battaglie Archivi - Cultura Canale del sito Biografieonline.it Mon, 14 Oct 2024 12:51:22 +0000 it-IT hourly 1 Guerra delle due Rose: riassunto https://cultura.biografieonline.it/guerra-due-rose-riassunto/ https://cultura.biografieonline.it/guerra-due-rose-riassunto/#comments Sun, 18 Aug 2024 12:01:49 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=12033 Dopo la guerra dei Cento Anni, un altro sanguinoso conflitto ha sconvolto, per lungo tempo, la vita dell’Inghilterra. Si tratta della Guerra delle due Rose, svoltasi in Inghilterra tra il 1455 ed il 1485, avvenuta per motivi prettamente dinastici tra i due diversi rami della casa regnate dei Plantageneti ovvero gli York (che avevano come simbolo una rosa bianca) e i Lancaster (che avevano come simbolo una rosa rossa).

La Guerra delle due Rose: i simboli delle case York e Lancaster erano proprio due rose di differenti colori
La Guerra delle Due Rose fu combattuta in modo sanguinoso tra il 1455 ed il 1485 per la successione al trono di Inghilterra: protagonisti furono due diversi rami della casa regnante dei Plantageneti: i Lancaster e gli York.

Gli York contestavano ai Lancaster di aver usurpato il loro diritto di discendenza al trono, dato che nel 1413, dopo il Regno di Riccardo II, il Parlamento inglese aveva optato per lasciare la corona nelle mani di Enrico IV, Lancaster. Dopo un’iniziale prevalenza da parte degli York, la disputa si concluse con l’eliminazione di quasi tutti i contendenti, e con l’ascesa al trono di Enrico Tudor, discendente dei Lancaster e vincitore della battaglia di Bostworth (1485). La disputa si divise in varie fasi:

Prima fase (1455-1460): l’affermazione degli York

Il primo conflitto ebbe luogo nel 1455, tra il re Enrico VI Lancaster (appoggiato dalla maggior parte della nobiltà inglese) e Riccardo di York (appoggiato dai potenti Neville, dal conte di Salisbury e dal conte di Warwick Riccardo) che voleva succedere al trono al posto di Enrico.

In un primo momento, Riccardo di York ebbe la meglio e la spuntò sullo stesso Enrico VI, facendolo prigioniero. Il Re Enrico VI infatti era troppo debole e malvisto dal popolo a causa dei suoi problemi mentali.

Dopo una momentanea tregua tra i due, però, la situazione si fece di nuovo complicata e con sorti piuttosto altalenanti. Infatti, da un lato, nel 1459 la regina Margherita d’Angiò, Lancaster, attaccò e sconfisse Salisbury; dall’altro, l’anno successivo, nel 1460, Warwick, York, prevalse su Enrico VI di nuovo nella battaglia di Northampton, proclamando in quel momento l’affermazione degli York.

Seconda fase (1460-1461): la rivincita dei Lancaster

Questa fase della “Guerra delle due Rose” risultò momentanea; infatti l’anno successivo avvenne la rivincita da parte dei Lancaster con Margherita che riuscì a sconfiggere il temuto rivale Riccardo, addirittura uccidendolo e sconfiggendo Salisbury e addirittura Warwick, ambedue appoggianti la famiglia degli York.

Due Rose - York Lancaster
Il simbolo della casa York è una rosa bianca. I Lancaster sono invece rappresentati da una rosa rossa.

Terza fase (1461-1469): il trionfo degli York

A questo punto storico, la situazione sembra mettersi bene per i Lancaster e male per gli York, ma in fondo sarà una situazione solo momentanea. Infatti, Edoardo di York, figlio di Riccardo, dopo alcuni successi militari, riuscì a raggiungere ed espugnare la capitale inglese, proclamandosi regnante con il nome di Edoardo IV. Enrico e Margherita subirono di nuovo una sonora sconfitta nella battaglia di Towton, e furono costretti a rifugiarsi in Scozia. Successivamente, la regina fu costretta a trasferirsi in Francia, mentre ad Enrico, capitò una sorte peggiore, poiché venne fatto di nuovo prigioniero (1465).

Quarta fase (1470-1483): caduta e ritorno degli York

La situazione sembrò cambiare di nuovo le carte in tavola quando Warwick, alleatosi, forse per istigazione di Luigi XI, ai Lancaster, mise sul trono Enrico VI nel 1470. Edoardo IV vinse uno scontro contro Enrico VI che finì con l’uccisione dello stesso sovrano Enrico VI e del figlio (1471). A quel punto, Edoardo IV, rimasto ormai senza rivali, regnò tranquillamente fino alla sua morte (1483).

Quinta fase (1483-1485): la pace dei Tudor

Le lotte ancora non erano terminate. Infatti, in ultimo, seguì una rappresaglia cruenta tra Riccardo di Gloucester (Riccardo III), fratello di Enrico, ed Enrico Tudor, capo della casa di Lancaster. Enrico Tudor riuscì ad avere la meglio su Riccardo, avvalendosi del prezioso aiuto dei nobili avversi al sovrano. Riuscì a sconfiggere il sovrano nella battaglia di Bosworth nel 1485 e infine si proclamò Re con il nome di Enrico VII. Lui, erede della casa di Lancaster, per suggellare definitivamente la pace, sposò la figlia primogenita di Edoardo IV, Elisabetta di York. Il loro figlio, Enrico, da quel momento era il legittimo erede al trono inglese per nascita e sangue. Dalla lotta fratricida dei gloriosi Plantageneti nacque così la dinastia Tudor che, grazie ad Elisabetta I, darà per un lungo periodo pace e prosperità al regno di Inghilterra e porrà le basi per la creazione dell’Impero Britannico.

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Guerra delle due Rose: la situazione finale

La situazione dell’Inghilterra, all’avvento al trono di Enrico VII Tudor, al termine della Guerra delle due Rose era disastrosa: in particolar modo la nobiltà feudale era quasi scomparsa dopo un’aspra lotta civile, la borghesia era stremata ed invocava la pace.

In questo particolare contesto, non fu affatto difficile per Enrico VII instaurare la monarchia assoluta, convocando sempre meno il Parlamento e restaurando gli antichi privilegi feudali. Ma durante il regno di Enrico VII, la situazione economico-sociale inglese venne progressivamente migliorando: la borghesia fu di nuovo favorita, le finanze di nuovo riorganizzate, l’economia trasformata con il passaggio delle attività agricole e quelle industriali (tessili) e commerciali.

In ultimo, si sviluppò un’intensa attività marittima per tutti i mari del mondo.

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Battaglia di Magenta, riassunto. La storia e i protagonisti. https://cultura.biografieonline.it/battaglia-di-magenta/ https://cultura.biografieonline.it/battaglia-di-magenta/#respond Wed, 31 May 2023 16:09:55 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=25931 Il nome di Magenta, una città della provincia di Milano, è legato ancora oggi alla famosa Battaglia che qui si combatté il 4 giugno 1859, durante la Seconda guerra di indipendenza italiana, tra gli schieramenti militari francesi e quelli dell’impero austriaco. La Battaglia di Magenta fu importante per la vittoria definitiva dei franco-piemontesi. Essa rappresenta un episodio significativo per l’avvio del processo di unificazione dell’Italia.

Battaglia di Magenta
Il campo della Battaglia di Magenta dopo gli scontri dipinto in un quadro di Giovanni Fattori: Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta (1859). Tela; 232 x 348cm; Galleria d’Arte Moderna, Firenze

Lo scenario europeo pre-Battaglia

Per comprendere le motivazioni e le dinamiche che hanno condotto alla battaglia di Magenta, è bene fare un passo indietro, per esaminare il contesto in cui si inserisce questo episodio della storia italiana.

A livello europeo vi è la presenza di due grandi poli di potenze contrapposte: l’impero francese e quello austro-ungarico. Da una parte c’è la Francia, che cerca di imporre una politica di espansione dei confini, dall’altra vi sono gli Austriaci che invece reprimono in maniera anche violenta ogni iniziativa di libertà e rinnovamento civile.  

Oltre a questi due imperi contrapposti, che vogliono imporre la loro politica a livello internazionale, c’è anche il regno di Piemonte e Sardegna, guidato da Vittorio Emanuele II, che gode di una discreta popolarità e che nella sua attività viene affiancato dal Primo Ministro Camillo Benso di Cavour.

Entrambi hanno un obiettivo ambizioso: trasformare l’Italia in una nazione moderna, eliminando le differenze e le divisioni esistenti. Per fare questo, lo stratega Cavour elabora un piano: allearsi con la Francia, e convincere Napoleone III a perorare la causa.

La contessa di Castiglione e la sua azione diplomatica

Il merito di convertire l’imperatore francese alla “causa italiana” va ad una donna straordinariamente bella ma anche molto abile nella diplomazia:  la contessa di Castiglione, il cui soprannome è “Nicchia”.

La nobildonna, molto ambita e sempre circondata da uno stuolo di ammiratori e spasimanti, sposa il conte Francesco di Castiglione (cugino di Camillo Benso di Cavour) e si trasferisce presso la sua lussuosa residenza. Ma i dissapori coniugali non tardano ad arrivare, tanto che il matrimonio capitola dopo poco tempo.

La donna fa il suo ingresso alla corte di Vittorio Emanuele II, e non passa certo inosservata.

Cavour espone all’imperatore il suo piano: incaricare “Nicchia” di sedurre Napoleone III e convincerlo a “sposare” la causa del Piemonte. La donna non se lo fa ripetere due volte, e accetta subito l’incarico.

Pochi mesi prima del Congresso di Parigi (16 aprile 1856) la donna si trasferisce nella capitale francese. L’incontro, che avviene nel mese di febbraio 1856, serve a ristabilire i confini dell’Europa dell’Est destabilizzati dopo la guerra di Crimea.

In tale circostanza il primo ministro Cavour riesce ad assicurarsi l’appoggio di Francia e Inghilterra, che si schierano ufficialmente contro l’Austria.

Cavour - Napoleone III - satira
La satira piemontese riconosceva nella Francia un’antagonista del Piemonte nel controllo della penisola. In questa vignetta che si rifà a “I promessi sposi” Don Abbondio è Cavour, Renzo è il Piemonte, Lucia è l’Italia e Don Rodrigo è Napoleone III.

La Battaglia di Magenta

Il 26 aprile 1859 gli Austriaci impongono il disarmo del Piemonte, ma la riposta di Cavour è negativa. Questo ultimatum segna l’inizio della Seconda Guerra di Indipendenza italiana.

