Laura Bondi, Autore presso Cultura https://cultura.biografieonline.it/author/laura-bondi/ Canale del sito Biografieonline.it Fri, 04 Oct 2024 12:33:35 +0000 it-IT hourly 1 Faust, di Goethe: trama, riassunto, significato e storia https://cultura.biografieonline.it/il-faust-di-goethe-breve-storia-e-trama/ https://cultura.biografieonline.it/il-faust-di-goethe-breve-storia-e-trama/#comments Tue, 19 Sep 2023 08:37:42 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2917 Nel 1832 usciva la prima edizione del poema drammatico “Faust” ad opera di uno dei più grandi interpreti della cultura e della letteratura tedesca, Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno, 28 agosto 1749 – Weimar, 22 marzo 1832). Goethe lavorò a quest’opera per sessant’anni, dal 1772 al 1831, scrivendo bozze, revisionando e aggiungendo le sue conoscenze e le sue dottrine culturali.

Incisioni per il Faust di Goethe
Incisioni per il Faust di Goethe

Quando Goethe ebbe terminato, nella primavera del 1831, si rese conto egli stesso della complessità della sua opera e, in una lettera a Sulpiz Boisserée dell’8 settembre 183, dichiarava che “avrebbe di certo rallegrato chi sa leggere un’espressione del volto, uno sguardo, una mossa appena accennata. Questi troverà persino più di quanto io fossi in grado di dare”. Per questo volle che l’intera opera venisse resa pubblica solo dopo la sua morte, che avvenne nel 1832. Fu allora che Erich e Friedrich Wilhelm Riemer la pubblicarono come primo volume delle “Opere Postume”.

Johann Wolfgang von Goethe
Johann Wolfgang von Goethe

A teatro, per la prima volta venne rappresentata la prima parte il giorno 19 gennaio 1829 al teatro nazionale di Braunschweig, diretto da Ernst August Friedrich Klingemann. Da allora gli allestimenti dell’opera si sono succeduti frequentemente e con sucesso in tutto il mondo.

La tradizione di Faust

Faust è un personaggio tratto da una leggenda tedesca del XVI secolo, che nel 1587 apparve per la prima volta in un libro pubblicato dall’editore di Francoforte Johann Spiess. E’ la storia di un uomo che stringe un patto con il diavolo. Il motivo è comune e risale al Medioevo. Ma qui si aggiunge un elemento prettamente cinquecentesco: Faust fa un patto con Mefistofele per conoscere e studiare la Natura, e non perché ricerca ricchezze, piaceri o potere. Per soddisfare la sua sete di conoscenza è disposto a consegnarsi al diavolo.

Paracelso
Paracelso

Questa volontà di conoscenza dell’uomo moderno conferiva al mondo terreno un nuovo valore, con uno sfondo religioso, che trovò in Paracelso (1493-1541) il suo maggiore esponente. Venne ritenuta sovversiva la sua idea, secondo la quale la natura è una rivelazione divina che gli uomini sono in grado di cogliere con i sensi. Alla sua figura venne associata quella altrettanto diabolica di un tale Georg Faust, vissuto all’inizio del XVI secolo, mago e erudito vagante.

Ma se era da ritenere malvagia l’idea di un patto con il diavolo, era da valutare il motivo per cui lo si faceva: la conoscenza del mondo così come Dio l’aveva creato. Questo concetto riuscì ad essere rappresentato poeticamente solo nell’epoca di Goethe, quando, con l’avvento dell’Illuminismo, si giustificò l’immagine spirituale de “l’uomo che cerca” in quella che fu definita “pansofia” o “sapienza universale”. Anche se non si riusciva a raggiungere la conoscenza assoluta, non si voleva limitare l’anelito alla conoscenza stessa.

Christopher Marlowe
Christopher Marlowe

In Inghilterra invece il clima culturale era diverso, e alla fine del Cinquecento poté nascere la cultura drammatica. Da essa venne fuori il “Faust” di Christopher Marlowe (1564-1593), autore che intuì la grandezza della materia faustiana. Egli sviluppò l’elemento tirannico, più legato all’opera originaria popolare: Faust, come mago, vuole essere un dio in terra, e la sua fame di godere è senza fine.

Da Marlowe il tema del Faust tornò in Germania come “dramma del terrore” prima, e come teatro delle marionette poi, sempre in forma di prosa.
Goethe lo scoprì proprio attraverso il teatro delle marionette. Solo nel 1801, mentre stava lavorando alla prima parte dell’opera, prese in prestito un‘edizione riveduta da un tale Widmann nel 1599, e da Pftizer nel 1674, del libro del 1587 di Faust. Lesse il dramma di Marlowe nel 1818.

Faust: genesi dell’opera

Nell’autunno del 1775 Goethe giunse a Weimar portando con sé alcune parti di un dramma su Faust, metà in prosa e metà in poesia. Durante la lettura, la damigella di corte Luise von Göchhausen ne fu talmente entusiasta da farsi prestare il manoscritto per ricopiarlo. In seguito Goethe riscrisse e modificò l’opera, ma alla fine, non soddisfatto la distrusse. Nel 1887 Erich Schmidt scoprì tra le carte della damigella von Göchhausen la copia del manoscritto e la fece pubblicare con il titolo di “Urfaust”.

In questa prima fase, è evidente l’influsso del movimento dello “Sturm und Drang”. Goethe aveva composto quadri separati, senza pensare ad un loro collegamento. Si iniziano a creare i due gruppi di scene: la tragedia del sapere e la tragedia dell’amore, a cui fa da sfondo la satira del sapere scolastico universitario.

Goethe proseguì nell’opera, ma ad un certo punto si accorse dei vuoti e delle mancanze. Cercò di colmarle, ma, non ancora soddisfatto, anche se non voleva rimandare oltre la pubblicazione, lo diede alle stampe nel 1790 con il nome di “Faust. Ein Fragment”, che è in effetti una rielaborazione. Fu soltanto nel 1808 che riuscì a far emergere il nesso interiore della vicenda, e a renderla peculiare rispetto alla tradizione. Uscì allora “Faust. Parte prima della tragedia”, che comprende anche il “Prologo in cielo”, che serve sia alla prima che alla seconda parte.

Comincia da qui ad elaborare la storia di Elena, della mitologia greca, e del mondo antico, indirizzandosi verso gli ideali Romantici di rievocazione della classicità. Nel 1826 l’atto era terminato, ma, per colmare la lacune, Goethe scrisse la celeberrima “Notte di Valpurga”, alla fine del secondo atto.

Con la stesura del quinto atto, nel 1830 poteva dirsi conclusa “Faust. La parte seconda della tragedia”.

La vicenda faustiana contiene una grande varietà di motivi, che affascinarono Goethe nel corso della sua esistenza, e, allo stesso tempo, le molteplici esperienze di vita diventarono dei simboli da inserire nell’opera stessa.

La delusione per le scienze accademiche, la felicità e la colpa dell’amore furono i temi che caratterizzarono la giovinezza. In età adulta fu attratto dalla bellezza di Elena, di omerica memoria, e dalla concezione generale della vita umana. In vecchiaia, Goethe vede Faust come dominatore della natura, colui che anela al segreto della creatività e delle forze umane originarie.

Lo “Streben”, l’anelito, è, insieme all’Amore il tema dominante dell’intero poema.
Goethe scriveva solo ciò che si era formato in modo organico dentro di sé, per questo tutto il materiale faustiano della tradizione non poteva esaurirsi in un solo periodo della sua vita.

Goethe ritratto durante il suo Grand Tour in Italia (1786-1788)
Goethe ritratto durante il suo Grand Tour in Italia (1786-1788)

Trama del Faust di Goethe

Faust è un professore universitario, scienziato ed alchimista. Ha studiato tutta la vita, ma si rende conto che, per quanto l’uomo si sforzi, la sua conoscenza è nulla. Si dedica allora alla magia, per cercare di svelare i segreti della Natura. Il suo è un anelito, un tendersi verso qualcosa che sembra irraggiungibile, quello che viene definito in tedesco “Streben”.

Faust evoca il Diavolo per ottenere lo scopo. Costui, Mefistofele, fa un patto con lui: lo servirà per tutta la vita, esaudirà ogni suo desiderio, mettendogli a disposizione i suoi poteri. In cambio, Faust lo servirà nell’altra vita. L’uomo però non crede alla vita futura e muta il patto in una scommessa: “Se dirò all’attimo: sei così bello, fermati! – allora tu potrai mettermi in ceppi”. Mefistofele è convinto che, anche se Faust non pronuncerà la frase, cadrà comunque nella perdizione e nella disperazione. La posta in gioco è la libertà.

Inizia la vita piena di piaceri e desideri appagati, in cui si inserisce una feroce satira contro la cultura accademica e la sua degradazione morale. E’ in questo contesto che avviene l’incontro con Margherita, una ragazza umile, che Faust cerca di abbordare mentre esce di chiesa. Con l’aiuto di Mefistofele, le regalerà gioielli, e inevitabilmente corromperà la sua anima semplice. Più tardi si verrà a sapere che Margherita dovrà subire la pena capitale per infanticidio: dopo aver partorito il figlio di Faust, che l’aveva abbandonata, la disperazione l’aveva portata alla follia e all’uccisione del figlio. Verrà salvata in punto di morte, e andrà in Cielo, per via della sua buona fede e del suo cuore semplice tratto in inganno.

Nella seconda parte della tragedia si inseriscono i personaggi tratti dalla classicità, fra cui spicca la storia con Elena di Troia. Si avvicendano figure mitologiche, personaggi storici, filosofi come Talete e Anassagora.

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Faust di Goethe

Lentamente si arriva alla vecchiaia di Faust. Adesso rimpiange l’ umanità, che aveva rinnegato, maledicendo la vita e affidandosi alla magia. Non scaccia più l’Angoscia, che già una volta l’aveva portato vicino al suicidio. Prossimo alla morte, ormai cieco, Faust ha la visione della bonifica di un immenso acquitrino, che permetterà agli uomini di “stare su suolo libero con un libero popolo”.

In quell’ultimo istante, a quel pensiero, pronuncia le parole del patto: “All’attimo direi: Sei così bello, fermati!” Mefistofele è felice di aver vinto la scommessa e aver dimostrato che la vita è inutile e sarebbe meglio “il Vuoto Eterno”. Ma quando si aprono le porte dell’Inferno, una schiera di angeli viene a prendere la parte immortale di Faust e la conduce in Cielo.

Egli è stato salvato perché “Chi sempre faticò a cercare, noi possiamo redimerlo”. Il poema si chiude con le parole del Coro Mistico: “L’Eterno Femminile ci farà salire”: la forza creatrice che muove l’universo è il principio femminile dell’Amore. Amore e “Streben”.

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James Naismith e la storia della pallacanestro https://cultura.biografieonline.it/storia-della-pallacanestro/ https://cultura.biografieonline.it/storia-della-pallacanestro/#comments Fri, 15 Jan 2021 06:11:43 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2180 La nascita della pallacanestro

La pallacanestro nasce nel 1891 a Springfield (Massachusetts), esattamente il giorno 15 gennaio. L’idea fu di James Naismith, medico ed insegnante di educazione fisica. Naismith lavorava come insegnante di educazione fisica presso la Young Men’s Christian Association (YMCA) International Training School (Scuola Internazionale di Allenamento dell’Associazione Giovanile Maschile Cristiana) di Springfield (Massachusetts).

I Kansas Jayhawks nel 1899: Naismith è il primo da destra.
I Kansas Jayhawks nel 1899: James Naismith è il primo da destra.

Il capo del dipartimento di educazione fisica dell’istituto, Luther Halsey Gulick, chiese a Naismith di trovare qualcosa che potesse divertire gli studenti durante le lezioni invernali di ginnastica; ciò perché le temperature rigide li costringevano a fare lezione al coperto.

James Naismith
James Naismith (Almonte, Canada, 6 novembre 1861 – Lawrence, USA, 28 novembre 1939). Foto: Wikipedia

Gulick in particolare chiedeva un gioco in luoghi chiusi, facile da imparare, con poche occasioni di contatto, il cui costo non gravasse sulle spese della scuola.
Naismith trovò l’ispirazione da un gioco che aveva conosciuto nella sua infanzia in Canada, “Duck on a rock” (l’anatra su una roccia). In questo gioco la regola principale era il tiro a parabola di un sasso. Attinse anche da giochi più antichi, come l’azteco Tlachtli, (in cui si passava una palla cercando di non farla mai cadere a terra, e vinceva chi riusciva a farla entrare in un anello sopraelevato), ed il maya Pok-Ta-Pok. Oltre a questi analizzò gli sport più praticati all’epoca: quali il football americano, il rugby, il lacrosse ed il calcio.

Pallacanestro: le prime 5 regole

Dopo due settimane, Naismith formalizzò le prime cinque regole del nuovo gioco:

  1. si doveva usare un pallone rotondo, che poteva essere toccato solo con le mani;
  2. non si poteva camminare con il pallone fra le mani;
  3. i giocatori potevano posizionarsi e spostarsi ovunque nel campo;
  4. non era permesso il contatto fisico tra i giocatori;
  5. l’obiettivo era posizionato orizzontalmente, in alto.

Le 13 regole di base

Il gioco della pallacanestro vede la luce il giorno 15 dicembre 1891: Naismith tradusse questi principi in tredici regole di base. Nello stesso giorno organizzò la prima partita sperimentale della storia disputata dal cosiddetto First Team (la prima squadra): un gruppo di diciotto giocatori (gli studenti della classe di Naismith), divisi in due squadre di nove ciascuno. La partita fu giocata con un cesto di vimini, usato per la raccolta delle pesche, che venne appeso alle estremità della palestra della scuola.

Le tredici regole vennero pubblicate dal giornale studentesco “The Triangle” (Il triangolo) il 15 gennaio 1892, data ufficiale della nascita del Basketball (palla del cesto). Il 20 gennaio si svolse la prima partita dalla pubblicazione delle regole. Terminò con il risultato finale di 1-0, grazie al canestro di un certo William “Willie” Chase.

La prima partita pubblica ufficiale fu fissata da Naismith l’11 marzo 1892 fra una squadra di docenti e una di studenti: vinsero i primi 5-0. Lo sport cominciò a diffondersi presto negli Stati Uniti, proprio perché esercitato negli YMCA. Inoltre, gli allievi di Naismith, al termine degli studi, divennero missionari, e mentre portavano il messaggio cristiano in tutto il mondo, insegnavano anche ai giovani il nuovo gioco.

Nel 1904 fu disputato un torneo non ufficiale di pallacanestro durante le Olimpiadi di St.Louis. Invece nel 1936 lo sport del basketball fu aggiunto al programma delle Olimpiadi di Berlino. In questa occasione Naismith ebbe l’onore di consegnare la medaglia d’oro agli Stati Uniti, che avevano sconfitto in finale il Canada. Fu nominato presidente onorario della Federazione Internazionale Pallacanestro (FIBA), sorta nel 1932.

NBA

Nel 1946 nacque negli Stati Uniti la National Basketball Association (NBA, Associazione nazionale di pallacanestro), al fine di organizzare squadre professionistiche e rendere lo sport popolare.

Naismith comunque fu il primo allenatore della storia del basket. Guidò infatti i Kansas Jayhawks dal 1898 al 1907: in nove stagioni sedette in panchina 115 volte, vinse 55 incontri e ne perse 60. Ad oggi, il suo libro “Basketball: Its Origin and Development” (“La pallacanestro: origini e sviluppo”, uscito dopo la sua morte nel 1941) resta il caposaldo della bibliografia della pallacanestro. A lui sono stati intitolati in Canada e negli Stati Uniti riconoscimenti, Hall of Fame, statue e premi. Ogni anno il miglior giocatore della NCCA (National Collegiate Athletic Association, l’associazione atletica nazionale dei college) riceve il “Premio Naismith”.

