Simona Corciulo, Autore presso Cultura https://cultura.biografieonline.it/author/simona-corciulo/ Canale del sito Biografieonline.it Thu, 29 Aug 2024 14:25:32 +0000 it-IT hourly 1 Nascita di Venere: spiegazione e interpretazione dell’opera di Botticelli https://cultura.biografieonline.it/venere-botticelli/ https://cultura.biografieonline.it/venere-botticelli/#comments Thu, 29 Aug 2024 13:11:10 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17241 Se il concetto di bellezza è per sua natura mutevole e indefinibile, nel tempo risiede l’antidoto che impedisce alla beltà espressa nell’arte di invecchiare e tramutarsi in una lode effimera. La Venere, realizzata da Sandro Botticelli tra il 1482 e il 1485, tracciò con i suoi lunghi capelli e le longilinee gambe affusolate, l’inizio di un periodo glorioso per l’arte italiana, connotando il canone di una bellezza eternamente fulgente e proclamando un’innovazione in pieno spirito rinascimentale. Realizzata per la famiglia de’ Medici, la “Nascita di Venere“, sviluppò in se stessa gli ideali classici che, nel risveglio nell'”humana conscientia“, ritornarono a popolare le tele dei migliori pittori di corte italiani ed europei.

Nascita di Venere (Venere di Botticelli, Birth of Venus)
La “Nascita di Venere” (1482-1485, opera spesso indicata anche come “Venere di Botticelli“) è un dipinto a tempera su tela di lino (172 cm × 278 cm) esposto agli Uffizi di Firenze. Per bellezza, intensità, poesia e notorietà, è di fatto un’opera simbolo per l’intera epoca del Rinascimento.

Per chi fosse interessato ad ammirare in una sola immagine ciò che sotto il nome di Rinascimento riempie libri interi, può concedersi il lusso di un contatto diretto con la storia della Firenze rinascimentale visitando la Galleria degli Uffizi.

Nascita di Venere: analisi dell’opera con note tecniche e descrittive

Dalla pelle chiara e dai lunghi capelli dorati, Venere sorse dalle acque schiumose di un mare sconosciuto e, nascondendo con la folta chioma divina le pudiche membra, si eresse misteriosa e timida nella sua identità mitologica e manchevole di ogni umana volgarità.
Nell’immagine surreale e pagana di una vita che scorga da una conchiglia, dal cielo piovono rose, generate, secondo la leggenda, dal mite vento primaverile.

La neonata Venere si esibisce timorosamente al mondo e reggendosi su unico piede, contribuisce alla messa in scena del concetto classico di “contrapposto”, con spalle e gambe ruotate rispetto al busto, espediente che conferisce un portamento più sciolto e rilassato.
Il valore classico della pudicizia è rimarcato dalla giovane donna che, avvolta nello splendido abito ricamato a fiordalisi, soccorre la Venere con un mantello quasi a voler a proteggere universalmente il senso del pudore.

La fanciulla che arriva dalla riva è un’Ora (custode dell’Olimpo) e viene in questo caso rappresentata dal Botticelli senza le altre sorelle, innovando e contrastando la versione proposta dalla letteratura mitologica. La giovane donna è cinta al petto da un tralcio di rose identico a quello presente nella “Primavera“, con uno scollo abbellito da ghirlande di mirto, la pianta sacra a Venere.

La Primavera di Botticelli
Primavera (Sandro Botticelli, 1482 circa) – Tempera su tavola, dipinto per la villa medicea di Castello. Conservata a Firenze, nella Galleria degli Uffizi – E’ possibile notare le somiglianze dell’abito della figura femminile sulla destra, cinto di fiori, con la Nascita di Venere.

Il drappo si apre ad accogliere il corpo nudo e tenero della dea; si tratta di un mantello regale dalla lucente e preziosa bellezza della seta vermiglia, ricamata con sottili e raffinati decori floreali.

Mentre Zefiro, Brezza – in alcuni casi identificata con la ninfa Clori, la futura sposa di Zefiro – e l’Ora rivolgono i propri sguardi verso Venere, questa si offre sottomessa alla vista dell’osservatore; gli occhi languidi dalle pupille dilatate e la testa reclinata si oppongono alla tradizionale vocazione classica che invece permea il resto della composizione pittorica.
Gli occhi velati di una triste malinconia, come molti degli altri elementi estremamente naturalistici, elargiscono alla tela fiorentina un’armoniosa bellezza e una potente simbologia.

Un dettaglio della Nascita di Venere (Venere di Botticelli)
Un dettaglio del quadro: i volti e gli sguardi di Zefiro, Brezza (o Clori), e la Venere di Botticelli

Nella rappresentazione di una nascita sovrumana dalle origini violente e divine, Botticelli considerò l’archetipo della “Venere pudica” e della “Afrodite anadyomenē” di echi notoriamente classicheggianti.

Dal punto di vista tecnico Botticelli si servì, inconsuetamente per l’epoca, di una tela di lino su cui stendendo un’imprimitura a base di gesso accorse all’uso di una tempera magra, sperimentando sia l’uso della tecnica a pennello che a “missione”.

Nascita di Venere: la genesi dell’opera

Risulta grandemente difficoltoso definire con certezza, in modo definitivo e approfondito, la storia di questo straordinario capolavoro. Vasari citò per la prima volta l’opera botticelliana nel 1550: la “Nascita di Venere” era collocata nella Villa di Castello del Duca Cosimo dove

“due quadri figuranti, l’un, Venere che nasce, e quelle aure e venti che fanno venire in terra con gli Amori; e così un’altra Venere, che le Grazie la fioriscono, dinotando la primavera; le quali da lui con grazia si veggono espresse” (VASARI).

La Venere di Poliziano incontra la Venere di Botticelli

Angelo Poliziano (1454-1494) nell’opera incompiuta conosciuta come “Stanze de messer Angelo Poliziano cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de Medici” (1475) anticipava di qualche anno il tema classico e mitologico dell'”Afrodite anadyomenē” (Ἀφροδίτη Ἀναδυομένη, nascente dal mare), ripreso dal Botticelli solo nel 1482, si profilò come il più adeguato a racchiudere lo spirito del proprio tempo, divenendo, di fatti, l’emblema del primo Rinascimento fiorentino.

Vale la pena riportare un breve estratto dell’opera nella quale Poliziano, sposando l’oraziano “Ut pictura poësis”, redige con delle pennellate fatte di poesia il Regno di Venere, quello che Botticelli (1445-1510) renderà in sinfonie di colori e profumate atmosfere:

“Al regno ov’ogni Grazia si diletta,
ove Biltà di fiori al crin fa brolo,
ove tutto lascivo, drieto a Flora,
Zefiro vola e la verde erba infiora.”
(Poliziano, Il Regno di Venere, Stanza 68)

Simonetta Vespucci: la musa botticelliana

Che cosa induce la nascita di un capolavoro? L’ispirazione spesso fluisce dai più alti emisferi del pensiero umano, intrecciandosi con gli ideali e spesso ricondotta in una forma visibile grazie alla “divina” mano dell’artista. Scultori e pittori rendono visibile l’invisibile, tramutando gli ideali in simbologie e le simbologie in forme e colori.

Quando l’inteligentia è toccata dal mirabile spirito dell’amore, che già di per sé è una forma d’arte, il merito dell’artista è semplicemente quello di aver prestato alla sua arte la bellezza di un volto già esistente.

È questo il caso di Simonetta Vespucci (1453-1476), musa ispiratrice di Botticelli, che inondò di ammirazione i cuori di chi ebbe la fortuna di incontrarla, tanto da prestare i suoi bei connotati alla sposa di Efesto, Venere.

La Vespucci fu l’amante di Giuliano de’ Medici nel segno di un’immagine simbolo di ciò che nell’ideale collettivo incarna il Rinascimento, ma al di là di Botticelli, Simonetta, ispirò opere teatrali e musicali, serbando per sempre la sua giovane anima nel cuore dell’arte e di chi l’amò.

Il dettaglio del viso della Venere di Botticelli
Foto dettagliata del volto poetico della Nascita di Venere, dipinto dalle sapienti mani Sandro Botticelli

Note bibliografiche

  • G. Lazzi, Simonetta Vespucci: la nascita della venere fiorentina, Polistampa, Firenze, 2010
  • E. L. Buchoholz, G. BÜhler, K. Hille, S. Kaeppelle, I. Stotland, Storia dell’arte, Touring Editore, Milano, 2012
  • G. Vasari, Le opere di Giorgio Vasari pittore e architetto aretino, Davide Passigli e soci, Firenze, 1832-2838
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Hermitage, il museo di San Pietroburgo in Russia https://cultura.biografieonline.it/hermitage/ https://cultura.biografieonline.it/hermitage/#comments Thu, 14 Dec 2023 10:21:55 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=16526 Sono molti i musei nel mondo nati dalle eccentriche collezioni dei loro facoltosi possessori: conti, baroni, vescovi e cardinali hanno nei secoli arricchito il nostro patrimonio artistico grazie all’accumulo di capolavori acquistati in tutto il mondo. I grandi monarchi europei costituirono il punto nevralgico di quell’immensa matrice artistica che raccolse e custodì il meglio del genio umano nei saloni e nelle aree più lussuose dei grandi palazzi reali. L’Hermitage di San Pietroburgo rappresenta uno degli esempi più lampanti di un collezionismo sfociato in grandiosità museale.

Hermitage - La stanza di Raffaello (o stanza della Maiolica)
La “Stanza di Raffaello” dell’Hermitage: qui vi sono in mostra (sulla destra della foto) due dei capolavori dell’intero museo: la “Sacra Famiglia con san Giuseppe imberbe” (1505-1506) e la “Madonna Conestabile” (1504).

La storia dell’Hermitage

Solitamente la nascita del glorioso museo dell’Hermitage viene associata alla figura dello zar di Russia Pietro il Grande, ma tale ipotesi è vera solo in parte. Si potrebbe dire che il merito dello zar fu quello di creare semplicemente una Wunderkammer, ovvero uno spazio nella residenza reale adibito ad accogliere tutte le meraviglie e le rarità del mondo naturale, ma fu la zarina Caterina II, a metà del XVIII secolo, ad arricchire notevolmente la collezione, prima secondo un gusto esclusivamente estetico e, successivamente, secondo precisi principi classificatori dettati dalla necessità di completare la collezione in tutte le sue parti.