Nel conflitto vengono coinvolti circa un milione di uomini. Gli Austriaci vogliono sconfiggere l’esercito sabaudo prima che accorrano in suo aiuto i Francesi guidati da Napoleone III, ma i piani non vanno come desiderano.

Il re francese, servendosi delle rete ferroviaria, trasporta velocemente le sue truppe in Italia. Queste sferrano un primo attacco agli Austriaci a Montebello. Le forze franco-piemontesi decidono di attraversare il fiume Ticino e puntare verso Magenta, mentre gli Austriaci fanno male i loro calcoli e attendono l’attacco nella zona più a sud, in Lomellina.

Magenta diventa così teatro di una sanguinosa battaglia tra l’esercito austriaco (formato da circa 58 mila uomini) e l’armata franco-piemontese (costituita da circa 59 mila uomini) alla guida di Napoleone III.

E’ il 4 giugno 1859. I morti sul campo di battaglia sono circa seimila, la maggior parte dei quali austriaci. La vittoria delle truppe franco-piemontesi apre la strada alla liberazione di Milano, e alla successiva unificazione del nostro Paese.

Rievocazione storica della Battaglia

Ogni anno a Magenta si rievoca questo episodio cruciale del periodo che prelude all’Unità d’Italia. Gli storici ritengono infatti che, senza la vittoria della compagine franco-piemontese, sicuramente la storia del nostro Paese avrebbe preso una piega diversa.

Rievocazione della Battaglia di Magenta
Magenta, in provincia di Milano: foto da una annuale rievocazione storica. Per maggiori info: www.battagliadimagenta.it

L’evento che si tiene annualmente nella città lombarda serve a ricordare questa decisiva battaglia affermando i valori della solidarietà, dell’amicizia, e della fratellanza tra i popoli.

La rievocazione storica della Battaglia di Magenta con le sue interessanti celebrazioni, richiama migliaia di persone da tutta Italia, e ha l’obiettivo di rinsaldare il senso di appartenenza nazionale e le forti radici comuni che ci legano in quanto italiani.

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La battaglia di Verdun, riassunto https://cultura.biografieonline.it/battaglia-di-verdun/ https://cultura.biografieonline.it/battaglia-di-verdun/#respond Thu, 15 Oct 2020 16:57:15 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=30556 Pochi nomi come Verdun sono sinonimo di morte, di devastazioni e di indicibili sofferenze. La battaglia di Verdun, o meglio la campagna di Verdun, fu una delle più lunghe, sanguinose e, paradossalmente, inutili di tutta la Grande Guerra. Al termine nessuno dei due contendenti aveva minimamente conseguito i propri obiettivi iniziali, ma da essa uscirono entrambi stremati, i Francesi più dei Tedeschi. Ebbe luogo dal 21 febbraio al 19 dicembre 1916.

La battaglia di Verdun: cause ed origini

Nei primi mesi del 1916, i Tedeschi erano decisi a forzare una decisione per portare a una conclusione rapida e favorevole la guerra. Identificando nei Francesi il nemico sconfitto le cui ostilità sarebbero cessate, scelsero di portare a logoramento, sia materiale che morale, la nazione transalpina.
Secondo l’Imperatore Guglielmo II, il principale nemico della Germania era la Gran Bretagna che andava sconfitta togliendole “dalle mani la miglior spada che possedeva” . Cioè l’esercito francese.

Il piano consisteva nello scegliere un obiettivo che i Francesi considerassero vitale e che fossero perciò costretti a difendere a qualsiasi costo; e consisteva nello scagliare contro tale obiettivo ondate su ondate di attacchi, in modo da attirare via via le riserve del nemico, fino a quando questi non avesse più avuto disponibilità di mezzi e materiali e avesse dovuto accettare la resa.

È opportuno sottolineare che la Germania contava 65 milioni di abitanti allo scoppio delle ostilità, rispetto ai 39 milioni di francesi. Fu una netta superiorità tedesca, quindi, benché mitigata dalla necessità di combattere su più fronti. In parole povere, i Tedeschi erano convinti che le forze del nemico si sarebbero esaurite prima delle loro.

La posizione di Verdun sulla mappa geografica
La posizione di Verdun sulla mappa geografica

La cittadina di Verdun

All’epoca Verdun contava solo 3.000 abitanti e non rivestiva alcuna importanza economica. Dal punto di vista strategico era però ritenuta essenziale, perché costituiva il punto focale della difesa francese, saldando i due settori del fronte: settentrionale e meridionale. Era inoltre un saliente che si incuneava, con effetti deleteri, nelle linee tedesche.

Infine, Verdun aveva un forte valore simbolico: circondata com’era di fortezze che furono costruite sotto il Re Sole, conquistate dai Prussiani nel 1792 ma invitte nella pur vittoriosa, dal punto di vista tedesco, guerra del 1870. Verdun venne quindi scelta come punto nel quale sferrare l’attacco. La responsabilità di questo fu affidata a Erich von Falkenhayn, Capo di Stato Maggiore e Ministro della Guerra.

Le prime operazioni

Il maltempo determinò un rinvio delle operazioni offensive fino al giorno 21 febbraio 1916; operazioni che tuttavia i Tedeschi avevano pianificato di avviare il 12 febbraio. Principale conseguenza di questo ritardo fu il venire meno della sorpresa tattica che l’Alto Comando germanico aveva saputo conseguire.

I fanti dell’Imperatore si trovarono così ad affrontare nemici che li aspettavano.

Cionondimeno i Tedeschi conseguirono alcuni successi. In particolare, il giorno 25 febbraio 1916 espugnarono Fort Douaumont, con un fortunoso colpo di mano. Questa posizione vide nei mesi seguenti parecchie controffensive francesi che furono coronate da successo solo nell’ottobre, quando ormai i Tedeschi avevano parzialmente sgombrato la posizione, non più ritenuta di primaria importanza.

I successi dell’Impero Tedesco furono dovuti principalmente a una concentrazione di artiglieria senza precedenti, 850 pezzi tra i quali la celeberrima “Grande Berta” e un cannone navale Krupp montato su carro ferroviario. Furono inoltre utilizzate armi nuovissime per l’epoca, come lanciafiamme e aerei.

Big Bertha (Grande Berta)
Big Bertha (Grande Berta)

Di contro, i Francesi furono colti relativamente di sorpresa e fecero fatica a far affluire le loro riserve verso la prima linea, a causa dell’esistenza di un’unica strada che portava nel settore.

Arriva Pétain

Proprio il giorno della caduta di Fort Douaumont, si verificò un importante mutamento nei comandi francesi. Il comando del settore fu affidato a Philippe Pétain, carismatico generale molto amato dai soldati per le cui vite mostrava un rispetto all’epoca decisamente non comune.

Il generale Philippe Pétain

Con Pétain i Francesi scelsero una strategia difensiva, in netto contrasto con la loro dottrina prebellica, che era basata unicamente sull’attacco. Il futuro maresciallo diramò un ordine chiaro quanto sintetico: non cedere più terreno!

  • Si preoccupò di risparmiare al massimo le vite dei suoi uomini;
  • fece costruire strade e migliorare la logistica per garantire l’afflusso dei materiali alla prima linea;
  • introdusse la rotazione degli uomini, che poterono beneficiare di più frequenti turni di rotazione nelle retrovie.

Le operazioni assunsero così caratteristiche che si associano comunemente alla cosiddetta “guerra di trincea“.

Marzo fu inoltre inaspettatamente freddo e ricco di precipitazioni, anche a carattere nevoso: tutti questi fattori contribuirono ad arrestare i Tedeschi. In questo periodo si distinse nelle operazioni un giovane ufficiale francese, Charles De Gaulle; ferito, verrà catturato e rimarrà prigioniero fino al termine del conflitto.

Battaglia di Verdun: una foto di trincea
Battaglia di Verdun: una foto di trincea. Il nome in codice tedesco dell’evento fu Operazione Gericht (giudizio)

I Francesi all’attacco

Ma una strategia di pura opposizione non poteva essere accettata a tempo indeterminato dallo Stato Maggiore Francese; esso, come si è detto, era figlio di una dottrina che conosceva una sola parola: attacco. Ad aprile Pétain venne quindi sostituito e i Francesi passarono all’offensiva.

Gli uomini tornarono a essere solo carne da cannone e vennero scagliati in ondate successive contro trincee e apprestamenti difensivi che – semplicemente – non potevano espugnare.

È opportuno ricordare che le trincee erano solo parte di sistemi di difesa composti da mitragliatrici, filo spinato, cavalli di frisia ecc., contro i quali uomini a piedi e appesantiti dall’armamento dovevano lanciarsi, attraversando allo scoperto la “terra di nessuno”: lo spazio fra le proprie trincee e quelle nemiche.

Inoltre i feriti venivano spesso rispediti in prima linea dopo aver ricevuto cure sommarie. E’ qui che si può riscontrare una buona parte dell’orrore della battaglia di Verdun – proprio per esaurimento di quel materiale umano che veniva tenuto in nessun conto. I traumatizzati erano tacciati di codardia e dichiarati abili al combattimento: tornavano così in quelle trincee dove li aspettavano solo freddo, sporcizia, gas letali e malattie, quando non un proiettile nemico.

In definitiva, le offensive dei transalpini sortirono l’unico effetto di accrescere spaventosamente il numero dei caduti di entrambe le parti.

L’epilogo della battaglia di Verdun

Insoddisfatti dei risultati conseguiti, dopo un’ultima “limitata” offensiva (giugno 2016), nel corso della quale persero altri 250.000 uomini, gli Alti Comandi dell’esercito Imperiale sostituirono Falkenhayn con la coppia formata da Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff; essi scelsero a loro volta una strategia difensiva, in attesa degli attacchi nemici.

In parte la decisione fu dovuta alla contemporanea offensiva inglese, più a nord, in quella che verrà poi etichettata come battaglia della Marna, e il cui scopo principale era proprio quello di “alleggerire” la situazione degli esausti Francesi attorno a Verdun.

Anche la Marna si risolverà in una insensata carneficina, così come le ultime ridotte offensive dell’esercito francese attorno a Verdun.

La campagna di Verdun termina ufficialmente il 19 dicembre 1916: in questo giorno i contendenti si arrestano sia per l’esaurimento di uomini e mezzi, sia per la dura stretta imposta da un inverno particolarmente rigido.