Da allora le regole sono state perfezionate, e l’NBA mantiene delle differenze sostanziali rispetto alla FIBA, ai Campionati Mondiali e alle Olimpiadi. Questo perché negli USA si vuole rendere il gioco più spettacolare. In particolare, con la globalizzazione degli ultimi anni, sono entrati in gioco gli sponsor che creano un business pubblicitario molto elevato. Per questo la pallacanestro è diventata più fisica, a dispetto della prima regola impostata da Naismith, e dal puro divertimento si è passati al vero e proprio agonismo.

Una spettacolare fotografia di Michael Jordan durante una schiacciata
Una spettacolare fotografia di Michael Jordan durante una schiacciata

D’altronde, nell’NBA hanno figurato e figurano tuttora i più grandi nomi della storia di questo sport, da Magic Johnson a Michael Jordan, da Larry Bird a Kareem Abdul-Jabbar, da Shaquille O’Neal a Kobe Bryant a LeBron James, e gli italiani Andrea Bargnani, Belinelli e Gallinari, solo per citarne alcuni.

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Canto di Natale, di Charles Dickens: storia, riassunto e commento https://cultura.biografieonline.it/canto-di-natale-di-charles-dickens/ https://cultura.biografieonline.it/canto-di-natale-di-charles-dickens/#comments Sun, 06 Dec 2020 08:26:22 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=1605 A Christmas Carol

Il suo titolo originale inglese è “A Christmas Carol”. Conosciuto in italiano come “Il Canto di Natale”, uscì per la prima volta nel 1843. Fa parte della raccolta di racconti “The Christmas Book” (“Libri di Natale”), opera di Charles Dickens (1812-1870).

Fu pubblicato da Chapman and Hall, in edizione di lusso, con rilegatura rigida di velluto rosso a bordi dorati, e le illustrazioni di John Leech, vignettista della rivista satirica Punch, dichiaratamente rivoluzionario.

Il 24 dicembre 1843, nonostante fosse in libreria da pochi giorni e avesse un costo elevato, il racconto aveva venduto 6.000 copie, un vero record per l’epoca.

Canto di Natale: riassunto

A Christmas Carol” è la storia fantastica, suddivisa in cinque parti, di Ebenezer Scrooge, un ricco e avaro uomo d’affari, che disdegna tutto ciò che non sia legato al guadagno e al denaro.

La vigilia di Natale, irritato dalle festività, perché secondo lui portano ozio e un inutile dispendio di soldi, rifiuta in malo modo di fare un’offerta per i poveri, fa lavorare fino a tardi il suo impiegato, al quale concede una paga misera, caccia il figlio di sua sorella, che era venuto per invitarlo al pranzo di Natale, e per la strada risponde sgarbatamente agli auguri che gli vengono rivolti.

Quando arriva davanti alla porta della sua casa deserta, sul battente della porta gli appare lo spettro del suo defunto socio, Jacob Marley. Questi lo ammonisce sulla sua condotta di vita, e lo invita a ravvedersi per non essere costretto a vagare come lui per l’eternità, portandosi appresso il peso delle catene che si era guadagnato con la sua aridità e brama di denaro.

Per questo a Scrooge faranno visita tre Spiriti, nell’ordine, lo Spirito del Passato, lo Spirito del Presente e lo Spirito del Futuro.

Spirito del Passato

Lo Spirito del Passato lo riporta indietro, quando Scrooge, da bambino, era stato mandato dal padre in collegio. E poi la premura di sua sorella, il lavoro presso il bonario Fezziwig e l’amore per Bella. Scrooge aveva rinunciato a tutti gli affetti per dedicarsi solo a farsi una posizione guadagnando denaro.

Spirito del Presente

Lo Spirito del Presente gli mostra come la gente intorno a lui si stia preparando al Natale, l’atmosfera di festa, di gioia, di amore. Quella che era stata la sua fidanzata è sposata e felice; il suo impiegato è povero ma ha una famiglia unita; suo nipote pranza insieme a parenti e amici, e lo sta prendendo in giro per la sua avidità. Tutti ridono di lui.

Spirito del Futuro

Lo Spirito del Futuro gli fa vedere cosa succede alla morte di un signore ricco, di cui non si sa il nome. Nessuno lo visita, nessuno vuole andare al funerale, i servi si dividono le sue poche cose, l’azienda e la casa sono vendute. Alla fine lo Spirito gli mostra la lapide al cimitero con il nome “Ebenezer Scrooge”.

A questo punto Scrooge capisce che ha sbagliato tutto nella vita, e si ravvede. Il giorno di Natale è finalmente Natale anche per lui, così che dispensa regali e sorrisi e auguri ai passanti, al suo impiegato, a suo nipote e al mondo intero.

(Canto di Natale), A Christmas Carol di Charles Dickens
A Christmas Carol (Canto di Natale), la prima edizione del 1843

Commento

In genere, il racconto viene considerato una morality in pieno stile medievale, per il simbolismo religioso e l’atmosfera da melodramma. In realtà, Dickens affronta tematiche sociali, attaccando le classi alte, il lavoro minorile in fabbrica (che lui stesso aveva dovuto sopportare, perché costretto dal padre), la povertà. Per fare ciò, si serve di una struttura da dramma teatrale, suddivisa in cinque parti, che è da considerarsi lo sviluppo dei famosi Pickwick Papers, scenette condite da personaggi che assumeranno forme definite nei romanzi successivi. Hanno inoltre influito il gusto picaresco dell’autore, lettore appassionato di Henry Fielding, la struttura del dramma, e l’atmosfera gotica.

Curiosità

Numerosi sono stati gli adattamenti, da quelli fumettistici, come il celebre “Canto di Natale” di Topolino, a quelli cinematografici, a partire dalla versione muta del 1911, e a quella del 1951, resa celebre da Alistair Sim. L’ultimo film risale al 2009, ed è stato realizzato in animazione digitalizzata in 3D, con il supporto di veri attori: Ebenezer Scrooge è stato interpretato dall’attore Jim Carrey.

Da menzionare anche una versione radiofonica sull’emittente CBS Campbell Playhouse, che risale al 24 dicembre 1939. Ad interpretarlo Lionel Barrymore, che aveva recitato “A Christmas Carol” alla radio la prima volta nel 1934. La voce narrante e la produzione erano di Orson Welles, insieme con il Mercury Theatre Group. Le musiche furono composte e dirette da Bernard Herrmann.

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Fabio Civitelli, l’altra faccia di Tex Willer https://cultura.biografieonline.it/fabio-civitelli-intervista/ https://cultura.biografieonline.it/fabio-civitelli-intervista/#respond Tue, 10 Dec 2013 00:39:03 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8897 Fabio Civitelli nasce a Lucignano il 9 aprile 1955. Durante l’ultimo anno di Liceo Scientifico, nel 1974, ottiene il primo lavoro in ambito fumettistico, Lady Lust, per lo studio di Graziano Origa, pubblicato per i tipi della Edifumetto, casa editrice specializzata prevalentemente in tascabili erotici.

In un periodo particolarmente fervido per il mercato del fumetto in Italia, dato il proliferare negli anni Settanta di settimanali a fumetti e di fumetti in generale nelle edicole, collabora anche per la Editoriale Dardo (celebre per i fumetti di guerra della collana Supereroica, oltre che per il classico Il grande Blek e il più recente Gordon Link) e la Ediperiodici (anch’essa specializzata prevalentemente in pocket pornografici, più recentemente ha pubblicato qualche manga).

Per la casa editrice Universo ha disegnato nel 1977 sulle riviste Il Monello e Intrepido. In questo periodo utilizza lo pseudonimo Pablo de Almaviva, a causa del quale Sergio Bonelli lo taccerà di aver ritardato l’ingresso nel suo staff, perché non riusciva a capire chi fosse questo disegnatore che pure apprezzava. Nel 1979 è sulle pagine di Bliz, per la stessa Universo, con il personaggio di Doctor Salomon, scritto da Silverio Pisu. Sempre nel 1979 ha avuto un approccio con i personaggi di Marvel Comics disegnando storie autoprodotte in Italia dell’Uomo Ragno e dei Fantastici Quattro, per la rivista SuperGulp! (Arnoldo Mondadori Editore).

Il 1979 è anche l’anno della svolta della sua carriera: nell’ottobre, grazie a Fernando Fusco (suo amico e collega) viene presentato quasi casualmente a Sergio Bonelli, che lo ingaggia immediatamente. Inizialmente lavora su Mister No, per il quale realizza una manciata di storie (pubblicate dall’ottobre del 1980 al maggio 1984), su testi di Alfredo Castelli, Claudio Nizzi e Tiziano Sclavi. Al personaggio tornerà soltanto nel 1994 con un Almanacco dell’Avventura. Disegna anche la storia Pomeriggio cubano su testi di Giuseppe Ferrandino nel 1983, per la rivista Orient Express, sempre di Bonelli.

La vera affermazione è nel 1984 quando Fabio Civitelli viene chiamato a disegnare Tex, personaggio su cui lavora tutt’oggi e a cui ha lasciato la sua impronta. Le sue prime tavole compaiono nel 1985 nella prima parte di una storia intitolata I due killers nel n. 293, su testi di Claudio Nizzi, sceneggiatore con il quale ha collaborato quasi ininterrottamente fino al 2009 e col quale ha realizzato anche dei soggetti per alcune storie del personaggio.

Alle sue opera su Tex è stata dedicata una mostra itinerante nel 2005, con relativo ricco catalogo edito dalla casa editrice amatoriale Little Nemo. Gli è stato affidato l’incarico di realizzare una storia interamente a colori per il sessantennale di Tex, Sul sentiero dei ricordi, uscita in edicola nel 2008, mentre nel 2012 viene gratificato dalla Bonelli, che gli affida l’incarico di portare a compimento un Texone, La cavalcata del morto (pubblicata a giugno), su sceneggiatura di Mauro Boselli. Recentemente questa storia è stata ristampata in una prestigiosa edizione De Luxe dalla Casa Editrice Little Nemo di Torino (www.littlenemo.it).

Il suo stile è caratterizzato da una grande cura dei particolari, da un sapiente uso dei “neri” e da un’estrema pulizia del tratto. La sua versione di Tex, una delle più apprezzate dai numerosi lettori della serie Sergio Bonelli Editore, rispetta la tradizione, ma è al tempo stesso moderna ed accattivante. Tra le sue influenze principali ci sono sia autori Marvel che Bonelli, e Alex Raymond, grande disegnatore statunitense degli anni quaranta e cinquanta, padre di Flash Gordon fra gli altri.

Un’altra caratteristica di rilievo di Fabio Civitelli è l’abilità nel riprodurre visi di attori ed attrici famosi, che inserisce con una certa frequenza nelle sue tavole per raffigurare vari comprimari.

Fabio Civitelli con Tex (foto: Laura Bondi)
Fabio Civitelli con Tex (foto: Laura Bondi)

Fabio Civitelli mi accoglie nella sua casa piena di luce. Alle pareti, alcune sue opere pittoriche, foto ed incisioni. Mi introduce nello studio, anch’esso inondato di luce, avvolto in un’atmosfera da sogno: in cima alle scale, una tela gigante di Tex, scaffali pieni di volumi ed albi, autografi, riconoscimenti, e ancora tele… tutto rigorosamente in ordine. La cura del dettaglio e la precisione che hanno reso famoso quest’uomo non contraddistinguono solo i suoi disegni, ma tutto quello che fa e quello che lo circonda. Mi sembra di essere stata catapultata per magia dentro al mondo dei fumetti, o meglio, al mondo dell’Arte del fumetto, perché di Arte si tratta.

Fabio mostra le sue tele, le sue opere, un volume incredibile da collezione fresco di stampa, i lavori che sta preparando e quelli che ha in cantiere. Amabile conversatore, persona semplice, umile, gentile e sincera, un signore d’altri tempi, proprio come Tex…
Iniziamo la nostra conversazione, accompagnati da un sottofondo musicale che si diffonde nella stanza, in perfetta sintonia con l’ambiente.

Adesso sei un artista affermato e conosciuto in tutto il mondo. Ma come è nata questa passione per il disegno?

E’ nata molto presto, grazie soprattutto a mia madre che aveva notato come riusciva a tenermi buono per ore se solo mi metteva davanti matite e carta.

Come sono stati gli inizi?

Negli anni della scuola disegnavo sempre delle storielle a fumetti sui quaderni e poi compresi che era meglio usare cartoncini da disegno. A 17 anni avevo realizzato delle riduzioni a fumetti di alcuni racconti di Edgar Allan Poe e li avevo poi spediti allo studio Origa di Milano, di cui avevo letto in una rivista. Con infinita pazienza, Graziano Origa mi fece una specie di corso per corrispondenza, correggendo i miei tanti difetti e portandomi a realizzare con lui innumerevoli storie con vari editori.

Come sei arrivato alla Sergio Bonelli Editore?

Essenzialmente su sollecitazione di Fernando Fusco, che avevo scoperto con grande sorpresa abitare non lontano da me, in Val Tiberina. Da quel momento, siamo nell’autunno del 1979, è nata una collaborazione che dura tutt’ora.

Raccontaci come nasce una tavola: tempi, modalità e sceneggiature…

Nasce tutto da un’idea della trama, chiamata “soggetto” che lo scrittore presenta al curatore di ogni testata, il cosiddetto “editor”. Se questo soggetto è buono e non assomiglia troppo ad altre storie già pubblicate, viene trasformato in “sceneggiatura”: lo scrittore descrive pagina per pagina, vignetta per vignetta quello che il disegnatore è chiamato a illustrare, in più sono presenti anche i dialoghi, importanti per rendere al meglio la recitazione dei personaggi.

Come riesci a ‘trasformare’ una sceneggiatura in disegni?

Con un po’ di mestiere e molta cultura visiva, che mi aiuta a visualizzare la scena prima di disegnarla materialmente con la matita prima e con il pennello e l’inchiostro poi.

Preferisci il bianco ed il nero oppure il colore?

Oggi il colore sta prendendo piede anche in pubblicazioni più tradizionaliste, come quelle della Bonelli, ma personalmente amo molto il bianco e nero, che oltretutto mi permette di controllare la produzione fino in fondo. Col colore devo rapportarmi al colorista, che lavora al computer, e non sempre riesco a dargli dettagliate indicazioni, quindi il lavoro lo sento un po’ meno mio.
Incidentalmente ho appena terminato una storia che sarà interamente a colori e dovrebbe uscire ad agosto 2014, nella collana Color Tex.

Tu usi ancora le chine, che sono quasi introvabili. Che cosa offrono rispetto agli altri materiali?

Non mi fido della durata dei pennarelli e degli inchiostri a pigmento. Da alcuni anni lavoro molto con un agente (www.littlenemo.it) che cura la vendita dei miei originali nel mercato del collezionismo, per questo mi piace creare un prodotto che offra le massime garanzie di durata nel tempo. Per lo stesso motivo, e anche perché non mi piace, non disegno al computer, come invece hanno iniziato a fare molti colleghi.

Chi è stato il tuo maestro? A chi ti ispiri?

Se dovessi fare un solo nome direi Alex Raymond, il grande autore di Flah Gordon e Rip Kirby, ma in effetti molti altri mi hanno influenzato, soprattutto Giovanni Ticci, quando sono stato chiamato a disegnare Tex.

Il tuo nome è legato principalmente al personaggio di Tex. E’ un onore o un onere?