La zarina organizzò il primo nucleo della vasta collezione in un piccolo “Ermitaggio” adiacente il Palazzo d’Inverno, un buen retiro sfruttato da Caterina II come luogo di riflessione e svago tra pochissimi intimi, dove in compagnia dell’imperatrice “senza spada e senza cappello, si doveva lasciar perdere rango e diritti di precedenza, si doveva piuttosto prestare attenzione a non rompere nulla, bisognava parlare a bassa voce ed era proibito sbadigliare. Chi trasgrediva veniva costretto a bere… acqua fresca, un vero insulto per un russo” (Carminati).

Tra piante esotiche, uccelli e piccoli animali prese forma una collezione così ampia da colmare gli spazi di ben cinque edifici dislocati lungo la riva sinistra del fiume Neva: il Palazzo d’Inverno (1754- 1762), il Piccolo Hermitage (1764- 1775), il Grande (o Vecchio) Hermitage (1771- 1787), il Nuovo Hermitage (1839-1851) e il Teatro dell’Hermitage(1783-1789).

Storia della collezione

La raccolta, così come la conosciamo oggi, prese avvio nei fastosi saloni delle proprietà imperiali con l’acquisizione di 225 dipinti fiamminghi e olandesi appartenuti al mercante tedesco Johann Ernst Gotzkowsky, compreso il “Ritratto di uomo con guanto” di Frans Hals.

A partire dal 1764 Caterina II, nel tentativo di competere con le collezioni europee, si servì dei propri ambasciatori, in modo particolare dei corrispondenti francesi Denis Diderot e Friedrich Melchior von Grimm, per acquistare le opere di maggiore rilievo negli ateliers di tutta l’Europa.

Il legame con la Francia fu fondamentale per la storia della collezione russa, relazione tuttora visibile nella ricca presenza di opere francesi di assoluta eccellenza, da Nicolas Poussin a Claude Lorrain.

Al 1772 risale l’acquisizione più prestigiosa: più di quattrocento opere appartenute al banchiere parigino Pierre Crozat, raccolta che comprendeva tele di Tiziano, Raffaello, Giorgione, Tintoretto, Rubens, Rembrandt e altri tra i più grandi maestri della pittura europea.
Nel 1779 Caterina acquistò l’intera galleria di Houghton Hall, comprendente centonovantotto dipinti, all’asta della tenuta di sir Robert Walpole.
La raccolta di dipinti nell’Hermitage si arricchì ulteriormente con la collezione del conte Boudoin, collezione costituita da più di un centinaio di tele tra cui alcuni Rembrandt e sei ritratti di Van Dyck.

Hermitage - Scalinata interna
Una foto degli interni del museo: una sontuosa scalinata porta alle stanze delle Hermitage ricche di opere e capolavori dell’arte. Il nome del museo (dal francese, significa “eremo”) è indicato a volte anche come Ermitage. Il sito ufficiale è www.hermitagemuseum.org

L’accesso del pubblico alla collezione fu possibile a partire dagli anni ottanta del XVIII secolo, ma l’ordinamento museale venne reso noto solo nel 1805, con il nascere di una nuova concezione di museo.

Dopo la morte della zarina Caterina II nel 1796, la collezione crebbe notevolmente con il nipote Alessandro I (1777-1825) che, in seguito alla vittoria su Napoleone (ne abbiamo parlato nell’articolo Come Alessandro I sconfisse Napoleone Bonaparte ), acquistò nel 1814 trentotto tele che avevano decorato la Malmaison di Josèphine Beauharnais, prima moglie dell’imperatore francese.

Nel corso dell’Ottocento si affermò un modo di collezionare non solo incentrato sul gusto estetico degli zar, ma solo e soprattutto un collezionismo basato su una attenta e rigorosa selezione volta a “colmare le lacune e a bilanciare la sproporzione tra le varie scuole, fra le quali fino ad allora aveva prevalso nettamente quella olandese” e lasciando posto al nuovissimo interesse per l’arte spagnola.

Hermitage - Museo - Museum
San Pietroburgo: una recente foto del palazzo che ospita il museo dell’Hermitage

Con la messa in vendita della collezione Barbarigo nel 1850, arrivarono a San Pietroburgo le grandi tele di Tiziano e Veronese, insieme ai capolavori della pittura olandese di Jan Provost e Rogier van der Weyden, provenienti dalla collezione di Guglielmo II d’Olanda.

Durante il regno di Nicola I ci furono numerose cessioni: nel 1866 venne acquistata a Milano la “Madonna Litta” di Leonardo da Vinci e nel 1870 la “Madonna Conestabile” di Raffaello Sanzio.
Nel 1915 il museo accrebbe ulteriormente la sua fama con l’acquisizione dell’enorme collezione di pitture fiamminghe dell’esploratore russo P.P. Semyonov Tian Shansky.

Con la Rivoluzione russa, il patrimonio artistico maturò su larga misura grazie alle requisizioni: i capolavori un tempo appartenuti alle grandi casate principesche e alle famiglie borghesi moscovite entrarono a far parte del museo.

Con lo smantellamento del museo statale di Mosca, tra il 1930 e il 1940, giunsero a Leningrado i dipinti francesi delle raccolte di Schukin e Morozov, massimi collezionisti a livello mondiale di Matisse; di questa collezione si conservano all’Hermitage trentanove opere realizzate da Gauguin e Cézanne.

Note Bibliografiche
A. Fregolet, Ermitage San Pietroburgo, Mondatori – Electa, 2005, Milano

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L’Arrivo di Maria de’ Medici a Marsiglia (quadro di Rubens) https://cultura.biografieonline.it/rubens-maria-de-medici-marsiglia/ https://cultura.biografieonline.it/rubens-maria-de-medici-marsiglia/#respond Fri, 03 Nov 2023 10:51:55 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17239 Quando la storia entra a far parte dell’arte e l’arte della storia, i motivi che conducono alla ricerca e allo studio di un capolavoro di questa portata sono innumerevoli ed impossibili da elencare. Il fascino della genialità e la ricompensa in termini di fama e prestigio condussero la storia di Pieter Paul Rubens (1577 – 1640) sulle strada di conquista del cuore di Francia. Citato dal Bellori (1613 – 1696) nella forma italianizzata di Pietro Rubens, il pittore fiammingo della corte di Francia, elaborò, intorno al 1620, ventuno tele per celebrare il destino e le sorti di Maria de’ Medici (1575 – 1642), moglie di Enrico IV (1553 – 1610). L'”Arrivo di Maria de’ Medici a Marsiglia” rientra nel ciclo dei dipinti celebrativi della gloria regia, motivo encomiastico che ben si presta all’uso delle allegorie mitologiche tipiche del vocabolario artistico di Rubens.

L'Arrivo di Maria de' Medici a Marsiglia (quadro di Rubens)
L’arrivo della regina a Marsiglia: l’evento ebbe luogo il 3 novembre 1600. Rubens dipinse questo quadro tra il 1622 e il 1625. La tela misura 394×295 cm ed è conservata a Parigi, presso il Louvre.

Il tema riporta alla memoria lo storico sbarco di Maria de’ Medici a Marsiglia, avvenimento che venne accolto con entusiasmo dalla nobiltà francese e che definì le sorti future della corte borbonica.

La genesi del dipinto “Arrivo di Maria de’ Medici a Marsiglia”

“Nel fine dell’anno MDCXX. la regina madre (Maria de’ Medici) essendo tornata a Parigi, dopo l’aggiustamento con il Re Luigi suo figliolo, si propose di adornare la nuova fabbrica del suo palazzo di Lucemburgo, e fra le altre cose di dipingere la Galleria. Al quale effetto per la fama, che in Francia correva del Rubens, fu egli chiamato, e si trasferì a Parigi, onorato, e liberalissimamente trattato. Il soggetto fu la vita di essa Regina Maria, moglie di Enrico Quarto, cominciando dalla nascita sino alla pace, e reintegrazione col figliuolo, dopo la ritirata a Blois. E perché quella Galleria è situata in modo, che dall’uno e dell’altro lato, riguarda nel giardino con dieci finestre per lato, collocò nei vani infraposti le storie tra una finestra e l’altra, che sono in tutto ventuno quadri ad olio, alti dodici piedi, e nove larghi; cioè dieci quadri per lato, ed uno in testa, i quali il Rubens dipinse in Anversa con poetiche invenzioni, corrispondenti alla grandezza della Regina” (BELLORI).

Il pittore, servendosi di un impianto allegorico di tipo mitologico, portò sulla tela le più note vicende storiche legate alla figura della regina di Francia Maria de’ Medici con lo scopo di glorificarne il ricordo, mettendo in evidenza la maestria nella conquista del prestigio di una giovane donna alla corte di Francia.

Con la reggenza napoleonica il palazzo del Lussemburgo venne riqualificato come sede del Senato, con ciò le tele furono trasferite nel museo del Louvre dove, agli inizi del XX secolo, furono collocate in una sala espositiva appropriata.

I protagonisti: l’arte e la storia

Il matrimonio tra Enrico IV di Borbone e Maria de’ Medici si concretò sotto il segno dell’opportunismo politico: la ricchezza della famiglia de’ Medici portò alla riconosciuta qualifica di “banchieri di Francia”, condizione che volgeva con gran favorevolezza all’indebolita corona francese. Una dote di 600.000 scudi d’oro assunse le fattezze di un matrimonio vantaggioso quanto infelice, un guadagno netto per il regnante di Francia che vedeva in siffatto modo estinguere l’enorme debito contratto nei confronti delle banche medicee, e che nell’immediatezza comportava un rimpolpamento consistente dei forzieri reali.

Il matrimonio fu suggellato, nel marzo del 1600, con la firma del contratto matrimoniale; la celebrazione ufficiale nelle nozze si protrasse per tre mesi sia in Francia sia in Toscana per concludersi in fine a Firenze dove, in assenza del re, il “favori des rois” Roger II de Saint – Lary de Bellegarde (1562 – 1646) colmò l’assenza regale “sposando”, il 5 ottobre del 1600, la poco più che ventenne Maria de’ Medici, nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore.

Maria de' Medici
Maria de’ Medici

Dopo le nozze per procura Maria de’ Medici lasciò Firenze per Livorno, imbarcandosi per Marsiglia il 23 ottobre dello stesso anno, raggiunse la meta francese il terzo giorno di novembre.

Maria de’ Medici

L’arrivo della futura regina di Francia fu accolto con gaudio dai vertici dell’aristocrazia marsigliese rappresentati da Antoinette de Pons (1570 – 1632), marchesa di Guercheville e dama d’onore scelta di Maria de’ Medici.

L’arrivo in Francia della rampolla de’ Medici segnò l’inizio di una lunga serie di avvenimenti legati alla vita intima e regale della giovane sposa di Enrico IV, la quale seppe combinare l’arguzia del suo ingegno a vantaggio di una politica demolente e ostacolante di un potere femminile in ascesa.