Conclusioni

Verdun influenzò pesantemente le concezioni tattiche dei due contendenti, non solo per il proseguo della Grande Guerra ma anche per gli anni successivi fino alla Seconda Guerra Mondiale. Se i Francesi scelsero di perfezionare tattiche e apprestamenti difensivi, i Tedeschi fecero esattamente l’opposto, teorizzando la guerra di movimento e l’infiltrazione nel territorio nemico in modo totalmente svincolato dalla conquista di posizioni fisse: in definitiva il blitzkrieg, la guerra lampo.

Ma più importante della teoria è senz’altro la necessità di sottolineare i patimenti di chi ebbe la sventura di combattere a Verdun: non bastano le aride cifre che parlano di 368.000 perdite tra i Francesi e 330.000 fra i Tedeschi, compresi feriti e prigionieri, a descrivere l’orrore. E forse nemmeno le definizioni di alcuni storici come Lucio Villari (“Gli uomini contavano meno dei mezzi”) o Antonio Gibelli (“Un processo industriale senza fine della morte umana”).

Forse meglio che altrove, l’inferno di Verdun è stato descritto da Erich Maria Remarque nel suo celeberrimo “Niente di nuovo sul fronte occidentale“.

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Forche Caudine: la battaglia storica, la lezione e il modo di dire https://cultura.biografieonline.it/forche-caudine-storia-modo-di-dire/ https://cultura.biografieonline.it/forche-caudine-storia-modo-di-dire/#respond Fri, 28 Aug 2020 16:00:22 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=30141 Cosa sono le Forche Caudine? Da dove deriva il modo di dire passare sotto le Forche Caudine? Capita tutti i giorni di utilizzare delle espressioni che abbiamo sentito dire molte volte. Ne conosciamo il significato, ne facciamo un uso appropriato eppure non siamo consapevoli che il modo di dire che stiamo utilizzando affonda le sue radici nella Storia, addirittura in quella dell’Antica Roma.

forche caudine
Forche caudine: il significato è quello di subire un’umiliazione dopo la sconfitta

Forche Caudine: la battaglia storica: 326 – 304 a.C.

L’episodio in cui per la prima volta avviene quel passaggio per le forche caudine che poi è entrato nel gergo comune si ha durante la Seconda guerra sannitica. Questo episodio bellico è collocato fra il 326 e il 304 avanti Cristo e ha visto opporsi i Romani ai Sanniti, popolazione stanziata fra Campania e Sannio. Un’area geografica che oggi possiamo collocare fra Molise, Abruzzo meridionale e settore nord orientale della Campania.

Prima della battaglia

La seconda guerra sannitica è preceduta da un primo scontro datato 341 a.C., un conflitto che termina con i Sanniti in una posizione neutrale per la quale la popolazione dell’Italia meridionale non sarebbe entrata a sostegno dei nemici di Roma. Al proseguire della battaglia, nel 322 a.C. i Sanniti vengono sconfitti dai Romani con le seguenti disposizioni: consegnare Brutulo Papio, tutte le sue ricchezze e restituire i prigionieri. L’anno dopo il comandante Gaio Ponzio non accetta la pace, ma si apre una trattativa.

L’antefatto: pronti all’imboscata

Gaio Ponzio fa accampare i Sanniti nei pressi di Caudio, luogo fra Napoli, Avellino e Benevento, più o meno vicino a Montesarchio. E’ il nome del luogo a dare il nome al modo di dire.

Manda allora 10 soldati vestiti da pastori per farsi catturare dai Romani. Una volta prigionieri i soldati pastori rivelano che i Sanniti stanno assediando Luceria in Apulia.

Luceria – oggi Lucera, in provincia di Foggia – è alleata con Roma, per cui Roma deve intervenire.

Per giungere a Lucera, i Romani possono percorrere due vie: una più lunga, lungo l’Adriatico, e una più breve caratterizzata da ben due gole, nei pressi di Caudio. I Romani scelgono la via più breve, certi al punto delle loro scelta da non ricorrere nemmeno all’invio di soldati in avanscoperta.

Cul-de-sac

I Romani avanzano alla volta di Lucera, superano anche la seconda gola ma trovano la strada sbarrata da alberi e massi. Fanno dietro front, ma giunti alla prima gola trovano un nuovo sbarramento: cul-de-sac !

Ventimila soldati restano imbottigliati fra una gola e l’altra, ma non si perdono d’animo: si accampano, costruiscono un vallo vicino l’acqua, prossimi alla disperazione, sotto lo sguardo dei nemici che li guardano dall’alto.

Cosa fare: parola al saggio

I Sanniti, tuttavia, consci di essere in guerra con Roma, devono fare la scelta giusta. Per questo ricorrono al consiglio del saggio Erennio Ponzio, padre di Gaio. Erennio offre 2 soluzioni:

  • da una parte lasciare andare i Romani per ottenere la loro gratitudine;
  • dall’altra lo sterminio di tutti i soldati rendendo impossibile il riarmo e ottenendo la vittoria definitiva.

Nessuna delle due soluzioni viene presa in considerazione né messa in atto.

Roma sconfitta: l’umiliazione delle Forche Caudine

Siamo al dunque. I Romani accettano la sconfitta e vengono costretti a “passare sotto le forche caudine”.

La resa dei Romani non può essere una semplice resa. I Romani vengono costretti a passare sotto tre lance incrociate, abbassando il capo, disarmati, vestiti della sola tunica. Nel frattempo i nemici li colpiscono, fisicamente e verbalmente.

Passare sotto le forche caudine significa, da quel preciso momento storico, essere costretti a subire una grave umiliazione.

L’offesa ai Romani è tale che la notizia, giunta a Roma, genera un vero e proprio lutto con tanto di botteghe chiuse e attività del Foro sospese.

Il racconto in Ab urbe condita di Tito Livio (IX secolo)

Questo passaggio della storia è scritto in “Ab urbe condita” di Tito Livio del nono secolo. Si legge:

«Furono fatti uscire dal terrapieno inermi, vestiti della sola tunica: consegnati in primo luogo e condotti via sotto custodia gli ostaggi. Si comandò poi ai littori di allontanarsi dai consoli; i consoli stessi furono spogliati del mantello del comando […] Furono fatti passare sotto il giogo innanzi a tutti i consoli, seminudi; poi subirono la stessa sorte ignominiosa tutti quelli che rivestivano un grado; infine le singole legioni. I nemici li circondavano, armati; li ricoprivano di insulti e di scherni e anche drizzavano contro molti le spade; alquanti vennero feriti ed uccisi, sol che il loro atteggiamento troppo inasprito da quegli oltraggi sembrasse offensivo al vincitore.»

Il modo di dire, la pratica militare

Tale pratica, traslata poi nel subire un’umiliazione a vario titolo, trae un’impronta figurata dagli usi militari. E probabilmente all’ambito militare ha fatto ritorno, nel tempo. Militarmente, il passaggio per le forche caudine è cioè una routine messa in atto per punire i ladri, i soldati disobbedienti e torturare i prigionieri.

La lezione della Storia

Chi ricostruisce la lunga storia romana vede in questo episodio la sconfitta più pesante, da una parte, ma anche la più grande lezione subita dalla città Caput mundi. La monarchia era caduta nel 509 a.C. A seguire le popolazioni italiche avevano iniziato a combattere a vario titolo per impadronirsi di terre coltivabili e sbocchi sui mari.

L’episodio delle forche caudine giunge come un duro colpo per i Romani che prendono in considerazione la possibilità della loro vulnerabilità. Questo, in qualche modo, conduce alla fase discendente della Repubblica e alla nascita del grande Impero che tutti conosciamo e che ha segnato, in maniera assoluta, la storia dell’umanità.

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Campagna di Guadalcanal: riassunto, fatti storici e protagonisti https://cultura.biografieonline.it/campagna-di-guadalcanal/ https://cultura.biografieonline.it/campagna-di-guadalcanal/#comments Sun, 03 May 2020 10:01:00 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=28550 La Campagna di Guadalcanal ebbe inizio con lo sbarco dei marines nelle isole Salomone Meridionali, il 7 agosto 1942 e terminò il 9 febbraio del 1943, quando gli Americani constatarono che il nemico aveva evacuato l’intero settore. Secondo molti storici, rappresentò il turning point, il punto di svolta, della intera guerra nel Pacifico. Prima di questa campagna il Giappone aveva dettato tempi e modi della guerra, da Guadalcanal in poi l’offensiva fu sempre nelle mani degli Alleati.

Sbarco dei marines americani sulla spiaggia di Guadalcanal
7 agosto 1942: lo sbarco dei marines americani sulla spiaggia di Guadalcanal

Giappone e USA: la situazione alla vigilia

Dopo la disastrosa sconfitta a Midway, l’alto comando giapponese era come un pugile alle corde, incapace di reagire ai pugni subiti. Per diverse settimane, lo staff dell’ammiraglio Isoroku Yamamoto – comandante in capo della Flotta Combinata – non fu in grado di elaborare piani.

Si trattava di un momento delicato: l’irreparabile perdita di 4 delle 6 portaerei della squadra di attacco esigeva un ridimensionamento degli obiettivi, se non proprio il passaggio a una fase difensiva.

Midway: portaerei in fiamme
Midway: una portaerei in fiamme

Di contro, gli americani non erano nella situazione ideale per sfruttare il successo: le loro forze erano ancora troppo deboli, in gran parte a causa della scelta politica sintetizzata nella locuzione Germany first, che privilegiava il teatro bellico europeo nell’assegnazione di risorse per la guerra.

Per ripetere una efficace metafora di dello storico H. P. Willmott, l’iniziativa era come una pistola abbandonata in strada: quale dei due contendenti l’avrebbe raccolta e avrebbe sparato per primo?

Guadalcanal: l’isola e la geografia

Nella parte meridionale delle Salomone giace l’isola che, fino allora sconosciuta, sarebbe diventata teatro di una delle campagne militari più famose e sofferte dell’intera seconda guerra mondiale.

Cartina geografica del teatro del Pacifico - 1942 - con la posizione di Guadalcanal
La cartina mostra l’area geografica del teatro del Pacifico. La grafica mostra i punti delle principali battaglie: Midway, Pearl Harbor, e Mar dei Coralli. Guadalcanal si trova vicino a quest’ultimo punto.

