Augusto Pardo, Autore presso Cultura https://cultura.biografieonline.it/author/augusto-pardo/ Canale del sito Biografieonline.it Fri, 29 Sep 2023 13:36:43 +0000 it-IT hourly 1 Storia dei Bersaglieri https://cultura.biografieonline.it/storia-dei-bersaglieri/ https://cultura.biografieonline.it/storia-dei-bersaglieri/#comments Wed, 29 Dec 2021 11:44:21 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=765 Bersaglieri: breve storia

Quando, nel 1786, il trentaduenne capitano Celestino Ferrero, marchese della Marmora, sposa la sedicenne marchesa Raffaella Argentero di Bersezio, di certo non immagina che da tale unione nasceranno ben 16 figli; e ancor meno immagina che ben quattro di essi conseguiranno il grado di generale delle forze armate e che scolpiranno indelebilmente il nome della famiglia nella storia patria: Carlo Emanuele La Marmora, nato nel 1788, che sarà aiutante di campo di Carlo Alberto; Alberto La Marmora, nato nel 1789, che sarà comandante della Sardegna e poi senatore; Alfonso La Marmora, nato nel 1804, che sarà governatore di Napoli e di Milano, oltre che capo del Governo; e infine Alessandro La Marmora, nato nel 1799, che ha rappresentato una combinazione ottimale tra passione scientifica ed arte militare, con i risultati che vedremo.

Bersaglieri a Porta Pia
La carica dei bersaglieri a Porta Pia 1871, Olio su tela 290×467. Autore: Michele Cammarano (Napoli, Museo di Capodimonte)

Egli trova che, dopo l’esperienza napoleonica, l’esercito piemontese sia infiacchito, più dedito alla cura dell’esteriorità che alla preparazione militare.

Un reparto ben allenato e armato

Avverte l’esigenza di una fanteria leggera composta da reparti addestrati in modo da muoversi con agilità e in ordine sparso lungo i montuosi ed ostici confini del regno; occorrono, insomma, soldati allenati a muoversi sempre e solo al passo di corsa.

Mentre studia il modo migliore per ottenere reparti leggeri e veloci, avvezzi dunque a celeri spostamenti e composti da tiratori scelti, pensa anche ad un fucile adeguato. L’arma deve rispondere a requisiti di:

  • maneggevolezza;
  • leggerezza;
  • versatilità;
  • precisione.

Mette a punto egli stesso, in officine improvvisate, alcuni pezzi e prototipi.

Finalmente, nel 1835, il capitano La Marmora predispone e presenta al re Carlo Alberto il frutto dei suoi studi, sotto forma di

Proposizione per la formazione di una compagnia di Bersaglieri e modello di uno schioppo per suo uso.

La nascita del corpo dei Bersaglieri

Confortato dal parere del ministero preposto, il quale ha prodotto una relazione nella quale evidenzia l’opportunità della istituzione di un corpo di bersaglieri con il compito di:

compiere guerra minuta, avanguardia o esplorazione, fiancheggiamento, infestare le comunicazioni e i convogli nemici, andare per siti montuosi alla scoperta di facili piste anche sul confine

il 18 giugno 1836 il re istituisce formalmente il Corpo dei Bersaglieri.

Pone al comando il maggiore dei granatieri Alessandro La Marmora. Egli, qualche anno dopo, sarà promosso a luogotenente colonnello in un crescendo che lo porterà fino al grado di generale.

Il nuovo Corpo, che inizialmente si compone di uno stato maggiore e due compagnie, nel 1839 è costituito da un intero battaglione.

Negli anni 1848-49 i battaglioni diventano prima due, poi cinque e poi otto. Nel 1850 sono nove, nel 1852 dodici, poi 16, fino alla sua massima formazione, cioè 27 battaglioni negli anni 1859-60.

Le prime azioni

Il primo impiego in combattimento avviene l’8 aprile del 1848, a Goito. Già in questa occasione il comandante La Marmora dà dimostrazione dell’audacia dei suoi bersaglieri che riescono ad aver ragione del nemico. Lo stesso La Marmora rimane seriamente ferito ad una mandibola; ma il sacrificio è poca cosa rispetto alla grande soddisfazione ricevuta dai suoi uomini.