Per me è un grande onore, perché leggo le sue avventure fin da ragazzo, ed è sempre stato uno dei miei fumetti preferiti. E’ però anche una grande responsabilità, è fondamentale non deludere le nostre centinaia di migliaia di lettori.

Chi e cosa preferisci disegnare, oltre a Tex?

Ho iniziato a collaborare con la Sergio Bonelli Editore disegnando le avventure “amazzoniche” di Mister No, che purtroppo non sono più pubblicate in modo regolare.
E’ un personaggio creato dallo stesso Sergio Bonelli, con lo pseudonimo di Guido Nolitta, ed è uno degli eroi più simpatici e intelligenti mai stampati.
Per lui ho sempre avuto una simpatia speciale, tanto che negli anni, nonostante l’impegno a Tex, sono tornato un paio di volte a disegnarlo. Proprio adesso sto lavorando ad una storia breve di Dylan Dog, che lo vedrà incontrare Mister No per combattere insieme un comune nemico.

Sei famoso in tutto il mondo, ti seguono lettori comuni e collezionisti. Che rapporto hai con il tuo pubblico?

I collezionisti amano acquistare disegni curati ed espressivi, e anche i semplici lettori penso che percepiscano quanta passione metto nel mio lavoro, e come cerchi di dare sempre il massimo.

Viaggi molto per promuovere il tuo lavoro. In Brasile sei già una star. Quali sono i Paesi che preferisci e perché?

Tex è pubblicato in molti paesi nel mondo, ed in alcuni di questi, come il Brasile, il Portogallo, la Croazia e la Finlandia, ho avuto il piacere di essere invitato, tanto da sentirmi quasi un “ambasciatore” texiano nel mondo. Dappertutto ho trovato dei lettori estremamente appassionati e preparati, ho fatto tavole rotonde ed esposizioni, e mi sono guadagnato la loro stima ed amicizia.
Sono incontri che faccio con passione, e il pubblico se ne accorge subito. Con molti di questi si sono stabiliti dei rapporti duraturi, soprattutto con i Portoghesi e i Brasiliani, ho perfino cercato di imparare un po’ la loro lingua!

Puoi raccontare un episodio curioso della tua carriera?

Quando mi presentai per la prima volta alla Bonelli, nell’autunno del 1979, mi stupii di venire ricevuto da Sergio Bonelli in persona, e rimasi anche colpito dalla facilità, dopo avere esaminato attentamente le tavole che avevo con me, con cui ottenni la mia prima sceneggiatura. A quei tempi mi firmavo con uno pseudonimo poiché lavoravo ancora presso lo Studio Origa, e solo alcuni mesi dopo venni a sapere che lui stesso mi aveva cercato senza successo, ma al nostro incontro aveva subito riconosciuto il mio stile e non ci aveva pensato un minuto ad arruolarmi!

Il momento (o i momenti) più emozionante in assoluto?

Ogni volta che esce un mio albo! Ma anche quando incontro il grande pubblico dei lettori “texiani”, gente appassionata e che regala sempre delle belle soddisfazioni!
Forse, però, quello che ricordo con più emozione è stato ricevere la telefonata di Sergio Bonelli che mi chiedeva di disegnare un “Texone”.

E quello che non vorresti mai rivivere?

Quando ho ricevuto la notizia della scomparsa di Sergio, è stato un momento veramente terribile.

Hai conosciuto tanti personaggi, famosi e non. Hai qualche ricordo particolare legato ad uno di loro?

Il pubblico degli appassionati lettori di Tex è veramente molto vasto, trasversale ai ceti sociali e alle differenze culturali. Negli anni ho conosciuto tanti “texiani” illustri come Sergio Cofferati, Giulio Giorello, il grande fotografo recentemente scomparso Gabriele Basilico, Giorgetto Giugiaro, Enrico Rava, che mi ha scritto una bella lettera dopo aver letto il mio Texone, e molti, molti altri. Un ricordo che mi è particolarmente caro riguarda una cena di un paio di anni fa a casa di Basilico e della moglie Giovanna: restammo per ore a chiacchierare di Tex, e in quell’occasione gli mostrai in anteprima tutte le tavole del mio Texone.

Spesso il fumetto viene considerato un genere letterario inferiore, mentre invece richiede una maestria ed una professionalità pari a tutte le altre arti. Perché, secondo te, e come si potrebbe cambiare questo modo di pensare?

Se penso a come il fumetto era considerato quando ero ragazzo, adesso la considerazione del pubblico è decisamente migliorata, anche grazie alle tante mostre ed iniziative che si svolgono numerose nel nostro Paese. Non nego però che ci sia ancora molta strada da fare, ma piano piano stiamo cercando di entrare a pieno titolo nel mondo dell’Arte (con la A maiuscola).

Che consiglio daresti a chi aspira a diventare un disegnatore di fumetti?

Per diventare autori, bisogna avere innanzitutto una grande passione per il fumetto, non è certo un lavoro di ripiego. Poi bisogna sviluppare una grande cultura visiva: leggere molto, guardare molti film, documentarsi su libri e riviste, e oggi anche su Internet.

Oltre al disegno, un’altra tua passione è la fotografia.

E’ una passione che prosegue da tanti anni parallela al mio lavoro di disegnatore, ma in questo caso in modo assolutamente amatoriale e non professionale. Ho maturato piano piano un mio stile e una mia precisa tematica: il mio lavoro più importante si intitola “Luoghi Comuni, Riflessioni sul Paesaggio Urbano” di cui curo personalmente anche la stampa a colori.

Inoltre, sei appena tornato da Padova…

Ho accennato già al mio interesse per l’Arte Contemporanea: da alcuni anni collaboro con la Galleria Ca’ Di Fra’ di Milano, per la quale realizzo quadri in stile fumetto con soggetto Tex, naturalmente! Questo sta suscitando un certo interesse e sto frequentando molte fiere specializzate. A Padova ho avuto il grande onore di essere invitato dall’organizzazione a presentare una mostra antologica molto vasta, che comprendeva quadri su tela, ma anche illustrazioni su carta e tavole a fumetti. E’ stato veramente emozionante trovarmi di fronte ad un allestimento sontuoso ed esteso (otto pareti diverse per complessive 45 opere!). Abbiamo anche tenuto una tavola rotonda con critici ed esperti, dal titolo “IL FUMETTO E’ARTE”.

Insomma, il fumetto è Arte, e Fabio Civitelli ne è il testimone. Quali progetti hai ancora in cantiere?

Disegnare tanto, ma anche dipingere e fotografare! Appena terminata la storia per il Dylan Dog Color Fest, tornerò a dedicarmi alla lunga (330 pagine) storia che vedrà il ritorno di Yama, il figlio di Mefisto, e che mi terrà impegnato per circa tre anni!

Un desiderio?

Continuare a fare questo lavoro bellissimo, e continuare a godere della fiducia della Casa Editrice e dell’affetto dei lettori.

Una massima di vita di Fabio Civitelli, o di Tex…

Il tempo corre ed io non sono un disegnatore molto veloce, quindi è meglio che mi rimetta a lavorare!

Fabio Civitelli al lavoro nel suo studio (foto: Laura Bondi)
Fabio Civitelli al lavoro nel suo studio (foto: Laura Bondi)

Il tempo stringe e l’intervista è finita. Una montagna di lavoro attende Fabio Civitelli.
Mentre esco, non posso non gettare un’ultima occhiata allo studio, per imprimere nella memoria i particolari di un luogo che appare quasi sacro. Si fatica a credere che un personaggio della sua importanza possa essere così garbato e disponibile. Ma il mio stupore aumenta quando su un tavolo nell’atrio scorgo il mio romanzo, in bella vista insieme ad altri libri, in attesa di essere letti, intanto che lui mi saluta con un sorriso cordiale.
Signore e signori, questo è Fabio Civitelli.

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La vita attraverso la fotografia: Elisa Girelloni https://cultura.biografieonline.it/elisa-girelloni-intervista/ https://cultura.biografieonline.it/elisa-girelloni-intervista/#comments Wed, 06 Nov 2013 21:55:57 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8459 Elisa Girelloni nasce a Brescia il 15 aprile 1983. Si avvicina per la prima volta alla fotografia quando un amico le regala una macchina fotografica che aveva in più: da lì ha iniziato a fotografarsi ricreando ambientazioni e modificando il proprio corpo. Scopre così un nuovo modo per vedersi al di là dello sguardo ed inizia il suo percorso di auto-ritrattista abbinando a questo la sua passione per i luoghi abbandonati e desolati.

Si rende conto da subito qual è la strada da percorrere, ma un professore che l’ha seguita le dà la conferma quando le fa svolgere un lavoro sulla libertà da descrivere in venti immagini. Da queste fotografie riesce a tirare fuori tutta se stessa e quando il professore, commosso, dichiara che quel lavoro è il migliore che lui abbia visto in tanti anni si convince che ha qualcosa da dire e che il miglior modo per farlo è proprio attraverso la fotografia.

Elisa Girelloni
Elisa Girelloni

Dopo gli studi di pasticceria ed un biennio (2007/2009) di marketing e fotografia presso la scuola Palco Grafico, Elisa comincia a cimentarsi con le mostre. A Brescia, nel settembre 2009 la collettiva“Geisha, donna e anima”. Un’altra collettiva, “Immagina Arte!” alla fiera di Reggio Emilia, 27/29 novembre 2009. “I look at you… You look at me…” con Manuel Colombo e Ramona Zordini, Roma, 6 marzo/6 aprile 2010. La personale “Il respiro dell’anima” Fotografia Europea – Circuito Off , Reggio Emilia, maggio/giugno 2010. Una serie di collettive,“Immagina Arte“, fiera di Reggio Emilia, 26/29 novembre 2010, “S(corpo)ro” Pinacoteca Comunale d’A.C. a Gaeta (LT), 7 maggio/12 giugno 2011, “Mag Prize 2011”, mostra dedicata ai finalisti del Mag Prize, presso SpaziArti Ungallery (MI), giugno/luglio 2011, “Quattro donne, quattro racconti”, Palazzo Avogadro, Sarezzo (BS), novembre/dicembre 2011.

Una personale, “Elisa Girelloni Autoritratti”, Ristorante vegetariano L’Arcobaleno a Brescia, febbraio 2013. Di nuovo le collettive:”3 4 5 Teatro da gustare”, Teatro degli Audaci a Roma, marzo 2013, “Diagnosi-Terapia-Autoritratto”, biblioteca del Bailo Sarezzo (BS), febbraio 2013, “Image Nation”, Officine Creative Ansaldo (MI), giugno 2013, “Message in a bottle”, Madonna del Duomo, Arezzo, settembre 2013. E’ appena terminata la personale “Concetto di espiazione”, Centro estetico ‘Tra corpo e mente’, Arezzo, ottobre 2013, ed è in corso la collettiva “BANG! – Nuove generazioni fotografiche”, Galleria 33, Arezzo, ottobre/novembre 2013.

A breve, un’altra collettiva: “The freedom”, mostra dei vincitori del concorso fotografico di Blipoint, Galleria Maxò, Barcellona, novembre/dicembre 2013. Inoltre, nel 2008 ha curato l’immagine di copertina per il brano “Dark Bright” di Raffika Dionisio, e nel 2009 per il brano “Illusion rmx” dei No Diva. Nel 2009 ha collaborato con la Naffintusi per il video”Hole (for vj division)” ispirato alle sue foto. Nel 2010 ha guadagnato il secondo posto nel concorso del Circuito Off di “Fotografia Europea” a Reggio Emilia. Nel 2011, il secondo posto al concorso fotografico Mag Prize, e nel 2012 il secondo posto nel concorso fotografico di Blipoint “Libertà”.

Elisa, la tua arte sta guadagnando spazio in un mondo inflazionato da fotografi improvvisati e tecnologie sofisticate. Come riesci ad essere ‘diversa’, distinguendoti dalla massa?

Mi sono sempre sentita diversa, diversa dagli altri bambini, dagli altri adolescenti ed ora diversa dalle altre donne e uomini… Visto che le mie immagini parlano principalmente di me e delle mie emozioni, credo sia più che naturale che si distinguano per questo da tante altre fotografie, anche se non da tutte. Non sono la sola a provare certe sensazioni e ne è conferma il fatto che tante persone capiscono chi sono guardando semplicemente le mie fotografie.

Quando hai scoperto l’amore per la fotografia e come sono stati gli inizi?

Ho sempre ammirato l’arte nelle sue varie forme, da piccola disegnavo e dipingevo moltissimo, ma mi mancava la tecnica e non poter riprodurre quello che avevo in testa era frustrante. Per un po’ ho abbandonato l’idea e mi sono limitata a collezionare fotografie trovate su giornali, riviste, cartoline…le appiccicavo per tutta la stanza finché un giorno ho pensato che forse avrei potuto fotografare anche io e ricreare così immagini solo mie.

Incontrai un fotografo, un cliente del bar in cui lavoravo, mi propose di essere fotografata da lui e dopo quell’esperienza mi regalò una compattina. Iniziai così a fotografare il mio corpo, da sempre oggetto di disagio per me, e mi resi conto che mi faceva stare meglio.

Poter evadere dai miei pensieri attraverso una foto era magnifico e liberatorio. Ho iniziato facendo nudo ed ho continuato fino a quando ne ho sentito il bisogno: ora il mio fisico non mi preoccupa più come un tempo. Mi fotografavo spesso insanguinata, deturpata da botte, tagli e screpolature. Era la paura della morte a spingermi, ma credo che a livello inconscio volessi provocare, scandalizzare, pensando così di essere notata per questo.

Riguardando le mie foto un giorno pensai che le cose troppo esplicite colpiscono al momento ma la nostra mente tende ad eliminarle. Non avevo bisogno di esagerare, non era da me, quello che volevo era il silenzio, la riflessione. Ho cambiato così il mio linguaggio cercando quello che mi potesse rappresentare al meglio ed è ciò che continuo a fare.

Qual è il tuo ricordo più bello?

Probabilmente è stata la prima personale a Reggio Emilia. Ho sempre avuto paura di essere giudicata, di non essere capita e durante una mostra è inevitabile che ciò accada. Ero timorosa e spaventata ma ho constatato con grande gioia che le persone non venivano da me per dirmi “che belle foto” o “che brutte foto” ma mi chiedevano il perché di quelle immagini…silenziosamente aspettavano di parlarmi e mi dicevano cose come: mi emozionano, mi commuovono, mi smuovono, mi rivedo nelle tue opere…le sento vicine, ti sento vicina. E’ stata una sensazione indescrivibile constatare che le mie emozioni trasudavano da una semplice carta stampata.

Come riesci a creare foto particolari?

Sinceramente credo che le mie immagini siano piuttosto semplici, forse la particolarità è proprio questa.

Un'opera di Elisa Girelloni
Un’opera di Elisa Girelloni

La fotografia è una forma d’arte e necessita di passione, talento e….?

Tanta, tantissima sensibilità.

Sei impulsiva o devi riflettere prima di metterti al lavoro?

Sono più impulsiva che riflessiva. Di rado programmo una foto o una serie, preferisco improvvisare. Solitamente parto alla ricerca di luoghi e abitazioni che possano fare al caso mio, portando con me tutto ciò che mi può servire. Non so mai cosa troverò e se troverò qualcosa, ma quando lo trovo non ho bisogno di molto tempo per capire quello che devo fare, mi baso sulla sensazione che provo e mi fondo con l’ambiente che mi circonda. Silenziosamente entro a far parte di un luogo senza tempo e quando lo lascio lo faccio sempre con un po’ di malinconia, come se avessi passato lì la mia vita.

Prediligi temi particolari?

Il tema del disagio e della solitudine sono presenti in ogni mia fotografia.