La giovane de’ Medici seppe conquistare l’agognato scettro resistendo alle riluttanze della figura coniugale e all’opportunismo avventato del Duca di Richelieu (1585 – 1642) che lei stessa appoggiò nell’avanzamento cardinalizio del 1622.

Maria de’ Medici fu una donna scaltra, nascondendo nel corpo femmineo il cuore di un grande sovrano seppe guardare con affetto ogni forma d’arte, tanto da sviluppare questa sua passione in forme di amicizia con chi era in grado di comprenderne il gusto sontuoso e di assecondarne la vanità; consolidò un forte rapporto di amicizia con Rubens, con cui trascorse da esule gli ultimi anni della sua vita e per cui essa provava la profonda gratitudine per l’eternità che il pittore l’aveva donato grazie alla serie di dipinti dedicati alla sua persona.

Il 1642 fu un anno particolarmente significativo per le sorti dei sovrani di Francia: in seguito alla morte di Maria a Colonia e di Luigi XIII, salì sul trono di Francia Luigi XIV, il “Re sole”, il quale si raffigurò come il protagonista di una nuova e densa fase della storia nazionale.

Note tecniche e descrittive del quadro

Nella tela nota come l’ “Arrivo di Maria de’ Medici a Marsiglia” Rubens rappresentò in chiave del tutto mitologica lo sbarco di Maria de’ Medici al porto di Marsiglia.

Il Bellori nelle “Vite dei pittori, scultori ed architetti moderni” presenta una lunga lista descrittiva sulle “Immagini della Regina Maria, moglie del re Enrico IV. Dipinte nella Galleria di Lucemburgo”, dove la tela sopracitata viene descritta come la sesta di ventuno tele:

“Vedesi dopo lo sbarco al porto di Marsilia, figuratavi la Francia; il Vescovo, che va incontro a ricevere la Regina nel baldacchino sopra un ponte di barche riccamente adorno. Scorre in aria la Fama, e con la tromba annunzia a’ popoli la sua venuta, e seco Tritone nel mare suona la buccina con Nettuno, e le Sirene, restando nel porto le galere del Pontefice, e di Fiorenza, con quelle di Malta, scorgendosi sopra la più ricca d’oro, un cavaliere vestito di nero con la Croce bianca; ed allo sparo de’ cannoni lampeggia di lieta caligine il cielo” (BELLORI).

Come è possibile dedurre da questo breve estratto, le allegorie sono assai numerose, di fatti, il nobile corteo, preceduto dall’impersonificazione della Fama, è a sua volta accolto da due donne rappresentanti la Francia e la città di Marsiglia.

L’uso di tali ingegnosi accorgimenti allegorici trova la sua ragione principale nella necessità di non disturbare la sensibilità della giovane sovrana, il cui carattere irascibile e orgoglioso preoccupava e allarmava chiunque avesse l’onore di conoscerla di persona.

Osservando la tela si coglie immediatamente l’invisibile linea di demarcazione che separa la scena in due parti ben distinte, inganno ben reso grazie alla presenza grafica della passerella della nave posta esattamente al centro della quinta.

Sirene (dettaglio del quadro: Arrivo della regina a Marsiglia)
Un dettaglio del quadro “Arrivo di Maria de’ Medici a Marsiglia”: le sirene. Il loro colore candido è in netto contrasto con quello dei drappi rossi.

Commento

La dinamicità nella solennità è resa percepibile dalle sirene e dai tritoni che, nudi e spogliati dall’umana civiltà, ondeggiano tra le agitate onde del porto di Marsiglia, in un perenne conflitto con la soffice eleganza dell’agiata vita di corte che invece domina la scena terrestre.

Come in un palcoscenico oltraggiato da una scenografia troppo grezza e soffocante, lo sbarco è rappresentato nel tripudio di un’ imponente resa di dettagli e personaggi nobilmente abbigliati, condizione che non intralciò l’ impeto espressivo del pittore fiammingo che seppe in egual misura creare

“meravigliosi effetti di leggerezza, soprattutto con la stesura mobile e veloce della materia pittorica, peraltro sempre tipica della sua foga espressiva” (DAVERIO).

Un secondo evidente contrasto emerge chiaramente nell’uso di colori fortemente antitetici: il rosso dei drappi, ad esempio, crea un leggiadro effetto di risalto da quel “candore madreperlaceo” che invece caratterizza le blasonate stoffe oppure i corpi torniti delle seducenti sirene.

Note Bibliografiche
G. P. Bellori, Vite dei pittori, scultori ed architetti moderni, Niccolò Capurro, Pisa, MDCCCXXI
P. Daverio, Louvre, Scala, Firenze, 2016

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Venere di Milo: storia, descrizione e significato dell’opera https://cultura.biografieonline.it/venere-di-milo/ https://cultura.biografieonline.it/venere-di-milo/#comments Tue, 03 Oct 2023 17:44:14 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17625 Scultura di marmo, la Venere di Milo è una statua greca tra le più note e famose del mondo. Estremamente riconoscibile e simbolica è priva delle braccia e del basamento originale. La giovane Venere ritornò al mondo solcando le smarrite strade di un’età ormai perduta, vestita di una nobiltà marmorea e spogliata dal profano limite temporale, quale divinità scultorea di una bellezza bianca e immensa.

Venere di Milo - scultura
La Venere di Milo è una delle sculture più celebri della storia dell’Arte

Capelli raccolti, larghi fianchi fecondi e uno sguardo che ancora oggi colpisce nel complesso di una nudità incompleta ma sensuale, priva dell’illusorietà dell’imbelletto effimero, si fa effige di un’arte suprema, senza raffronti, nella crudele mutilazione del corpo solido che non eclissa l’originaria stupefacente bellezza, ma che paradossalmente fa della mancanza la via prediletta per comprendere la grandezza.

La “Venere di Milo” (130 – 100 a.C.) è tra le afroditi più suggestive scolpite nelle feconde terre del mondo classico, in quelle calde e brune terre egee, da cui fu rapita per incontrare lo sguardo del dispotismo francese e le pallide sale del Louvre, dove è collocata attualmente, in memoria di quella libertà erotica e sessuale che perse la sua purezza tanto tempo fa.

Quando la scultura diventa realtà, non esiste concezione temporale che contempli l’oblio. La grandezza è destinata a durare, la gloria a generare l’ eternità nella memoria, anche se sepolta.
Quando la polvere sotterra, l’uomo riporta alla luce il passato delle grandi ere umane, fiancheggiando la magnificenza di quella conoscenza nascosta che fa della storia umana il più grande mistero.

Venere di Milo - Louvre
La sala del Louvre in cui è esposra la statua della Venere di Milo

La Venere di Milo: genesi dell’opera

Le grandi scoperte archeologiche legano spesso la celebrità del proprio nome all’inusuale contesto esplorativo, casuale e ben lontano da una progettazione voluta, ma in ogni caso desiderata. La “Venere di Milo” come la “Nike di Samotracia” (190 a.C.) è figlia di un destino inatteso, che vide nell’indegna sepoltura la strada per risorgere e risplendere nuovamente.

Nike di Samotracia
Nike di Samotracia

Le fortuite sorti della Venere ricaddero nelle mani di un contadino che individuò, l’otto aprile del 1820, la scultura nel proprio campo, vicino al teatro antico dell’isola di Milo.
La statua venne fortemente contesa tra Francia e Grecia, fino al trasporto a Parigi per volontà dell’ammiraglio Jules Sébastien César Dumont d’Urville (1790 – 1842) e il Marchese di Rivière, ambasciatore francese alla corte ottomana, che la donò a Luigi XVIII, per raggiungere il Louvre solo un anno dopo, nel 1821.

Al momento della scoperta il marmo era terribilmente danneggiato, separato di netto in due parti era privo di braccia e del piede sinistro, mai ritrovati nonostante le ulteriori spedizioni archeologiche.

Note tecniche e descrittive

Modellata dal mare, custode del potere universale, tu regni sovrastandoci mediante la tua grazia perfetta, attraverso quella tranquillità che già di per sé possiede un’immensa forza. La tua nobile serenità si manifesta ai nostri occhi, affondando nei nostri cuori come il fascino di alcune tombe, come quieta musica.

Così Auguste Rodin (1840-1917) elevava l’esaltante bellezza di una dea impudente, nel motivo filosofico dell’invincibile giovinezza (“invincibile youth“), e dunque nel concetto dotto di arte viva, immutabile nella mutabilità del mondo, quale ideale permeante dell’anima umana.

Con la “Venere di Milo” l’arte diviene poesia, ispirazione e musa di ogni cuore sensibile alla bellezza. Poeti, scultori, filosofi e pittori di ogni epoca e inclinazione culturale posero su di essa le basi di una riflessione intima e appagante, lontana da un indottrinamento accademico, difforme dalla teoria scritta, dai trattati eruditi di una conoscenza studiata, meditata.

L’ideale che diventa forma, in un’emulazione dalla natura che non termina nella semplice imitazione, ma che si arricchisce di un sentimento emergente nella posa, nell’aura comunicativa di uno sguardo parlante.

L’incompletezza si accompagna ai segni testimonianti un rigore quasi scientifico nella resa di un panneggio bagnato, aderente ai fianchi levigati dell’inebriante Afrodite.

Il colore bianco e la poetica

Il bianco, forse un tempo policromo, del manto avvolgente, riecheggia violentemente la magnificenza solenne della Nike di Samotracia, la Vittoria alata che calò trionfante a salvare le umane sorti di un potere quasi sconfitto. Nel confronto appare chiara la straordinarietà delle due realizzazioni scultoree, dissimili e unite dal ideale classico, ricordano al mondo il potere dell’arte, il potere espressivo della figura femminile nell’arte, quale veicolo perfetto a comunicare le umane passioni, nell’armoniosità di un corpo nudo e mai volgare, di una somma bellezza e di una misurata concezione estetica.

La poetica del cuore umano conduce ad apprezzare l’inqualificabile potere di un’arte che si trasforma e che trova nei suoi pezzi mancanti il simbolo di ideali più alti e didascalici.

Quello che più colpisce la sensibilità dell’osservatore è proprio l’assenza, quel vuoto che, pur colmato dalla semplice immaginazione, non intende essere riempito.

La “Venere di Milo”, dono che riserva all’età moderna il sentimento glorioso di un’epoca passata, deve la sua incredibile fama proprio alla singolare combinazione di una perfezione fisica minacciata.

La forza della moderazione trova nelle tornite forme femminili le misure adeguate ad esprimere l’incredibile gioco di luci e ombre, in cui volumi emergono e si ammorbidiscono sotto le direttive luminose e sapientemente studiate della sala espositiva.

