Maria Cristina Costanza, Autore presso Cultura https://cultura.biografieonline.it/author/mariacristinacostanza/ Canale del sito Biografieonline.it Fri, 20 Oct 2023 15:54:25 +0000 it-IT hourly 1 Troppa grazia Sant’Antonio! Cosa significa e da dove deriva il modo di dire https://cultura.biografieonline.it/troppa-grazia-santantonio-modo-di-dire/ https://cultura.biografieonline.it/troppa-grazia-santantonio-modo-di-dire/#respond Tue, 17 Jan 2023 13:04:50 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=38043 È un’esclamazione, ma anche una locuzione metaforica. Si tratta di Troppa grazia, Sant’Antonio!
Questa espressione indica il caso in cui si ottiene più di quanto si desidera anche con risultati spesso non del tutto positivi.

Troppa grazia Sant'Antonio: il mercante e il cavallo
Il mercante e il cavallo

L’origine dell’espressione: il mercante e il cavallo

L’espressione Troppa grazia, Sant’Antonio deriva da una storiella tramandata oralmente.

Il protagonista è un mercante che vive una vita di grande stenti. Ha un sogno: comprare un cavallo. Finalmente riesce a realizzarlo: ha il cavallo e si prepara a cavalcarlo. Prova a salire in groppa al destriero, ma non riesce a darsi il giusto slancio. Il mercante ha le gambe troppo corte e il cavallo si rivela troppo alto per lui: inarrivabile.

Dove non arrivano le gambe arrivano i Santi

Il mercante è alle prese con il cavallo. Prova e riprova ma nulla: non riesce a salire in groppa. Sull’orlo della disperazione guarda al cielo e pensa di rivolgersi al suo Santo preferito. Si tratta di Sant’Antonio. Il mercante lo invoca per avere la grazia e riuscire nell’impresa.

Troppa grazia

Invaso dal cosiddetto furore sacro, il mercante spicca un nuovo balzo, ma in qualche modo fallisce.

Più  precisamente, carico di troppa energia per l’intercessione celeste, salta e scavalca la groppa dell’animale.

Il mercante cade dall’altra parte del cavallo, a gambe all’aria. L’uomo si rivolge così al Santo, lamentandosi della grazia, puntualizzando che si è trattata di troppa grazia. Pronuncia in quel momento la fatidica frase!

Sant'Antonio abate
Sant’Antonio abate

“Troppa grazia Sant’Antonio”: quando si usa

Così come il mercante si rivolge a Sant’Antonio, anche noi oggi utilizziamo questa locuzione per indicare un’elargizione che ci mette quasi in imbarazzo; oppure che produce alla fine effetti non soltanto positivi.

Si utilizza in maniera diretta o sarcastica per indicare un sovraccarico che riceviamo dall’esterno.

Un favore da orso

In lingua russa c’è una locuzione che corrisponde a Troppa grazia, Sant’Antonio: è il Favore da orso.

Come nell’espressione in lingua italiana, parlare di un favore da orso significa indicare un dono che conduce anche ad elementi negativi.

Questa espressione nasce da una favola popolare dell’Ottocento.

Ecco la sintesi: un orso tenta di  scacciare una mosca dal naso del fratello e amico Eremita, ma finisce per ucciderlo, insieme alla mosca.

Nella storiella effettivamente non compare l’espressione “favore da orso” ma la morale è:

un amico stupido che ti fa un favore è più pericoloso di un nemico.

Una curiosità: Sant’Antonio e un cavallo imbizzarrito compaiono anche in un celebre quadro di Salvador Dalí.

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Tondo Doni di Michelangelo: storia e descrizione https://cultura.biografieonline.it/tondo-doni/ https://cultura.biografieonline.it/tondo-doni/#respond Mon, 19 Dec 2022 10:57:59 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=40711 Il Tondo Doni è un’opera di Michelangelo Buonarroti databile tra il 1505 e il 1507. Si tratta di un dipinto a tempera grassa su tavola, unica opera su supporto mobile dell’artista. Oggi è conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze. È una delle opere emblematiche del Cinquecento: pone le basi al Manierismo.

Tondo Doni: foto ad alta risoluzione pdf
Tondo Doni: foto ad alta risoluzione

Tondo Doni: la commissione e l’aneddoto del pagamento

La storia dell’opera, a partire dalla commissione, è raccontata dallo storico dell’arte Giorgio Vasari. Alla base c’è un curioso aneddoto.

Agnolo Doni è un ricco banchiere che richiede a Michelangelo, suo amico, una Sacra Famiglia in tondo. Si pensa che la richiesta fosse stata avanzata in occasione delle nozze di Maddalena Strozzi o del battesimo della loro primogenita, Maria. In ogni caso non appena l’opera è pronta Michelangelo la invia alla famiglia Doni con un garzone.

Il ragazzo porta il dipinto e chiede i 70 ducati, come indicato da Michelangelo. Doni non è d’accordo e gliene dà solo 40.

Michelangelo, quindi, fa riportare indietro il dipinto. Lo cederà, in seconda battuta, al prezzo raddoppiato di 140 ducati.

Il viaggio dell’opera: da casa Doni agli Uffizi

Alcuni documenti e testimonianze raccontano che il Tondo Doni resta in casa Doni fino al 1591. Solo nel 1677 arriva la prima collocazione agli Uffizi, tra le collezioni granducali. Da qui nasce una grandissima popolarità per l’opera con decine di riproduzioni e incisioni nel tempo.

Tondo Doni: descrizione dell’opera

Il dipinto mostra una Sacra Famiglia al centro del tondo. In primo piano non c’è come più frequentemente accade il Bambino, ma la Madonna.