Da quel momento i bersaglieri diverranno parte caratterizzante dell’esercito piemontese e, successivamente, di quello italiano.

La guerra di Crimea offre nuovamente ai bersaglieri occasione di porsi in evidenza: la partecipazione del Piemonte alle ostilità, al fianco di Francia e Regno Unito, contro la Russia, vede l’impiego di un Corpo di Spedizione al comando del generale Alfonso La Marmora. Egli, a sua volta, offre il comando della 2ª Divisione, comprendente 5 battaglioni di bersaglieri, al fratello Alessandro il quale si imbarca con i suoi uomini il 5 maggio 1855.

Qualche mese dopo scoppia fra le truppe un’epidemia di colera. Se a fine conflitto le perdite sul campo ammonteranno a 26 soldati e 13 ufficiali, quelle causate dalla malattia saranno di 1288 soldati e 54 ufficiali tra i quali, purtroppo, si annovera anche il generale Alessandro La Marmora. Egli si spegne nella notte fra il 6 ed il 7 giugno 1855.

Alessandro La Marmora
Alessandro La Marmora

Ma il Corpo da lui creato è ormai in grado di camminare con le proprie gambe. Anche in questo caso, infatti, i Bersaglieri sanno distinguersi dando un prezioso contributo per il conseguimento della vittoria nella battaglia della Cernaia, il successivo 16 agosto.

Toccante rimane il ricordo del giovane tenente dei bersaglieri Carlo Prevignano il quale, colpito a morte, trova la forza di urlare ai suoi compagni parole di esortazione ed incoraggiamento a non mollare.

Seguiranno poi le battaglie della seconda guerra di indipendenza italiana, da quella di Palestro e del Vinzaglio del 30 e 31 maggio 1859, di Magenta del 4 giugno fino a quella conclusiva di San Martino, il 24 giugno 1859.

Nel XX secolo

Dopo mezzo secolo i bersaglieri sono nuovamente impiegati nel conflitto in Libia, nel 1911-12 e, subito dopo, nel primo conflitto mondiale (Monfalcone, Bainsizza, Iamiano, Piave, Vittorio Veneto), nell’ambito del quale hanno scritto pagine indelebili di eroismo e di gloria.

Nella seconda guerra mondiale vengono impiegati ben 12 reggimenti di bersaglieri che combattono su tutti i fronti.

Prendono parte, infine, alla guerra di Liberazione con il 29°, 32° e 51° battaglione.

Sempre ed ovunque si sono distinti per audacia e valore, anche se “i bersaglieri di La Marmora”, come vennero detti alla nascita del corpo, rimangono il simbolo dell’epopea risorgimentale. Però ancora oggi, con tutte le riserve che le coscienze hanno maturato nei confronti delle armi e della guerra, quando in una parata si approssimano quei soldati che avanzano correndo con le piume dei loro cappelli al vento, con alla testa una dozzina di trombettieri che, nonostante la corsa, riescono a dare fiato ai loro strumenti, è difficile non farsi cogliere da un brivido di commozione.

Vanno rapidi e leggeri quando sfilano in drappello, quando il vento sul cappello fa le piume svolazzar.

(dalla canzone “Flik Flok”).

Fanfara dei Bersaglieri
La fanfara dei Bersaglieri in una manifestazione cittadina

Oggi i bersaglieri sono nella fanteria meccanizzata e vengono impiegati in supporto alle unità corazzate.

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Storia della Maserati https://cultura.biografieonline.it/maserati-storia/ https://cultura.biografieonline.it/maserati-storia/#comments Sat, 19 Oct 2013 10:52:43 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8009 La gloriosa tradizione italiana (e, in particolare, emiliana) nel settore delle auto di lusso e da competizione conta ormai un secolo di vita. Essa affonda le proprie radici nel lontano 1914: quando Enzo Ferrari ha appena 16 anni e Ferruccio Lamborghini non è ancora nato, Alfieri Maserati, già collaudatore della Isotta Fraschini – altra prestigiosissima casa automobilistica italiana che, però, è rappresentativa di una fase, diremmo, più arcaica – fonda a Bologna la “Società Anonima Officine Alfieri Maserati”.