Nell’estate del 1942 Guadalcanal era un appezzamento di terra, per lo più disabitato, lungo circa 150 km e largo al massimo 53. Non era certo un luogo ospitale: le piogge erano frequenti e a carattere torrenziale, la zanzara della malaria molto diffusa e la giungla estremamente fitta. Eppure era stata scelta dal comando giapponese per allestire un aeroporto.

Gli Alleati temevano, con ragione, che questa posizione avrebbe consentito al nemico di minacciare la vitale rotta che collegava Stati Uniti e Australia; lungo tale via venivano indirizzati i mercantili che portavano uomini, armi e munizioni destinati alla difesa della Nuova Guinea e del continente australiano stesso.

Fu principalmente questo timore che indusse l’ammiraglio Chester W. Nimitz, comandante in capo della Flotta del Pacifico, a scegliere l’isola di Guadalcanal come teatro della prima offensiva americana nel Pacifico.

Lo sbarco e la reazione giapponese

L’operazione Watchtower ebbe inizio il 7 agosto, con gli sbarchi preliminari sugli isolotti di Gavutu-Tamambogo, seguiti dall’invasione di Tulagi, dove i giapponesi avevano approntato una base per idrovolanti nel maggio precedente, in occasione della battaglia del Mar dei Coralli.

L'incrociatore della Royal Australian Navy HMAS Canberra e 3 navi da carico al largo di Tulagi (Guadalcanal)
L’incrociatore della Royal Australian Navy HMAS Canberra (D33) al largo di Tulagi, durante gli sbarchi del 7 e 8 agosto 1942. Le navi visibili in lontananza sono tre mezzi da carico che sbarcano uomini e materiale. Sullo sfondo: Tulagi e le isole della Florida, parte delle Salomone.

Entrambe le operazioni incontrarono una resistenza maggiore del previsto, basata soprattutto su efficaci infiltrazioni notturne, tattiche nelle quali il fante nipponico eccelleva. Tutti gli obiettivi vennero comunque conquistati il 9 agosto, non senza la necessità di rinforzi.

Sull’isola di Guadalcanal erano acquartierati 2.230 giapponesi, circa 1.700 dei quali erano operai militarizzati. Alle 9.19 del 7 agosto cominciarono a sbarcare i marines del 1° e 5° reggimento, incorporati nella 1a divisione marines del generale Alexander A. Vandegrift, per un totale di 8.500 uomini.

La resistenza iniziale fu pressoché inesistente e gli americani, già nel primo pomeriggio, si impadronirono dell’aeroporto appena ultimato, che ribattezzarono Henderson Field, trovandovi anche una discreta quantità di materiale abbandonato dal nemico.

Attorno a questo obiettivo venne costituito un perimetro difensivo che sarà poi il teatro delle principali controffensive terrestri giapponesi. I soldati giapponesi, nonché opporsi allo sbarco dei marines, scelsero invece di rifugiarsi nella giungla all’interno dell’isola.

La battaglia di Savo

La reazione del Sol Levante fu affidata all’Ottava Flotta del viceammiraglio Gunichi Mikawa, composta da 5 incrociatori pesanti, 2 leggeri e un solo cacciatorpediniere.

Nella notte tra l’8 e il 9 agosto, questa squadra ottenne una delle vittorie numericamente più clamorose dell’intera guerra. Nel corso della battaglia di Savo riuscì infatti ad affondare 4 incrociatori pesanti alleati, senza perdere alcuna unità.

Fallì invece nell’obiettivo di localizzare e attaccare i mercantili nemici, ancora alla fonda e impegnati nello sbarco di materiali, e, in ultima analisi, nel conseguire un completo successo strategico.

La distruzione, o anche solo l’allontanamento dei mercantili, avrebbe certamente messo in crisi i marines, riducendo la loro capacità di opporsi alle imminenti controffensive terrestri.

Sviluppo della campagna di Guadalcanal

La campagna si sviluppò da allora secondo un canone ben preciso. Il possesso di Henderson Field garantiva agli americani il predominio dei cieli e, conseguentemente, la possibilità di operare, facendo giungere rinforzi e rifornimenti, alla luce del giorno.

Viceversa, l’oscurità, costringendo a terra gli aerei, andava a vantaggio dei giapponesi, addestrati a combattere di notte e in grado di far giungere, a loro volta, convogli ribattezzati Tokyo Express dagli americani; essi erano composti prevalentemente da cacciatorpediniere che, quasi ogni notte, trasportavano soldati e armi leggere dalle basi nelle Salomone settentrionali a Guadalcanal.

Le principali battaglie

È difficile isolare le singole battaglie perché la storia di Guadalcanal si compone di piccole azioni aeree, navali e terrestri quasi quotidiane.

Entrambe le parti si risolsero a inviare via mare flussi di rifornimenti di dimensioni ridotte per eludere l’opposizione nemica. Inoltre, la morfologia dell’isola si prestava ad incursioni di piccoli reparti.

È forse possibile identificare 6 azioni principali.

  • La battaglia terrestre del Tenaru, 21 agosto, quando il distaccamento Ichiki provò a forzare il perimetro di Henderson Field e venne annientato.
  • La battaglia aeronavale delle Salomone Orientali, 24-25 agosto, originata dal tentativo di eseguire azioni di rifornimento in grande stile; si trattò di uno scontro inconcludente che vide l’affondamento della portaerei leggera nipponica Ryujo e il danneggiamento della USS Enterprise.
  • Il 12 settembre venne combattuta la battaglia terrestre di Edson’s Ridge, nota anche come cresta insanguinata. Fu uno scontro durissimo che sfociò spesso in terribili corpo a corpo. L’offensiva giapponese, che mirava a Henderson Field, venne respinta con gravissime perdite.
  • L’11 ottobre ebbe luogo la battaglia aeronavale di capo Speranza, con bombardamenti navali dell’aeroporto americano che si protrassero fino al 15 ottobre.
  • Al 24 ottobre risale la battaglia di Henderson Field, ultimo serio tentativo nipponico di occupare l’aeroporto nemico. Questa offensiva terrestre coincise con lo scontro aeronavale del 26 ottobre, nota come battaglia delle Isole Santa Cruz.
  • La battaglia navale di Guadalcanal, combattuta nella notte tra il 12 e il 13 novembre. Determinata da un’operazione nipponica di rifornimento e al contempo bombardamento, incontrò l’opposizione di una flotta americana inferiore che venne annientata ma seppe precludere all’ammiraglio giapponese l’esecuzione della sua missione. Ripetuta il 14 novembre, l’operazione fallì nuovamente e questa volta gli americani si aggiudicarono anche il successo tattico.

La fine della campagna

Dopo l’ultimo scontro, il quartier generale giapponese non fu più in grado di organizzare un’offensiva. Di fatto, le perdite subite convinsero soprattutto la Marina che era giunto il momento di accettare la sconfitta.

L’evacuazione di Guadalcanal venne ordinata nell’ultima settimana di dicembre e portata a termine il 7 febbraio del 1943 con perdite modestissime. Due giorni più tardi, il generale Alexander Patch, recentemente nominato comandante delle forze alleate sull’isola, dichiarò conclusa la campagna.

Con la vittoria, gli americani poterono fare di Guadalcanal il punto di partenza delle loro successive offensive, sviluppando l’aeroporto già esistente e costruendone altri. Ma, soprattutto, poterono far tesoro della crescente debolezza del nemico, che non era in grado di compensare le perdite subite.

Gli Americani avevano raccolto la pistola abbandonata per strada, l’iniziativa, e non l’avrebbero più mollata fino alla resa senza condizioni del Giappone.

Bilancio e motivi della sconfitta giapponese

Se le perdite di uomini furono molto superiori per il Giappone, il computo delle navi affondate fu sostanzialmente pari. Nonostante questo, il quartier generale imperiale uscì dalla campagna di Guadalcanal in condizioni di grande inferiorità.

Perché?

Il motivo è presto detto: gli americani erano in grado di far fronte alle perdite subite grazie alle loro capacità industriali, in rapido e imponente aumento, i giapponesi no. Ma non si può tacere che il 7 agosto 1942 era il Giappone a detenere una certa superiorità di uomini e mezzi nel settore.

Quale fu allora il motivo della disfatta?

In primo luogo, è necessario far riferimento a una cattiva pianificazione dello Stato Maggiore nipponico. Per diverse settimane, a Tokyo ritennero che gli americani si fossero insediati a Guadalcanal con forze esigue, sufficienti tutt’al più a una ricognizione su vasta scala.

Da questa erronea convinzione derivarono sconfitte e perdite di uomini e materiali, con offensive lanciate in condizioni di netta inferiorità numerica, confidando anche nella (presunta) superiorità combattiva del soldato nipponico.

Contribuirono alla disfatta anche l’inferiorità qualitativa e quantitativa dei rifornimenti e la mancanza di adeguate strutture sanitarie all’interno dell’esercito che invece sarebbero state necessarie in un ambiente malsano come la giungla di Guadalcanal.

Basti dire che i soldati giapponesi evacuati nel febbraio 1942 erano così emaciati da scioccare i marinai dei vascelli su cui si imbarcarono.

I motivi della vittoria americana

Per parte loro, gli americani incominciarono la campagna con alcuni seri handicap, in primis l’inferiorità nel combattimento navale notturno al quale non erano addestrati, mentre la Marina Imperiale ne aveva fatto uno dei suoi punti di forza.

Seppero però recuperare, grazie a un rapido e intenso ciclo addestrativo e all’imponente produzione che consentì a esercito, marina e corpo dei marines di disporre di abbondanti riserve di materiale; questo nonostante periodi di crisi per la difficoltà di trasferire tanta abbondanza alla prima linea.

Considerazioni finali

Se c’è un aspetto sul quale i due nemici si trovano assolutamente d’accordo, è la durezza della campagna. Guadalcanal fu una tragedia per chi vi combatté perché le condizioni psicologiche e fisiche dei protagonisti furono messe a durissima prova.

Il termine che ricorre più spesso nei resoconti è “inferno”, valga per tutti l’epigrafe che accompagna la tomba di un marine e che recita:

«Quando questo marine si presenterà a Pietro gli dirà: Signore, io ho già servito all’inferno, sono stato a Guadalcanal».