La madre è nell’atto di girarsi su stessa per prendere il figlio dalle braccia di San Giuseppe, che infatti glielo porge.

Accanto a lei c’è un libro chiuso e abbandonato sul manto che copre le gambe.

Il piccolo Gesù è intento a giocare con i capelli della madre.

La dinamica del dipinto, di grande matericità anche per il corpo imponente della Madonna, ha il suo culmine nella torsione di Maria. La linea della torsione si chiude nella piramide rovesciata formata dalle 3 teste.

Tondo Doni - cornice dettaglio
Il dettaglio del quadro e della cornice

Lo sfondo

In secondo piano vediamo il piccolo San Giovanni Battista. Più indietro diversi gruppi di ignudi, appoggiati alle rocce e poi, a cornice, un lago, un prato e delle montagne.

Questi personaggi richiamano la muscolatura stessa dei tre protagonisti del tondo, nelle loro linee.

Inoltre il dinamismo riverbera nel contrasto tra l’andamento orizzontale della scena in secondo piano e quello invece verticale del primo piano, della Sacra Famiglia.

Riferimenti e personaggi

Tra il gruppo di personaggi in secondo piano risalta sulla destra, appunto, il piccolo San Giovanni Battista. Gli altri corpi possono essere associati ad altri riferimenti della scultura classica, a mo’ di citazioni: il giovane in piedi ricorda ad esempio l’Apollo del Belvedere.

Apollo del Belvedere
Apollo del Belvedere

Mentre nell’uomo seduto subito a destra di Giuseppe si ravvisa un richiamo al Gruppo del Laocoonte.

Gruppo scultore del Laocoonte
Laocoonte e i suoi figli: Agesandro, Atanodoro e Polidoro, marmo, I d.C., Musei Vaticani

Accomuna tutti i corpi il “trattamento scultoreo”.

Ogni singolo personaggio ha grande possenza, è chiaroscurato, spicca dal fondo della tavola trasmettendo una senso materico molto forte.

Un paesaggio noto

Oltre ad opere classiche, viene “citato” anche il paesaggio. C’è una somiglianza, quasi inconfondibile, con il profilo della scogliera della Verna. Più studiosi hanno confermato questo parallelo.

Michelangelo rappresenta il paesaggio di Chiusi della Verna. Ci sono legami in tal senso sia di Michelangelo che di Agnolo Doni, iscritto all’Arte della Lana di Firenze, protettrice del Santuario della Verna, fra l’altro.

Scogliera della Verna (Chiusi della Verna, Arezzo, Toscana)
Scogliera della Verna (Chiusi della Verna, Arezzo, Toscana)

Prospettiva doppia

Oltre l’orizzontale dello sfondo contrapposto al verticale della scena in primo piano, le due parti si differenziano anche per il punto di vista.

  • Il fondo, dove sono gli ignudi e il paesaggio, è letto dall’artista con un punto di vista frontale e ribassato.
  • La scena in primo piano invece è come vista dall’alto.

Le linee prospettiche sono moltiplicate: dietro la prospettiva poggia sull’ombra della croce e sulla croce del San Giovannino, cosa che non avviene in primo piano. Questo a superare l’allineamento tipico del tempo di Michelangelo che già annuncia i prodromi di quello che sarà il Manierismo.

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Superstizione e scaramanzia: quali sono le differenze? https://cultura.biografieonline.it/superstizione-scaramanzia-differenze/ https://cultura.biografieonline.it/superstizione-scaramanzia-differenze/#respond Fri, 19 Aug 2022 15:18:11 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=40193 C’è un adagio più che mai pop che racconta il desiderio tutto italiano di allontanare, con quello che si può, la malasorte. Esso è “occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio” (che è anche il titolo di un film del 1983). Credenze, più o meno razionali, si mescolano a tradizioni ancestrali quando parliamo di superstizione e poi, più in piccolo, di scaramanzia. Ma… quali sono le differenze fra superstizione e scaramanzia?

Proviamo a fare chiarezza.

Superstizione e scaramanzia - Differenze
Superstizione e scaramanzia

Superstizione

La superstizione è una credenza, più o meno razionale, che può influire sul pensiero o sulla condotta di vita.

Si concretizza, in sintesi, nella convinzione che ciò che facciamo e ancor più come lo facciamo – con tutte le derive maniacali del caso – possa decretare la buona o cattiva riuscita delle nostre azioni future.

È una sorta di rivisitazione del principio causa effetto ma ben lontano dal rigore scientifico.

L’origine latina: Cicerone e De natura deorum

Il termine superstizione deriva dal latino superstitiònem. La parola è composta da sùper (sopra) e stìtio (stato). Venne impiegato da Cicerone nella sua opera De natura deorum.

Con questo termine Cicerone indica la devozione patologica di chi trascorre le giornate rivolgendo alla divinità preghiere, voti e sacrifici, affinché serbi i suoi figli “superstiti” (cioè sani e salvi).

Marco Tullio Cicerone
Marco Tullio Cicerone

Da qui il termine: utilizziamo il soprannaturale per… scamparla.

Scaramanzia: istruzione per superstiziosi

Molto più terreno e meno volatile è il concetto di scaramanzia.

Rappresenta, in qualche modo, una sottocategoria della superstizione.

La superstizione è il credere, la teoria, se vogliamo, mentre la scaramanzia è l’azione. Tanto è vero che è di corrente uso l’espressione gesto scaramantico.

Le scaramanzie più comuni

Sono gesti scaramantici ad esempio:

  • toccare ferro;
  • fare le corna;
  • buttare un pizzico di sale dietro le spalle se si versa l’olio.