Quali sono i tuoi progetti?

Continuare a fotografare. Aver sempre qualcosa da dire. Non tradirmi mai.

Un sogno nel cassetto?

Un mio sogno sarebbe quello di fotografare i luoghi abbandonati più suggestivi e carichi di energia che ci sono in tutto il mondo.

La tua massima di vita artistica…

L’arte è ovunque, ma solo una forte sensibilità riesce ad apprezzarla.

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Danila Comastri Montanari, Signora del giallo storico https://cultura.biografieonline.it/danila-comastri-montanari/ https://cultura.biografieonline.it/danila-comastri-montanari/#comments Wed, 10 Jul 2013 14:59:47 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7622 Danila Comastri Montanari è nata a Bologna il 4 novembre 1948.

Laureata in Pedagogia e in Scienze Politiche per vent’anni insegna e viaggia ai quattro angoli del mondo. Nel 1990 scrive il suo primo romanzo, Mors Tua, e da allora si dedica a tempo pieno alla narrativa, privilegiando un genere, quello del giallo storico, che le permette di conciliare i suoi principali interessi: lo studio del passato (in particolare le civiltà antiche) e l’amore per gli intrecci mystery.

Danila Comastri Montanari
Danila Comastri Montanari

Dalle note biografiche che troviamo sui suoi libri sappiamo che è “accanita fumatrice, apprezza gli alcoolici, rifugge dalle diete, frequenta stazioni termali e scavi archeologici, legge polizieschi, saggi di storia, classici latini, greci e cinesi. È una fanatica utente di internet. Vive in una grande casa al centro di Bologna con il marito, due gatti, un pappagallo, duecento piante, diecimila libri e cinque computer.

A partire dal 1990 scrive gialli storici incentrati sulla figura di Publio Aurelio Stazio, nobile senatore della Roma di Claudio (metà I secolo d.C.). Al momento sono stati pubblicati 16 romanzi: Mors tua, In corpore sano, Cave canem, Morituri te salutant, Parce sepulto, Cui prodest?, Spes ultima dea, Scelera, Gallia est, Saturnalia, Ars moriendi, Olympia, Tenebrae, Nemesis, Dura Lex, Tabula rasa.

Oltre alla serie succitata, l’autrice ha pubblicato anche altri due romanzi gialli storici che si svolgono in epoche storiche diverse dalla classicità: La campana dell’arciprete (ambientato nelle campagne emiliane del 1824) e Terrore (ambientato a Parigi nel 1793), nonché quattro antologie personali: Il panno di mastro Gervaso, Una strada giallo sangue, Ricette per un delitto e Istigazione a delinquere. Una sessantina di altri racconti sono invece raccolti in antologie colletive.

Nel febbraio 2007 ha pubblicato il saggio Giallo antico. Come si scrive un poliziesco storico, edito da Hobby & Work, sull’argomento omonimo; in appendice sono contenuti i racconti I pirati del Chersoneso, Assassinio al tempio di Vesta e Il giallo del serpente.  Tutti i romanzi sono disponibili negli Oscar Mondadori.

Intervista

Danila, quando e come nasce la tua passione per la scrittura?

A quarant’anni, quando ho avuto un po’ di tempo libero: come mi piace spesso ripetere, prima avevo troppo da vivere per trovare il tempo per scrivere. Mia figlia bambina cominciò a giocare in cortile con gli amici ed io restavo sola in casa per un paio di ore al giorno, senza però potermi allontanare. Così cominciai. Non avevo mai scritto in precedenza una sola di riga di narrativa, nemmeno un diario nell’adolescenza (feci il mio primo racconto dopo aver pubblicato già due romanzi), perché, pur avendo fin dalla prima infanzia l’abitudine di inventarmi un mucchio di storie complicatissime, non sentivo mai il desiderio di metterle nero su bianco, mi bastava pensarle.

Come sono stati gli inizi? Hai avuto subito successo?

Si, sono sempre stata una persona molto fortunata: ho iniziato il primo libro, Mors tua, a dicembre, a febbraio l’ho spedito al Giallo Mondadori, ho vinto subito il premio Tedeschi, e ai primi di giugno ero già pubblicata, sei mesi in tutto. Naturalmente ho mentito spudoratamente, assicurando la redazione del Giallo di avere già pronto il seguito, per poi tornare a casa a scriverlo di corsa, sperando che la casa editrice non cambiasse idea sulla nuova proposta…

La tua scrittura attinge alla storia. È un lavoro complesso, che richiede molto studio. Come riesci ad intrecciare realtà e fantasia?

Attingo a una storia che frequento fin dall’adolescenza, anche se naturalmente ogni romanzo necessita di una ricerca specifica sulla sottocultura in cui è ambientato (ad esempio, il mondo dei ludi gladiatori in Morituri te salutant, l’ambiente della scuola e delle banche in Parce sepulto, i circoli filosofici in Cui prodest? ecc…). La correttezza dell’ambientazione mi interessa fin quasi al fanatismo, tuttavia se un giorno dovessi scegliere tra una scena efficace e una ricostruzione rigorosa, privilegerei senza dubbio la prima: a mio parere un autore deve innanzitutto coinvolgere con la trama e i personaggi, soltanto dopo divulgare o informare.

Come si sviluppa il tuo lavoro, e come nasce un tuo romanzo?

Di solito conosco l’inizio, spesso anche la fine. Dopo viene il difficile, far quadrare tutto il resto, ovvero scrivere il libro!

Il romanzo storico insieme al giallo, a partire dalla serie dedicata alla figura di Publio Aurelio Stazio, nobile senatore romano della metà del I secolo d.C. : la storia dell’antica Roma si presta a tessere intrighi e delitti, ma come mai hai scelto proprio questo personaggio?

Conoscevo abbastanza bene l’ambiente ed ero certa che un po’ lo conoscesse anche il pubblico. E poi Roma è Roma! Al mio protagonista ho dato gran parte della mia personalità e della mia mentalità, al di là delle differenze di sesso, aspetto, condizione economica e sociale, epoca e civiltà di riferimento.

Nelle tue opere, sei stata ispirata da qualcuno?

I romanzi che scrivo riflettono i libri che ho letto, i film che ho visto, i luoghi che ho visitato, le conversazioni di cui ho goduto e persino, mutatis mutandis, alcuni episodi della mia vita, di solito quelli che i lettori ritengono forse improbabili, perché troppo “romanzeschi”. In un libro però misi gli urinatores (i sommozzatori romani) dopo averne parlato a lungo con un anziano appassionato di archeologia subacquea, e in un altro feci sposare Paride, il castissimo intendente di Publio Aurelio, perché una affezionata lettrice ottantunenne mi aveva detto al telefono quanto sperava che prima o poi anche lui si sistemasse con una donna… I miei lettori sono fonti preziose di idee e spunti, nonché giudici importantissimi di tutto ciò che scrivo, gli unici della cui opinione io tenga conto.

Quali sono le tue letture preferite, manuali di storia a parte?

Narrativa di genere, meglio ancora se seriale: romanzi di indagine, polizieschi o thriller (non soltanto anglosassoni o latini, ma anche scritti in Cina, Giappone, Israele, Turchia, Islanda ecc…), gialli di ambiente (storici di tutte le epoche, o a sfondo etnologico, religioso, medico, legale ecc…), romanzi di avventura, fantascienza, spionaggio, qualche sporadico fantasy. Classici latini, greci e cinesi. Molta saggistica storica, antropologica e scientifica.

Secondo te, come è cambiato e sta cambiando il modo di fare letteratura?

Per una scelta precisa, da decenni frequento soltanto la letteratura di massa. Rarissimi sono i romanzi letti da me negli ultimi trent’anni all’interno della narrativa cosiddetta “blanche”, quindi non sono abilitata a rispondere a questa domanda.

Hai altri interessi, oltre alla scrittura?

Troppi per citarli tutti. Un tempo ero un’accanita viaggiatrice e andavo forsennatamente su e giù per il mondo intero, soprattutto nei continenti extraeuropei, con qualunque mezzo, dall’aereo al carro-bestiame, dalla nave all’autostop, dal bus alla moto, dal mulo al treno. Adesso che le mie condizioni fisiche mi permettono di spostarmi molto poco, internet ha ovviato a molti dei miei bisogni, portando il mondo a casa mia (ve l’ho detto, sono fortunata, è arrivato proprio al momento giusto!)

Amo moltissimo le piante, i gatti, il bricolage per arredamento e vestiti (senza istruttori, e senza corsi, mi piace provare e se qualcosa non viene bene butto via tutto: sono allergica a qualunque tipo di corso strutturato, lasciai la scuola superiore per studiare da privatista e nelle due diverse facoltà che ho frequentato assistetti a una decina di lezioni in tutto). Mi interessano molto la divulgazione scientifica, la didattica di varie materie, le scienze politiche in genere, compresa l’economia (che però spesso è fuori dalla mia portata, troppo difficile!), la linguistica e l’arte figurativa soprattutto fino al XVI secolo; amo svisceratamente l’antropologia e l’archeologia, soltanto per studiare e visitare i lavori altrui, però, visto che in vita mia ho scavato per un solo pomeriggio.

Infine mi piacciono gli stabilimenti termali e la cucina di tutti i paesi, nessuno escluso, da assaggiare e riprodurre. Mi piace chiacchierare, stare su Facebook, giocare a carte e a molti giochi da tavolo o da consolle. Sono un’appassionata di videogames di strategia in linea (all’ultimo, che ho lasciato pochi giorni or sono, ho partecipato per due anni e mezzo di seguito, almeno una volta al giorno). Sono una fanatica utente del web, in collegamento da mane a sera, e adoro il computer fin da quando bisognava programmarselo in basic; quello che sto usando ora è Aristarco IX: tutti i miei computer si sono sempre chiamati così in onore di Aristarco di Samo, lo scienziato greco che concepì il sistema eliocentrico 1800 anni prima di Copernico e di Galileo.

Un tempo mi piaceva molto ballare, adesso le mie condizioni fisiche non me lo consentono più: però balla mia figlia, mille volte meglio di me. Mi piacerebbe anche cantare, ma essendo stonata come una campana, non mi viene mai consentito e posso sfogarmi esclusivamente quando sono sola. Ah, sì, amo molto anche la logica, la matematica e un mucchio di altre cose, che ora non mi vengono in mente.

Puoi raccontarci un episodio curioso della tua carriera?

Potrei raccontare le figuracce che facevo ai convegni letterari, dove da tempo non vado più, perché di letteratura conosco pochissimo e di critica letteraria assolutamente niente, quindi il senso dei dibattiti di solito mi sfugge: sono soltanto una romanziera, non una letterata.

… E quello che ti ha più emozionato?

Ciò che mi emoziona sempre è vedere i miei libri scritti in molte lingue, magari con i titoli vergati in altri alfabeti o addirittura in ideogrammi: quando divenni una lettrice accanita, poco dopo i tredici anni, spesso mi domandavo come dovevano sentirsi gli autori dei romanzi che mi arrivavano tra le mani, nell’immaginare che qualcuno, dall’altra parte del mondo, stava leggendo i loro pensieri e condivideva il loro immaginario, e partecipava alla loro vita. Ora lo so: è una gioia immensa!

Che cosa non rifaresti mai, se potessi tornare indietro nel tempo?

Rifarei tutto ESATTAMENTE come prima: ho avuto una vita bellissima, interessantissima e molto felice, non la cambierai con nessun’altra!

Quali sono i tuoi progetti?

Stare su Facebook, navigare sul web, seminare piante, giocare con i gatti, guardare che cosa combinano mio marito, mia figlia e il mio primo nipote appena nato. Leggere un mucchio di romanzi altrui. E, se mi viene un’idea interessante, scriverne uno nuovo anch’io.

Una tua massima di vita…

Dolce frutto del bastare a se stessi è la libertà (Epicuro)

 

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L’Arte Partecipata: intervista a Giustino Caposciutti https://cultura.biografieonline.it/giustino-caposciutti-intervista-arte-partecipata/ https://cultura.biografieonline.it/giustino-caposciutti-intervista-arte-partecipata/#comments Thu, 23 May 2013 12:39:20 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7284 Giustino Caposciutti è nato a Civitella della Chiana (Arezzo) il 26 aprile 1946. Si è diplomato in Pittura presso l’Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino, dove nel 1974 ha vinto il Premio Felice Casorati come miglior allievo della Scuola di Incisione.
All’attività di artista associa quella di educatore con un costante impegno nell’utilizzare l’arte in ambiti relazionali, sia promuovendo gli artisti diversamente abili, sia facendo partecipare alla realizzazione di opere d’arte qualsiasi persona attraverso la cosiddetta Arte Partecipata.

roba da chiodi
Giustino Caposciutti in Roba da chiodi, Arezzo, 2013

Ha allestito oltre 20 personali a Torino, Ferrara, Mantova, Arezzo, Vercelli, Livorno, Liegi (Belgio) ed in altre città. Fra queste si ricorda anche quella allestita in coppia con Riccardo Licata nel 1996 a Leinì (Torino).

Fra le centinaia di collettive si ricordano quella con cui esordisce nel 1969 al Palazzo della Regione Valle d’Aosta e negli ultimi decenni le mostre a Santa Monica (USA), a Saragozza (Spagna), Zug (Svizzera), Chisinau (Moldavia), Monaco (Germania), al Trevi Flash Art Museum (PG), Casa dei Carraresi, Villa Letizia e Museo di Santa Caterina di Treviso, Villa Pisani di Stra (VE), Museo di Textile Art di San Gallo (Svizzera), al MAGI (Museo d’Arte delle Generazioni Italiane) a Pieve di Cento (BO), al Museo d’Arte Contemporanea di Moncalieri. Ha preso parte a 5 edizioni di Artissima di Torino, anche con mostre personali e a tutte le quattro edizioni della Biennale di Fiber Art di Chieri.

E’ stato ideatore e promotore di numerose mostre e manifestazioni artistiche riguardanti l’integrazione degli artisti diversamente abili nel mondo dell’arte. Fra queste: Segni Comunicanti 1985, Comunicare con la Pittura e Cercato e Trovato nel 1986, AstaFesta nel 1991, Incanto nel 1993, L’ho dipinto con… nel 1993, e tutte le dieci edizioni successive. Si tratta di una delle prime esperienze di Arte Plurale Relazionale.
Dal 1994 al 2002 è stato consulente artistico del Comune di Chieri ove ha condotto laboratori di disegno e pittura integrati.

Il movimento Arte Partecipata nasce alle ore 18 del 24 settembre 1993, a Torino in Piazza Savoia 4, in occasione dell’inaugurazione della Galleria d’Arte Arx. A tutti gli invitati fu inviata a casa una cartolina con un filo di juta allegato e le istruzioni per elaborarlo, firmarlo e riportarlo in Galleria. Fu subito un successo strepitoso al quale seguirono numerosi altri eventi a Torino ed in altre città. Caposciutti è riconosciuto per essere stato, insieme all’artista Tea Taramino, il primo ad ideare e promuovere mostre e manifestazioni artistiche riguardanti l’integrazione degli artisti diversamente abili nel mondo dell’arte.
Nel 1993 ha ideato il primo evento di Arte Partecipata al mondo chiamato FiloArX, che ad oggi ha visto la partecipazione di oltre 26000 persone. FiloArX è stato realizzato in centinaia di eventi, sia in feste di paese che in importanti luoghi dell’arte.

Come evoluzione di FiloArX, su richiesta del Comune di Chieri nel 2008 ha ideato l’evento d’Arte Partecipata TESSERE… che consiste nel ‘tessere’ in uno spettacolo di piazza con un ‘telaio vivente’ un’enorme opera/mosaico realizzata da 100 persone.
Questo ha dato luogo ad eventi molto importanti, tra cui nel 2013 TESSEREXESSERE a Cortona (Arezzo), in occasione della cerimonia di chiusura dei Very Special Olympic Games.