And When He Gets To Heaven, To Saint Peter He Will Tell; One More Marine Reporting Sir, I’ve Served My Time In Hell – (Marine Grave inscription on Guadalcanal, 1942)

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Battaglia di Midway https://cultura.biografieonline.it/midway-battaglia/ https://cultura.biografieonline.it/midway-battaglia/#comments Tue, 12 Nov 2019 16:21:29 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=27453 I fatti, i protagonisti, lo scenario storico della Battaglia delle Midway
Midway, Battaglia di Midway
Battaglia delle Midway – Fu una storica battaglia della Seconda Guerra Mondiale che si combatté tra il 4 e il 6 giugno 1942 nei pressi dell’atollo di Midway, vicino alle Hawaii, tra Stati Uniti e Giappone

Midway: l’atollo

Midway è un atollo costituito da due isolette, Eastern e Sand. La sua unica importanza, nel 1942, risiedeva nella posizione strategica. Costituiva un avamposto della marina americana verso le Isole Filippine che, secondo tutti i piani prebellici, avrebbero dovuto costituire l’obiettivo principale dell’avanzata americana nel Pacifico. L’atollo di trova infatti a circa 2.300 km dalla più vicina base aeronavale americana, nelle Hawaii; e a oltre 5.000 km dalle coste Californiane; mentre è a circa 4.000 km da Tokyo. Queste enormi distanze devono essere sempre tenute presenti nel considerare lo svolgimento della Battaglia di Midway e, in genere, dell’intera guerra nel Pacifico. Tra il 4 e il 7 giugno 1942, Midway fu il teatro della più conosciuta battaglia aeronavale della storia.

Battaglia di Midway: la situazione alla vigilia

I giapponesi

Dopo il devastante attacco a Pearl Harbor (7 dicembre 1941), i giapponesi inanellarono una serie quasi ininterrotta di successi. Successi che li portarono, a fine aprile 1942, ad aver conseguito tutti i loro obiettivi strategici. Si erano infatti impadroniti di Singapore e della Malesia, di tutte le Filippine e delle Indie Orientali Olandesi, con i loro ricchi giacimenti petroliferi.

In questa situazione, lo stato maggiore nipponico aveva deciso di attuare una strategia più cauta. Perfezionarono così un perimetro difensivo costituito dalle isole del Pacifico sud-occidentale e centrale, allo scopo di opporre un’autentica barriera alla prevedibile controffensiva americana.

Rientravano in quest’ottica gli eventi che portarono alla cosiddetta Battaglia del Mar dei Coralli (4-8 maggio 1942); essa fu la prima mai combattuta tra 2 flotte che non si avvistarono e si colpirono solo per il tramite degli aerei imbarcati; ma fu anche la prima battuta di arresto per la Marina Imperiale che non riuscì a conseguire il controllo della Nuova Guinea e delle Isole Solomone.

Anzi, le 2 portaerei di squadra impegnate nel Mar dei Coralli furono danneggiate, soprattutto nella componente aerea. Furono compromesse al punto da non poter partecipare allo scontro a Midway. E questa assenza risultò probabilmente decisiva per la sconfitta.

Gli americani

Il disastro di Pearl Harbor aveva pesantemente condizionato la strategia americana fino a metà del 1942. Di fatto, le poche navi da battaglia superstiti avevano lasciato Pearl Harbor ed erano state ritirate verso la più sicura costa californiana.

La US Navy poteva schierare solo le portaerei, per coprire l’immensa vastità del Pacifico. Di queste, la Lexington era stata affondata proprio nel Mar dei Coralli; la Saratoga era in riparazione dopo essere stata silurata dal sottomarino giapponese I-6 e poté salpare da San Diego solo l’1 giugno: troppo tardi per partecipare alla battaglia.

Rimanevano le portaerei di squadra Enterprise, Hornet e Yorktown; quest’ultima riparata in fretta e furia dopo essere stata danneggiata nel Mar dei Coralli. Con le portaerei, l’ammiraglio Chester W. Nimitz, nominato comandante supremo della flotta del Pacifico dopo Pearl Harbor, aveva effettuato qualche operazione offensiva di secondaria rilevanza, allo scopo di non lasciare l’iniziativa totalmente nelle mani del nemico.

Midway: portaerei in fiamme
Portaerei in fiamme

In questo quadro rientrava il famoso raid Doolittle, dal nome del Tenente Colonnello James H. Doolittle che il 18 aprile aveva guidato 16 B-25B Mitchell, per l’occasione imbarcati proprio sulla Hornet, in una missione – più dimostrativa che efficace – di bombardamento di Tokyo e altre città giapponesi.

Secondo alcuni storici, il vero successo di questo raid fu soprattutto psicologico: spinse cioè lo stato maggiore nipponico e cercare di annientare le portaerei nemiche per prevenire ulteriori operazioni di questo tipo.

I piani delle due parti

I giapponesi avevano in animo di impadronirsi dell’atollo di Midway da utilizzare come base aerea e di attirare in battaglia il nemico per distruggerne le ultime 2 portaerei: erano infatti convinti che la Yorktown fosse affondata nel Mar dei Coralli.

Come era loro abitudine, avevano quindi concepito un piano complesso, articolato sulla loro tanto enorme quanto supposta superiorità qualitativa e quantitativa in campo navale.

La flotta giapponese

La flotta Imperiale era coinvolta quasi nella sua interezza ed era ripartita in numerosi gruppi operativi; alla prova dei fatti, essi si troveranno troppo lontani gli uni dagli altri per aiutarsi reciprocamente.

I giapponesi avevano inoltre concepito una contemporanea manovra nelle Aleutine che aveva lo scopo di occupare alcune località di questa nebbiosa catena insulare, contemporaneamente fungendo da esca per confondere gli americani.

La punta di diamante del loro schieramento era costituita dalla Forza d’attacco del viceammiraglio Chuichi Nagumo, composta dalle 4 portaerei Akagi, Kaga, Hiryu e Soryu, da 2 incrociatori da battaglia, 2 incrociatori pesanti, uno leggero e 8 cacciatorpediniere. Sarà proprio questa squadra a subire quasi tutto l’impeto del contrattacco statunitense.

La flotta americana

La flotta statunitense aveva ricevuto importanti informazioni dalla sezione destinata alla decodifica dei messaggi radio del nemico circa una probabile missione nel Pacifico Centrale e, con uno stratagemma, era riuscita a stabilire che l’obiettivo sarebbe stato l’atollo di Midway.

L’ammiraglio Nimitz decise di impiegare qui le sue ultime tre portaerei, lasciando quasi indifeso il fianco delle Aleutine, al quale vennero destinati pochi incrociatori e cacciatorpediniere. A supporto erano schierati anche 19 sommergibili, con il compito di attaccare il nemico durante il suo avvicinamento, non senza averne preventivamente comunicato l’avvistamento, e un assortimento di aerei dell’esercito e della marina schierati sulle piste di Midway.

La flotta in mare era affidata al contrammiraglio Frank J. Fletcher, comandante supremo in mare e della Task Force 17, che schierava la Yorktown, 2 incrociatori e 6 cacciatorpediniere, e al subordinato contrammiraglio Raymond A. Sprunce, con la Enterprise, la Hornet, 6 incrociatori e 9 cacciatorpediniere. La missione di Fletcher e Spruance era di colpire i giapponesi con attacchi aerei fin dalle primissime fasi della battaglia.

Il primo attacco giapponese

Gli aerei nipponici cominciarono a decollare dai ponti di volo di Akagi, Kaga, Hiryu e Soryu ancor prima dell’alba del 4 giugno. Obiettivo: Midway, e in particolar modo le piste di volo che, secondo i piani e secondo la dottrina bellica dell’epoca, dovevano essere messe fuori servizio prima che le truppe cominciassero l’assalto.

Un quadro raffigurante la battaglia delle Midway
Un quadro raffigurante la battaglia delle Midway

L’incursione non incontrò un’opposizione particolarmente efficace. Gli arei da caccia americani levatisi in volo erano quantitativamente inferiori (20 F2A Buffalo e 7 F4F Wildcat). I giapponesi invece schieravano 36 A6M Zero, che in questa fase della guerra erano di gran lunga superiori a qualsiasi apparecchio americano.

Tuttavia il comandante dell’incursione, tenente di vascello Joichi Tomonaga, segnalò all’Akagi, ammiraglia di Nagumo, la necessità di eseguire un secondo attacco, poiché le difese di Midway erano state sì duramente colpite ma non annientate: per le truppe di fanteria sarebbe stato troppo pericoloso lo sbarco.

Nagumo, che come misura precauzionale aveva trattenuto a bordo molti aerei, alle 07:15 diede ordine di prepararli per un secondo attacco su Midway. Alle 07:40 cominciarono però ad arrivare i primi rapporti dei ricognitori giapponesi sull’avvistamento di navi nemiche.

Queste notizie contraddittorie finirono per determinare l’esito della battaglia. Lo stato maggiore nipponico decise prima di riarmare gli arei in preparazione per l’attacco a Midway in modo che potessero danneggiare le navi nemiche. Ricevuta poi l’informazione, errata, che il nemico non disponeva di portaerei, si decise di tornare a concentrarsi sull’attacco a Midway, con conseguente contrordine e nuova preparazione degli aerei a bordo.

A tutta questa serie di ordini contraddittori, si aggiungeva la necessità per i giapponesi di sgombrare i ponti di volo per accogliere i velivoli di ritorno dall’incursione sull’atollo.

La reazione statunitense

Nel frattempo, la marina americana non se n’era certo stata con le mani in mano. Alle 05:34, un idrovolante PBY Catalina decollato da Midway aveva avvistato i giapponesi. Le TF16 e -17 virarono quindi per accorciare la distanza; dato che il raggio d’azione degli aerei imbarcati a quell’epoca era inferiore a quello dei giapponesi.

Alle 07:50 Spruance fece decollare la sua forza di attacco, seguito alle 09:06 da Fletcher. Il raggio estremo al quale gli aerei vennero inviati, con l’intento di colpire le portaerei nemiche prima che queste avessero la possibilità di fare altrettanto nei confronti delle ultime, preziosissime portaerei della U.S. Navy, fece sì che le varie squadriglie americane raggiungessero i loro obiettivi in varie ondate, impossibilitate a eseguire un attacco coordinato. Paradossalmente, questa si rivelò una fortuna.

Gli aerei da caccia del Sol Levante che proteggevano le navi amiche erano stati parecchi impegnati a respingere numerosi attacchi scagliati nelle prime ore del mattino da aerei basati a Midway e decollati prima che l’atollo venisse danneggiato dagli aerei di Tomonaga.

Ora, si trovarono a respingere i primi apparecchi decollati dalle portaerei, i lenti e vulnerabili aerosiluranti TBD Devastator che volavano a bassa quota per sganciare i loro letali siluri.