Lo sguardo della Venere di Milo

Lo sguardo ruota e avvolge l’intero corpo, quasi potendo cogliere quel movimento, quell’attesa meditativa di un istante bloccato nei recessi del tempo.

La grandiosità del tempo aureo dell’arte scultorea trova ovviamente le basi solide di un eccezionalità constatata, indiscutibile e volgente all’intera orbita delle opere d’arte classica. L’ideale classico trova nella capolavoro di Milo il tempo di elevarsi e di porre svariati quesiti sull’identità del suo autore, sull’ispirazione mitologica generatrice di un’ideale scultoreo che abbandona la rigida frontalità nella scelta di una torsione del corpo nello spazio, in quella posa leggermente riversata all’indietro, nel piede che regge il corpo in un dinamismo perfetto.

Nell’ “Antologia; giornale di scienze, lettere e arti” dell’ottobre del 1832, l’archeologo e abate Battista Zannoni (1774 – 1832) ripercorse varie tesi interpretative allo scopo di configurare un profilo, se pur del tutto mitologicamente identificativo, di colei che ispirò il mondo alla conquista del tempo (“O conqueror of time !“, Rodin).

Le ipotesi fornite dall’abate chiaramente tratteggiano i connotati confusi del volto femminino dei culto greco, dove risulta impossibile stabilire con convinzione chi fosse realmente la Venere rappresentata.

Venere di Milo - dettaglio del volto
Venere di Milo: dettaglio del volto

Ipotesi e teorie

Dal confronto con altre sculture scoperte fino a quel momento e dallo studio del possibile orientamento nello spazio delle braccia verso sinistra, il filosofo, archeologo e critico d’arte francese Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy (1755 – 1849) teorizzò la presenza della statua all’interno di un gruppo scultoreo insieme alla figura di Marte, ipotesi che venne confermata e poi screditata dal ritrovamento di un braccio sostenente un pomo, dalle stile nettamente inferiore rispetto alla statua madre.

Una conclusione di questo tipo risultava convincente nel frangente di una connessione che congiungeva gli artefatti archeologici alla mitologia classica, dunque alle vicenda della vendetta di Eris (dea della discordia) ai danni di Atena (dea della saggezza), Era (regina degli dei) e Afrodite (dea della bellezza) e della tragica guerra di Troia.

A questi Marte, a quei Minerva è sprone, e quinci e quindi
lo Spavento e la Fuga, e del crudele
Marte suora e compagna la Contesa
insaziabilmente furibonda

Iliade, cap. IV, Omero

L’attitudine del mondo antiquario era quella di attribuire le opere ripetute entro un certo profilo iconografico ad un gruppo scultoreo originale e dalle qualità stilistiche superiori, giungendo a considerare i gruppi del medesimo motivo originati tutti dalla celebre “Venere di Milo”; per tale motivo si pensò che il volto della Venere delle Cicladi si rassomigliasse a quello della Venere del Museo Pio – Clementino il quale, grazie a due medaglioni imperiali battuti a Gnido, era attribuita a Prassitele (400/395 a.C. – 326 a.C.); fu proprio tale congettura ad indirizzare Quatremère de Quincy all’ipotesi che la scultura fosse uscita dallo studio o dalla scuola dello scultore ateniese.

L’ipotesi del gruppo scultoreo venne ritrattata dall’archeologo francese, nel proponimento di una scultura nata per vivere nella solitaria collocazione e al contempo in una relazione intensa con le statue di altre due dee.

Le qualità espressive della giovane dea sono sublimi, dove la franchezza dello sguardo severo collide con il torso magnificamente nudo, di “un ventre splendido, largo come il mare“.

Venere di Milo
Venere di Milo

Note Bibliografiche

G. Bejor, M. Castoldi, C. Lambrugo, Arte Greca – Dal decimo al primo secolo a.C., Mondadori Education, Milano, 2008
P. Daverio, Louvre, Scala, Firenze, 2016
A. Rodin (1911), To the Venus de Milo, Art and Progress (2), vol. III, 409 – 413.
B. Zannoni (1822), Sulla statua antica di Venere, scoperta sull’isola di Milo, in G. P. Vieusseux, Antologia; giornale di scienze, lettere e arti, vol. VIII, Firenze: 47 – 52

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Bacio rubato (o Bacio furtivo), quadro di Fragonard: storia e descrizione https://cultura.biografieonline.it/bacio-rubato-fragonard/ https://cultura.biografieonline.it/bacio-rubato-fragonard/#respond Tue, 27 Jun 2023 08:04:41 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19098 Amore e voluttà sono le didascaliche parole che facilmente lo spettatore può udire accostando l’orecchio a questa pregevole tela francese. Si intitola “Il bacio furtivo” (o bacio rubato). È un dipinto illustre capace di accostarsi serenamente alla scene d’amore di “Annette al suo amato” o ad una nuvola di stucco dell’oratorio di Santa Cita.

Lui le prese teneramente la mano. / Si guardarono fissi negli occhi, poi / guardarono in giro, che non vegliassero genitori; /e poiché non videro nessuno, /svelti – ma bene – /fecero come facciamo noi.

(“Annette al suo amato”, Johann Wolfgang Goethe, 1767).

Il bacio furtivo - dettaglio
Il bacio furtivo (o bacio rubato): dettaglio centrale del quadro

Realizzato da Jean-Honoré Fragonard negli ultimi decenni del XVIII secolo, il “Bacio rubato” si distinse per l’inusuale leggerezza del motivo rappresentato, subendo di fatti gli onori e al contempo le sfavorite sorti di pittore viziato dall’immorale futilità.

Figlia prediletta dello stile rococò, l’opera di Fragonard divenne capolavoro di pregio presso il palazzo reale di Stanislao Augusto Poniatowski, per poi raggiungere le sale dell’Ermitage nel 1895.

Il bacio furtivo: genesi del dipinto

Della bellezza dell’arte tardo settecentesca, apparve sovente l’arte sublime e teneramente romantica di Jean Honoré Fragonard, “l’essenza profumata del Settecento”.

Allievo di Chardin e di Watteau, fu il meritevole destinatario del Prix de Rome nel 1776, brillante periodo quello della permanenza italiana, che ne favori l’ispirazione grazie agli eccelsi esempi della pittura barocca, di cui si fece insigne maestro Pietro da Cortona, “intensificando la vivacità della propria visione e acquisendo in breve una scioltezza sorprendente” (FREGOLENT), procedendo di fatti “su un sentiero seminato di rose“.

La tela de “Il bacio rubato“, appartenuta a Stanislao Augusto Poniatowski, ultimo re di Polonia, è una delle opere più incredibili dell’artista, che grazie al benefico influsso della pittura di genere del Seicento olandese, raffigurò una galante scena di vita quotidiana, rischiarando, grazie ad un’attenta rappresentazione, le abitudini del “terzo stato”.
Il dipinto fu acquistato dall’Ermitage nel 1895.

Il bacio furtivo - Stolen Kiss - bacio rubato - Fragonard
Il bacio furtivo (Stolen Kiss, 1786) • Olio su tela, 168.5 cm × 168.5 cm

Bacio rubato: note tecniche e descrittive

Nella “Guida pittorica, ossia analisi intorno lo stile e degli artisti italiani e stranieri antichi e moderni del barone Alessandro Petti” (1855):

“Fragonard (Nicola) 1732 1806. Grasse in Provenza – Allievo di Francesco Boucher che mostrò soverchia affettazione nelle sue figure, e nella maniera di aggrupparle, ed ebbe composizione più nobile, più ragionata, e più poetica, di quella del suo maestro, non che pennello pieno di grazia, e di magia, tocco alquanto quanto indeciso, stile piacevole, senza carattere determinato, e colorito fattizio, e poco vigoroso”.

Quello che oggi colpisce per l’incredibile bellezza, non fu, come spesso accade, apprezzato dai contemporanei a causa dell’amaro gusto di ciò che si effigia di novità o dell’abietto tentativo di abbeverarsi presso una fonte irrorata dalle nuove mode e dai sentimenti cangianti di una società in perpetuo mutamento, e per tale motivo, turpe e lontana della stella maestra dei tempi passati.

L’ingegno dell’estro umano, la maestria nel tentar nuove strade nacquero in ogni modo da radici consolidate, da scuole supreme e di superba comprovazione, quali furono gli insegnanti di Fragonard, allievo di Chardin e Watteau.

Consacrandosi al culto della moda, venne ben volentieri accolto da coloro che fecero dell’omologazione il vanto del gusto moderno, tant’è che “I suoi quadretti ed i suoi disegni all’acquerella sì osservabili per pensieri nuovi ed ingegnosi, comparati venivano appena vedevano la luce“.

L’ingegno e la creatività dischiusero le porte ad una pittura che fu definita dissoluta, viziata di vuotezza e scarso senso d’elevazione spirituale.

L’opera di Fragonard

Lontana da un’arte, dunque, che fino a quel momento si era legittimata ad altissimo mezzo piuttosto che a semplice esternazione da stipare nel mero fine espositivo, come uno specchio che guarda assiduamente al presente, non allontanandosi mai nel grandezza del passato, ma scrutando in se stesso, tra il lusso dei ricchi salotti e la vacuità dei giochi borghesi.

Nella notevole raccolta dal titolo “Biografia universale antica e moderna“, l’opera del genio francese fu così giudicata licenziosa, macchiata d’immoralità:

“Sotto tale aspetto si dirà: Fragonard è colpevole; e non si troverebbe modo, anche ammirando il pittore, d’ approvare l’ingegno, di cui il risultamento accende passioni pericolose e tende alla depravazione dei costumi. Gli epigrammi d’un pittore valgono alle volte quanto quelli d un poeta”.

Seta, visi incipriati e passi leggeri accompagnano l’intera opera compositiva e artistica di Jean – Honoré Fragonard, nell’esibizione del vanteria, e dell’erotismo aristocratico snocciolato nella pratica romantica delle lettere d’amore, dei baci rubati e dei corteggiamenti all’aperto, tra cespugli odorosi e altalene appese agli alberi che tanto avevano “sgomentato il timore”.

Leggerezza, animosa vitalità e luminosità contraddistinguono il sentimento di riconquista, di rivincita rispetto all’opulenza soffocante del Barocco, di contro a quella ridondanza di forme complesse e vorticose, di bellezza incommensurabile e di maestria inqualificabile di cui si fecero precettori il Bernini, il Borromini e Pietro da Cortona.

L’evoluzione di un’arte elevata

L’evoluzione colse nuovamente i frutti di un’arte elevatissima, quella barocca, liberandoli e tramutandoli nelle forme nuove, se pur ereditate, del secolo precedente, nelle linearità sinuose, nei temi edonistici di leggiadra e luminosa spensieratezza tra rovine incantate e vedute sconfinate.