Giustino ha iniziato ad interessarsi di geobiologia e di biorisanamenti ambientali nel 2003 partecipando ai Corsi e Seminari del Prof. Arch. Walter Kunnen. Successivamente, insieme a Giovanni Ghiraldotti, ha sperimentato differenti soluzioni di biorisanamento ambientale fino a giungere al Quadro BioSìArt un’opera che ha la proprietà di proteggere dall’elettrosmog all’interno delle abitazioni dando luogo a “guarigioni miracolose”.
E’ rappresentato dalla Galleria Arteregina di Torino, dalla Galleria Villicana D’Annibale di Arezzo e da OrlerFactory – Marcon – Venezia. Numerose le sue opere anche nelle collezioni pubbliche.

Del suo lavoro si sono occupati importanti critici d’arte contemporanea fra i quali: Giovanni Cordero, Francesco Lodola, Angelo Mistrangelo, Paolo Levi, Martina Corgnati, Antonio Miredi, Antonio Oberti, Paride Chiapatti, Dino Pasquali, Antonio Caggiano, Silvana Nota, Liletta Fornasari, Letizia Gariglio, Gianni Milani, Mario Contini, Luigina Bortolatto, Francesco Lodola, Giorgio Di Genova, Giannetta Scorza.

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Giustino Caposciutti a Tesserexessere, Torino, 2009

Giustino, innanzi tutto complimenti per il tuo lavoro, che ho avuto l’onore di ammirare. Hai fatto della tua passione una professione. Ma quando hai scoperto questa passione?

Fin da piccolo, alle scuole elementari, frequentate a Pieve al Toppo, frazione di Civitella della Chiana (Arezzo) provavo un grande piacere nel disegnare. Negli anni seguenti, ad Arezzo, mi recavo spesso nelle chiese per ammirare i dipinti di Cimabue, Piero della Francesca, Margaritone, Spinello, Vasari ecc. A quel tempo i miei studi erano di natura scientifica (chimica). A scuola si facevano disegni di tipo tecnico che eseguivo con grande passione. Questa impostazione geometrico/razionale si può ritrovare in tutto il mio lavoro.
La decisione di fare l’artista la presi intorno ai 20 anni quando cominciai a lavorare come educatore a Ivrea (Torino), e nel tempo libero me ne andavo sulle rive del lago di Viverone a dipingere paesaggi.
Lì nel 1968 incontrai un pittore, Teresio Bonardo, che era uso dipingere in pubblico e fu così che anch’io iniziai questa pratica, oltre che sulle rive del lago di Viverone anche sulle spiagge di Rimini, Numana, lago Trasimeno, piazze di varie città, ovunque ci fosse del pubblico.
Nel 1969 iniziai a frequentare l’Accademia di Belle Arti, dapprima la scuola Libera del Nudo, poi fui ammesso al corso regolare di pittura ove mi diplomai nel 1974 con una tesi su Mondrian.

Come si è evoluto il tuo lavoro, fino ad arrivare alle tele e ai fili che ti hanno reso famoso?

All’Accademia il mio lavoro ebbe un’evoluzione veloce. Il contatto con il mondo artistico, la frequenza delle mostre, la lettura di testi e riviste d’avanguardia mi portarono a fare le esperienze più disparate in sintonia con quello che succedeva in quei primi anni ’70 nel mondo.
Uno dei movimenti che nasceva in quel momento in Italia era quello della Pittura Analitica, un movimento che faceva degli strumenti della pittura (la tela, il telaio, il colore, la cornice…) l’oggetto stesso del dipingere. Fu così che un giorno, osservando una tela di juta grezza da preparare con una base per la pittura, mi resi conto della bellezza racchiusa in essa e che dipingendola potevo soltanto distruggerla, annullare tutte le suggestioni e la ricchezza che trovavo in essa. Fu così che iniziai ad indagarla, “scoprirla”, penetrarvi dentro attraverso un lavoro di de-tessitura. Sottraendo dei fili si creavano spazi, forme, pieni e vuoti, trasparenze che interagendo con l’ambiente, la luce e il muro davano luogo ad opere in continuo divenire. Questo aspetto di fare opere mai definitive, ma ogni volta nuove, è stato fin da allora uno dei leitmotiv del mio lavoro.

C’è qualcuno che ti ha ispirato o un maestro che ti ha indicato la strada?

Ho avuto all’Accademia come insegnanti alcuni artisti molto importanti, tuttavia la mia vita e di conseguenza la mia arte ha subito un’evoluzione determinante quando, nel 1975, ho incontrato Prem Rawat, che a quel tempo era poco più che un bambino. Lui mi indicò la via della Conoscenza del Sé, ed è divenuto nel tempo la fonte inesauribile della mia ispirazione come uomo e come artista. Da quel momento la mia arte ha cessato di essere ricerca ed è divenuta “ringraziamento”. Un modo per esprimere la bellezza, la gioia racchiusa in ogni attimo vissuto in piena consapevolezza.
Quella stessa esperienza mi ha dato l’apertura mentale ed interiore verso il mondo delle persone diversamente abili, fra le quali ho scoperto dei veri e propri talenti artistici. La loro gentilezza, umanità, dolcezza mi hanno a poco a poco conquistato tanto che la mia arte ne ha subito influssi profondi, e devo dire che, se come artista ho fatto qualcosa di interessante, lo devo in massima parte a loro.
L’ideazione dell’Arte Partecipata, della quale sono considerato con Tea Taramino il fondatore, ne è l’esempio più rappresentativo.

In cosa consiste l’Arte Partecipata?

L’arte Partecipata ha come caratteristica peculiare quella di vedere la partecipazione di una pluralità di soggetti (persone e/o altri agenti naturali e artificiali) alla realizzazione di un’opera d’arte intesa questa sia come un quadro, una scultura, un’installazione, ….
E’ nata nel 1993 a Torino per rispondere in modo adeguato ad istanze ed esigenze che sempre più forte premevano, da tempo, nella società, come per esempio:

• Il bisogno di una vera integrazione dell’arte e degli artisti diversamente abili andando oltre l’Outsider Art, l’Art Brut… e tutte le forme che continuavano tuttavia a mantenere una separazione come, ad esempio, nello sport sono le Paraolimpiadi.
• La necessità di colmare il gap fra la gente comune e l’arte contemporanea spesso ostica e incomprensibile ai più.
• La necessità di attivare processi relazionali e di partecipazione in situazioni non gerarchiche o verticistiche ma orizzontali
• Il bisogno di rappresentare in modo obiettivo gli stati d’animo, i sentimenti di una comunità, una città, un gruppo di persone
• L’esigenza di favorire l’integrazione e la solidarietà fra le diverse etnie, presenti in un territorio, e
• per fare emergere le sacche di emarginazione, le realtà dimenticate, le situazioni “periferiche” di una città

Artisti che hanno lavorato a coppie o a piccoli gruppi ci sono stati nel passato, basti pensare alle botteghe medievali. Anche il coinvolgimento del pubblico è cosa che nell’ultimo secolo è stata presente nel lavoro di diversi autori e gruppi.
La novità dell’arte partecipata, così come ho inteso fin dall’inizio, sta nel dare a tutte le persone, anche a coloro che sono lontane dal mondo dell’arte, la possibilità di divenire co-autori di un’opera d’arte, di realizzarla e firmarla. Nessuno di loro sa quale sarà l’esito finale dell’opera perché questa si determinerà dall’apporto del lavoro di tutti.
Nessuno può dichiarare “Questo l’ho fatto io” ma “Questo l’ho fatto anch’io”.
Vi è quindi l’abbassamento, l’affievolimento dell’ego individuale a favore del perseguimento dell’obiettivo comune.

Nell’opera finale è ancora rintracciabile l’apporto di ognuno che si confronta, si connette, si contamina con quello degli altri, e ad una visione d’insieme si perde e si amalgama con il tutto.
L’Arte Partecipata valorizza le capacità, i punti di forza di ognuno, che vengono messi a disposizione di tutti i partecipanti. Il risultato finale non sarà uguale alla somma delle individualità, ma infinitamente più grande e significativo. I processi che vengono attivati non si concludono con la realizzazione dell’evento, ma si protraggono a lungo nel tempo.
Il ruolo dell’artista o del gruppo che elabora il progetto iniziale è simile a quello di un coordinatore, di un allenatore di una squadra di calcio. Il suo compito è importante soprattutto nella preparazione, nel saper utilizzare al meglio le peculiarità di ciascuno, nel gestire adeguatamente le diverse situazioni che vengono a crearsi durante il procedere del lavoro.

Si tratta di un nuovo tipo di artista che riassume in sé competenze più ampie come quelle di operatore socio-culturale, educatore, curatore, facilitatore…
A mio avviso va fatta una distinzione fra l’Arte Partecipata e le cosiddette “pratiche sociali”, le “pratiche relazionali”, o “le pratiche comunitarie”, che sono focalizzate maggiormente nel favorire appunto “relazioni”, mentre nell’Arte Partecipata l’obiettivo è quello di produrre un’opera insieme. Relazioni, interazioni, socialità rappresentano il “valore aggiunto”.
Ovviamente, diffondendosi a macchia d’olio nel mondo l’Arte Partecipata (Participatory Art) ha preso nomi, connotati e forme fra le più varie a seconda degli autori e delle necessità contingenti, ma alcuni dei punti su esposti permangono e mantengono tuttora la loro validità.

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In particolare, crei ed organizzi eventi, come FiloArx, per interagire con i diversamente abili. Come è nata e si è sviluppata questa esperienza?

Nel 1975 “fresco di Accademia” chiesi di fare un’esperienza come artista in un grosso centro diurno per disabili psichici alla periferia di Torino. Fu così che mi imbattei in un mondo tanto nuovo e affascinante per me, che ha cambiato il corso della mia vita e della mia arte. Scoprire fra di loro persone così semplici, gentili, piene di umanità e di affetto, artisti così genuini, determinati, costanti, con stili spontanei, ove l’arte non viene fatta per secondi fini (soldi, fama, successo… ) ma per il puro piacere e per un bisogno impellente di comunicare il proprio essere, fu per me la molla per iniziare un percorso di promozione e di condivisione di quanto fosse importante per tutti quanti non rinunciare al contributo umano ed artistico che tali persone potessero dare alla società. Così insieme a Tea Taramino, altra educatrice artistica che si aggiunse di lì a poco, iniziammo ad organizzare mostre ed eventi dell’arte dei diversamente abili, ma la vera novità fu quando nel 1993 insieme a Gianfranco Billotti (gallerista) e Gianni Callegari, funzionario della Provincia di Torino, demmo vita alla prima edizione di Arte Plurale a quel tempo con il nome di “L’ho dipinto con…”. La manifestazione consisteva in una serie di momenti, il primo dei quali era l’incontro fra uno o più artisti disabili con un artista conosciuto, di fama, alla presenza di un educatore. Da questo nasceva poi un progetto di lavoro comune che dava luogo alla realizzazione di un’opera con il contributo di tutti, in particolare con quello delle persone disabili. Veniva poi organizzata una mostra in uno spazio pubblico, ed alla fine le opere erano vendute all’asta ed il ricavato donato in beneficienza in situazioni di necessità in Africa, Asia, America Latina… Questa modalità di lavoro riscosse fin da subito notevoli consensi da parte di tutti, tant’è che si è sviluppata ed evoluta nel corso di questi 20 anni fino a diventare una prassi educativa in molti servizi per diversamente abili.
Nello stesso anno, esattamente il 24 settembre 1993 alle ore 18 venne lanciato il progetto FiloArX, una modalità d’arte partecipata ove ogni persona diviene per un momento artista, dipingendo, elaborando e firmando un filo che tessuto insieme a quello degli altri dà luogo a un’opera. FiloArX testimonia quindi un momento storico nella vita di una città, di una comunità, rappresenta la volontà di lavorare assieme su uno stesso livello, la cooperazione, l’interazione e l’interscambio delle esperienze. Ha la capacità di “fermare il tempo”, di scattare un’istantanea degli umori, dei sentimenti, delle aspirazioni.
FiloArX è la metafora della vita, della società, dei percorsi individuali che si incrociano con gli altri percorsi, delle personalità che nell’incontro si modificano ed arricchiscono, dei destini di ognuno legati ai destini degli altri. FiloArX ri-tesse un tessuto sociale scomposto, scoordinato, disintegrato.
FiloArX è metafora dell’amore, del rispetto, della convivenza pacifica.      Nel 2007 mi venne richiesto dal Comune di Chieri un progetto per celebrare la Fiber Art che dopo quattro edizioni della Biennale Trame d’autore, dal 1998 al 2004, non erano più in grado di realizzare. Nacque così TESSERECHIERI, un evento d’arte partecipata che coinvolse per molti mesi le associazioni cittadine nella realizzazione di un mosaico multiforme e multicolore le cui tessere, realizzate con differenti tecniche artistiche da 100 persone, vennero “tessute”, in piazza, il 1° luglio 2008, con il Telaio Vivente, in costume, in uno spettacolo di colori e suoni di grande impatto e partecipazione attiva ed emotiva di tutta la città.
Per quanto riguarda gli artisti diversamente abili la mia tendenza è rivolta all’integrazione con gli altri artisti, talvolta progettando eventi ad hoc, come TESSEREXESSERE, TESSEREXILRISCATTO… e talvolta inserendoli nelle mostre ed eventi organizzate da me o da altri.

Lucio Fontana, con i suoi ‘tagli’, fu il primo a far passare la luce attraverso la tela. Nelle tue opere, le tele ‘sfilacciate’ ospitano spazi di colore, che, rivolto verso la parete, ne rivela il gioco cromatico, altrimenti invisibile sul davanti. Un modo particolare di scoprire la luce…

Lucio Fontana rimane il mio punto di riferimento da almeno 40 anni. Dopo il suo gesto, il “taglio”, l’arte non può più essere la stessa. O si ha paura e si rimane al di qua della superficie, o si osa e si va oltre, ci si avventura in uno spazio e in una dimensione completamente nuovi ed ignoti. Io ho scelto questa seconda via, e, man mano che procedo, scopro un mondo estremamente affascinante e pieno di sorprese. Uno dei tanti è proprio il gioco del colore riflesso che, interagendo con la luce e con la parete, rende l’opera in un continuo cambiamento e rigenerazione. L’altro, per esempio, è rappresentato dalla mia ultima mostra Roba da chiodi, ove le mie opere vengono letteralmente rovesciate ed il chiodo, questo umile oggetto, sotto-messo, celato alla vista, però indispensabile per sostenere il quadro, diviene finalmente protagonista principale…

La tua arte prevede il coinvolgimento di tante persone che si riuniscono per creare, tutte insieme, l’opera d’arte in maniera istintiva, relegando l’artista al ruolo di comprimario. Che emozioni si provano durante questi eventi?

Uno dei problemi che attanaglia l’arte occidentale è la soggettività, lo strapotere dell’artista rispetto al pubblico. Questo ha determinato una scollatura profonda fra chi opera nel mondo dell’arte e tutti gli altri, considerati spesso culturalmente inferiori, non all’altezza di capire. Soltanto quei pochi che hanno il potenziale economico dell’acquisto possono accedere a “siffatta bellezza”.
Ritengo questo ingiusto, contrario a principi fondamentali dell’uomo quali la solidarietà, il rispetto reciproco, l’accesso alla cultura da parte di tutti. Gli eventi d’arte partecipata che realizzo coinvolgono qualsiasi persona lo voglia. Hanno una valenza culturale ed educativa, non solo avvicinano persone lontane all’arte contemporanea, ma fanno fare l’arte contemporanea anche a loro. Ognuno di questi eventi è unico ed irripetibile, soggetto ad un’infinità di variabili. Il risultato dipende dalla volontà, dalla concentrazione, dallo spirito di solidarietà e di scambio di ognuno.
E’ inutile dire che alla fine l’emozione, la gioia che provo, ma anche che tutti i partecipanti provano, è enormemente più grande di quella che può dare un’opera fatta da una sola persona.