Fu una strage: solo uno riuscì a sganciare poco prima di essere abbattuto, ma il suo ordigno non andò a segno. 34 dei 41 aerosiluranti non fecero ritorno e la flotta giapponese era ancora intatta.

Aerei USA durante la Battaglia di Midway: foto della flotta americana scattata in volo
Aerei USA durante la Battaglia di Midway: foto della flotta americana scattata in volo

La battaglia di Midway si decide

La fortuna, più che il calcolo, aveva guidato le squadriglie di bombardieri in picchiata SBD Dauntless decollate da Enterprise e Yorktown, a convergere sulla squadra d’attacco di Nagumo da direzioni differenti. Con gli Zero giapponesi impegnati a bassa quota per contrastare lo sfortunato e già ricordato attacco degli aerosiluranti, gli aerei dei comandanti C. Wade McClusky e Max Leslie poterono sfruttare condizioni quasi ideali per l’attacco. Anche perché sui ponti di volo le squadre di marinai nipponiche erano impegnate a rifornire e riarmare gli aerei.

Ciò comportava la presenza sul ponte di grandi quantità di bombe e carburante, condizione pericolosissima per una portaerei.

Tra le 10:25 e le 10:28 i Dauntless colpirono e incendiarono 3 delle portaerei di Nagumo. Benché queste impiegassero ancora diverse ore ad affondare, la battaglia era decisa. Ai giapponesi rimaneva una sola portaerei operativa, la Hiryu.

La Yorktown e la Hiryu affondano

Furono proprio bombardieri in picchiata Aichi D3A Val, fatti decollare dalla portaerei superstite, a colpire una prima volta con 3 bombe la Yorktown poco dopo mezzogiorno.

I marinai statunitensi, lavorando con grande alacrità, riuscirono però a riparare i danni, e quando gli aerosiluranti Nakajima B5N Kate colpirono nuovamente l’ammiraglia di Fletcher, circa 2 ore più tardi, riferirono che si trattava di un’altra portaerei, non quella già danneggiata in precedenza.

I giapponesi si convinsero così di aver affondato 2 portaerei nemiche. Viceversa, erano tutte e tre ancora a galla: 2 totalmente intatte e la Yorktown gravemente danneggiata, che finirà per affondare alle 05:30 del 7 giugno, dopo essere stata silurata anche dal sommergibile I-168.

La squadra di Spruance, dopo l’atterraggio degli aerei reduci dal vittorioso attacco contro le portaerei, era ben decisa a non lasciarsi sfuggire la superstite portaerei nemica. Una nuova ondata di attacco colpì la Hiryu poco dopo le 17:00 e anche questa nave seguì la sorte delle altre portaerei: divorata dagli incendi finì per affondare.

Fu nel corso della successiva notte che i giapponesi valutarono la situazione; decisero di abbandonare l’operazione e di ritirarsi: anche se si ebbe qualche ulteriore scontro che portò all’affondamento dell’incrociatore Mikuma e al danneggiamento del gemello Mogami, la battaglia di Midway si era conclusa con un decisivo successo americano.

Il dopo Midway e l’analisi della battaglia

Perché gli americani riuscirono a ottenere una vittoria così clamorosa, in condizioni di netta inferiorità come quelle in cui cominciarono la battaglia di Midway? I principali motivi sono:

  • lo straordinario lavoro dell’intelligence, che mise nelle mani di Nimitz una ricostruzione sufficientemente accurata del piano nemico;
  • le lacune del piano giapponese, in particolare l’eccessiva frammentazione delle forze;
  • la vulnerabilità delle portaerei giapponesi: gli scafi erano protetti meno di quelli delle equivalenti americani; e gli equipaggi erano meno addestrati nel controllo del danno;
  • la fortuna, che portò i Dauntless di McClusky e Leslie ad attaccare il nemico in condizioni ideali;
  • le indecisioni del viceammiraglio Nagumo il mattino del 4 giugno;
  • l’assenza delle portaerei Shokaku e Zuikaku, danneggiate nel Mar dei Coralli.

I numeri a confronto

Inoltre, secondo alcuni storici, H. P. Willmott su tutti, la superiorità numerica giapponese era solo presunta. A causa dell’errato piano d’attacco nemico, le flotte che effettivamente si scontrarono a Midway erano sostanzialmente di pari forza in quello che sarebbe diventato il decisivo “punto di incontro”: 4 portaerei giapponesi contro 3 americane.

A ciò si aggiungeva la stessa Midway, che fungeva da portaerei immobile ma inaffondabile; si aggiungeva inoltre un numero di aerei che varia in base alle fonti; anche se variabile esso può essere considerato sostanzialmente equivalente, tra i 260 e i 270 per parte.

Alcuni storici ritengono che la Battaglia di Midway costituisca il “turning point” della guerra nel Pacifico. Senza addentrarsi nella diatriba, è indubbio che l’affondamento delle 4 migliori portaerei nemiche, insieme ai loro addestratissimi equipaggi e aviatori, costituì un colpo durissimo per una nazione dalle limitate capacità industriali, qual era allora il Giappone.

Di fatto, mentre a partire dal 1943 gli americani mettevano in servizio enormi quantità di navi tecnicamente all’avanguardia, i giapponesi non si risollevarono più dalla perdita. Combatterono ancora per tutto il 1942 nell’intento di mantenere l’iniziativa strategica nel Pacifico. Con la sconfitta nella campagna di Guadalcanal, furono costretti sulla difensiva e, infine, alla resa incondizionata il 15 agosto 1945.

Film sulla battaglia di Midway

Sono stati prodotti alcuni film sull’evento storico della Battaglia di Midway. I più celebri sono quello del 1976 intitolato “La battaglia di Midway” (Midway), diretto da Jack Smight, con Charlton Heston, Henry Fonda, Robert Mitchum e Glenn Ford; e quello più recente del 2019 intitolato semplicemente Midway, diretto da Roland Emmerich, con Ed Skrein, Patrick Wilson, Luke Evans, Aaron Eckhart, Nick Jonas, Mandy Moore, Dennis Quaid e Woody Harrelson.

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Battaglia di Vittorio Veneto, riassunto e fatti storici https://cultura.biografieonline.it/battaglia-di-vittorio-veneto/ https://cultura.biografieonline.it/battaglia-di-vittorio-veneto/#comments Wed, 16 Oct 2019 08:38:01 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=27183 La battaglia di Vittorio Veneto fu combattuta fra il 24 ottobre e il 4 novembre 1918, fra l’esercito dell’Impero austro-ungarico e il Regio Esercito Italiano. Terminò con la disfatta degli austro ungarici e la resa incondizionata dell’Impero di fronte alle Potenze dell’Intesa. Di fatto sancì la vittoria dell’Italia nel primo conflitto mondiale.

Battaglia di Vittorio Veneto

La situazione alla viglia

Gli austro-ungarici

Dopo il gigantesco sforzo logistico e militare che aveva portato alla vittoria di Caporetto, e ancor più dopo la fallita offensiva della cosiddetta “Battaglia del solstizio” o “Seconda battaglia del Piave” (15-24 giugno 2018), le forze Imperiali austriache erano allo stremo.

Sotto il profilo morale, la condizione era determinata dal disfacimento dell’impero, dovuto alle crescenti spinte secessionistiche che caratterizzavano un impero multietnico come quello di Francesco Giuseppe. Ne risentivano il morale e la volontà delle truppe non austriache di combattere.

Inoltre, dopo quattro anni di guerra la situazione dei rifornimenti per le potenze centrali era decisamente preoccupante. Soprattutto sotto il profilo alimentare, i militari austriaci ricevevano razioni sempre più scarse e nettamente inferiori rispetto a quelli del riorganizzato esercito italiano.

Gli italiani

A ottobre 1918 l’esercito italiano aveva ben poco a vedere con quello di Caporetto. Il reclutamento dei “ragazzi del ‘99” aveva consentito di colmare le perdite e riportare le singole unità vicine alla forza nominale.

Il materiale in dotazione era infinitamente migliore rispetto a quello del 1915: i veicoli, l’artiglieria, le maschere antigas, ecc. Ma soprattutto la destituzione del detestato generale Cadorna, responsabile della disfatta di Caporetto, con la nomina del Generale Armando Diaz a capo di stato maggiore dell’esercito, aveva infuso nuovo morale nelle truppe. La sensazione generale era che la vittoria definitiva fosse vicina.

I piani delle due parti

Il Generale Diaz non era del tutto convinto dell’opportunità di lanciare un’offensiva a ottobre. Tuttavia, le pressioni degli alleati anglo-francesi lo convinsero e concepì il piano che aveva come obiettivo strategico Vittorio Veneto, che all’epoca si chiamava semplicemente Vittorio.

Questa cittadina venne scelta perché si trovava esattamente a metà strada rispetto ai punti di partenza delle due direttrici principali della avanzata. Inoltre, in base ai piani, la conquista di Vittorio Veneto avrebbe consentito anche di tagliare la via di ritirata alle truppe austro-ungariche, qualora si fosse riusciti a ottenere lo sfondamento lungo il fronte.

Riguardo alla situazione del nemico, le opinioni all’interno dello Stato Maggiore Italiano erano contrastanti. Alcuni ritenevano che gli austriaci avrebbero opposto una ferma resistenza, come sempre era stato fino a quel momento. Altri consideravano ormai sconfitto l’esercito austro-ungarico.

Fra tutti si distingueva l’opinione del colonnello Tulio Marchetti, Capo dell’Ufficio Informazioni della 1ª Armata, il quale riteneva che le truppe di prima linea del nemico sarebbero state un osso duro. Ma, una volta infranta la loro resistenza, non si sarebbero più trovati grossi ostacoli. Cosa che, puntualmente, si verificò.

Gli austriaci erano tutt’altro che ignari della possibilità, anzi probabilità, di una imminente offensiva italiana, nel breve periodo. In alcune aree del settore, come il Monte Grappa, si riteneva di poter fermare l’avanzata del nemico, appoggiandosi alle truppe di élite di prima linea e alle asprezze del terreno.

Peraltro, nel complesso si era ben consapevoli delle difficoltà e soprattutto delle lacune. Le unità imperiali erano ampiamente sotto numero, i materiali e i pezzi di artiglieria scarseggiavano ma, soprattutto, il problema principale era la denutrizione.