Il logo della Maserati
Maserati: il famoso logo

Carlo Maserati

Iniziatore della tradizione di famiglia nel mondo dei motori è Carlo Maserati. E’ nato nel 1887, quartogenito dei sette figli di Rodolfo Maserati, macchinista nelle Ferrovie, e Carolina Losi, entrambi di Voghera.

Ideatore di un motore per biciclette, gareggia egli stesso su velocipedi della fabbrica Carcano, dove lavora come tecnico, registrando importanti successi. Passa poi alla Fiat e, nel 1903, alla Isotta Fraschini – come collaudatore ed esperto di meccanica. Chiama con sé, poco dopo, suo fratello Alfieri. La sua carriera agonistica prosegue con la Bianchi, per poi assumere la direzione generale della torinese Junior. Fino ad avviare una propria attività di produzione di parti elettriche per auto. La sua vita, però, si interrompe prematuramente nel 1916, ad appena 29 anni.

Alfieri Maserati

Alfieri, intanto, che nella Isotta Fraschini ha seguito le orme di Carlo, come tecnico e corridore, facendosi apprezzare per le sue doti fino ad assurgere a ruoli dirigenziali, nel 1914 – proprio come il fratello – dà vita, nel capoluogo emiliano, alla sua società, coinvolgendo altresì alcuni degli altri suoi fratelli. Le “Officine Maserati” lavorano inizialmente per le vetture della Isotta Fraschini, a bordo delle quali Alfieri vince diverse corse.

Il prestigio e la notorietà acquisiti destano l’interesse dei fratelli Diatto, anch’essi produttori torinesi di auto sportive di alto segmento. Essi lo chiamano a progettare e pilotare le loro vetture. Anche qui Alfieri si distingue per abilità e competenza. Un incidente di percorso (partecipa ad una gara con un motore non regolamentare), gli costa però cinque anni di squalifica.

La penalizzazione, che porta con sé un pesante fardello di mortificazione e frustrazione, si rivela invece provvidenziale. Gli offre un lungo periodo di riflessione alla fine del quale Alfieri si ritrova con idee molto chiare per il suo futuro. Le “Officine Maserati” produrranno auto proprie sotto il simbolo del Tridente. Il marchio viene scelto pensando alla fontana di piazza Nettuno, a Bologna, raffigurante l’omonimo dio delle acque.

Il simbolo del tridente Maserati
Maserati: il simbolo del tridente

Nasce il mito “Maserati”

La prima auto nasce nel 1925, ed è subito un trionfo. Pilotata dallo stesso Alfieri, la “Tipo 26” si aggiudica la spericolata “Targa Florio”. Due anni dopo la “Tipo 26B” vince il Campionato Internazionale Marche. Nel 1929 viene stabilito il record mondiale di velocità con la “V4”. Il Tridente della Maserati ha ormai conquistato i cuori degli sportivi e degli appassionati di auto in tutto il mondo. La “V4” vince anche il GP di Tripoli, nel 1930.

Oramai lanciata nel blasonato e lussuoso firmamento dell’automobilismo sportivo, Alfieri progetta e realizza altri due bolidi, la “4CTR” e la “8C 2500”, prima del 1932, anno in cui, in seguito ad un tragico incidente stradale, si spegne anch’egli, il 3 di marzo, all’età di 47 anni.

Ma i fratelli Ernesto, Ettore e Bindo, animati dalla stessa carica di determinazione e di entusiasmo, caratteristiche di famiglia, non si lasciano scoraggiare. Dopo un primo momento di ovvio dolore e disorientamento, prendono in mano le redini della casa automobilistica decisi a perpetuarne lo stile, la tecnologia ed il successo.