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Qual è l’evento che ti è rimasto più nel cuore?

Sono innumerevoli… Tutti gli eventi d’arte partecipata, le varie edizioni di Arte Plurale, FiloArX fatto con intere città (Bardonecchia, Mantova, Torre Pellice, Chieri, Pinerolo, Torino ad Artissima…) e tutti gli eventi TESSERE… a Chieri, Roma, Torino, Poggio Mirteto (Rieti), Moncalieri, Mazara del Vallo, Cortona.

Nel corso di una tua esposizione, hai parlato di un evento che hai creato appositamente affinché una persona diversamente abile si prendesse la rivincita a seguito di quella che per te era stata un’ingiustizia…

Nel 1972 alla Biennale di Venezia un artista, Gino De Dominicis, espose, seduta su una sedia, una persona down che doveva restare immobile per ore e giorni ad osservare altre sue opere… Questa cosa fece un grande scandalo suscitando reazioni contrapposte. Di lì a poco il destino volle che cominciassi a lavorare come artista con le persone disabili, fra le quali ebbi l’opportunità di scoprire alcuni eccezionali talenti. Mi ripromisi di operare per ribaltare quella situazione, giungere ad un punto ove i disabili, divenuti e riconosciuti non più come oggetti ma soggetti di arte e cultura, avrebbero messo sulla sedia Gino De Dominicis.
A Torino, nella realtà ove prevalentemente opero, dal 1975 è stato fatto un lavoro additato internazionalmente come un esempio educativo, sociale e culturale, sia negli aspetti di laboratorio che di promozione, che ha portato al riconoscimento dell’arte dei diversamente abili, finalmente anche da parte degli altri artisti, della critica, delle gallerie, delle istituzioni, dei musei…
TESSEREXILRISCATTO mette a fuoco questi 40 anni di storia, di un percorso unico che davvero ci ha consentito di poter operare la rivincita, il riscatto appunto che si è consumato il 3 giugno 2012, in un evento pubblico sponsorizzato dal Comune di Torino.
Purtroppo De Dominicis non c’è più ed allora io sono stato “tessuto”, intrecciato con il Telaio Vivente composto solo da disabili agli ordini di un direttore down, all’interno di un’opera realizzata da 100 artisti disabili.

Il coinvolgimento di altre persone nella creazione dell’opera rende tutti ugualmente artisti ed ugualmente spettatori. Un modo per far capire che l’arte è a portata di ciascuno di noi…

Proprio così, in ogni uomo c’è un artista anche se non è detto che questo faccia il pittore o lo scultore…

C’è qualcosa che avresti voluto fare, ma non sei riuscito a realizzare?

Ciò che ho realizzato nella mia vita va di gran lunga oltre qualsiasi cosa che possa aver sognato o desiderato.

I progetti di Giustino…

Da qualche anno sto lavorando, insieme ad un amico, Giovanni Ghiraldotti, alla realizzazione di opere che, accanto al risultato estetico, hanno un vero valore terapeutico. Sono infatti opere complesse, a cavallo fra arte e scienza, che hanno la proprietà di interagire con l’invisibile, le onde elettromagnetiche, e per questo contribuiscono a realizzare ambienti più sani ed armonici.
Talvolta danno addirittura luogo a “guarigioni miracolose”.
E’ una nuova forma d’arte che abbiamo chiamato BioSìArt con la quale si introduce anche un nuovo parametro nella valutazione di un’opera, quello del valore terapeutico che può essere misurato con uno strumento, l’antenna di Lecher, una evoluzione moderna della bacchetta dei rabdomanti.

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L’Arte di far sognare: Christine Danielle Isabelle Kaminski https://cultura.biografieonline.it/christine-danielle-isabelle-kaminski-intervista/ https://cultura.biografieonline.it/christine-danielle-isabelle-kaminski-intervista/#respond Fri, 22 Mar 2013 10:32:36 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=6598 «L’Arte è un veicolo dell’anima, uno strumento dell’essere. Poetizzare o scrivere, scarabocchiare o disegnare, creare, tutto può divenire Arte, se generato dal cuore, se generato per il cuore.»

Christine Danielle Isabelle Kaminski è nata a Rocourt, in Belgio, il 27 giugno 1972.
Dall’età di sei anni vive in Italia dove risiedono le origini della sua famiglia materna. Qui ha intrapreso i suoi studi primari fino alla Facoltà di Scienze Politiche, con l’intento d’intraprendere una carriera diplomatica, finché non si è trasferita nella città di Roma per seguire la sua passione artistica, iniziando a collaborare nello showroom di una stamperia d’arte contemporanea di fama internazionale, la 2RC Edizioni d’Arte.

Christine Danielle Isabelle Kaminski
Christine Danielle Isabelle Kaminski

Nel 1996 è tornata in Abruzzo, nella città in cui è cresciuta, dove ha ripreso gli studi per divenire grafico pubblicitario e web designer, ed ha avviato, dal 2001, un’attività rivolta alla comunicazione integrata.

Appassionata di lettura, nonché di musica e di arte, esprime la sua creatività attraverso il semplice disegno, fino all’elaborazione di opere artistiche in digitale, cenni di poesia, e negli anni, sin da adolescente, ha scritto numerosi romanzi, pur senza pubblicarne alcuno.

Dal 2007 ha abbandonato l’attività di pubblicitario per dedicarsi completamente al perfezionamento delle sue opere, per donare emozioni ed infondere speranze attraverso le sue narrazioni, un piccolo ma sentito contributo per restituire i sogni a chi si è perduto.
Attualmente è in previsione la pubblicazione di tutti i suoi trenta romanzi, scritti nel corso degli ultimi vent’anni, mentre continua a produrre, nuove storie e nuovi amori sognati, orientandosi anche verso il genere Fantasy, ma sempre come una favola piena d’amore.
Senza Parole è il suo romanzo d’esordio, pubblicato con Prospettiva Editrice nell’anno 2007 (di cui è stata effettuata la traduzione in francese – Sans Rien Dire – e si sta terminando quella in inglese – No Words – per essere pubblicato in Europa e Stati Uniti), ed ha poi pubblicato Manca sempre qualcosa, Paura del Buio e Un raggio di sole (nel 2008), D’un tratto lei (2009) e Kaleriya (2010), sempre con la medesima casa editrice, ed Il sogno è sempre (2010), La luce del risveglio e La sofferenza non uccide, la paura non fa vivere (nel 2011) con Lulu.com.

 

Christine, la passione per l’arte ha avuto la meglio su una probabile carriera diplomatica. Come hai capito che dovevi seguire questa strada?

Non si tratta tanto di comprendere, quanto piuttosto di seguire, assecondare le nostre naturali inclinazioni, accogliere ciò che ci attrae, portentosamente ci attrae, ciò che ci fa sentire bene, che ci piace, ci riempie, ed è assai facile in questa maniera trovare la propria strada, scoprire la propria missione, quale posto ci sia stato riservato nella vita.
La carriera diplomatica era stata una scelta logica, inizialmente, per varie ragioni, di coincidenze e condizioni, fondamentalmente sono una fatalista e non credo nel caso, pertanto avevo concluso che le stesse fossero state dei segnali, per me, un sentiero battuto e di conseguenza da intraprendere, anche ad occhi chiusi, però ad un certo punto è accaduto un qualcosa di veramente straordinario, un caso, forse… ma di certo non lo era, all’apparenza poteva sembrare un evento casuale e di bassissima rilevanza, per quanto semplice nella sua manifestazione, magari scontato, eppure era un monumentale bivio che mi ha sbarrato la strada, ed oltrepassarlo per cambiare direzione ha richiesto un gran coraggio, oltre che una certa dose di incoscienza, ero molto giovane allora e probabilmente questo mi ha aiutata, ho compiuto un salto pazzesco che mi ha condotta a mutare radicalmente indirizzo, paese, forse pianeta… non ho avuto paura di saltare, tutt’altro… nel profondo sapevo, era il “treno” della mia vita.
Così, senza più di tanto pensare, tranquillamente, mi sono lasciata trasportare, giorno dopo giorno, evento dopo evento, ed ora eccomi qui, dopo la moltitudine di anelli che hanno formato questa intricata ma così lineare catena, ‘sconvolgentemente’. Sono all’ultimo, forse, prima di chiuderla.
Rammento che quando ero poco più di una bambina, espressi tre intenzioni, in momenti ben distinti: “Da grande farò il grafico pubblicitario, da grande farò la scrittrice, da grande farò la pittrice”. Beh… due su tre, ma non è ancora finita… e sono professioni che sono “arrivate” da sole, nel tempo, dopo aver spontaneamente cambiato una marea di strade, senza neanche rendermene conto, occasioni che sono saltate all’improvviso e che ho preso al volo. Sicurezza o preveggenza? Ancora me lo chiedo.

Hai incontrato difficoltà all’inizio, sia in famiglia, che nei risultati del tuo lavoro?

Come tutti, credo, la gavetta è necessaria, dal punto di vista pratico, ma talvolta ci occorre soprattutto per individuare quale sia l’occupazione adatta a noi, quella in cui riusciamo a dare il meglio essendo totalmente noi stessi, in cui eccelliamo naturalmente, in cui può giocare il nostro talento. Emergendo nella più totale libertà può devolvere frutti davvero prodigiosi.

Tu dici che scrivere per te è come una missione, “per restituire i sogni a chi si è perduto”. Come ci riesci?

È magia… la magia del cuore. Io provo emozioni, mentre scrivo, e le imprimo in ogni mia opera perché ciascuna storia non è da me semplicemente scritta, è vissuta, sono i miei sogni espressi, le mie fantasie più pure e i miei ideali più alti, i miei desideri. Desidero che la gente continui a sognare, sempre sempre… che non si stanchi mai di sognare.

Ultimamente hai dichiarato di essere orientata verso il genere Fantasy, che va per la maggiore. Quali sono le caratteristiche del genere che ti attraggono?

Il mondo delle Fate, tutto ciò che c’è di magico nell’archetipo di Peter Pan, la bianca via magica delle Streghe. Al momento ho dato l’incipit ad una storia sull’origine delle Fate, magari sull’origine del mondo, ma non è una storia totalmente “fantastica”, se vogliamo inventata. Mi documento sempre, sulla realtà e su fatti realmente accaduti, per qualunque cosa, ed in questo caso le basi sulle quali lavoro sono rappresentate dalla mitologia celtica, il mondo astrale e, naturalmente, i sogni. Ingrediente essenziale, immancabile.

Hai dei modelli a cui ispirarti?

Mi ispiro al mio cuore, l’unico vero motore di tutta la mia “arte”. Tuttavia amo gli scrittori dell’800, soprattutto Flaubert e Dostoevskij, il primo per lo stile e la musicalità, il secondo per l’introspezione e la sua genialità nel catturare l’anima, luci ed ombre, il lato oscuro, ma adoro anche Gibran e la sua infinita dolcezza, gran parte della letteratura romantica e quella parte di letteratura che tratta la psicoanalisi ed il mondo onirico, di cui grandi fautori sono Freud, Jung e Fromm. E questo perché non narro soltanto vicende d’amore, non parlo solo d’amore, di passioni e dei desideri del cuore, quelle che scrivo sono storie dettate da una sfrenatissima fantasia ma sempre basate sulla realtà, sulla realtà umana, analizzo i miei personaggi, le paure e le angosce, entro nel loro profondo, nelle loro molteplici sfaccettature, labirinti intricati in cui a volte è facile perdersi, come del resto lo è la natura umana, un immenso labirinto che non conosce mai fine… In sintesi mescolo fantasia e realtà, entrano in simbiosi, sembrano storie vere. Le mie.
Comunque, andando indietro nel tempo un ruolo determinante lo assumono anche Shakespeare ed i filosofi latini e greci, la mitologia greca ha per me un notevole peso, su come vedo il mondo, l’alchimia e la magia, il Fato, la meditazione e l’Illuminazione.

Come nascono le tue storie?

Tempo fa mi è stata posta la stessa domanda, in un’intervista, e posso dunque riproporre la medesima risposta: “Il come non lo so, le mie storie nascono e basta, m’invadono e le riverso su carta, senza pensare, senza programmare, la storia parte da sola e finisce da sola, io sono solamente l’interprete, il tramite attraverso il quale la storia può materializzarsi sulla carta. È un input, mi è sufficiente una frase o un’immagine per scatenare la mia immaginazione, e il più delle volte non riesco a starle dietro, mi accade addirittura che mentre scrivo una storia, la mia mente ne partorisce un’altra, quasi di prepotenza, e per trattenerla, per non perderla, sono costretta ad abbandonare il romanzo attuale per memorizzare immediatamente l’altro.
Alle volte è una fatica, infatti mi è successo di desiderare, ridendoci anche su con me stessa, di avere una mente che funzioni come un computer, che possa registrare e salvare i miei pensieri prima che volino via.”

Continui ancora a disegnare e comporre opere visive?

Certo, nel tempo libero, anche se di regola non ne ho molto, a disposizione, lavoro su parecchi progetti contemporaneamente, e quel poco tempo che mi ritaglio lo impiego primariamente per tenermi in forma, per fare un po’ di movimento e meditare, dato che sono seduta, o meglio, inchiodata al PC per più di 12 ore al giorno, e ciò mi comporta anche problemi fisici, come alla schiena e alle articolazioni, di mobilità, muscoli che si atrofizzano a causa di queste posture fisse e fortemente malsane, per il corpo.

Pregi e difetti di Christine…

Qui sarebbe da scriverci veramente un romanzo… dacché ho una personalità molto complessa, anzi, più di una, varie e variegate. Ma, se dovessi dipingere un quadro generale, potrei dire che sono una persona piuttosto complicata, per certi versi enigmatica, anche se sono trasparente, come l’acqua… nei miei pensieri e nelle mie manifestazioni sono io, sempre io, Christine… sembrerebbe una contraddizione, vero? In effetti, il “problema” sorge nella mia volubilità, che mi conduce a mutare spesso umore, atteggiamento o parola, dunque non è facile inquadrarmi, come effettivamente sono, ciascun momento corrisponde ad una mia personalità, ad un mio volto, ad un mio stato d’animo, e non è semplice starmi al passo, o semplicemente comprendermi… sono lunatica, figlia della luna ne rispecchio tutti gli aspetti, gli alti e i bassi, le facce, le maree…

Una cosa però è costante e non fugge in nessun caso, la mia sincerità, degenerante molto spesso in cruda schiettezza, forse sfacciata, socialmente infatti non godo di ottima fama, in quanto dico integralmente quel che penso, o che sento in un preciso momento, e non sempre gradevole, ovviamente, considerando altresì che sono una persona facilmente irritabile, se vogliamo permalosa, e non capita di rado beccarmi con la luna storta, laddove esaspero un’opinione od un’idea, il pensiero che conservo di una determinata persona, o di una determinata situazione. Questo ad ogni modo vale anche per il positivo, che posso pensare di qualcosa o qualcuno. Per zittire una persona mi bastano due parole, e non affatto diplomatiche… in declamata antitesi con quel che era il mio progetto iniziale, professionalmente parlando.