Si tratta di atti precedenti al fare o anche “riparatori” a quanto si è fatto, sbagliando e attirando – secondo alcuni – eventi funesti.

Leggi anche:

Le parole scaramantiche

Una curiosità molto particolare, in italiano e non solo, è il fatto di augurare qualcosa per attrarre il totale opposto.

Ad un pescatore, per esempio, non si dirà mai “buona pesca”, né “buona caccia” al cacciatore.

Allo stesso tempo al danzatore pronto ad andare in scena si dirà “rompiti una gamba” piuttosto che “buon … balletto”.

Quest’espressione c’è anche in inglese: “break a leg” dicono i britannici a chi sta per debuttare in esibizioni che implicano il movimento, danza o sport.

Due parole: dipende dalle stelle, dipende da noi

È chiaro che quanto detto va preso con le pinze.

La superstizione o la scaramanzia devono probabilmente essere considerate nella loro forma ludica e goliardica.

Guai a farsi soggiogare da eventi esterni.

I latini, del resto, ci hanno detto che siamo noi gli artefici della nostra fortuna e forse – non senza presunzione – possiamo affermare che siamo noi stessi a:

  • attrarre il bene, facendo il bene (e viceversa…)
  • attrarre il male, facendo il male.

Molto di più che scendendo dal letto con il piede destro anziché quello sinistro.

Il contributo è molto più sottile e profondo.

Un pugno di lenticchie nel portafoglio a capodanno, un cornetto in macchina, una serie di azioni prima di affrontare un esame o i calzini portafortuna per la partitella a calcetto sì, ma senza esagerare. Né discriminare. 

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Rendere pan per focaccia: origini del modo di dire https://cultura.biografieonline.it/pan-per-focaccia/ https://cultura.biografieonline.it/pan-per-focaccia/#comments Thu, 28 Jul 2022 12:35:09 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=40108 Quando si dice rendere pan per focaccia? Lo abbiamo detto quando abbiamo ricambiato un’azione ricevuta con pari mezzi o, per esempio, con pari intensità. Il più delle volte questo pane è un torto; e questa focaccia non è altro che una rivendicazione. Possiamo dire che si tratta di un occhio per occhio e dente per dente più… infarinato. Raccontiamo di seguito le caratteristiche e le origini di questo modo di dire.

rendere pan per focaccia
Pane e focaccia

Partiamo dai Romani

L’origine del motto è più o meno sconosciuta. Qualcuno la colloca nell’antica Roma. Qui erano in uso alcuni modi di dire simili. Sentenze come:

  • Par pro pari referre;
  • Par pari hostimentum dare;
  • Nulli nocendum: siquis vero laeserit, multandum simili iure.

Quest’ultima espressione si attribuisce a Fedro e si traduce così:

Non si deve nuocere a nessuno: se qualcuno l’avrà fatto, sarà castigato allo stesso modo.

Rendere pan per focaccia: da un’usanza popolare

Secondo una diversa interpretazione l’espressione rendere pan per focaccia origina da un’usanza popolare. A ben vedere non è nemmeno così negativa come la interpretiamo oggi. Non c’è nel modo di dire nessuna rivendicazione, anzi.

Era un’abitudine di buon vicinato.

Succedeva che chi aveva cotto delle focacce, fatte con della farina ricevuta in prestito, ne donava qualcuna al suo vicino. Questo ricambiava con del pane. Il pane veniva reso in cambio delle focacce.

Il Decamerone

Il modo di dire “Rendere pan per focaccia” è antico, anzi antichissimo.

Una prima testimonianza in letteratura la si trova nel Decamerone di Boccaccio.

Nella metà del Trecento lo scrittore e poeta fiorentino faceva dire alla moglie di Spinelloccio all’indirizzo di quella di Zeppa:

Madonna, voi m’ avete renduto pan per focaccia.

Questo frangente è anche presente nella trasposizione cinematografica Decameron nº 2 – Le altre novelle del Boccaccio, del 1972.

È abbastanza facile pensare che se Boccaccio l’abbia inserito nella sua opera è perché quella locuzione fosse pienamente nella lingua allora corrente.

Nella Divina Commedia

Anche Dante, nella Divina Commedia, utilizza un motto molto simile.

Nel passaggio ai versi 118-120 dell’Inferno, canto XXXIII il pan per focaccia diventa dattero per fico.

Si legge:

I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo.

Anche qui si indica la rivendicazione di un torto subito; in questo caso del frate Alberigo.

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Lacrime di coccodrillo: da dove viene il modo di dire https://cultura.biografieonline.it/lacrime-di-coccodrillo-modo-di-dire/ https://cultura.biografieonline.it/lacrime-di-coccodrillo-modo-di-dire/#respond Tue, 19 Jul 2022 14:35:52 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=40106 Fingere dispiacere quando in realtà non lo si prova o meglio addolorarsi per qualcosa che dipende, in fondo, da noi. Quando e perché abbiamo pianto lacrime di coccodrillo? Questo modo di dire sintetizza una serie di azioni che possiamo definire abbastanza negative. Vediamo di cosa si tratta e quali sono le origini di questa espressione.

Lacrime di coccodrillo - crocodile tears
Lacrime di coccodrillo: più in fondo spieghiamo perché questo animale è solito lacrimare

Piangere lacrime di coccodrillo: origini

L’espressione “piangere lacrime di coccodrillo” è un modo di dire, di uso comune. Il detto trae origine dal mito secondo cui i coccodrilli piangerebbero dopo aver ucciso le loro prede.