Nel 1933 arruolano il pilota Tazio Nuvolari, che vince ben tre GP, in Belgio, in Montenero e a Nizza. Seguono ancora due vittorie, nel 1939 e 1940, ad Indianapolis, prima della pausa forzata a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

L’Italia dei motori

Gli anni successivi alla guerra vedono l’Italia primeggiare, a livello mondiale, nel campo delle automobili: su strada o su pista, l’industria italiana propone vere perle di eleganza, efficienza, potenza, dalle “Lancia” alle “Alfa Romeo” (la casa vincitrice del primo GP di Formula 1), dalle “Ferrari” (che vincono il secondo GP e si aggiudicano poi una serie innumerevole di vittorie in F1 e in altre competizioni) alle “Lamborghini”, e con nomi altisonanti nel settore del desing: l’argentino De Tomaso, che in Italia avvia e sviluppa la sua brillante carriera; le carrozzerie Pinin Farina e Bertone, la Italdesign di Giorgetto Giugiaro.

In tutto questo la Maserati, che nel 1937 era stata ceduta ad Adolfo Orsi – l’imprenditore bolognese che avrà un ruolo determinante nella decisione di Enzo Ferrari di dedicarsi alla produzione di auto – conserva una posizione di primissimo piano. I vecchi proprietari, che sono rimasti nell’azienda come curatori del settore tecnico, continuano a dare il proprio prezioso contributo.

Grazie anche a piloti formidabili come Fangio, Gonzalez, Marimon, Bonetto, de Graffenried, la Squadra Corse Maserati consegue una lunga serie di successi, fra i quali il Gran Premio di Modena del 1951, il GP d’Italia del 1953, il GP di Argentina del 1954, fino al titolo iridato in F1, nel campionato 1957.

L’addio alle competizioni

Grande deve essere stata la frustrazione per la dirigenza della casa bolognese (da qualche anno trasferitasi a Modena) quando, subito dopo aver conseguito il titolo più ambito, si vede costretta ad annunciare il ritiro dalle competizioni per i costi ormai divenuti insostenibili. Pur continuando a progettare e costruire eccellenti motori per altri marchi – in particolare per la Cooper – la Maserati punta ormai alla produzione di auto sportive di gran lusso e di grande successo.

Gli anni delle trepidazioni

Con i modelli “3500 GT”, “Sebring”, “Mistral” fino alla “Quattroporte”, prima berlina di alta classe, seguita dalla leggendaria “Ghibli”, e grazie allo stile unico, alla efficienza ed alla potenza, Maserati si afferma sul mercato internazionale inserendosi a pieno titolo fra le case di più alto prestigio.

Nonostante ciò, alla fine degli anni ‘60 inizia un periodo turbolento che la vede passare di mano in mano. Nel 1968 la famiglia Orsi cede l’industria alla Citroen. Nel 1975 la proprietà passa alla Benelli fino al 1993, quando viene acquisita da FIAT Auto. Fra il 1997 ed il 1999 passa alla Ferrari per tornare alla FIAT nel 2005.

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Tanto scombussolamento, che farebbe pensare ad una crisi continua ed irreversibile, non influisce invece sulle capacità del Tridente di continuare a dare il meglio di sé: con la Citroen sforna la “Merak”, la “Khamsin”, i prototipi della “Quattroporte II”, carrozzata da Bertone, e la “Merak SS”, tutte auto di eccezionale livello le cui vendite sono frustrate soltanto dalla crisi petrolifera degli anni ’70. Con la Benelli, che ne ha affidato l’amministrazione a De Tomaso, vengono prodotte la “Kyalami” e la “Quattroporte III”, disegnata da Giugiaro, grazie alle quali le vendite riprendono a salire, nonostante la crisi. Segue la Biturbo che riscontra una tale affermazione da indurre la casa a produrne alcune decine di versioni. Anche la “Quattroporte” messa in cantiere da FIAT Auto e disegnata da Marcello Gandini ottiene grande riscontro sul mercato.

Maserati oggi

Gli anni Duemila si aprono all’insegna dell’ottimismo, in un crescendo continuo le cui tappe sono segnate dalla “3200GT”, a firma Giugiaro, e dalla “Quattroporte Evoluzione”, in produzione già dal 1998. Seguono la “Spyder” e la “Coupé”, veri gioielli di ricercatezza e tecnologia. Ma la vera spinta per il rilancio viene dalla nuova versione della “Quattroporte”. Essa si afferma sui mercati internazionali collocandosi fra le berline più premiate ed apprezzate.