Sono dispettosa, talvolta capricciosa, come una bambina… ma dispettosa lo divento prevalentemente quando mi ritrovo al cospetto di persone superficiali, antipatiche e con la cosiddetta “puzza sotto al naso”, persone mendaci ed un po’ troppo superbe, o volgari, e di quando in quando posso diventare alquanto vendicativa… chi mi fa del male non sempre se la passa bene, e non per puro spirito di vendetta, non sono quel genere di persona che può covare un odio tale da giungere a vendicarsi, o ad accanirsi per restituire la pariglia, anche perché la trovo un’assoluta perdita di tempo che si potrebbe convogliare in azioni decisamente più fruttifere e senza dubbio positive, per se stessi e per gli altri, come si dice, ho di meglio a cui pensare. La mia è una mera reazione al male ricevuto, per scaricarlo, ed è automatico, nessuna malvagità di fondo, nessuna strategia o perfido intrigo, è soltanto dolore che segue il suo decorso, per morire e non pesarmi più sul cuore… come una sorta di purgatorio a sé stante, infatti con il tempo poi dimentico, dimentico persino i volti, non memorizzo i torti, cancello le persone. Una volta che il dolore è svanito.

Per pregi intenderei più che altro talenti, il talento di saper dire le cose, di saperle scrivere, di essere doviziosamente espressiva e chiara, cristallina. Sono una persona notevolmente intuitiva e sensibile, o meglio, ipersensibile, sentimenti ed emozioni sono in me, amplificati, anche il dolore… a volte presento gli avvenimenti, prevedo fatti o circostanze, comportamenti, so leggere le persone ed intuire i loro pensieri, so leggere tra le righe… ma, come in ogni cosa, sussiste un lato negativo, il rovescio della medaglia, ovvero che mi può capitare di fraintendere grandiosamente, di vedere cose che in realtà non ci sono, quando sono personalmente e profondamente coinvolta, perdo di obiettività perché “entro” troppo e posso confondermi da sola, a volte le cose sono davvero molto più semplici di quanto appaiono… ed io sono davvero tagliata per complicarle, sono una complicatrice nata.

Gioiosa e solare, amo la vita e le belle persone, il sole ed i fiori, il cielo e le stelle… sono una persona di cuore e alle persone che amo regalerei il mondo, con loro sono affettuosa e protettiva, dolce e comprensiva, forse talora un po’ soffocante ma rispetto comunque, e sempre, gli spazi altrui, non sono invadente e comprendo, quando qualcuno ha bisogno di starsene per conto suo.
Amo sperimentare, studiare, mettermi alla prova e testarmi, sfidarmi… e superarmi.

Un altro difetto è che sono piuttosto prolissa, è il rovescio della medaglia del mio saper scrivere, di circostanziare fin quasi allo sfinimento e magari ripetermi, seppur con differenti parole, sono un’ottima ricamatrice e ciò può sfociare nella petulanza, o peggio nell’offesa, al mio interlocutore che può giungere a sentirsi trattare come un idiota, che in sostanza non ci arriva, sentendosi ripetere sempre le stesse cose. Ma non è così, devo puntualizzarlo, mi piace l’uso della parola, amo la parola, parlare, e scrivere, mi piace essere chiara, spiegare, rendere le cose facili, non essere fraintesa, è probabile che io soffra della sindrome della “maestrina”… sono fin troppo precisa, quasi maniacale, a tal punto che sovente mi do addirittura fastidio da sola.

Non sono narcisa ma sono sì, un po’ vanesia, questo però credo si possa fondatamente catalogare come prerogativa femminile, curare il proprio corpo, essere attente al proprio look e alla propria immagine, estetica, ma senza appesantirla, mai, in quel caso non amo le esagerazioni, per quanto io sia esagerata in tutto il resto, se non eccessiva, sono agli antipodi, non conosco le mezze misure. L’essere moderata nella presentazione del mio corpo è l’eccezione che conferma la regola, ma ciò puramente perché rigetto qualsiasi tipo di volgarità, verbale o materiale, sono strepitosamente all’antica, parteggio per la delicatezza femminile e l’eleganza, la riservatezza e la discrezione, l’educazione ed il buongusto, li difendo a spada tratta… di fondo sono una persona abbastanza pudica e composta, in mezzo alla gente, poi nel privato amo la libertà a non finire.

Smodatamente gelosa della mia intimità, lo sono anche con i miei affetti, ma soltanto nei confronti dei “ladri” e dei defraudatori. Proteggo con smisurata e passionale grinta ciò che amo e guai a volermelo “rubare”…
Sono un’idealista, estremamente testarda e caparbia, difficilmente abbandono il campo o chino il capo, certo per quello che realmente mi interessa, che ritengo meritevole, il resto lo lascio cadere in un batter d’occhi, e sono tendenzialmente impulsiva, anche se questa è una cosa che sto tentando di correggere, l’istintività di norma non è opportuna, ed io sono veramente tanto istintiva… spesso salto a conclusioni veloci, magari gratuite, ma raramente mi sbaglio, c’è sempre l’intuito dalla mia parte.

E sono in certi casi assolutista, pianto le mie idee e non ascolto differenti pareri, ciò che penso è sacrosanto e solamente io posso decidere se cambiare opinione, detesto le forzature e l’arroganza, non ascolto nessuno sul momento magari in seguito, se ci rifletto con calma e col silenzio, posso dare per buona l’alternativa. Oppure se il caso mi dimostra il contrario, ma dev’essere davvero eclatante, in quanto la verità non è mai apparenza, forse in superficie, può essere una parte, della verità, dipende da ciò che qualcuno vuole o non vuole mostrare, guardo oltre e non sempre quel che vedo mi piace.
I miei principi sono invece saldi ed inoppugnabili, incontestabili anche da me stessa.

Che cos’è per Christine l’Amore…

L’Amore per me è il mondo, il mio mondo… è quello che muove, che dona, che perdona… è Tutto.

L’opera letteraria preferita…

Non ho preferenze, mi piace quel poco di tutto, il meglio di tutto, quindi posso spaziare dalla classica letteratura ai romanzi un po’ più leggeri, sempre di qualità e non assolutamente commerciali, leggo saggi, la storia antica mi appassiona e mi appassiona anche la filosofia antica, la mitologia, come anzidetto, ma in prevalenza leggo storie d’amore, sono un tipo esageratamente romantico…
Tuttavia se dovessi scegliere un’opera, sceglierei Madame Bovary di Flaubert, un po’ perché è stato il primissimo libro che ho letto, al di fuori dell’ambito scolastico, un po’ perché mi ha ispirato lo stile, ha stimolato in me il desiderio di scrivere e dunque rappresenta un punto d’origine, simbolicamente, ed un po’ perché ancora mi emoziona, insomma mi è rimasto nel cuore. La versione originale è davvero stupenda… non tanto per la storia in sé, probabilmente ce ne sono di migliori, anzi sicuramente, ma è proprio la musica che sento scorrendo le righe, la delicatezza, la soavità… e stiamo parlando di un uomo, un uomo che ha quella delicatezza di espressione tipicamente femminile, un’autentica rarità.

… Il pittore preferito…

Artisti contemporanei non li trovo molto attraenti, sebbene io abbia collaborato in una galleria d’arte contemporanea, hanno sempre il loro fascino, certo, la loro anima, espressa e contemplata in ogni opera, ma l’astratto non mi suscita granché emozione, soltanto l’esplosione di colore può emozionarmi, travolgermi… da questo punto di vista allora prediligo le opere nel nuovo millennio, grafiche digitali, fantastiche, magiche… mentre per gli artisti del passato un buon occhio lo riservo per Kandinsky, per la sua musicalità di colori.
Comunque un artista contemporaneo che mi piace molto è Guarienti, un ponte tra i secoli, tra il moderno e l’antico, Konstantin Vasilyev, e trovo molto affascinante il surrealismo di Vladimir Kush e di Michael Cheval.

Cosa ti piace e cosa non ti piace dell’Italia?

Dell’Italia mi piace tutto, tranne il suo governo! Ed il ladrocinio dei suoi esponenti che stanno letteralmente facendo morire la gente di fame…

Quali sono i tuoi progetti?

Progetti in cantiere tanti, innanzitutto naturalmente pubblicare tutti i miei romanzi, dei quali il prossimo è in fase di editing per essere pubblicato tra qualche mese, Chiarezza, bellezza, poi terminare la mia “favola magica” e, a tal proposito, un progetto a cui sto lavorando da più di anno e che felicemente ho quasi terminato, è un blog assolutamente pro bono, che tratta il mondo delle Fate e parla di tutto ciò che è magia (http://giardinodellefate.wordpress.com): sono ben 250 pagine ed hanno richiesto molto impegno e tanto lavoro, gratificante sempre, ma abbastanza impegnativo. Scrivo anche favole e racconti fantastici, di tanto in tanto, sulle Fate ed il Piccolo Popolo, principi e principesse, forse un giorno pubblicherò un’antologia.
Inoltre, andando un po’ più sul pratico, ho realizzato un blog che tratta l’argomento del blogging business, comunque inerente alla mia professione perché, al mondo d’oggi, è tutto telematico e bisogna tenersi al passo con i tempi, in questo blog tra l’altro si può leggere un breve riassunto della mia vita (http://lavoroadomicilioblog.wordpress.com/chi-sono).
Ed, infine, mi sono occupata di iniziative benefiche, pubblicazione di antologie i cui proventi da destinare in beneficienza, anche se purtroppo l’ultimo progetto non è andato a buon fine, non avendo raggiunto il numero di partecipanti e mi dispiace moltissimo, in quanto ci tenevo davvero (http://soltantoperamore.wordpress.com).
Questi sono i più significativi, poi gli altri sono ancora da avviare o in fase embrionale, tra i quali il primo a partire sarà la sceneggiatura di un pilot (o film, da vedere cosa succede strada facendo), voglio sperimentare e cimentarmi in qualcosa di completamente nuovo, cambio diametralmente genere, sia nel tema che nel supporto, anche nel modo di lavorare, poiché di regola preferisco lavorare da sola, anche per l’editing delle mie opere, mentre questo progetto sarà realizzato a “più mani”, e sarà a sfondo ironico, molto ironico, tendente al satirico, una sorta di parodia di Sex and the City, ambientata però a Roma, quartiere Parioli.

Un consiglio a chi si vuole cimentare con la scrittura…

Seguire sempre il cuore, scrivere per se stessi e per donare se stessi, non per gratificare esigenze altrui o per mero narcisismo, per la fama, ancor meno per denaro, sempre che non si voglia diventare un prodotto commerciale e vendersi, io mi rivolgo ovviamente a chi ha la passione della scrittura, a chi la ama, non a chi la sfrutta. Sarebbe come sfruttare un proprio figlio, quale buon genitore lo farebbe?
In questo caso non conta il risultato finale, ma l’intenzione. O forse vale per tutto.

http://www.christinekaminski.com

http://christinekaminski.wordpress.com

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Poesia d’esperanto. Intervista ad Anna Maria Dall’Olio https://cultura.biografieonline.it/anna-maria-dallolio-poesie-intervista/ https://cultura.biografieonline.it/anna-maria-dallolio-poesie-intervista/#comments Thu, 31 Jan 2013 02:57:16 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=6135 Anna Maria Dall’Olio è nata a Pescia (Pistoia) il 14/11/1959. Laureata in Lingue e Letterature Straniere e in Lettere, esperantista dal 2003, si è dedicata alla scrittura drammaturgica, alla poesia e alla narrativa breve, con testi presenti in antologie e calendari, riviste on line e agende letterarie, e-book e pamphlet.

Ha pubblicato 3 sillogi poetiche: L’angoscia del pane, Lietocolle (2010; 2a edizione 2012), e 10 poesie in Calamaio 2009 e Calamaio 2011 (Book editore). Tra le varie produzioni, il racconto in mp3 Orizzontale (Vox Company, Padova, 2008). Da segnalare Tabelo (Edistudio, Pisa, 2006), dramma scritto in esperanto.

Nel periodo 2007-2008 ha curato una rubrica sul mondo esperantista per Incontrosaperi, quindicinale on line di arte, spettacolo e comunicazione. Infine, ha collaborato al numero 222 (dicembre 2007) del periodico Kontakto con una recensione su Dolore di Giuseppe Ungaretti.

Nel 2006 ha vinto il primo premio del Concorso nazionale Garcia Lorca  (sez. poesia inedita). Nel 2007 si è classificata al secondo posto al Concorso internazionale di poesia Solaris (sez. poesia inedita). Nel 2011 ha vinto il primo premio speciale nella Rassegna d’arte e letteratura Omaggio a Cortona (sez. poesia inedita). Nel 2012 si è classificata al primo posto al Concorso nazionale Garcia Lorca  (sez. poesia inedita), terza al Concorso internazionale Giovanni Gronchi (sez. autori distinti in più sezioni) e il premio della Giuria del Bergamotto d’oro (sez. poesia).

Anna Maria Dall'Olio
Anna Maria Dall’Olio

Anna Maria, sei un’esperantista, cioè una studiosa della lingua e della cultura esperanto. Puoi spiegare di che cosa si tratta?

L’esperanto è una lingua artificiale, inventata dall’oculista polacco Zamenhof nel 1859, formata da sole sedici regole senza eccezioni. Le sue applicazioni e la sua regolarità sono controllate da un’apposita Accademia Internazionale, nota per il suo rigore. Più di due milioni di persone la parlano nel mondo e la UEA (Associazione Esperantista Universale) fa parte dell’UNESCO, proprio come l’UNICEF. Infatti, in occasione della Solena Inauguro (= Inaugurazione solenne) dei Congressi Universali, vengono portati i saluti, in francese, del presidente dell’UNESCO, che ha sede a Parigi. Il Congresso Universale, tenuto ogni anno in città diverse (nel 2013 a Rejkjavik), è un’esperienza da fare per tutti: è l’unico luogo al mondo dove un iraniano siede accanto a un israeliano, fatto che non succede neppure all’ONU. Noi esperantisti diciamo: “Homoj kun homoj” (= uomini con uomini).

Come ti sei accostata allo studio di questa lingua?

Prima di essere una letterata sono anzitutto una linguista e una glottologa, per cui amo tutte le lingue. Notai l’esperanto già nel 1978, cioè a Pisa durante il primo anno di Lingue: alla Sapienza si teneva un corso settimanale di Esperanto tutti i giovedì alle 18, troppo tardi per una pendolare come me.

Ho ritrovato l’Esperanto molti anni dopo, praticamente sotto casa a Pistoia. Una locandina illustrava il Congresso Universale appena trascorso (era il 2003, quindi era quello di Goteborg in Svezia) e l’orario del corso imminente proprio a Pistoia. La possibilità di imparare una lingua con i vantaggi dell’Esperanto stava per divenire realtà.

Quali sono i meccanismi grammaticali e tematici di questa lingua?

L’esperanto è artificiale, ma non artificioso, perché è costruito su radici ricavate da un lessico riconoscibile almeno a livello europeo (latino, tedesco e inglese, in primis, ma anche greco e slavo). Le radici in questione (oltre ad avere un proprio significato estensibile nel significato nelle direzioni possibili) sono combinate seguendo le sedici regole anzidette, per cui l’Esperanto risulta la lingua agglutinante più perfetta. Per questo motivo, in vari Stati si insegna l’Esperanto come lingua veicolare, perché impararlo aiuta a ragionare e quindi a comprendere qualsiasi altro meccanismo linguistico.

A livello sperimentale, è stato dimostrato che l’Esperanto è migliore del latino e del greco ed è, almeno per noi Europei, molto più facile. Ogni giorno, nel mondo, si pubblicano libri o si tengono conferenze in Esperanto, per cui è possibile parlare in questa lingua di qualsiasi cosa: chi va ai Congressi, lo sa bene.