Vi sono varianti che si focalizzano su questa preda.

Qualche volta il coccodrillo piange perché la preda divorata era umana.

In un altro caso il coccodrillo è una femmina e piange perché ha appena divorato i propri piccoli.

In ogni caso si piangono lacrime di coccodrillo quando ci si pente per qualcosa che si è fatto e, col sennò di poi, non avremmo voluto fare.

La tradizione: partiamo dalla Grecia

Nella Grecia antica, a tal proposito, si usava l’espressione “lacrime megaresi“. Questo rappresenta un parallelo alle lacrime di coccodrillo.

I Greci si riferivano agli abitanti di Megara, ritenuti falsi e ipocriti dagli ateniesi.

I megaresi come il coccodrillo piangevano dopo aver agito male; da una parte dopo aver mentito e detto falsità, dall’altra dopo aver divorato qualcuno: un uomo, un animale o il proprio cucciolo.

Dalla Grecia a Shakespeare

Di questa espressione ne fa uso anche William Shakespeare. Ne fa riferimento in un passo dell’Otello. Scrive:

O devil, devil! If that the earth could teem with woman’s tears, Each drop she falls would prove a crocodile.

Si tradurrebbe:

Demonio, sì, demonio! Se la terra potesse partorire fecondata da lacrime di femmina, ogni goccia sarebbe un coccodrillo!

Gli elementi ci sono tutti:

  • lacrime,
  • coccodrillo,
  • risentimento,
  • pentimento.

Oltre la letteratura, la biologia

Come mai, però, si fa riferimento al coccodrillo e non ad un altro animale?

Perché non piangiamo lacrime di volpe o di cinghiale, ad esempio?

Il coccodrillo è protagonista di questo modo di dire perché in effetti i coccodrilli piangono e anche in maniera vistosa. Lo fanno per motivi puramente fisiologici.

Avendo una seconda palpebra, il coccodrillo piange per ripulire l’occhio e lubrificarlo.

Inoltre, in questo modo espelle i sali accumulati. Il coccodrillo non suda e quindi espelle i sali appunto solo tramite lacrime ed escrementi.

Infine, la lacrimazione aumenta quando il coccodrillo staziona più ore fuori dall’acqua.

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Homo faber fortunae suae – ognuno è artefice del suo destino: origine del modo di dire https://cultura.biografieonline.it/homo-faber-fortunae-suae-modo-di-dire/ https://cultura.biografieonline.it/homo-faber-fortunae-suae-modo-di-dire/#respond Fri, 15 Jul 2022 08:54:18 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=40103 L’uomo è artefice della propria fortuna. All’uomo spetta il compito di forgiare il suo destino. Homo faber fortunae suae.

Quante volte abbiamo sentito dire questa frase?

Per motivarci, come per risollevarci da un fallimento, magari, un amico si è sentito di ricordarci che siamo noi e solo noi a plasmare il nostro domani.

E’ un modo di dire molto in linea con il self-made man del nostro tempo, ci sarebbe da dire.

E invece no!

Già, perché l’origine di questa locuzione è latina e quindi antica.

Scopriamo assieme le origini.

Quadrifoglio composto da cuori di legno

Lectio latina: come prendere in mano la propria vita

La locuzione originale risale alla lingua latina: homo faber fortunae suae (qui trovi un elenco di proverbi latini).

La traduzione è “l’uomo è artefice della propria sorte”.

Si può trovare questa frase anche in un’altra forma, ovvero: homo faber ipsius fortunae.

In quest’ultima versione il verbo est è omesso per rendere la frase più scorrevole.

Un ulteriore variante della suddetta frase è la locuzione forse più famosa e grammaticalmente più complessa:

Faber est suae quisque fortunae.

Si traduce sempre come

ciascuno è artefice della propria fortuna.

Homo faber fortunae suae: chi ha pronunciato questa frase?

Il primo a mettere insieme le parole che compongono la frase “homo faber fortunae suae” fu Appio Claudio Cieco, politico e letterato romano.

Scrisse questa frase nella sua opera “Sententiae”.

Si tratta di una raccolta di massime risalente al IV secolo a. C. di cui solo tre frammenti sono giunti a noi.

Più avanti viene ripresa da Pseudo Sallustio, che scrive:

fabrum esse suae quemque fortunae.

La traduzione resta: “Ciascuno è artefice del proprio destino”.

Homo faber anche per l’Umanesimo

Il concetto di homo faber fu ripreso dagli umanisti nel XIV secolo. Questo uomo era l’ideale della nuova umanità nell’Italia rinascimentale così come nelle grandi corti europee.

Nel concetto si indicava un uomo capace di mettere insieme sapere e potere, uomo attore e costruttore del mondo.

L’homo faber era oltre l’homo sapiens perché abile a tenere insieme le parti: macro e micro, cielo e terra, e in questo senso a costruire il proprio vissuto.

Homo faber vs homo religiosus

Tanto è self made questo homo faber che di concetto va in contrapposizione con l’homo religiosus.

Da una parte c’è una forza e una potenza terrena ad autodeterminarsi; dall’altra c’è l’abbandono ad un destino nelle mani del Cielo.

Da una parte c’è la visione della costruzione della vita laica e centrata sull’uomo e le sue azioni; dall’altra parte c’è una visione teocentrica con il Divino generatore dell’oggi e del domani.

Tutto cambia nel ‘900

La separazione fra faber e religiosus mostra la sua debolezza nel tempo. La filosofia del ‘900 supera questo divario.

Essere artefici del proprio destino non significa separarsi dal Trascendente, laddove il sacro è esso stesso nella coscienza stessa dell’uomo e della sua storia.