Una foto della Maserati Gran Cabrio 2007
Maserati Gran Cabrio

Con il ritorno alla FIAT, nel 2005, la Maserati raggiunge l’apice del successo. Dopo le buone performance di vari nuovi modelli, il varo della “GT” rappresenta, nel 2007, una vera esplosione di consenso ed entusiasmo intorno al simbolo del Tridente, il quale viene ormai affiancato ai più prestigiosi ed esclusivi marchi automobilistici internazionali.

Con il lancio della “Gran Cabrio”, nel 2007, la casa di Modena scrive un’altra memorabile pagina nella storia dell’automobilismo sportivo e di lusso. Conferma ed ulteriormente accresce la propria fama. Ma questi sono anche gli anni del ritorno alle competizioni – pur se non nelle gare di massimo livello. Si conquistano nuovi trofei, tra i quali ben 12 nei Campionati Mondiali FIA GT.

Maserati Coupè
Maserati Coupé

Il Museo delle Maserati

Delle 40 automobili che compongono la collezione di auto storiche della famiglia Panini, a Modena, ben 23 recano il marchio Maserati. In un excursus storico davvero emozionante che, prendendo le mosse dal 1936, con la “Tipo 6 CM”, attraversa i decenni con i modelli di maggior prestigio. Come la “Tipo A6GCS Berlinetta Pinin Farina”, del 1953. La “A6G/54”, costruita nel 1954 e carrozzata da Alemanno. La “3500 GT Carrozzeria Touring”, del 1957. La “420M/58 Eldorado”, costruita in un solo esemplare per la 500 Miglia di Monza del 1958. Dino alla “Khamsin”, a firma Bertone, del 1972. Oltre ad alcuni prototipi rimasti tali perché non ne fu mai avviata la produzione.

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La cattedrale di Chartres: architettura e misteri https://cultura.biografieonline.it/cattedrale-di-chartres/ https://cultura.biografieonline.it/cattedrale-di-chartres/#comments Mon, 14 Oct 2013 15:29:12 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7981 I numeContrariamente a quanto il nostro immaginario di italiani potrebbe suggerire, fra i più grandi motivi d’orgoglio per un francese – prima ancora della Torre Eiffel o del Museo del Louvre – vi è la Cattedrale di Chartres. Vero fiore all’occhiello per gli abitanti d’Oltralpe, l’antico edificio rappresenta infatti un capolavoro di architettura che, situata a circa 90 chilometri a sud-ovest di Parigi, nella città di Chartres, è la più alta rappresentazione dell’arte e della religiosità nazionale.

Interno della Cattedrale di Chartres
La Cattedrale di Chartres, una foto dell’interno

La storia

Nel lontano 1194 un devastante incendio distrusse il santuario mariano in stile romanico – intitolato a Notre Dame e voluta, nel 1020, dal vescovo Fulberto, autorevole figura di intellettuale cattolico – che sorge su quello che rimane di precedenti edifici dedicati prima al culto pagano e poi a quello cristiano. Il rogo potrebbe oggi definirsi provvidenziale perché, dalle sue rovine, si avvieranno i lavori di ricostruzione che consegneranno, alla Francia e al mondo intero, una meraviglia che ancora oggi rifulge per la perfezione dello stile gotico, rappresentato in tutte le sue fasi storiche.

La Cattedrale Notre-Dame de Chartres si contraddistingue per la suggestiva atmosfera di sacralità che la circonda e che la rende meta di continui pellegrinaggi, per l’avvincente alone di mistero che la avvolge e che ha destato, nel corso dei secoli ed ancora oggi, la curiosità e l’interesse di studiosi di ogni disciplina, dagli storici agli architetti, dai matematici agli esperti di arte, dagli astronomi ai filosofi, dai teologi fino agli esoteristi ed occultisti.

I lavori di costruzione dell’imponente complesso edilizio si conclusero nel 1345, anche se ancora nel 1513 si lavorò alla ricostruzione della torre “Clocher Neuf”, distrutta da un incendio.