Il settore del Grappa

In base ai piani, le operazioni ebbero inizio il 24 ottobre 1918 nel settore del Monte Grappa. Qui, preceduta dal fuoco di preparazione dell’artiglieria, la 4a Armata del generale Gaetano Giardino sferrò l’attacco. In questo settore, però, le forze erano numericamente equilibrate e, anche grazie all’asprezza del terreno montagnoso, gli austro ungarici seppero resistere validamente.

Il gruppo di armate del Tirolo (Arciduca Giuseppe) riuscì a non cedere terreno e, anche nelle occasioni nelle quali gli italiani sembravano aver conseguito successi locali, seppero contrattaccare e riconquistare le posizioni perdute. Si andò avanti così, tra successi tattici italiani e controffensive austriache, alternate da proteste del generale Giardino che non vedeva vantaggi nel continuare un’offensiva che stava dissanguando le sue truppe, fino al 30 ottobre. La rotta austro-ungarica divenne generale su tutto il fronte e la 4 a Armata potè conseguire i suoi obiettivi.

Tuttavia, se si considera che, nel piano originale, la 4a Armata avrebbe dovuto assolvere a un compito strategico, inchiodando il nemico nel settore e, anzi, obbligandolo ad inviarvi delle riserve, si può concludere che l’offensiva in questo settore fu un insuccesso almeno parziale.

Il fronte del Piave

Il nerbo dell’offensiva era costituito dalla 8a Armata del generale Enrico Caviglia, che doveva avanzare nel settore del Piave. In particolare, tra Vidor e le Grave di Papadopoli (un’isoletta formatasi in seguito a un’alluvione che divise il Piave in due rami), il Regio Esercito era riuscito a conseguire una notevole superiorità locale.

Proprio qui, truppe inglesi conseguirono il primo successo locale, occupando l’isola con il supporto dell’artiglieria italiana. Sul resto del fronte, invece, le operazioni subirono un forte ritardo a causa delle forti piogge, che portarono a una semi-piena del Piave, rendendo di fatto il corso d’acqua impossibile da attraversare.

Fu solo il 27 ottobre che si riuscì ad attraversare il Piave, appoggiandosi soprattutto alla testa di ponte britannica. Il giorno 29 le operazioni offensive cominciarono a prendere una piega favorevole, grazie anche alle migliorate condizioni atmosferiche.

Come previsto dal colonnello Tullio Marchetti, superata l’opposizione della prima linea imperiale, le truppe italiane poterono avanzare subendo un contrasto molto relativo.

Soprattutto nel settore del Piave l’opposizione del nemico era minima: le unità di élite austriache, sconfitte, invocavano l’arrivo delle riserve, ma queste, soprattutto gli ungheresi, si rifiutavano di combattere. Il 30 ottobre si verificò un ulteriore sfondamento anche nel settore del Grappa e la ritirata austriaca si trasformò in rotta lungo tutto il fronte.

La resa

Intorno alle ore 15 del 30 ottobre 1918, il 20º reparto d’assalto del generale Caviglia entrò a Vittorio Veneto, accolto festosamente dalla popolazione. Dal 1º novembre, le operazioni dell’8ª Armata assunsero il carattere di inseguimento dell’esercito nemico in rotta.

Nel frattempo si trattava la resa. Dopo i primi approcci del 30 ottobre, le trattative proseguirono con alcune difficoltà. Da parte italiana si aspettava la trasmissione del testo della capitolazione da Versailles, dove si trattava la resa di tutte le potenze centrali.

La richiesta, inoltre, era di un cessate il fuoco posticipato di 24 ore rispetto alla firma dell’armistizio di Villa Giusti, mentre gli austriaci insistevano per una cessazione delle ostilità immediata. Alla fine, ci si accordò per l’entrata in vigore dell’armistizio alle ore 15,00 del giorno 4 novembre.

L’importanza della battaglia di Vittorio Veneto

All’epoca della battaglia di Vittorio Veneto, la capacità di opporsi al nemico dell’esercito austro ungarico era fortemente minata. Quattro anni di guerra e le contraddizioni interne (leggasi, il problema delle nazionalità) avevano logorato la volontà militare e politica di combattere dell’esercito imperiale.

Questo non significa però che le truppe del Regio Esercito si limitassero a sfondare una porta aperta. Soprattutto i veterani austriaci seppero combattere con valore, facendo appello allo spirito di corpo e alla fedeltà verso ufficiali che li avevano condotti attraverso le battaglie e i pericoli per 4 anni: in questo senso, la fedeltà al reparto si sostituì a quella alla Patria.

Da parte italiana, il documento più famoso a suggello della battaglia è il bollettino della vittoria del generale Diaz.

Il testo del generale Diaz

«Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12; Bollettino di guerra n. 1268

La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita.

La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d’Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l’irresistibile slancio della XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente.

Nella pianura, S.A.R. il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L’Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni.

I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza.»

Considerazioni finali

Ci fu chi descrisse la battaglia di Vittorio Veneto come un evento senza nemico o dove il nemico si limitò al ruolo passivo di fuggitivo. Non fu così. Come non è nemmeno vera quella parte di storiografia secondo la quale fu soprattutto a Vittorio Veneto che si determinò l’esito della prima guerra mondiale.

La verità sta nel mezzo: nell’ottobre 1918 fu sancito un destino al quale l’esercito austriaco era andato incontro nei 4 anni precedenti, ma che non tutti i suoi componenti erano ancora pronti ad accettare. L’Esercito Italiano colse invece una vittoria che appare fulgida, ma che ebbe le sue premesse nella Battaglia del solstizio, quella sì realmente incerta.

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Battaglia di Sedan. L’evento che segnò l’inizio della storia contemporanea https://cultura.biografieonline.it/battaglia-di-sedan/ https://cultura.biografieonline.it/battaglia-di-sedan/#comments Mon, 22 Jul 2019 09:32:52 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=26679 Ci sono episodi che, più di altri, determinano conseguenze sul futuro della storia e degli assetti geografici dei territori. Uno di questi è la Battaglia di Sedan, che ebbe luogo fra il 31 agosto ed il 2 settembre 1870 tra Prussia e Francia.

Battaglia di Sedan Battle of Sedan
1° settembre 1870: il generale Reille consegna la lettera di resa di Napoleone III al re Guglielmo I nella battaglia di Sedan . (Dipinto di Carl Steffeck, 1884)

Secondo l’autorevole giudizio di alcuni storici studiosi lo scontro definitivo avvenuto al confine con il Belgio, durante la guerra franco-prussiana del 1870, ha segnato l’inizio della storia contemporanea. Di fatto, la sconfitta francese che derivò da tale episodio bellico ha condotto al tramonto dell’Europa così come era stata definita con il Congresso di Vienna nel 1815.

Il luogo: Sedan

Il luogo in cui si svolse la battaglia, Sedan, si trova su una penisola del fiume Mosa, e per chi arriva dalla Germania rappresenta un’entrata che conduce facilmente a Parigi (per questo i Tedeschi ci torneranno di nuovo durante il Secondo conflitto mondiale).

I 3 momenti fondamentali della Battaglia si Sedan del 1870

L’episodio bellico di Sedan è incentrato su tre principali momenti:

  • il 19 luglio 1870, quando l’imperatore francese Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia;
  • il 2 settembre 1870 quando avvenne la sconfitta francese a Sedan;
  • il 10 maggio 1871, data in cui venne stipulato il Trattato di Francoforte tra Germania e Francia.

Germania (Prussia) e Francia

All’indomani della Battaglia di Sedan l’equilibrio dell’Europa dell’epoca venne completamente sconvolto: da un lato c’era la Francia, debole e in balìa delle sue fragilità; dall’altro la Germania, che aveva unificato gli stati del Nord e del Sud in un unico Impero forte e potente.

L’armata tedesca fu in grado di costringere le truppe francesi alla resa totale, accerchiandole completamente senza alcuna possibilità di fuga. Tra l’1 e il 2 Settembre la situazione per i Francesi fu talmente compromessa che i Tedeschi pensarono bene di aprire il fuoco e colpire la città di Sedan.

La battaglia di Sedan che si combattè tra Francia e Prussia rappresentò una vera e propria disfatta militare per i Francesi, che persero più di 17 mila uomini; circa altri 21 mila soldati furono fatti prigionieri.

La resa dei francesi

Intorno alle 16.15 del 1° settembre Napoleone III invocò la resa per affrettare la fine del combattimento. Lo stesso imperatore francese venne fatto prigioniero; in seguito fu spedito in esilio in Inghilterra.

Queste le parole scritte nella lettera consegnata dal generale Reille a Guglielmo I di Prussia sulle colline di Frenois:

Non avendo potuto morire in mezzo alle mie truppe, non mi rimane altro che consegnare la mia spada nelle mani di Vostra Maestà. Sono il buon fratello di Vostra Maestà.

Napoleone III
Napoleone III
Napoleone III

Se considerata sotto l’aspetto della strategia militare, quella di Sedan è un modello perfetto di battaglia di annientamento, che si concluse con l’accerchiamento e la successiva e definitiva distruzione dell’esercito contrapposto.

I motivi del conflitto

Ma quali furono le ragioni all’origine di una battaglia di tale portata, che implicò un numero esorbitante di perdite umane (soprattutto da parte dell’esercito francese)?

Sembra che tra le motivazioni addotte per “giustificare” il conflitto vi fosse la politica e, in particolare, le mire espansionistiche del cancelliere tedesco Bismarck, che inseguiva il sogno di unificare tutti gli Stati tedeschi in un unico grande stato. L’unico modo per realizzare tale ambizioso obiettivo era quello di scatenare una guerra contro la Francia, da sempre nazione nemica della Germania.

Nel 1870, in estate, il trono spagnolo vacante fu offerto ad un principe tedesco. L’iniziativa fu subito ritenuta “pericolosa” dai Francesi, in quanto capace di intaccare l’equilibrio europeo faticosamente conquistato nel tempo.

La Francia chiese quindi alla Prussia di ritirare la candidatura al trono e il re Guglielmo I accettò. Ma la Francia, non contenta, andò oltre, chiedendo la garanzia di non approvare mai in futuro la candidatura di un appartenente alla famiglia Hohenzollern. Stavolta il sovrano non accettò e mise al corrente Otto von Bismarck.

Il cancelliere fece precipitare la situazione con il dispaccio di Ems.

L’evolversi della Battaglia nei due schieramenti

Il 19 luglio 1870 la Francia dichiarò guerra alla Prussia. La Germania, presa da intenso fervore nazionalistico, si sentì per la prima volta unita in nome del comune nemico da sconfiggere. Anche gli stati più piccoli, come la Sassonia e la Baviera, mandarono i loro soldati a combattere una battaglia che in realtà poteva essere evitata.