Nel ‘900 non occorrono più etichette: la liquidità della modernità permette di centrare la propria autodeterminazione tenendo senza problemi lo sguardo verso il Cielo. Fino alla valutazione di una piena identificazione fra le due parti.

Come dire: io mi autodetermino, io creo la mia fortuna perché, in fondo, il divino dimora in me.

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Medea nella mitologia greca: riassunto e analisi https://cultura.biografieonline.it/medea-mitologia/ https://cultura.biografieonline.it/medea-mitologia/#comments Wed, 15 Jun 2022 10:52:00 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=33264 Medea è un personaggio della mitologia greca. Uno dei più celebri e allo stesso tempo controversi. Nella narrazione di Medea, infatti, si intrecciano amore e morte, e la passione. Vi sono temi importanti come la follia e l’infanticidio. Ella è una donna che già nel nome conduce “astuzie, scaltrezze” e che da chi la narra viene presentata come una maga dotata di grandi poteri.

Medea
Medea, con i bambini morti, fugge da Corinto su un carro trainato da draghi – Dettaglio del quadro di Germán Hernández Amores (1887)

Discendenza e genitori

Per la mitologia greca Medea è figlia di Eete, re della Colchide, e di Lidia. Apollonio Rodio, nelle Argonautiche, però, la descrive come nipote di Elio, il Sole, e delle maga Circe, da cui, infatti, eredita i suoi poteri magici.

Diodoro Siculo spiega invece così la linea di discendenza che porta alla sua nascita; il Sole, Elio, ha due figli: Perse e Eeta. Da Perse nasce Ecate, potentissima maga, dea dell’Oltretomba e delle notti di Luna piena. Ecate uccide Perse e si congiunge con lo zio Eeta. Da questa unione nascono Medea e Egiale.

Il mito: l’amore per Giasone

Il mito di Medea lo ritroviamo nella vicenda di Giasone e degli Argonauti. Giasone è alla ricerca del vello d’oro e nella missione esprime le sue grandi capacità, custodito da un drago per conto di Eeta. Medea si innamora di Giasone al punto da uccidere il fratello Egiale. Di lui sparge i resti dopo essersi imbarcata sulla nave degli Argonauti con il suo innamorato.

Giasone porta il vello d’oro conquistato a Jolco, ma lo zio Pelia, nonostante quanto promesso, non gli cede il trono. Medea a questo punto adopera i suoi poteri magici per aiutare Giasone.

L’inganno a Pelia e le nozze a Corinto

Medea inganna le figlie di Pelia porgendo loro un “pharmakon” che, dice loro, avrebbe ringiovanito il vecchio genitore. Per dimostrare il prodigio riporta un caprone ad agnello, dopo averlo sminuzzato e bollito con le sue erbe magiche. Invita la figlie di Pelia a fare lo stesso col padre per evitarsi la vecchiaia e la morte.

Le donne cadono nella trappola ordita e uccidono il padre. Acasto, figlio di Pelia, seppellisce i resti del padre e bandisce Medea e Giasone da Jolco. I due si rifugiano a Corinto, dove si sposano. Qui la coppia ha due figli e conduce una vita serena fino a quando Creonte, re di Corinto, non propone a Giasone di sposare sua figlia.

Medea per i greci: la tragedia di Euripide

La parte finale della storia è narrata dal drammaturgo greco antico Euripide nell’omonima tragedia. Euripide inizia a raccontare Medea a dieci anni dall’arrivo della maga con Giasone a Corinto. Dopo dieci anni – narra Euripide – Creonte, re della città, propone sua figlia Glauce come sposa a Giasone. Quest’ultimo, una volta sposo di Glauce, diventerebbe automaticamente l’erede al trono di Corinto.

Con queste ragioni Giasone cerca la comprensione di Medea. Ella risponde disperata e presto viene esiliata da Creonte per scongiurare la sua vendetta in seguito alla sottrazione e al tradimento dei suo amato.

Giasone si sottrae alla comprensione del dolore di Medea. La maga lo chiama a ricordarsi quanto lei abbia fatto per lui nelle precedenti vicende. Egli, però, risponde con indifferenza e ingratitudine. La maga si prepara ad ordire una nuova vendetta, questa volta, inaspettatamente, ai danni del suo amato sposo, ormai traditore; chiede a Creonte un solo giorno prima di lasciare Corinto. Lo ottiene.

La vendetta di Medea su Giasone in Euripide

Giasone non ha considerato l’idea di rifiutare l’offerta di Creonte né ha abbracciato la disperazione della maga. Ella decide così di ordire la sua vendetta. In quel giorno in più concesso da Creonte prima dell’esilio, si finge comprensiva e rassegnata e manda un dono di nozze a Giasone e Glauce.

Il regalo è una veste finissima e una corona d’oro per la sposa. Glauce indossa entrambi i capi che, però, sono intrisi di veleno: presto muore fra fiamme e dolori strazianti.

Anche il padre Creonte resta vittima di questa vendetta. Corso in aiuto della figlia, tocca il mantello e muore anch’egli in maniera atroce e dolorosa.

Dopo Glauce e Creonte tocca a Giasone

Il colpo più feroce, però, è il terzo, quello a Giasone. Qui il mito, sbarcato nella letteratura greca, supera se stesso per crudeltà.

Medea vuole essere certa che Giasone soffra e, al contempo, non abbia discendenti. La sete di vendetta vince l’istinto materno. Ella, accecata di rabbia, dopo averli stretti per un’ultima volta, uccide i suoi stessi figli, Mermero e Fere.