La sacralità

Alcune statue esterne della Cattedrale di Chartres
La Cattedrale di Chartres: statue esterne

Il culto della vergine, a Chartres, pare esistere prima ancora della nascita di Cristo. Secondo la leggenda i Druidi, classe sacerdotale dei Celti, dopo la visione di una vergine nell’atto di partorire un bimbo, scolpiscono nel legno la figura di una donna con un bambino che depositano in un dolmen. Annerita dal tempo, la scultura verrà chiamata “la Vergine nera”, e la sua nicchia diverrà “la grotta dei Druidi”. La religione cristiana, iniziata la sua diffusione, trovò in questo luogo il culto della Madonna misteriosamente già vivo e consolidato, e lo perpetuò conferendo al sito ed alla statua lignea connotazione divina.

Intorno alla grotta nacque la prima chiesa e, nell’876, l’imperatore del Sacro Romano Impero Carlo il Calvo, venuto in possesso di un tessuto di seta proveniente da Costantinopoli e fatto risalire ad un indumento indossato da Maria nel momento dell’Annunciazione, ne fece dono alla Cattedrale. La presenza della reliquia ne consolidò ulteriormente e definitivamente il carattere sacro, dando inizio a pellegrinaggi che non hanno mai conosciuto interruzione nella storia.

Una preziosa opera d’arte d’ispirazione religiosa – fra le numerosissime che ornano il luogo di culto – è il Labirinto, realizzato nel XIII secolo nel pavimento della navata: con un percorso di oltre 260 metri, dalla periferia fino al centro, sta a simboleggiare il cammino interiore di fede verso la Rivelazione del mistero divino.

La cattedrale di Chartres: architettura e arte

Nel più rigoroso rispetto dello stile gotico, con i suoi nove portali scolpiti, i 181 dipinti della Vergine, le oltre 3500 statue, il tutto a rappresentare ben 9000 personaggi, Notre Dame di Chartres ripercorre l’intera narrazione della Bibbia, confermando l’illuminata definizione dell’alchimista Fulcanelli – riferita alle cattedrali gotiche in generale – di “libri di pietra”.

Il gotico, infatti, che ha eliminato le ampie superfici murarie dell’arte romanica sacrificando spazi tradizionalmente riservati alle decorazioni pittoriche, ha tuttavia trasferito la pittura sulle ampie e numerosissime vetrate. E la cattedrale di Chartres è seconda soltanto all’Abbazia di Saint Denis quanto a grandiosità della nuova espressione artistica – del tutto francese – delle vetrate colorate e dipinte che si incastonano perfettamente nella imponente – ma altrettanto leggera – architettura ogivale.

Il blu di Chartres

In Notre Dame sono ben 2600 i metri quadri occupati dalle 176 finestre, uno spettacolo unico caratterizzato dall’esclusivo, irripetibile “blu di Chartres”.

Dall’austerità esteriore della costruzione, più sobria e solenne, alla delicatezza delle simmetrie interne, dove lo stile si evolve in morbide forme e tenui giochi di luce dei finissimi rosoni, degli archetti e delle guglie, si crea un insieme che trasmette all’osservatore una sensazione di grazia, di appagamento dei sensi, in un religioso silenzio sottolineato soltanto dallo sciabordio tranquillo delle acque del fiume Eure, che scorre nei pressi.

 

Il rosone del lato nord presente nella Cattedrale di Chartres
Il rosone del lato Nord

Il più grande coro di Francia, arricchito dalle duecento statue dello scultore Jehan de Beauce; il Portale Reale incorniciato dalle due torri ed inserito nella facciata principale, ornata da 19 imponenti statue – delle 24 originarie – e da più di 300 figure; la torre sud, la cui grandiosa bellezza ha ispirato scrittori ed artisti; l’immensa cripta esterna, che ospita la Notre Dame de Sous Terre e che, per le sue dimensioni, non trova uguali in tutta la Francia; la singolarità della pietra rettangolare, posta nella navata laterale sinistra, che ogni anno, a mezzogiorno del 21 giugno, viene illuminata da un raggio solare; l’antichissimo organo a canne; gli stupendi, numerosi rosoni in vetro, e l’insieme delle opere scultoree e pittoriche fanno della cattedrale di Chartres il più strabiliante edificio sacro della Cristianità.