Ombre e sciabolate di colore si cristallizzano nelle scene di femminile vanità, di borioso luccicare di stoffe, ornamenti e imbelletti pesanti e candidi, dalla quale sembra emergere un profumo antico, il tempo d’impiego dei ferri ardenti per le acconciature, la cremosità delle cere profumate, l’ esalazione floreale degli oli inebrianti.

L’amore appare fuggevole, veloce e passionale, inseguito dalla gioventù aristocratica nei campi, tra i ruscelli, lontano dall’ipocrita disapprovazione dell’autorità famigliare, e quando quest’ultima manca del proprio controllo, la passione trova in ogni modo sfogo nella clandestinità di luoghi appartati e asfissiati dalla mobilia e dai panneggi pesanti.
L’arte di cui si fece promotore Fragonard e le conseguenze di un gusto così frivolmente moderno sono facilmente identificabili in quello che fu lo spirito del secolo:

“[…] in mezzo a tanti baci ed abbracciamenti che diamo al proletariato, s’alza una vampolina insensibile e sottile in sulle prime, come la calunnia di Don Basilio, la quale ci penetra le ossa e ci dà alla testa, e ne riempie le cavità coi fumi inebbrianti dell’orgoglio […]”(SELVATICO).

Fragonard e il Rococò

Fragonard fu uno dei massimi esponenti del Rococò francese, incoronandosi a immagine stessa del Settecento, o meglio al “essenza profumata del Settecento”.

Bellezza, attesa e futile innamoramento divengono protagonisti della tela di Fragonard, immenso ed inestimabile rappresentante delle ricerche pittoriche stanche delle storiche rappresentazione e delle spirituali icone, vivide di messaggi didascalici, ammonimenti religiosi e orgogliosi passati.

Quello che la critica accusò è tuttora causa di grande orgoglio per il merito di quell’arte che nascendo per gli arredi intrise ogni rappresentazione, ogni interessante frutto caduto dall’albero dell’intuizione artistica

La scena

La scena del bacio rubato si immobilizza, si colma di emozioni, che per quanto ricche di passione possano essere, trasudano in ogni caso la superficialità di un atto effimero, nato dal vizio, dall’impeto di un istante, dal tumulto della partecipazione, senza che si lasci intravedere l’impegno, il momento onorevole dell’atto amoroso, non oltre i fatui confini del corteggiamento, dell’adulazione, dei tempi gioiosi che anticipano l’impegno matrimoniale, famigliare: oltre la porta, tre personaggi di età matura sono seduti al tavolo da gioco.

La vigilanza che essi dovrebbero effettuare sui giovani appartati è convenientemente ostacolata dalle carte e dalla colloquio, in altre parole le attività favorite nei salotti borghesi e aristocratici del XVIII secolo.

I quadri da cavalletto sono una costante, un chiaro riflesso d’un “arte arredatrice“, minuta nelle forme e consacrata al fantasioso interesse per paesaggi bucolici, realistici ma al contempo immaginati, in quell’estro ricco, estroverso e alleggerito da ogni mira tenacemente avvolta dagli alti scopi.

L’intimo spazio si fa scrigno di tessuti e mobilia, aprendosi alle spalle, nelle vicinanza di una sedia e di un tavolino, ai margini di un angolo illuminato e contiguo invece al buio che caratterizza i panneggi e lo spazio che fa da sfondo alla giovane fanciulla protesa verso il bacio; una porta semichiusa si apre su un’altra stanza, mostrando chiaramente la nobile eredità dei maestri fiamminghi, dei modelli olandesi.

Jean-Honoré Fragonard (autoritratto)
Jean-Honoré Fragonard (autoritratto o “L’ispirazione”)

L’abilità di Fragonard risulta sorprendente nella resa dei panneggi, morbidi e lucenti, e in genere nella rappresentazione delle superfici materiche oscillanti dai riflessi cangianti della seta di cui è fatto l’abito della dama al centro della scena, alla sottile trasparenza del velo, dal legno lucido del tavolino alla trama velluta del tappeto a decorazioni floreali adornante il pavimento, anche questa volta frutto della tradizione mimetica della tradizione olandese.

Note Bibliografiche

P. Daverio, “Louvre”, Scala, Firenze, 2016
“Biografia universale e moderna, ossia storia per l’alfabeto della vita pubblica e privata di tutte le persone che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù e delitti.”, vol. 22, Gio. Battista Missiaglia, Venezia, 1825
P. Selvatico, “I motori dell’arte italiana nel passato e nel presente”, “Rivista universale. Annali cattolici”, vol. 5, Uffizio della rivista universale, Genova – Firenze, 1867

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Chanson de Roland: riassunto, storia e analisi https://cultura.biografieonline.it/chanson-de-roland/ https://cultura.biografieonline.it/chanson-de-roland/#comments Tue, 22 Nov 2022 07:49:48 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=16516 Il filologo tedesco Auerbach definì la Canzone di Orlando (Chanson de Roland) come ‘‘il monumento letterario più popolare del Medioevo francese’’. Quest’opera illustre ricopre il posto d’onore tra le Chansons de geste nell’ampio panorama letterario medievale, racchiudendo in se la complessità e la bellezza di un mondo dalle connotazioni fiabesche e dagli ideali tipicamente cortesi.

Chanson de Roland
Dettaglio del bassorilievo presente nella cattedrale di Angouleme, raffigurante una scena della Chanson de Roland – Alcuni critici indicano l’autore della “Chanson de Roland” nel monaco e scrittore francese Turoldo. Turoldo viene nominato unicamente nell’ultimo verso del poema cavalleresco e solo nella versione del manoscritto di Oxford: «Ci falt la geste que Turoldus declinet» (La gesta scritta qui da Turoldo ha fine).

Chanson de Roland: un poema incerto

Sono molte le incertezze legate alla storia di questo antico poema: non si hanno indicazioni molto incoraggianti su chi potesse essere l’autore.

Tale circostanza convaliderebbe la principale teoria: quella che indica la Chanson de Roland come il frutto dell’assemblaggio di varie leggende e cantilene epiche. Tutte queste storie si rifarebbero alla vicenda della morte di Orlando nella Battaglia di Roncisvalle. Pertanto la Canzone di Orlando non va considerata come un’opera pensata e concepita da un unico autore.

La Chanson de Roland si diffonde nell’antico regno Normanno a partire dal XII secolo; in più di 4.000 decasillabi, in lasse assonanzate, narra le vicende del conte Orlando e degli undici paladini di Francia nella battaglia, guidata da Carlo Magno, contro i Mussulmani.

Carlo Magno contro gli infedeli

Leggendo il testo si può ben comprendere quanto questo poema sia da considerarsi una valida guida alla comprensione di un periodo storico controverso e spesso erroneamente declassato.

Dallo studio dell’opera emergono immediatamente i tratti distintivi dell’organizzazione verticistica tipicamente feudale: in cima spicca la figura dell’imperatore, per quale i vassalli combattono guerre nella quale non è ben definito il confine tra l’ideale di conquista e la salvaguardia dei valori religiosi.

Tutta l’opera è permeata di una cristianità al limite del fanatismo religioso, faziosità che ben volentieri si mescola con gli estremi della fedeltà cavalleresca.

Orlando e Gesù

Vale la pena di ricordare le analogie individuate da Cesare Segre tra il paladino Orlando e il salvatore dell’umanità Gesù Cristo, affinità che portando alla luce quella forte conformità del poema ai poemetti agiografici.

Canzone di Orlando
Battaglia di Roncisvalle: la morte di Orlando è raffigurata in una miniatura risalente alle metà del XV secolo (l’autore è Jean Fouquet)

Da questo punto di vista la vita del primo paladino di Francia è simile alla vita di Cristo ‘‘E se ne ha conferma clamorosa alla morte di Orlando, quando due arcangeli e un cherubino accorrono a raccogliere la sua anima per portala in Paradiso’’.

Il tema religioso è strettamente connesso al motivo del “meraviglioso” che, in un’ottica del tutto cristiana e devota a Dio, si oppone e si sostituisce agli interventi soprannaturali che costellano la produzione letteraria classica e quindi pagana.

L’oggettività dell’azione divina che risponde esternamente, come il narratore nei confronti del lettore, alle richieste umane, secondo un disegno che non può essere contestato in quanto giusto e assoluto, è un segno peculiare dell’epos, in cui le azioni e i fatti vengono osservati da una prospettiva alta e distaccata che non ammette incertezze e che rappresenta l’indiscutibile verità.

Da qui deriva la netta separazione tra i “buoni” ( i cristiani ) e i cattivi ( i musulmani), tra i paladini di Dio e i traditori della Fede.

Chanson de Roland: analisi dell’opera

Lo stile manifesta chiaramente le finalità e l’ideologia degne di un capolavoro di questa portata.

Come ricorda Auerbach:

Tutto è fissato e stabilito, bianco e nero, bene e male, e non richiede più indagine o motivazione’’. Tale inalterabilità deriva dal forte vigore paratattico che convince il lettore che nulla potrebbe svolgersi in modo diverso e che ‘‘ciò si riferisce non solo agli avvenimenti ma anche ai principi che ispirano i personaggi nel proprio agire. La volontà cavalleresca di lotta, il concetto di onore, la reciproca fedeltà alle armi, la comunanza di parentado, il dogma cristiano, la distribuzioni di diritto e di torto tra fedeli e infedeli, sono le concezioni più importanti’’ (Auerbach).

Le lasse assonanzate, come osserva Auerbach, “racchiudono in sé un’ immagine completa“, una visione che si realizza grazie alla ripetizione di termini ed espressioni che strofa dopo strofa si reiterano in forma differente ma con il medesimo significato.

Questa serie di accorgimenti stilistici rispondono chiaramente all’esigenza di una trasmissione del testo tramite un canale orale ad un pubblico prevalentemente popolare che necessitava di particolari monotoni e di espressioni semplici per seguire gli intrecci più complessi della trama.

L’uso del colore configura la Canzone di Orlando come un’opera artistica quanto letteraria. Il forte senso coloristico che invade quasi ogni strofa è propriamente medievale e si esprime spesso attraverso il riferimento a colori luminosi e campiture ben definite, caratteristiche che si possono riscontrare in tutti i manufatti artistici medievali, dalle miniature del Codex Manesse alle vetrate della cattedrale di Notre Dame, a Parigi.