In Diodoro Siculo – piccola differenza – i figli di Medea e Giasone sono, invece, tre: i gemelli Tessale e Alcimene e Tisandro.

Ultimo atto: Atene e ritorno nella Colchide

Medea, macchiatasi del peggiore dei delitti, fugge ad Atene. Intraprende il viaggio a bordo del carro del Sole, trainato dai draghi alati. Ad Atene, sposa il re Egeo. Da Egeo ha Medo. Egeo però non sa che Medo non è il suo primogenito: ha concepito Teseo con Etra.

Al momento della decisione dell’eredità del suo trono, giunge ad Atene proprio Teseo. Medea ordisce subito un piano malefico e suggerisce a Egeo di uccidere lo sconosciuto. All’ultimo istante Egeo riconosce Teseo come suo figlio.

Medea è costretta a fuggire. Torna nella Colchide e si riappacifica con il padre Eete.

Medea offre una coppa avvelenata a Teseo, figlio del re Egeo (opera di William Russell Flint del 1910)
Medea offre una coppa avvelenata a Teseo, figlio del re Egeo (opera di William Russell Flint del 1910)

Medea per i romani: tre opere di Ovidio

Sono tre le opere in cui il poeta romano Ovidio narra di questo mito:

  • Eroidi
  • Metamorfosi
  • Medea

La prima è Le heroides, un’opera che raccoglie la supplica di Medea al marito. Il racconto si interrompe prima del compimento della tragedia, il lettore lo ricostruirà attraverso delle lettere.

La seconda allocazione di Ovidio avviene nelle sue Metamorfosi. All’inizio dell’opera Medea è una vera protagonista, poi via via appare e scompare come per magia. Nella prima parte incarna il tormento: è combattuta tra il padre e Giasone. Anche Ovidio riprende l’episodio del carro, ma lo utilizza nella parte centrale della narrazione e, in particolare, come espediente per far perdere a Medea le sue qualità umane. La metamorfosi procede fino al finale quando Medea è una strega vera e non soffre dell’infanticidio commesso.

La terza opera, infine, è la tragedia Medeache però non conosciamo perché è andata perduta.

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Ciàula scopre la luna, novella di Pirandello: riassunto e analisi https://cultura.biografieonline.it/ciaula-scopre-la-luna-riassunto/ https://cultura.biografieonline.it/ciaula-scopre-la-luna-riassunto/#respond Wed, 15 Jun 2022 06:34:53 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=25365 Ciàula scopre la luna” è il titolo di una della “Novelle per un anno” di Luigi Pirandello. Una collezione di oltre duecentocinquanta storie scritte dal premio Nobel siciliano fra il 1884 e il 1936. Della collezione fa parte anche la novella La giara, trattata in un precedente articolo. Il tema della novella che andiamo ad analizzare qui, si potrebbe sintetizzare con le parole: la grandezza della natura rivelata.

Ciàula scopre la luna
Ciàula scopre la luna

Trama: la miniera, la “cornacchia” e l’estatica scoperta

Lo sfondo di questa novella è un miniera di zolfo in Sicilia. Nella miniera si muovono indefessi decine di lavoratori sotto l’occhio severo del sorvegliante Cacciagallina. Fra i lavoratori ci sono anche Zi’ Scarda e Ciàula.

Ciàula è soprannominato così perché emette un verso simile a quello delle cornacchia (ciàula nel dialetto siciliano) si riferisce in tutto e per tutto a Zi’ Scarda. Questi fa e disfa a suo piacimento del […] suo caruso (bambino in siciliano), che aveva più di 30 anni (e poteva averne anche 7 o 70, scemo com’era), approfittando della sua ingenuità ai limiti della menomazione mentale.

Accade che il lavoro alla miniera non è compiuto al solito orario di uscita e, così, Cacciagallina intima i lavoratori ad un turno di notte. La maggior parte degli operai disattende questa incitazione fatta eccezione proprio per Zi’ Scarda con annesso Ciàula che non oppone alcuna resistenza. Il caruso si prepara a lavorare come un mulo, ma in cuor suo sa che qualche cosa è differente dal lavoro giornaliero: adesso ad attenderlo alla risalita dalla miniera non sarà il solito sole accecante.

Cosa strana; della tenebra fangosa delle profonde caverne […] Ciaula non aveva paura; né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie […] toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno. Aveva paura, invece, del bujo vano della notte.

Ciàula carico come un mulo, col suo sacco di zolfo sulle spalle, intraprende la risalita e quello sforzo gli allontana il pensiero dall’incombente incontro con la vacuità della notte. Quando però il buio si avvicina, tutto cambia.

La paura lo aveva assalito […] Si era messo a tremare […] Il bujo, ove doveva esser lume, la solitudine delle cose che restavan lì con un loro aspetto cangiato e quasi irriconoscibile, quando più nessuno le vedeva, gli avevano messo in tale subbuglio l’anima smarrita, che Ciaula s’era all’improvviso lanciato in una corsa pazza […].

Ciàula scopre la luna

In un climax ascendente di narrazione e sensazioni, arriviamo al confronto con il buio e alla scoperta della Luna in cielo. Avviene, grazie alla penna di Pirandello, in un passaggio della letteratura perfetto, in fatto di parole ed emozioni mescolate mirabilmente.

Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Si, egli sapeva cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciaula, che in cielo ci fosse la Luna?
[…]

Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna… […] E Ciaula si mise a piangere senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.