Nonostante l’esercito francese fosse considerato tra i più forti d’Europa, già da subito cominciò a subire battute d’arresto nella sua avanzata verso est. Il generale protagonista dei movimenti francesi fu Patrice de Mac-Mahon. Proprio per fronteggiare la compagine tedesca, la Francia del generale François Achille Bazaine si affidò ai “franchi tiratori” che, celati tra i militari, attaccarono i percorsi per i rifornimenti tedeschi.

L’esercito tedesco mise in atto misure assai drastiche per fermare queste truppe illecite che mettevano a repentaglio la sicurezza dei soldati.

Il 31 agosto 1870 le truppe dei due schieramenti restarono sveglie per tutta la notte a pianificare la battaglia: da entrambe le parti c’era una tensione molto forte. Il primo obiettivo delle truppe prussiane era di occupare Bazeilles, un piccolo villaggio di 2000 abitanti, che era nelle mani delle truppe francesi.

Anche gli abitanti del villaggio si unirono ai militari francesi; ci furono anche donne e bambini a fianco dei soldati. Il villaggio venne comunque conquistato dai Tedeschi; il bilancio fu assai grave: furono 31 i civili giustiziati per mano dei Prussiani.

Dopo la caduta di Bazeilles, cominciò la seconda parte della battaglia di Sedan, che terminò con l’occupazione e la devastazione di Sedan.

I francesi si ritrovarono senza quasi più truppe su cui contare. Apparì chiaro che la fine della battaglia fu davvero vicina; non vi fu più alcuna possibilità di recuperare. Ecco quindi che sopraggiunse la resa dei Francesi.

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Battaglia di Caporetto https://cultura.biografieonline.it/battaglia-di-caporetto/ https://cultura.biografieonline.it/battaglia-di-caporetto/#comments Fri, 22 Mar 2019 00:41:10 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=26123 Se oggi il termine “Caporetto” è utilizzato come sinonimo di disfatta è perché quella che si consumò a Caporetto (oggi Kobarid, Slovenia) fu la più grave sconfitta mai subita da un esercito italiano. La Battaglia di Caporetto avvenne nel 2° anno di impegno dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale.

Battaglia di Caporetto Disfatta di Caporetto
Battaglia di Caporetto: truppe tedesche catturano numerosi soldati italiani in una trincea durante le fasi iniziali della battaglia.

Il Paese entrò in conflitto nel 1915 allo scopo, principalmente, di strappare Trento e Trieste all’Impero Austroungarico. A scontrarsi, anche a Caporetto, furono il Regio esercito italiano e le forze austroungariche e tedesche. Queste ultime giunsero in aiuto per far crollare il fronte occidentale, quello italiano.

Antefatto: 11 battaglie sull’Isonzo

La Battaglia di Caporetto giunse come 12° atto dei conflitti sul fiume Isonzo. Una serie di avanzate e ritirate che causarono grandissime perdite da ambo le parti; esse impegnarono gli italiani, sotto il comando di Luigi Cadorna, per più di due anni.

Il fiume Isonzo fu uno dei luoghi principi degli scontri del 1917; come anche l’Altopiano di Asiago e quello del Carso, il Veneto settentrionale e il confine odierno fra Slovenia e Friuli Venezia Giulia.

Mappa della Battaglia di Caporetto
Mappa dell’avanzata austro-ungarico-tedesca in seguito alla ritirata italiana

Battaglia di Caporetto: 3 fasi d’attacco e una grave sconfitta

L’attacco austroungarico a Caporetto iniziò il 24 ottobre 1917. L’evento è ricordato anche come 12ª battaglia dell’Isonzo.

Fase I

La prima fase fu quella del lancio di gas tossici. Gli italiani poterono resistere per due ore con le allora maschere antigas prima di abbandonare la prima linea.

Fase II

A seguire gli austroungarici misero in campo l’artiglieria con tonnellate di proiettili in caduta sulle linee di difesa dell’esercito italiano.

Fase III

In terza battuta, giunse la fanteria. Migliaia di soldati austriaci e tedeschi attaccarono gli schieramenti italiani. Ci fu una giornata intera di combattimenti, in cui questi ultimi non fecero che arretrare fino alla disfatta.

La disfatta

Quattro settimane dopo si ritirarono sulla linea del Piave. La disfatta di Caporetto costò all’Italia la vita di 40mila soldati e condusse in prigionia 365mila connazionali. La ritirata dei soldati italiani si protrasse per circa un mese.

Dopo la linea provvisoria sul Tagliamento, il Regio esercito si posizionò sul Piave. Tale linea mai fu sfondata dalle forze austroungariche e tedesche. Essa fu teatro di numerose successive battaglie.

La Tribuna
La Tribuna: la prima pagina del 20 ottobre 1918 racconta dell’evento storico della Seconda Battaglia del Piave

Intanto, a seguito di Caporetto, fra Friuli e Veneto abbandonarono la propria casa oltre un milione di cittadini. Questi divennero profughi di guerra, di cui solo 270mila si misero in salvo.

Ai tantissimi saccheggi e alle rappresaglie di mano austroungarica, fra l’altro, i cittadini del territorio risposero creando bande armate civili. Il loro scopo era quello di sabotare e disturbare l’occupazione. Questi gruppi si possono a buon titolo definire come le prime formazioni partigiane italiane.

Le cause della disfatta di Caporetto

Gli storici hanno definito in maniera unanime Caporetto come la più grande sconfitta italiana; e hanno, nello stesso modo, tracciato le principali cause di tale disfatta.

I soldati che combatterono quel capitolo, ma in generale anche tutto il conflitto, erano stati formati alla fine dell’Ottocento. In quel periodo poco o niente si conosceva di quello che sarebbe stato messo in campo in fatto di armi.

In particolare la mancanza di formazione fu evidente e fautrice di maggiori danni nell’ambito dell’artiglieria; essa fu utilizzata senza differenziare a dovere l’azione offensiva da quella difensiva.

A questa ignoranza fattuale si aggiunsero gli errori degli alti ufficiali. Il comandante supremo Cadorna e i comandanti d’armata Capello, Cavaciocchi, Badoglio e Bongiovanni compirono gravi errori strategici e tattici. In più, si fecero imbrigliare nella “burocratizzazione” che pure appartenne alla Prima guerra mondiale e che rallentò in più momenti la risposta del Paese in battaglia.

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Prima battaglia del Piave https://cultura.biografieonline.it/prima-battaglia-del-piave/ https://cultura.biografieonline.it/prima-battaglia-del-piave/#comments Sat, 09 Mar 2019 10:34:46 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=26085 Dal 13 al 26 novembre del 1917, nell’ambito della Prima guerra mondiale, il Regio esercito italiano e le armate dell’Impero tedesco e austroungarico si diedero battaglia lungo la linea del Piave, al confine fra Trentino e Veneto. L’evento è ricordato come Prima battaglia del Piave e si distingue dalla Seconda battaglia del Piave, avvenuta pochi mesi dopo, dal 15 al 22 giugno 1918.

Prima battaglia del Piave
Prima battaglia del Piave

Il particolare posizionamento era stato deciso come linea di ripiegamento al tempo dell’offensiva austroungarica in Trentino. Divenne quasi necessario dopo la disfatta di Caporetto.

La resistenza italiana, in particolare, combatté nel territorio compreso fra: il fiume Brenta, Col Moschin, Monte Grappa, Monte Tomba, Monfenera; a nord: Monti Fontana Secca, Prassalan, Roncon, Tomatino e nelle prealpi bellunesi.

Bollettino di guerra: 13-26 novembre 1917

Ad avanzare e retrocedere furono 15 divisioni italiane e 38 austroungariche. Gli italiani in battaglia, in particolare, si raccolsero nella terza e quarta armata, totalizzando 8.343 ufficiali e 219.694 soldati.

Il 27 ottobre del 1917, a seguito della drammatica vicenda di Caporetto, il generale Cadorna ordinò la ritirata verso il Piave. Un’orda di soldati avanzò fra Veneto e Trentino ritrovando sulla strada centinaia di migliaia di profughi. Mentre i nemici proseguirono nonostante la distruzione di ponti e tentativi di accerchiamento.

Il mese di Novembre fu tutto occupato da azioni di avanzamento e ritirata, attacchi e resistenze. Il 1° novembre la X armata austroungarica attaccò i fanti italiani in ritirata; il giorno 13 novembre la fanteria austroungarica venne arrestata da 8 battaglioni di Alpini; il 14, il 15 e il 16 nuovi attacchi fecero contare gravissime perdite da entrambe le parti e numerosi prigionieri.

Il 17 novembre al Regio Esercito si aggiunsero: la “Brigata Gaeta”, i giovanissimi di Classe ’99. A seguire si aggiunsero numerose altre divisioni rimodulate da soldati fuggiti e sopravvissuti da precedenti compartimenti.

Nuovi attacchi avvennero dal 20 novembre sul Monte Pertica e nelle vicinanze di Alano di Piave, sul fronte del Monte Grappa. Ancora fino al giorno 26, quando 15 battaglioni austroungarico-tedeschi vennero respinti definitivamente da 12 battaglioni italiani, i quali segnarono la vittoria della resistenza.

Il caso della Prima battaglia del Piave

Sono diverse le caratteristiche che spiegano la vittoria degli italiani nella Prima battaglia del Piave. A seguito della grave sconfitta di Caporetto, il morale delle truppe era a terra. Porsi sul Piave però, da quanto si evince dai documenti storici militari, diede alle truppe quel senso di difesa del territorio che era mancato in altre fasi del conflitto.

Foto Prima battaglia del Piave

Essere sulla linea del Piave rese, cioè, molto più vivo il senso di difesa del Paese, alle spalle, dal nemico. Inoltre, gli italiani di Luigi Cadorna e poi Armando Diaz vinsero per un altro motivo: sempre memori degli errori di Caporetto, ridussero al minimo le circolari e la diffusione degli ordini.

Lo snellimento della burocrazia che aveva invece caratterizzato la fase precedente della guerra fece scaturire quella che gli storici definiscono la “difesa elastica”. Gli ufficiali del Regio Esercito disposero di una maggiore autonomia; il risultato fu di essere più veloci, più reattivi al nemico e al contempo più fermi moralmente dal punto di vista delle truppe sul territorio dello scontro.

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