Il paesaggio

Un altro aspetto interessante risiede nella descrizione del paesaggio che spesso si rivela essere definito solo attraverso pochi riferimenti ambientali, come ad esempio una roccia, un pendio o un albero. Anche questo aspetto è frutto di una mentalità tutta medievale, dove l’attenzione si focalizza principalmente sulle azioni del personaggio, ciò che conta e l’azione e gli ideali che spingono l’eroe ad agire.

Il gusto per una descrizione dettagliata del personaggio, del tutto sconosciuto durante il Medio Evo, inizierà ad emergere in letteratura solo con il naturalismo rinascimentale.

Note bibliografiche

G. Baldi, S. Giusso, M. Razzetti, G. Zaccaria, Dal testo alla storia dalla storia al testo, Paravia, Torino,1994
L. Passerini, .La canzone d’Orlando, Soc. Leonardo da Vinci, Città di Castello, 1940

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Astronomo, dipinto di Jan Vermeer https://cultura.biografieonline.it/astronomo-vermeer/ https://cultura.biografieonline.it/astronomo-vermeer/#comments Fri, 12 Nov 2021 07:27:34 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17889 Il dipinto intitolato “Astronomo” (1668) di Vermeer brilla, nell’oscura e ombrosa luce filtrata prima dagli alberi e poi dalle finestre, nelle sale del Louvre dedicate alla pittura fiamminga, olandese e tedesca, inondando l’anima dello spettatore con la limpida luce di un soleggiato giorno del 1668 e di quello spasmodico interesse che rendeva eccitante gli aspetti di una scienza ancora immatura.

Astronomo - Astronomer - Vermeer
Astronomo (Astronomer) • Dettaglio principale del celebre dipinto di Jan Vermeer

Jan Vermeer (1632 – 1675) accompagnò le rilucenti sorti della pittura fiamminga verso la somma grandezza di una pittura incredibilmente naturalistica e votata alla resa compulsiva dei dettagli. Raccogliere il momento della meditazione, della ricerca nel cielo di un mistero a noi sconosciuto, rende l’incantevole tela ritraente l’astronomo una delle più interessanti e brillanti realizzate da Vermeer.

Il quadro più celebre di Vermeer è: La ragazza con l’orecchino di perla

La figura dell’astronomo si formula nella mente dell’osservatore nel profano affiancamento dialettico di questa immagine a quelle delle celebri tele ritraenti la figura dell’alchimista; è lo strumento scientifico del globo celeste posato sul tavolo a farsi vessillo di un mondo nuovo; esso è declinato al sapere scientifico e lontano dai misteri oscuri della pietra filosofale.

L’astronomo: note tecniche e descrittive

Nel XVII secolo l’indottrinamento infecondo che aveva ostacolato il progresso fino a quel momento, trovò la strada di una rivendicazione scientifica e filosofica nelle menti eccelse di filosofi e scienziati come Johannes Kepler, Francesco Bacone, Isaac Newton, Galileo Galilei e René Descartes.

Il desiderio di riconoscere e comprendere la natura, d’imparare a domarla, resero il Seicento il secolo delle grandi scoperte scientifiche, infondendo nella tetra realtà di un mondo incomprensibile, dalle leggi sacre e indiscutibili, il seme di una spiritualità nuova, non solo sommessamente religiosa ma umana, naturalmente destinata alla scoperta di sé, del proprio pensiero e della natura.

L’identificazione e la comprensione della realtà e delle sue leggi rese la pittura fiamminga tra le più risplendenti nel panorama di un realismo indiscusso, attento allo studio scientifico della luce, delle ombre e di ogni carattere che rende la materia reale, palpabile ed esistente ai nostri occhi.

Astronomo - quadro - dipinto di Jan Vermeer
Astronomo: il dipinto fu realizzato con la tecnica olio su tela. Misura 50×45 cm. La firma dell’autore Jan Vermeer e la data compaiono sull’armadio: “IV Meer MDCLXVIII“.

L’attenzione dello scienziato è rivolta profondamente al globo celeste, dove sono visibili le costellazioni del cielo boreale ( l’Orsa Maggiore a sinistra, il Dragone e l’Ercole al centro e la Lira a destra).

Lo strumento rappresentato risulta essere quello dell’incisore, cartografo e editore fiammingo Joost de Hondt (1563 – 1612), il quale basò la costruzione delle sfere terrestri sulle ricerche dell’astronomo e astrologo danese Tyge Brahe (1546 – 1601).

Lo studio del cielo

Lo studio del cielo avviene grazie alla consultazione dell'”Opera omnia astronomica” di Adriaan Adriaanszoon (1571 – 1635), quale trattato d’inestimabile valore cognitivo, nell’ampio raggio di un’iconografia che chiama apertamente i cardini scientifici e imprescindibili dalla vita dell’uomo.

Il silenzio emerge come se fosse suono, avvolgendo l’osservatore nella quiete di una meditazione imponente, dove l’astronomo è colto nel supremo momento nella contemplazione di una grandezza celeste che appare sempre meno divina, e che scientificamente si apre e si rende conoscibile nelle mani degli uomini.

Jan Vermeer si espone alla committenza come un uomo incapace di rinnegare le leggi fisiche che incardinando l’universo, rendendo comprensibile il valore che lega la grandezza dell’ingegno umano alla conoscenza, nella chiara correlazione tra la mente che contempla e la mano che scruta la superficie ricurva della sfera celeste.

Riconoscere la ricerca di una resa della realtà incredibilmente dettaglia, appare essere una costante nella produzione fiamminga e in modo assoluto in quella di Vermeer, che fece del dettaglio un’ossessione che non di rado metteva in crisi le finanze del pittore e della sua famiglia.

L’astronomo è colto di profilo e i suoi tratti sonno sfocati come se, nel ritrarlo, il pittore avesse stretto gli occhi: un effetto che, smorzando la presa sulla realtà, allontana l’immagine del soggetto dalla sua natura d’individuo mostrandolo come una figura idealizzata, trasformata quasi nel simbolo universale di ciò che rappresenta: la scienza. (DAVERIO).

La scelta dell’astronomo

La scelta dell’astronomo quale soggetto del proprio dipinto, apre istintivamente gli occhi verso una coscienza nuova, verso un interesse che si rende comprensibile nella ricerca, e più poeticamente nell’esplorazione dell’universo, a quel tempo così ignoto, quale fonte per comprendere la realtà terrestre e il futuro.

Nel secolo dell’empirismo fulgente, il desiderio, il “de sideris” del classicismo greco degli antichi aruspici indicante la mancanza delle stelle, ritrova la sua vera natura lontano dagli astri, maturando, nella terrestre osservazione delle notti stellate, l’eterna e intima mancanza dell’infinito, assenza colmata da una continua osservazione dell’universo in ogni suo sconfinamento celeste. L’umano desiderio, naturalmente crescente nello spirito, smise di attendere i messaggi della scintilla di una cometa nel cielo, per nascere maturo dalla mente dell’uomo.

Ogni strumento scientifico si fa arma nel duello contro la misteriosa realtà: appunti, libri, carte illustranti il cielo e i movimenti stellari circondano l’astronomo, pronto a servirsi di ogni congegno per comprendere e infine raggiungere l’indiscussa verità induttiva.
L’astronomo, dunque, non è altro che l’esempio di una scienza avanzante, curiosa e imperterrita.

Riconoscere l’ideale nell’opera d’arte significa comprendere l’artista e il proprio pensiero, intelletto che riecheggia di scientificità, di passione e di profondo asservimento nella messa in essere di un sentimento che spesso richiedeva molti mesi per essere esternato.

La chiave di lettura dell’opera di Vermeer risiede nella scelta di un sapere tecnico, quale mezzo attraverso cui definire con estrema precisione la realtà rappresentata: tangibilità e visione onirica s’incontrano nella luce e nel colore cui Jan Vermeer dà una densità del tutto nuova attraverso una delicata e macchinosa ripartizione delle tinte sottili in velature sovrapposte o attraverso “tocchi delicati in punta di pennello“, in quella tecnica pittorica che rende possibile far vibrare la luce sui capelli o sulla stoffa verde dai disegni dorati posta in primo piano.

Il ruolo della finestra, quale tramite per la luce, si presenta come costante della produzione artistica del pittore fiammingo, esponendo lo spettatore alla prodigiosità suggestiva del pulviscolo dorato che sembra posarsi sulla tela.

Note Bibliografiche
P. Daverio, Louvre, Scala, Milano, 2016

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Galleria degli Uffizi https://cultura.biografieonline.it/uffizi/ https://cultura.biografieonline.it/uffizi/#comments Wed, 27 Oct 2021 17:11:31 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=16797 Attraversando i saloni espositivi della Galleria degli Uffizi, ci si imbatte in una varietà consistente di percorsi tematici, che consentono di ripercorrere le tappe salienti della storia dell’arte e dei suoi protagonisti. Il polo museale degli Uffizi vanta una storia antica e prestigiosa, circostanza che accresce il fascino di un luogo che deve essere necessariamente visitato se si raggiunge Firenze. Nato nella seconda metà del XVI secolo per volontà del duca Cosimo I, la Galleria degli Uffizi è uno dei musei più visitati e conosciuti al mondo, con una collezione di capolavori che spazia da Giotto fino ai grandi maestri della pittura del XVIII secolo.

Uffizi - Galleria degli Uffizi - Firenze - Museo
Firenze: una veduta esterna della Galleria degli Uffizi

La storia del Museo degli Uffizi

La storia del museo affonda le proprie radici nel pieno Rinascimento fiorentino e deve la sua nascita alla figura di Cosimo I de’ Medici (1519-1574) il quale, dopo la morte di Alessandro de’ Medici (1532-1537) per mano del cugino Lorenzino, assunse il potere a Firenze e il titolo ducale.
Cosimo, figlio del condottiero Giovanni delle Bande Nere (1498-1526) e di Maria Magdalena Romola Salviati (1499-1543), provò senza indugio di essere un monarca abile, accogliendo una politica di conquista territoriale e di accordi con l’Impero e il Papato.

Dopo il trasferimento nell’antico edificio comunale di Palazzo Vecchio, Cosimo I, nell’intenzione di affiancarlo a una nuova sede governativa, commissionò, nel 1560, la costruzione del monumentale complesso degli “Uffizi“, con lo scopo di accogliere gli uffici amministrativi e giudiziari di Firenze in un unico sito.

La costruzione e la decorazione del palazzo furono affidate in un primo momento, tra il 1540 e il 1555, all’architetto e scultore Giovanni Battista del Tasso (1500-1555) e solo in seguito a Giorgio Vasari (1511-1574), che ebbe il merito di celebrare con la sua arte le imprese del duca e quelle di molti altri uomini illustri.