Commento all’opera

Ciàula, l’assenza di consapevolezza per restituire la bellezza della natura

La trama è semplice e il commento è tutto direzionato, certamente, alla critica relativa alle condizioni lavorative nel Meridione alla fine dell’Ottocento. Una macchina mangia uomini che poco tempo perdeva a discernere per età o per caratteristiche mentali. Tutte le braccia erano braccia buone, persino quelle di Ciàula.

Eppure la scelta di Pirandello di questo particolare protagonista si fa sostegno primario alla narrazione. Proprio l’assenza di consapevolezza di Ciaula sarà il giusto campo dove seminare lo stupore per la natura tutta. Un’operazione che riesce alla perfezione in doppio rimbalzo. In primis, nel piccolo discorso, cioè, del lavoratore che sempre fatica a testa bassa e nell’oscurità del suo antro per poi sconvolgersi completamente alla vista della Luna, al punto da rispondere subitaneamente con una riflessione indiretta di grande portata filosofica.

La scoperta della Luna, cioè, eleva Ciaula da bestia lavoratrice ad essere umano capace di stupirsi e piangere. Ciàula si sente piccolo in confronto alla Luna ignara delle umane vicende. E così la scelta pirandelliana compie un passo in più parlando all’intera umanità come solo la letteratura eterna sa fare.

In poche pagine tutti siamo Ciàula, nelle nostre limitazioni mentali e sensoriali, nelle gabbie della nostra vita quotidiana. E come Ciàula piangiamo alla scoperta di appartenere a qualcosa di più grande e più magico. Con Ciàula andiamo in estasi nel perdere la nostra dimensione di semplici bestie lavoratrici per spingerci, in quanto e infine, parte di essa stessa, al cospetto della grandezza della natura tutta che si rivela a noi, violenta e totalizzante da lasciar senza parole.

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Dare il 5: perché si fa e dove nasce https://cultura.biografieonline.it/dare-il-5/ https://cultura.biografieonline.it/dare-il-5/#respond Mon, 23 May 2022 17:23:00 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=39099 Bravissimo: dammi il cinque!” Quante volte ci è capitato di condividere con questo semplice gesto la riuscita in qualcosa di un figlio o di un amico? Sicuramente tantissime. Il gesto del dare il 5 è molto naturale e diffuso oggi, ma ha una storia curiosa alle spalle. Possiamo affermare che abbia anche una sua origine.

Sì, il primo “batti il cinque” in assoluto è stato dato molti anni fa.

Dare il 5 - dare il cinque

Dare il 5 e la sua meccanica: come si dà il cinque

Le istruzioni sono poche e facili. L’occorrente:

  1. una delle due persone deve aver fatto qualcosa di buono
  2. l’altra deve essere disponibile a congratularsi con lei.

Come si fa è molto semplice:

  • si alza il braccio, entrambi destro o entrambi sinistro… e via!
  • si battono in aria i palmi, producendo una specie di schiaffo a due.

Palmo a palmo, cinque dita contro cinque dita.

High five: il primo batticinque

Non è facile pensare ad una data precisa in cui sia nato il gesto del dare il 5. Appare un po’ bizzarro, vista l’ampia diffusione di questo gesto oggi, pensare che c’è stato un tempo in cui non esisteva, e poi un giorno da cui invece ha iniziato a prendere piede. Ma è così.

La data identificata è il 2 ottobre del 1977. Ad eseguire il gesto per primo fu il il giocatore di baseball dei Los Angeles Dodgers Glenn Burke, durante una partita contro gli Huston Astros. Quando il compagno di squadra Dustin Baker tornò in banchina dopo un’azione vincente, alzò il braccio. Baker rispose colpendolo: palmo a palmo.

High five - Dare il cinque - baseball
Glenn Burke (1952-1995) dei Los Angeles Dodgers, è ricordato anche come il primo giocatore di baseball ad aver fatto coming out come omosessuale.

Da quel momento divenne una mossa identificativa dei Dodgers. Divenne un must della squadra che lo ribattezzò, nella lingua nativa, high five (cinque alto):

  • high (alto), per il braccio teso;
  • five (cinque), per via della cinque dita in azione.

Dagli USA all’Italia: i favolosi anni ’80

Nella lunga lista dei prodotti importati dagli USA negli anni Ottanta c’è anche l’high five.

Con lo stile, il cibo, le primissime serie tv, la musica e il cinema… anche i ragazzi italiani del tempo iniziarono a salutarsi con il palmo alzato.

A dare un forte contributo alla diffusione popolare fu l’hit di Jovanotti Gimme Five. Fu un brano di grandissimo successo: fu il primo estratto dal primo album in studio di Lorenzo Cherubini pubblicato nel 1988, dal titolo “Jovanotti for President”.

Variazioni sul tema

L’immaginario statunitense attraverso le serie tv degli anni Ottanta e Novanta ci ha abituato a ben più che il semplice high five.

Per chi all’epoca faceva già uso del tubo catodico non sarà difficile ricordare il saluto nei corridoi della Beverly High fra Steve, Dylan e Brandon paladini della serie tv Beverly Hills 90210.

Dare il cinque - High five - due ragazze battono il 5
Due ragazze battono il cinque

Allo stesso modo resta memorabile la variazione di Willy e Jazz nella fortunatissima serie Willy, il principe di Bel-Air che ha lanciato la star holliwoodiana Will Smith.

Una delle varianti più famose è chiamata windmill (mulino a vento): inizia come il gesto normale del dare il cinque, ma una volta che le mani si sono incontrate in cima, le due persone continuano a far girare il braccio fino a fare battere le mani una seconda volta, in basso (“cinque basso”). Lo si vede più volte nel film Top Gun, quando ad esempio i piloti si sfidano a beach volley.