I misteri

La Cattedrale di Chartres: la facciata
La facciata della Cattedrale

Se la religiosità abbinata all’arte e all’architettura fanno della cattedrale di Chartres un sito di altissimo pregio e prestigio, quello che le conferisce motivo di interesse davvero universale è il fascino del mistero.

Se tantissimi studiosi ne sono stati e ne sono tuttora attratti, è perché dalla sua osservazione scaturiscono domande alle quali, ancora oggi, non c’è risposta, a cominciare dalla sua stessa collocazione geografica.

I templari

Di ritorno dalla Terra Santa, infatti, i cavalieri Templari avviano, in Francia, la costruzione di una serie di cattedrali in uno stile nuovo e affascinante, il Gotico, e tutte dedicate alla Vergine. Nascono così, nell’ordine, Sens, Evreux, Rouen, Reims, Amiens, Bayeux, Parigi e infine Chartres. Ma l’aspetto stupefacente è che ognuna di esse rappresenta una stella della costellazione della Virgo o Vergine – riservando a Chartres la più importante, Spica – e che, nel loro insieme, riproducono esattamente il disegno della costellazione stessa, rispettandone la forma e le distanze. Dove trassero i Templari le conoscenze astronomiche ed ingegneristiche necessarie ad una simile impresa, visto che siamo appena intorno all’anno Mille?

Le proporzioni e la geografia

Lo stesso interrogativo ritorna con prepotenza di fronte alle tantissime, sorprendenti quanto inspiegabili relazioni matematiche fra le sue misure ed alcune grandezze proprie dell’astronomia.

Altro mistero è rappresentato dall’area in cui sorge l’edificio, considerata punto nevralgico per i flussi magnetici della Terra, fenomeno che determinerebbe nell’uomo momenti di ebbrezza mistica, conducendolo ad esperienze di elevazioni spirituali e conoscenze della condizione dell’anima dopo la morte.

I misteri della Cattedrale di Chartres
La Cattedrale di Chartres nasconde diversi misteri

Simboli alchemici

L’interno della cattedrale, inoltre, riflette l’enigmatica storia dei Custodi del Tempio, con la sua arcana simbologia esoterica, magica e perfino satanica: secondo alcuni l’insieme di quei simboli rappresenterebbe addirittura un vademecum alchemico comprensibile soltanto a pochi esperti di cabala e occultismo.

E come è stato possibile costruire l’edificio facendo in modo che ogni anno, nel solstizio d’estate, un determinato punto del pavimento venga colpito da un raggio di sole?

E, ancora, come spiegare che, molto prima della venuta di Cristo e, quindi, della conoscenza della religione cristiana, in quel luogo si adorasse già la figura di una Vergine?

Ma l’apice, il mistero dei misteri, risiede nella convinzione – da parte di molti ed autorevoli personaggi – che la cattedrale di Chartres custodisca – sempre per volere dei suoi costruttori, i Templari – l’Arca dell’Alleanza, lo stesso scrigno, cioè, che Dio consegnò a Mosè sul monte Sinai e che serbava le bibliche Tavole della Legge.

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L’araba fenice https://cultura.biografieonline.it/araba-fenice/ https://cultura.biografieonline.it/araba-fenice/#comments Sat, 12 Oct 2013 17:42:12 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7961 Per gli antichi egiziani, devoti a Ra, il dio Sole, esisteva un uccello sacro, la fenice, simile ad un airone ed originario dell’Etiopia, la cui vita durava 500 anni. Alla fine della sua esistenza, l’uccello si poneva alla ricerca di erbe aromatiche con le quali costruire un nido che, ultimato, sarebbe divenuto un rogo dal quale lasciarsi avvolgere e morire. Dalle sue ceneri nasceva una nuova fenice che volava al tempio del Sole, nella città di Eliopoli, in Egitto, per riceverne la consacrazione e tornare in Etiopia per iniziare la sua lunga esistenza. Di seguito una foto simbolica dell’araba fenice.

