo Calvino oltre al personaggio principale Medardo spiccano i lebbrosi (cioè gli artisti decadenti), il dottore (Trelawney) e il carpentiere (Pietrochiodo), rappresentante la scienza e la tecnica che si discostano dall’umanità. L’opera, che ebbe un notevole successo, dapprima venne pubblicata da Einaudi. La vicenda viene narrata dal nipote di Medardo che vive al palazzo con Aiolfo, il padre di Medardo, Medardo e la vecchia balia Sebastiana e che racconta in modo minuzioso tutto quello che accade, perfino fatti che accadono anche in sua assenza.
Le numerose altre edizioni non differiscono dalla prima e verranno pubblicate da Einaudi, Mondadori, Garzanti, Utet. Non meno importante l’edizione illustrata da Emanuele Luzzati, pubblicata nel 1975 da Einaudi nella collana “Libri per ragazzi”.
]]>A Mosca, Kandinsky ha avuto l’occasione di visitare nel 1896 la mostra degli impressionisti. Qui rimase colpito dai celebri Covoni di Monet: “…notavo con stupore che quel quadro turbava e affascinava, si fissava indelebilmente nella memoria fino al più minuzioso dettaglio”, diceva l’artista. “Ciò che mi divenne assolutamente chiaro fu l’intensità della tavolozza. La pittura si mostrò davanti a me in tutta la sua fantasia e in tutto il suo incanto. Profondamente dentro di me nacque il primo dubbio sull’importanza dell’oggetto come elemento necessario del quadro”, rifletteva Kandinsky.
Da qui l’Astrattismo: Kandinsky notava nell’Impressionismo degli elementi di disgregazione della forma che, se spinti alle loro estreme conseguenze, avrebbero portato all’Astrattismo. Questo primo contatto con l’Impressionismo fu di fondamentale importanza, perché indusse l’artista a dedicarsi definitivamente alla pittura, influenzando in maniera notevole tutta la sua prima produzione.
Ne “Il cavaliere azzurro” del 1903 dipinse un cavaliere con il mantello azzurro, che attraversa, su un cavallo bianco, un prato variopinto nel quale sembra quasi confondersi fra i tocchi numerosi di colore verde e giallo, che in alcuni punti diventa arancio.
Nella parte alta del dipinto chiudono la composizione una fila di alberi svettanti e un angolo di cielo azzurro con delle nuvolette bianche che lo attraversano. In questo dipinto ci si perde nell’immenso prato colorato di verde e si diventa partecipi dell’avventura del cavaliere. Proprio delle avventure dei cavalieri medievali Kandinsky era innamorato. I cavalieri che combattevano il male e affrontavano le prove più ardue.
Per Kandinsky il cavaliere diventa il simbolo della lotta fra bene e male, del trionfo dell’età dello spirito sul materialismo. L’artista, a cui da bambino piaceva molto cavalcare, intendeva anche il rapporto cavallo-cavaliere come una simbiosi perfetta: “Il cavallo trascina l’artista con forza e velocità, ma il cavaliere guida il cavallo. Il talento trascina l’artista, ma l’artista conduce il suo talento”, così diceva il pittore.
]]>Nel romanzo “Il Barone Rampante“, Italo Calvino unisce l’ispirazione realistica che contraddistingueva il Neorealismo e la componente dell’invenzione fiabesca. L’autore ha la capacità di descrivere minuziosamente mondi surreali con razionalità. E’ originale l’intreccio della trama che si snoda tra finzione e realtà, allegoria e satira. L’autore utilizza come luogo della trama Ombrosa, un paese immaginario della riviera ligure, anche se sono continui i cambi dei luoghi durante la narrazione e alla fine ci si sposta anche in altri paesi della Liguria o addirittura a Parigi, dove il fratello del protagonista principale Cosimo, andava per affari.
L’intera vicenda prende in considerazione la vita del personaggio principale nell’epoca direttamente successiva alla Rivoluzione francese (tra la fine del 1700 e la Restaurazione). Cosimo spicca su tutti per il suo grande anticonformismo e carattere e per la sua grande avversione nei confronti delle regole del suo ceto sociale. Interessante il tema principale del libro.
L’immagine di un uomo che si arrampica sulle piante per sfuggire alla solita routine e alla solita gente rappresenta in un certo senso una valvola di sfogo per l’uomo che decide di trovare una via di scampo e di evadere, non sempre contento della vita che ha. Ma in realtà, il protagonista, che si adatta a vivere su sostegni come i rami degli alberi, si deve ricredere dato che i rami sembrano forti all’apparenza, ma si rivelano poi soggetti ad ogni genere di pericolo.
Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. (INCIPIT)
Il lettore rimane colpito e affascinato dal protagonista, lo segue nelle sue vicissitudini e si immedesima con lui. Inoltre la narrazione è semplice e scorrevole, il linguaggio è privo di lunghe descrizioni o riflessioni ed ha un imprinting umoristico che spinge il lettore a continuare la lettura. Il libro è scritto principalmente in terza persona, con un narratore interno che lascia un velo di mistero attorno alla figura del protagonista principale Cosimo.
In un paesino della Liguria, un adolescente di 12 anni, Cosimo, figlio del barone, è ormai stufo della vita fatta solo di regole e di continue costrizioni. Il ragazzo è insofferente e per tale motivo opta per una vita meno comoda e decide di andare a vivere sugli alberi e di non scendere mai più. Una vita completamente diversa dalla sua ma che si rivela non facile. Cosimo durante la sua lunga permanenza sugli alberi si adatta a questo tipo di vita. Il ragazzo cerca di procurarsi tutte le comodità anche se vive sugli alberi e si procura un caldo giaciglio, un fucile per cacciare, trovando anche il modo per potersi lavare. Incontra una bambina che si chiama Violante di cui si innamora perdutamente ma che non contraccambia il suo sentimento.
Sopravvive alla vita sugli alberi e pratica anche la caccia. La sua vita è piena di avventure, alcune anche insidiose e altre monotone: lotta contro i pirati, per passare il tempo legge molti libri e diventa un filosofo conosciuto in tutta Europa; si imbatte in pericoloso brigante Gian de Brughi, che Cosimo avvicina alla lettura, fino alla condanna a morte del fuorilegge che vede successivamente morire sulla forca. Incontra un gruppo di persone spagnole che come lui dimorano alberi, riesce a fondare una squadra di Vigili del Fuoco ed infine incontra un cane che gli tiene compagnia per molti anni, chiamato con lo strano nome di Ottimo Massimo. Anche l’amore tra lui e Violante esplode finalmente ma purtroppo, come le più belle favole d’amore, a volte non c’è scritto il tanto agognato lieto fine.
La storia tra i due finisce in malo modo e Violante riparte, sposandosi poi con un nobile inglese. Ad Ombrosa è periodo della Rivoluzione francese e di Napoleone Bonaparte. Cosimo tenta di sollevare la popolazione locale ed incontra il famoso generale rimanendone tuttavia assai deluso.
Cosimo continua la sua vita come sempre e si spegne all’età di sessantacinque anni, stanco e ormai malato, attaccandosi all’ancora di una mongolfiera in volo, lontano dagli occhi degli abitanti del suo paese per non dare compiacimento di vederlo alla fine toccare la terra.
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