L’edificio presentava tre livelli: al piano superiore erano relegate le attività artigianali, gli opifici, gli studi degli artisti e laboratori; nel primo e secondo piano le magistrature fiorentine (Nove Conservatori del Dominio e della Giurisdizione fiorentina, l’Arte dei Mercatanti, l’Arte del Cambio, l’Arte della Seta, l’Arte dei Medici e Speziali, l’Università dei Fabbricanti e il Tribunale della Mercanzia, Ufficiali dell’Onestà, le Decime e Vendite, gli Ufficiali della Grascia, il Magistrato dei Pupilli, i Conservatori di Leggi e i Commissari delle Bande), la cui presenza è tuttora accertata dall’esistenza di simboli e iscrizioni sugli architravi.

Le nicchie vasariane, destinate ad accogliere le sculture, furono abitate solo a partire del XVIII secolo: ventotto statue che da Giotto a Galileo Galilei, da Machiavelli a Michelangelo esaltavano la grandezza del genio toscano.

Uffizi - sculture personaggi famosi
Uffizi: alcune sculture di celebri personaggi

L’intonaco bianco, tipico della tradizione fiorentina, si alterna alla pietra serena che, proveniente dalla valle della Mensola era tanto pregiata da essere disponibile solo con una licenza di chi governava, fu impiegata per la costruzione dei portali e le nervature del complesso.
Il nobile scalone vasariano, con i suoi 126 gradini di pietra serena, conduceva solo al primo piano del complesso, fermandosi al vestibolo del teatro della corte medicea.

Dell’antico teatro di corte, eretto da Bernardo Buntalenti (1531-1608) nel 1585, resta sul pianerottolo l’antico portale di marmo che introduceva al teatro, oggi adibito a “Gabinetto di disegni e stampe”, e le tre porte, una delle quali, quella centrale, esibisce stemmi medicei, gigli fiorentini e gli emblemi del principe, quali l’alloro e il suo segno astrologico, l’ariete.

In vista delle nozze del figlio Francesco con Giovanna d’Asburgo (1547-1578), nel 1565, Cosimo I incaricò infine il Vasari di realizzare un camminamento, privato ed esclusivo, che consentisse al principe, partendo dalla Reggia, di attraversare la città senza scorta armata lungo quasi un chilometro.

Il camminamento vasariano, costruito in pochi mesi, correva lungo gli Uffizi, s’inseriva nel vivo di case e palazzi, fino a sfociare nel giardino di Boboli. Papa Pio V, con la bolla papale del 13 dicembre 1569, assegnò a Cosimo il titolo e la corona granducale.

“L’incoronazione vera e propria, avvenuta a Roma il 5 marzo dell’anno successivo, fu uno degli ultimi atti ufficiali del nuovo granduca, che già nel 1564 aveva nominato reggente per affari interni dello stato il figlio primogenito Francesco” (TUENA).

Nel XVII secolo, il Cardinale Leopoldo de’ Medici (1617-1675) realizzò il “Gabinetto di disegni e stampe”, uno dei più importanti nuclei di grafica del mondo. Quando nel XVIII secolo giunsero al potere i Lorena, Pietro Leopoldo decise di creare un nuovo ingresso pubblico alla galleria, finalmente aperta secondo il moderno pensiero illuminista. In questo modo il palazzo degli Uffizi divenne – modernamente inteso – il primo museo della storia d’Occidente.

L’attuale sistemazione è ispirata all’originario allestimento del Granduca Francesco I.

La Tribuna

I lavori per la realizzazione della Tribuna furono avviati sotto la supervisione di Bernardo Buontalenti, nel 1584.
“Si è soliti considerare la Tribuna come uno sviluppo consequenziale dell’idea di Studiolo. Ma l’idea che ha generato la Tribuna, la sua funzione successiva, e la sistemazione degli oggetti esposti, ne fanno qualcosa di molto diverso. Piuttosto la Tribuna è la riduzione di un museo e, più specificatamente, la riduzione della Galleria degli Uffizi […] un luogo espositivo, destinato a mostrare piuttosto che conservare; più una sala di rappresentanza che un luogo privato” (TUENA).

La stanza a forma ottagonale richiamava la Torre dei Venti di Atene (“horologion”), poiché il numero otto è il numero cosmico dei venti.

La struttura della Tribuna rievoca un ordine trascendete, nella quale s’inserivano e legittimavano gli emblemi del principe. I colori rosso, blu e oro alludono ai quattro elementi della natura: il simbolo dell’aria è richiamato dalla rosa dei venti collocata nella lanterna da cui filtra la luce naturale, la cupola decorata a conchiglie rimanda all’acqua, il rosso delle pareti al fuoco, mentre la terra è celebrata dai marmi del pavimento.

“Attraverso la lanterna, una banderuola di ferro indicava anche all’interno della Tribuna la direzione del vento: e già questo diretto rapporto col mondo esterno dovrebbe far riflettere quanti fanno derivare direttamente la Tribuna dallo studiolo” (TUENA).

Alla decorazione del tempietto concorsero alcuni dei più importanti artisti di corte: Benvenuto Cellini, Bartolomeo Ammannati (1511-1592), il Giambologna (1509-1608), Vincenzo Danti (1530-1576), Lorenzo della Nera e Vincenzo de’ Rossi (1525-1587).

La collezione della Galleria degli Uffizi

Non è facile ricostruite l’evoluzione delle collezioni medicee dopo l’ingresso di Carlo VIII a Firenze, nel novembre del 1494. La dispersione della collezione non avvenne, come molti credono, con il saccheggio del palazzo, ma inseguito a una serie di divisioni ereditarie e complesse questioni economiche, disgregazione che ebbe luogo fino a quando non venne a istaurarsi a Firenze un governo duraturo.

Il duca acquistò, tra il 1546 e il 1561, due ricche collezioni di medaglie. Non si lasciò scappare l’”Arringatore” e fece di tutto per ottenere la statua dello scita. Scriveva nel marzo 1563:

“… è risoluto di volere ad ogni modo il villano che arrota il coltello e poiché voi ci dite che il patrono d’esso e risoluto a darlo per ottocento scudi, se non potete darli meno, pigliatelo, ad ogni modo…”.

Nel 1565 commissionò l’intaglio con l’effige del Savonarola all’incisore Giovanni delle Corniole (1516-1566) e successivamente acquistò il cammeo in pietra stellata raffigurante serpente arrotolato.

Alla morte di Cosimo, nel 1574, la collezione vantava più di ottanta vasi, tra antichi e moderni, in pietra dura. Il duca si era impegnato a riacquistare le collezioni di Lorenzo de’ Medici, impedendo che entrasse nell’eredità di Margherita d’Austria (1522-1586), moglie del duca Alessandro, andata in sposa a Ottavio Farnese (1524-1586).

Poco amato dai suoi sudditi e poco avvezzo alla politica, Francesco ampliò la raccolta medicea: nel 1575 acquistò la collezione del vescovo di Viterbo Gualtiero, raccolta che comprendeva il cammeo detto dell’ “Ingresso trionfale”. Quando nel 1581 Francesco I istituì il primo nucleo della Galleria con la collezione d’arte di famiglia, intervenne trasformando in sale espositive gli ambienti dell’ultimo piano, alla quale si accedeva soltanto dagli ingressi privati del Palazzo Vecchio.

Attualmente le sale espositive del museo ospitano i più grandi capolavori scultori e pittorici italiani ed europei.

La Primavera Botticelli
La Primavera di Botticelli è una delle opere d’arte più visitate e note, conservate presso gli Uffizi.

Le sale dedicate all’arte medievale accolgono la “Maestà di Santa Trinità” (1290-1300) di Cimabue, la “Maestà di Ognissanti” di Giotto, la “Madonna Rucellai” (1285) di Duccio di Buoninsegna, l’ “Annunciazione tra i santi Ansano e Massima” (1333) di Simone Martini e Lippo Memmi, la “Presentazione al tempio” (1342) di Ambrogio Lorenzetti e la “Pala della beata umiltà” (1341) di Pietro Lorenzetti.

Il gotico internazionale è pronunciato attraverso: “L’incoronazione della Vergine” (1414) di Lorenzo Monaco, “L’adorazione dei Magi” (1423) di Gentile da Fabriano; mentre la sala dedicata al Rinascimento vanta capolavori come la “Sant’Anna Metterza” di Masolino (1424-1425), la “Battaglia di San Romano” (1438) di Paolo Uccello, la “Primavera” di Botticelli (1432), il “Battesimo di Cristo” (1475-1478) di Leonardo e Verrocchio, il “Doppio Ritratto dei duchi di Urbino” (1465-1472) di Piero della Francesca, il “Trittico Portinari” (1477-1478) di Hugo van der Goes, il “Compianto e sepoltura di Cristo” (1460-1463) di Rogier van der Weyden.

Galleria degli Uffizi: note Bibliografiche
F. M. Tuena, Il tesoro dei medici Collezionismo a Firenze dal Quattrocento al Seicento, Giunti

Sito ufficiale
www.uffizi.org

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Donna con i guanti, opera di Toulouse-Lautrec https://cultura.biografieonline.it/donna-con-guanti-toulouse-lautrec/ https://cultura.biografieonline.it/donna-con-guanti-toulouse-lautrec/#respond Wed, 02 Nov 2016 08:08:02 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20299 Il ritratto dal titolo Donna con i guanti risiede, nella sua atmosfera placidamente primaverile, all’interno dell’eccezionale e quanto mai vasta opera di realizzazione dell’artista e genio francese Henri de Toulouse-Lautrec. Il dipinto, un olio su cartone realizzato nel 1890 e dall’impressionante potere narrativo unito ad una principale componente psicologica, ritrae la modella Honorine Platzer nel giardino della casa paterna dei Lautrec a Montmartre.

Donna con i guanti (Honorine Platzer) – La femme aux gants
La donna con i guanti (La femme aux gants) • Henri de Toulouse-Lautrec, 1890

Attualmente custodito nelle sale del Musée d’Orsay, l’ex stazione parigina, l’opera testimonia l’allontanamento dalla visione impressionista incentrata all’estremo riguardo per la mutevolezza che convive con il reale, fotograficamente catturabile nei suoi sfocati contorni, per convergere verso il fulcro della personalità, verso l’anima delle modelle ritratte.

Donna con i guanti: note tecniche e descrittive

Una donna dallo sguardo rivolto altrove, distratta o attratta da una scena che si svolge al di là di ciò che ci è consentito vedere, oltre i limitati confini del cartone sulla quale essa stessa è ritratta, è colei che ci soffermiamo a guardare, nelle incantevoli sale del Musée d’Orsay, la vecchia stazione, la metamorfosi del tempo che scorre trascinando e tramutando ogni suo aspetto in avanguardia, sia questa dei contenuti o dell’architettura ospitante l’arte.