Top Gun (1986): Maverick (Tom Cruise) e Goose battono il cinque in modalità “windmill” durante una partita di Beach Volley

Se vuoi proseguire la lettura, sul tema dei gesti e delle curiosità collegate, abbiamo parlato anche di => Ok: acronimo, significato, come si scrive e perché si dice

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Ai tempi in cui Berta filava: da dove viene questo modo di dire? https://cultura.biografieonline.it/berta-filava-modo-di-dire/ https://cultura.biografieonline.it/berta-filava-modo-di-dire/#respond Thu, 28 Apr 2022 09:40:23 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=39805 Il modo di dire “ai tempi in cui Berta filava” si usa per indicare un momento passato, antico; significa proprio “in tempi lontanissimi“, remoti, andati. Contestualmente si considerano quei tempi come conclusi. Ora proveremo qui a rispondere a due domande:

  • Quali sono questi tempi?
  • Chi è Berta?

Più versioni raccontano l’origine di questa espressione italiana. Scopriamole assieme di seguito.

La filatrice - quadro di Eleuterio Pagliano
La filatrice (1869) • Dettaglio del quadro di Eleuterio Pagliano

Berta la Piedona

La Berta di cui si parla in questa espressione è Berta la Piedona. Si tratta della moglie del Re francese Pipino il Breve, nonché madre di Carlo Magno e prima regina carolingia.

La sua storia è stata cantata e tramandata dal trovatore Adenet le Roi, vissuto nel 1275 circa. Berta era chiamata la piedona per una particolarità: aveva un piede più lungo dell’altro.

Il suo vero nome francese era Bertrada di Laon; era nota anche come Berta del Gran Piè (in francese: Berthe au Grand Pied).

Nacque a Aisne nell’anno 720 e morì all’età di 63 anni a Choisy-au-Bac, il 12 luglio 783.

La leggenda

La leggenda narra che durante il viaggio per raggiungere il futuro sposo, la Principessa Berta venne sostituita. Prese il suo posto la figlia della sua dama di compagnia. Berta fuggì e raggiunse la casa di un taglialegna.

Lì visse qui per qualche anno, facendo il lavoro di filatrice.

La particolarità dei piedi, quel piedone, fece scoprire la sostituzione avvenuta anni prima.

Berta in seguito, finalmente, prese il suo posto sul trono francese.

I tempi in cui Berta filava

C’è una seconda versione, più favolistica, che racconta la storia o leggenda di Berta. Questa Berta è una vedova, molto povera, devota al suo Re.

Un giorno fila una lana sottilissima e la dona al suo sovrano.

Il Re, saputo della sua povertà, le regala tantissimi soldi e le garantisce una vita sicura e comoda.

Si narra che dopo l’episodio in molti tentano la stessa fortuna di Berta donando un filato pregiato al Re.

Questi però non risponde allo stesso modo.

Pronuncia, invece, la fatidica espressione:

“Non sono più i tempi che Berta filava”.

La leggenda italiana: Berta da Padova

C’è anche un’altra versione della leggenda di Berta. Si tratta di una storia tutta italiana che affonda le sue radici nella cultura popolare del bacino termale, ai piedi dei Colli Euganei. La località esatta sarebbe Montegrotto Terme, pochi chilometri più in là di Padova, nel Veneto.

Nel borgo medievale di San Pietro Montagnon, in cima a Monte Castello, si trova la ricostruzione della Torre di Berta.

La Berta di questa versione è una contadinella.

Siamo nei primi anni dell’XI secolo.

Giungono nelle terre dei Colli Euganei Enrico IV, Imperatore del Sacro Romano Impero, e l’Imperatrice Bertha di Savoia.

Nel viaggio fra Roma e la Franconia si fermano alle terme locali.

L’imperatrice sta per rientrare quando incrocia una contadinella. Le chiede la grazia per il suo sposo, prigioniero nelle segrete del castello per non aver pagato la decima dovuta al padrone del feudo.

L’imperatrice concede la grazia.

La donna vuole sdebitarsi e per questo le regala il suo filo.

La nobildonna si commuove per la spontaneità del gesto e così decide di premiare la contadina: le concederà tanto terreno quanto il suo filo potrà contenere.

Ai tempi in cui Berta filava
La regina Berta e le filatrici (Reine Berthe et les fileueses, 1881) • Dipinto del pittore svizzero Albert Anker

Come capita al Re della prima versione narrata, l’Imperatrice riceve molte visite che replicano quanto accaduto con la contadina per ottenerne lo stesso dono.

Quale che sia la linea che si vuole scegliere di seguire, c’è un filo – è il caso di dirlo – che lega il personaggio con il risultato, e quindi il modo di dire qui analizzato.

Che Berta abbia avuto un piede grande, oppure che sia stata al cospetto di un Re o di un’imperatrice, oggigiorno sono definitivamente finiti i tempi in cui Berta filava.

Oggi è considerata beata; ricordata talvolta come Berta la Pia, è patrona delle filatrici.

La canzone di Rino Gaetano

Nel 1976 il cantautore Rino Gaetano pubblicò un brano dal titolo Berta Filava. Proponiamo di seguito un estratto del testo.

E Berta filava
E filava la lana
La lana e l’amianto
Del vestito del santo
Che andava sul rogo
E mentre bruciava
Urlava e piangeva e la gente diceva
“Anvedi che santo vestito d’amianto”

E Berta filava
E filava con Mario
E filava con Gino
E nasceva il bambino che non era di Mario
E non era di Gino

E Berta filava
Filava a dritto
E filava di lato e filava, filava e filava la lana […]

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