Quanto ha influito lo studio dell’esperanto nella tua professione di scrittrice?

Agglutinante com’è, l’esperanto supera certe barriere che esistono nelle lingue madri: per esempio, con l’aggiunta di suffisso una preposizione può diventare un verbo o un sostantivo e la poesia, almeno a livello sperimentale, è linguisticamente creativa. Agli albori della mia carriera di scrittrice, inoltre, ho scritto in esperanto un dramma (Tabelo, Edistudio, 2006) e un’ottava. Per un anno ho collaborato con uno dei primi webzine Incontrosaperi sul mondo esperantista. La mia tesi della Laurea in Lettere (sostanzialmente una comparazione tra Italiano ed Esperanto) è stata pubblicata come saggio su Edukado.net, il sito più importante dedicato all’Esperanto.

Quando hai scoperto la passione per la scrittura e come sono stati gli inizi?

Prima del 2004, non avevo scritto praticamente niente: solo letture, approfondimenti critici, visioni di spettacoli teatrali e mostre (sempre suffragati da letture critiche). E’ stato il corso di scrittura drammaturgica tenuto nella mia città dallo scrittore e regista bolognese Gianni Cascone a iniziarmi alla letteratura creativa. Successivamente, ci sono stati altri incontri e altre esperienze con maestri, che mi hanno portato a quello che sto facendo ora.

Componi poesie che trattano temi civili. Quali sono i valori che vuoi trasmettere con la tua arte?

Il senso di responsabilità che ciascuno di noi ha nei confronti della società in cui vive e non solo in quella: non siamo puntini adimensionali e tanto meno un tratto di penna bidimensionale. Siamo tridimensionali proprio come la parola. Infatti, prima di definire “finita” una mia poesia, la scrivo, la leggo a voce alta e, infine, la osservo come è disposta sul foglio di carta: se non mi va, non mi suona bene, la scrivo e la riscrivo. Tanto il computer mi aiuta.

Ti occupi anche di drammaturgia. Quali sono i temi che tratti?

Ho scritto tre drammi, del primo dei quali esiste la versione in Esperanto (Tabelo, Edistudio, 2006) e in Italiano (Tabula). Gli altri, inediti, sono Evoluzioni e Trama. Sono testi realistici e onirici, comici e tragici al tempo stesso: tutti e tre trattano di tematiche sociali, in particolare i primi due, connessi anche nella trama.

Tabelo e il sequel Evoluzioni parlano di responsabilità, di mobbing elevato a suprema forma artistica e all’asservimento dell’Intellettuale al potere, per cui l’Intellettuale, biblioteca com’è, diventa un mostro orribile, e apparentemente invincibile, alla Proteo. Per sconfiggere il mostro arriverà il Giovane, che sembra indifeso appunto perché è creduto inesperto e assomiglia pericolosamente a Ognuno. Il Giovane sconfiggerà l’Intellettuale, ma alla fine si troverà, trasformato, al centro di un Nuovo Sistema, peggiore del precedente.

In Trama, per una serie di eventi, un altro intellettuale, apparentemente comico nel suo cliché borghese, si rivela composto da due persone: la prima, accettabile, è quella che la società vede ogni giorno, la seconda, rabbiosa e sadica, è nascosta come uno scorpione nel muro di casa sua. Alla fine, le due persone si danno il cambio e la persona cattiva precipita nel pubblico con la stessa forza distruttiva di un meteorite.

Quali sono gli autori a cui ti ispiri?

Per il teatro hanno detto che sono un po’ beckettiana; semmai, mi riconosco di più in Ionesco, di cui ammiro moltissimo Le sedie e La cantatrice calva. Quanto alla poesia, mi sento maggiormente ispirata a Pasolini, Pound, Eliot, Cummings e, ultimamente, alla poesia predantesca e popolare.

Hai ottenuto numerosi premi e riconoscimenti, e la poesia non è un terreno facile…

A volte io stessa mi stupisco, perché al momento, per esempio, ho scritto solo cento poesie. Quando proposi il CD con 10 poesie alla Lietocolle alla Fiera di Roma (cioè nel dicembre 2009), avevo scritto appena una ventina di poesie. Oggi quel CD è diventato L’angoscia del pane, una seconda edizione in via di esaurimento grazie al passaparola del web e alle mie incursioni-presentazioni dove capita …

A che cosa stai lavorando in questo momento?

Lavoro come insegnante alle scuole medie superiori (sia pure col part time), per cui non ho molto tempo. In attesa della seconda silloge poetica, da pubblicare sempre con Lietocolle, sperimento varie forme poetiche, come del resto raccomanda anche Valerio Magrelli.

Esperanto, poesia, drammaturgia. Hai intenzione di cimentarti in qualche altra forma d’arte?

Ho scritto anche racconti di genere che stravolgono volutamente e sperimentalmente il genere. L’ho fatto soprattutto nel periodo 2008-2009, dopo aver conosciuto Julio Monteiro Martins, scrittore brasiliano che insegna Letteratura portoghese a Pisa. E’ noto come direttore della rivista on line Sagarana. Ho smesso di scrivere racconti non perché mi manchino le idee, ma perché i racconti sperimentali non interessano alla gente e, tanto meno, alle giurie dei concorsi, che sarebbero invece un ottimo punto di partenza per farsi conoscere.

Inutile dire che nel 2008 ho iniziato un romanzo con un impianto ben preciso, una sorta di noir strutturato come un’opera teatrale, ma ora non ho tempo di portarlo avanti.

Un saluto in esperanto…

Saluton al vi, bonan tagon, amikoj kaj amikinoj! Cioè: vi saluto, buongiorno, amici e amiche!

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Filomena Baratto, intervista: Profumo di emozioni https://cultura.biografieonline.it/filomena-baratto-intervista/ https://cultura.biografieonline.it/filomena-baratto-intervista/#comments Tue, 29 Jan 2013 22:24:01 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=6136 Filomena Baratto nasce a Vico Equense (Na) il 6 marzo del 1962. Sin da bambina mostra una spiccata propensione per l’arte a cominciare dalla pittura esercitata come allieva presso uno studio di pittrice, già in seconda elementare. Nell’età dell’adolescenza inizia a dedicarsi in maniera più approfondita anche alla scrittura e alla musica.

Filomena Baratto
Filomena Baratto

Dopo gli studi superiori, mentre è iscritta all’Università, partecipa al Concorso Magistrale e risulta vincitrice. Comincia così la sua attività di insegnante di Scuola Primaria pur continuando gli studi presso la Facoltà di Lettere e Filosofia all’Università Federico II di Napoli. Intanto prosegue gli studi di musica, suonando il pianoforte, attività che svolge tuttora, con un buon livello di conoscenze e di tecnica.

Sposata con tre figli, vive a Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli dove insegna nella Scuola Primaria e dove svolge la sua attività di scrittrice. L’incontro con il padre, dopo trentacinque anni di lontananza, in seguito alla separazione dalla madre, per la prima volta le dà una forte spinta a trasformare le proprie esperienze interiori in una raccolta di composizioni liriche, Ritorno nei prati di Avigliano (Alberti Editori), pubblicata nel 2010.

Il 2011 è l’anno di Rosella (Sangel Edizioni), romanzo autobiografico che racconta la vita di sua madre e di tutte le persone della sua infanzia e della sua adolescenza. E’ un’esperienza significativa, dove lei stessa diventa protagonista, con la madre, di una storia ricca di fatti, luoghi ed emozioni.

Nel 2012 pubblica una raccolta di racconti, una silloge dal titolo Sotto le stelle d’agosto (Graus Editore), dieci racconti inediti.

Filomena Baratto, sei un’artista a tutto tondo, perché riesci a spaziare con agilità da una forma espressiva all’altra. Quando e come hai scoperto la tua propensione all’arte?

L’arte è stato un mio territorio, quando alla scuola materna, rappresentavo il mio mondo circostante sui fogli, disegnando e scrivendo didascalie. Tutto quello che mi girava intorno lo dovevo riportare sui miei fogli con cura e avevo una curiosità per tutto. Sono sempre stata con fogli, matite e penne in mano e ricordo che uscendo in macchina non riuscivo a guardare fuori dal finestrino per scrivere e disegnare nel mio quaderno che portavo sempre con me.

Devo aggiungere che la bellezza di certi luoghi in cui sono cresciuta ha acceso il mio interesse per la natura, il bello, il definire le forme e fermarle sulla carta. Ricordo che da piccola avevo una maglietta a strisce colorate con tutti i colori dell’arcobaleno, simbolo per me di fantasia, di luce, di sole, era la mia maglieta preferita e la cercavo continuamente, indossarla mi metteva il buonumore e mi dava l’entusiasmo per cominciare la giornata. Da adulta, in ogni epoca della mia vita, ho avuto una maglia simile, anche ora ne ho una simile, come a volermi portare dietro quel bagaglio di bellezza in cui sono cresciuta.

La pittura è stata la tua prima passione. Quali sono i tuoi ‘maestri’?

Già in seconda elementare dipingevo a olio su tela presso una pittrice quotata della mia città. Lo devo alla mia insegnante elementare, Enza Persia, e mi piace ricordarla perché le sarò sempre grata, lei vide in me questo talento. Nel tempo, secondo il consiglio della mia prima insegnante di pittura, ho dato vita prima al mio mondo interiore rappresentando tutto quello che di bello era in me, e poi, col tempo, ho affinato la tecnica attraverso lo studio dei grandi, riprendendo tele e studiandone i colori e le varie tendenze di artisti.

Come ti viene l’ispirazione a dipingere?

La pittura emerge, prima ancora che nella tecnica, nella mente con le sue rappresentazioni insistenti di immagini. L’immagine che si ha già dentro diventa motivo di attenzione e di studio fino a quando la si stempera sulla tela e quello che era dentro assume forme e colori. L’ispirazione nasce anche attraverso il pensiero, ma prima ancora una mente artistica vive di immagini. Anche quando scrivo parto da un’immagine, un quadro, una scena che insistentemente prende il volo nella fantasia.

La fantasia è un supporto irrinunciabile senza il quale non si possono fare costruzioni. Osservare un dettaglio, un fiore, un viso o un paesaggio è solo un momento che prende avvio dentro di noi, volendo ricercare il bello, la perfezione, quello è un modo per ricordarci di andarlo a prendere.

Altra passione, la musica ed il pianoforte. Come ti sei accostata ad essa?

La musica è frutto della mia testardaggine. Un giorno, presso una comunità di giovani riuniti per un convegno, ho incontrato una maestra di pianoforte alla quale ho manifestato il mio trasporto per la musica, ma ne parlavo con rammarico reputandomi troppo avanti con l’età per cominciare lo studio del pianoforte: avevo quindici anni. La maestra mi ha fatto una lezione di vita dicendo che “cominciare” non ha età. Le ho creduto e ha avuto ragione.

Ho cominciato su un vecchio pianoforte buttato via dal parroco, in quanto dovevo dimostrare di voler veramente studiare, e poi ho dovuto lottare con i vicini che non gradivano i miei arpeggi, le mie scale, quattro e cinque dita, che erano i miei esercizi quotidiani. Per tre ore non sentivo altro che le note e i miei studi al pianoforte. La mia insegnante, venuta a casa per controllare lo studio sul mio piano, rimase senza parole per come studiassi su un relitto vecchio e scordato. Sono stata premiata dei miei sacrifici con un piano nuovo e uno studio continuo con maestri del Conservatorio.

Che cosa preferisci suonare?

Suono pezzi che mi hanno emozionato anche mentre li studiavo, come le invenzioni a due voci di Bach, e poi sonate di Mozart, valzer di Chopin, diciamo un repertorio più classico. Mi diletto a suonare anche a quattro mani con mia figlia o il mio amico maestro Espedito Longobardi, un vero intenditore ed esperto di musica. All’occorrenza pezzi anche più moderni.

L’incontro con tuo padre, dopo trentacinque anni di lontananza, ti ha permesso di comporre per la prima volta un’opera letteraria, Ritorno nei prati di Avigliano. La scrittura è stata terapeutica o catartica?

Scrivere è un modo per cogliere meglio gli aspetti della vita con un processo lento e di maggiore lettura degli eventi vissuti. Diventa terapeutico quando torna su momenti non proprio piacevoli, li destruttura e li definisce secondo le nostre coordinate; catartico per assurgere poi, con essa, alla purificazione di fatti che nel tempo hanno inquinato il nostro animo fino a farlo stare male. Direi che per me la scrittura ha rappresentato entrambe le cose.

Con Rosella (primo romanzo di Filomena Baratto), hai raccontato luoghi, fatti e persone che hanno accompagnato la vita di tua madre, dall’infanzia fino alla morte. Come sei riuscita a trasmettere sulla carta la densità della tua partecipazione emotiva?

Mi sono posta, questa volta a spettatrice dei fatti lasciando un po’ da parte il mio coinvolgimento personale, anche se non sono sicura di esserci riuscita visto che tra le quinte del romanzo emerge con tutta la sua forza il personaggio di Iolanda. Ci sono fatti che ci portiamo addosso come orme indelebili, che difficilmente andranno via, e ogni volta che il ricordo li fa emergere é veramente impossibile non partecipare emotivamente.

Hai sofferto molto, a livello personale, ma in compenso sei riuscita a tirare fuori una parte artistica, la scrittura, che non eri riuscita ad esprimere in precedenza. Che effetto ti ha fatto?

Nel tempo ho coltivato la mia passione della scrittura riempiendo pagine e pagine di storie, racconti, poesie e diari. Ma questo da solo non basta, è lo studio che completa la scrittura, per quanto essa possa essere un talento in noi, abbiamo bisogno di validi supporti per farla emergere. Penso che in me siano state declinate queste due esperienze parallelamente per poi confluire, oggi, in una passione che si è arricchita di esperienze e conoscenze.

Scrivere non è solo un mero esercizio tecnico, ma un importante veicolo per trasmettere emozioni e sentimenti, e fatti di fantasia di cui si nutrono i lettori . Oggi scrivere è per me una forma di espressione senza la quale non riuscirei a vivere, è lo strumento più bello mai avuto per tradurre la vita intorno.

C’è qualche scrittore/scrittrice a cui Filomena Baratto si ispira, o a cui non rinunceresti mai nella tua libreria?

La mia libreria è ricca di autori di ogni tempo, ognuno mi ha dato tanto, a cominciare dai classici antichi, come autori greci e latini, per finire ai contemporanei. Non riuscirei a privarmi di Pirandello, Virginia Woolf, di Calvino, Mansfield, Fallaci, solo per dire quelli ai quali attingo continuamente. Penso però che la letteratura resti in noi in modo sedimentario per poi essere riutilizzata nei nostri scritti in forme diverse. Il piacere più bello, prima ancora di scrivere, è quello di leggere, e ogni autore aggiunge qualcosa in noi.

Adesso una nuova raccolta di racconti Sotto le stelle d’agosto. Qual è il tema?

E’ una raccolta di racconti nata per caso, scrivendo storie così come le sentivo senza alcuno scopo, solo per il piacere di scriverle, ma poi mi sono resa conto che vertevano tutti sull’amore nelle sue molteplici sfaccettature e attorno all’argomento famiglia, oggi presa un po’ alla larga.

Quali sono i progetti artistici di Filomena Baratto?

Un romanzo, già quasi ultimato, di cui non anticipo nulla, ma che mi ha dato molte emozioni proprio nello scriverlo, e tanti altri progetti in itinere che non fanno altro che alimentare la mia scrittura di momenti importanti e sorprendenti.

http://miosole.blogspot.it • http://www.filomenabaratto.it

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