La “femme” è presente nella dimensione squadrata dai contorni netti e nella vaghezza di un verde, di un color corteccia evocante un limitativo spicchio di natura parigina che facendo da fondale, quasi irriconoscibile, crea il palcoscenico su cui spicca, in un’adesione superficiale della figura sulla solidità piatta dello sfondo, la placidità di un momento comune, ripetitivo e probabilmente molto noioso.

Bianco, netto ed eccezionalmente ingombrante l’abito asfissia la figura magra, nascondendo la bellezza dei capelli, del volto bianco in una struttura di stoffa e altri paramenti, che terribilmente vistosi e alla moda, filtrano senza nascondere, coprono senza occultare.

È bella la giovane Honorine Platzer, una modella dai lineamenti eccezionalmente regolari e aggraziati quanto eccezionalmente vaghi, una bellezza che colpisce, ma che tace al ricordo, senza colpire se pur nelle sue attraenti fattezze.

Sembra quasi d’ascoltare negli echi del quadro che comunica allo spettatore, l’allegro rumore di passi che corrono sulla ghiaia del giardino di Monsieur Forest, il padre di Henri Toulouse, nella vivacità della rivoluzionaria Montmartre, nell’allegro calderone che portò avanti lo spirito bohémien, dell’amore extraconiugale, del rifiuto della frugalità e del confortevole focolare delle donne incapaci di mostrare la propria intelligenza a discapito di una condanna fin troppo rovente per giustificare un lascito di libertà.

Commento

Quando l’arte ci trasporta oltre la superficie intrisa di colore, è facile riconosce il miracolo di un’idea artistica che in ogni sua forma, epoca e tentativo comunicativo sia riuscita nel mistero sacrilego dell’immortalità, sia questo quello dell’immagine e più profondamente del ricordo.

Immaginare il potere della pittura rende comprensibili le forme del pittore parigino, accompagnandoci nel contempo nel cuore del pensiero che induce alla ricerca delle forme attraverso l’interpretazione della volontà, dell’iride che restringendosi suggerisce un’emozione o di quanto uno sguardo perso nel vuoto sia l’indizio di una personalità.

L’arte comunica, e l’arte di Henri de Toulouse-Lautrec dimostrò lo slancio, in questa sua fase, necessario all’abbandono dell’impressione per approdare sulla strada del sentimento, della personalità, del canale di pensieri in grado di tracciare una fisionomia, rendendo i connotati l’esatto commento di un cuore sensibile o di una mente impavida, tra i colori caldi di un cappello o dal grafismo delle vesti smosse e tenacemente rese con la tecnica scintillante e rapida della pittura ad olio su cartone.

L’esecuzione nel giardino di Montmartre è intensa, diretta e moderna nella contemporaneità che è in grado di istaurare tra i canali del tempo, tra il passato e il presente.
Nel quadro “Donna con i guanti” è facile percepire la bella Honorine come se fosse a pochi passi dalla nostra finestra, pronta a voltarsi e a scandire con la dolce voce e il fascino falsamente lascivo della cadenza e dell’accento francese, un opinione, un pensiero sfalsato dai ritmi della noia o una proposta per una serata che si teme sia noiosa come la precedente, magari in compagnia di amici a teatro, o nel piccolo bistrot all’angolo della strada, quello nella quale un bicchiere di vino non è mai annacquato dalla musica di artisti dilettanti.

Guanti color tabacco

Dinnanzi al dipinto “Donna con i guanti” siamo a due passi dalla giovane Honorine Platzer. Una ragazza in un giardino che deve la sua memoria all’associazione della propria identità a quella di un paio di guanti color tabacco, eleganti ma adeguati per una permanenza tra le fronde del giardino dei Lautrec.

Cosa avrà pensato il pittore dipingendo i suoi occhi, le sue guance bianche e il suo naso deliziosamente regolare?

La realtà concreta di una giornata non abbastanza fredda da ostacolare il pensiero di liberarsi di un guanto, ma con la delicata attenzione a non perderlo stringendolo con cura nella mano sinistra.

Il tempo è qui e non scorre, i commenti del pittore svaniti nei gineprai di milioni di voci sono intarsiati di colore come il mogano si accompagna all’oro nel manico del bastone di un ricco gentiluomo inglese, ed eccoci ancora qui ad ascoltare il tempo senza concepire il tempo, ad osservare quello che oggi è polvere e che un tempo fu presente, bellezza, tra le pieghe di quei guanti color tabacco.

Analisi dell’opera (video)

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Pagamento del tributo, affresco di Masaccio https://cultura.biografieonline.it/pagamento-del-tributo-masaccio/ https://cultura.biografieonline.it/pagamento-del-tributo-masaccio/#respond Mon, 19 Sep 2016 09:44:02 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19904 Di nuovo ingegno e spirito sperimentatore fu uno dei maestri dei primi anni del Quattrocento: Tommaso di Giovanni di Simone Guido di Castel San Giovanni. Masaccio, l’autore degli affreschi nella cappella Brancaccio (o Brancacci) a Firenze e databili l’anno 1426/27, furono i testimoni di una maturità artistica improvvisa e sorprendente. Essa nacque dalle nuove possibilità compositive, insite nell’uso di figure a tutto tondo. Figure non più alloggiate su uno stretto margine in primo piano con lo sfondo oro o su una superficie “risolta in senso coloristico’” (Görlich), ma sapientemente coordinate con il paesaggio, profondo e molto realistico. Di questi affreschi fa parte il “Pagamento del tributo“.

Pagamento del Tributo - Masaccio - Affresco
Pagamento del Tributo • Affresco realizzato da Masaccio nel 1426 circa, presso la Chiesa di Santa Maria del Carmine, a Firenze • Dimensioni: 255 x 598 cm

Lo scrigno

Un tesoro d’affresco, vivido e ancor brillante d’orgoglioso spirito rinascimentale, l’opera di Masaccio Pagamento del tributo, ottenne il proprio impiego come capolavoro universale nella scenografia meravigliosa e commovente della Cappella Brancacci, nella Chiesa di Santa Maria di Carmine a Firenze. E’ un luogo santo di tradizioni e visite spettacolari giacché scuola d’immensa grandezza. Un esempio mirabile di maestria, d’ingegno alla quale, a quanto riporta il Vasari, trovarono conforto nell’ispirazione personaggi del calibro di Michelangelo.

Pagamento del tributo: note tecniche e descrittive

Tra i tesori rinascimentali, la cupola della sacra cattedrale dell’acume umano trovò, come un bagliore divino nel firmamento, il proprio rinomato riconoscimento tra i grandi maestri del primo Quattrocento fiorentino.

La sacralità di un’arte risplendente di antichi geni e grandi capolavori compose lo spartito della propria venerabilità, quella dei santi, degli apostoli e delle religiose simbologie in una doppia matrice. Quella della grandezza intrinseca di un’arte di per sé consacrata alla magnificenza priva d’abbandono, dunque d’oblio, e quella della destinazione imperitura ed eternamente santificata dei luoghi di culto.

Divino ingegno umano, divino il suo esercitare. La mano che lega il talento alla fede, la pratica pittorica allo sbocciare di un capolavoro sul sottile strato imbiancato di una parete fredda, quasi intollerante e atea prima che sia fatalmente raggiunta dal pennello.

Commento

Affascinante. Un fiore incontrollato di petali di fisionomie e calde cromie tra la porosità della pietra, tra il tocco della creazione mediante il crine dello strumento e la sua incombente genesi.

La creazione che si trasmette da Dio agli uomini, dagli uomini all’impasto di pigmenti e oli, di forme e martiri.

Esistere e completare l’opera di Dio arricchendo e compiendo l’eterno mistero della creazione mediante la creazione di altre eterne meraviglie, guidate da Dio e dunque parte del suo immenso disegno. Furono in molti gli apostoli, dodici per la Bibbia, ma innumerevoli per la storia universale dell’arte.

Masaccio, le cui «[…] cose fatte inanzi a lui si possono chiamar dipinte, e le sue vive, veraci e naturali. », compì il prodigio che porta il nome di crescita, cambiamento, mutamento azionato dall’imminenza di una modernità sovrastante ogni attimo e che in ogni misura nutre la propria esistenza dalla fonte di un ‘‘pensiero interrotto’’. Pensiero che cedette, in altre parole, alla tentazione di un sentiero totalmente inesplorato. Quello slegato dalle celestiali forme del weicher Stil, tipiche del periodo tardo gotico.

La Pesca di Pietro
La Pesca di Pietro: dettaglio della scena presente sulla sinistra dell’affresco

La realizzazione

Il Pagamento del tributo fu realizzato in trentadue giornate. L’affresco mostra vividamente una scena della storia di San Pietro.

Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono.
(dal Vangelo secondo Matteo)

Un classico della tradizione iconografia pittorica, l’affresco, tende d’ambizione mostrandosi nuovo, inconsueto, del tutto aperto alla nuova compagine rinascimentale.
Campiture nette, plasticità data dall’accostamento di luce e colore sono le principali particolarità dell’opera iniziatica intrapresa dal giovane Masaccio.

Il volto di Gesù nel dettaglio
Il volto di Gesù nel dettaglio

Fisionomie scultoree, sintetiche prive dell’attaccamento rassicurante delle forme di un disegno preparatorio nitido e ricco di dettagli accurati. Come fu per Masolino e Filippino Lippi.
La costruzione scenica appare totalmente innovativa nel suo realismo. Nell’architettura delle mura della città di Cafarnao sulla destra, cave e piene di loggette e tettoie (in alto a destra).

Pagamento del Tributo - Masaccio - dettaglio - Gesù e gli apostoli
Il dettaglio dell’opera con Gesù e gli apostoli

Un punto di fuga che trova il proprio fuoco dietro la testa del Redentore, il fulcro della scena, nel pieno di un’atmosfera unificata nella luce e nel colore e che in tal modo provoca l’inclinazione delle ombre.

Le figure

Le figure nel Pagamento del tributo si esprimono secondo la grammatica di un linguaggio nascente, quello connaturante una tematica nuova. Ritraggono episodi sentiti come reali, concreti, vicini al presente e del tutto svincolati dai significati riposti e simbolici. Sono agenti mediante una drammaticità puramente e unicamente accessibile.

Il pagamento del tributo
Il pagamento del tributo

Nuova risulta essere la figura del giovane guardiano, ritratto di spalle, che esige il tributo prima dell’entrata nella città.

Sullo sfondo scuro delle montagne i nimbi, dischi rispondenti alla prospettiva, sospesi sulle teste e sincronizzati con i movimenti dei loro possessori.

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