Immagine dell'araba fenice
Un’illustrazione rapprsentante l’araba fenice che risorge dalle proprie ceneri

La più antica tradizione lo vedrebbe innalzarsi dalle acque, in stretta similitudine con il sorgere (ed il tramontare) del sole. Gli egizi le dedicano ben quattro fra le più importanti piramidi, da quella di Cheope, a Giza, “dove il sole sorge e tramonta”, alle altre ad Abusir: quelle di Sahure, “splendente come lo spirito-Fenice”; di Neferikare, “dello spirito Fenice” e di Reneferef, “divina come lo spirito Fenice“.

La potenza evocativa del concetto morte-resurrezione o, se si vuole, di morte come fonte di vita, come forza rigenerante, comune a molte culture e religioni, ha fatto sì che la fenice affascinasse, contaminandole, tutte le civiltà che si sono succedute a partire da quella egiziana. Si trova una prima traccia della fenice nell’VIII secolo a.C., nell’ermetico frammento 50 del poeta greco Esiodo (dalla traduzione del 1929 di Ettore Romagnoli):

Di nove uomini forti così la ciarliera cornacchia
vive la vita; il cervo di quattro cornacchie, e il corvo
diventa vecchio quanto tre cervi. La fenice, poi, vive
per nove corvi; per dieci fenici viviamo noi Ninfe,
ricciole belle, figlie di Giove dell’egida sire.

Ne torna a parlare, nel V secolo a.C., Erodoto, greco anch’egli e storico, di Alicarnasso, che pare attingere dal logografo Ecateo di Mileto, il quale la fa giungere dall’Arabia ed al quale si deve, pertanto, la denominazione di “Araba Fenice”:

Un altro uccello sacro era la Fenice. Non l’ho mai vista coi miei occhi, se non in un dipinto, poiché è molto rara e visita questo paese (così dicono ad Heliopolis) soltanto a intervalli di 500 anni: accompagnata da un volo di tortore, giunge dall’Arabia in occasione della morte del suo genitore, portando con sé i resti del corpo del padre imbalsamati in un uovo di mirra, per depositarlo sull’altare del dio del Sole e bruciarli. Parte del suo piumaggio è color oro brillante, e parte rosso-regale . E per forma e dimensioni assomiglia più o meno ad un’aquila…”.

L’araba fenice nella cultura

Nella cultura romana la Fenice esordisce e penetra, come simbolo di immortalità, attraverso Ovidio, (“Le metamorfosi”), seguito da Marziale, Plinio il Vecchio e Tacito, lasciando testimonianza di sé in molti antichi mosaici e sulle monete coniate dall’imperatore Adriano, quale emblema di grandiosa ed immortale potenza. Ultimo rappresentante della cultura latina ad occuparsene è Claudiano, originario di Alessandria d’Egitto, nel IV secolo a.C.

Anche la cultura ebraica rimane suggestionata dalla fenice al punto da riservarle un ruolo nel racconto della stessa genesi dell’umanità: Eva, dopo essere stata scacciata dall’Eden e trasformata in comune mortale, fa in modo che tutti gli animali colgano a loro volta il frutto proibito e condividano, pertanto, la sua stessa sorte. Soltanto Milcham (questo il nome ebraico della fenice) non cede alla tentazione guadagnandosi così il favore divino con una vita lunghissima (in questo caso di mille anni) e la rigenerazione dalle proprie ceneri.

Il cristianesimo, a sua volta, fa propria la sua figura facendola assurgere ad allegoria di Cristo e della resurrezione, a simbolo protocristiano di immortalità attraverso la morte e la nuova vita che ne segue. I primi scritti di autori cristiani che ne testimoniano l’influenza sono il “De carnis resurrectione” di Tertulliano e il “De ave phoenice”, attribuito a Lattanzio.
Ritroviamo ancora la fenice persino nella “Divina Commedia”, dove Dante – ispirandosi proprio a Ovidio – la colloca in un passo dell’Inferno (Inf. XXIV 106-111):

Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;
erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce.

Ma il mitico uccello ha influenzato un po’ tutte le antiche civiltà nel mondo, attraversando i continenti dall’Africa all’Europa, dall’Asia alle Americhe, mutando il nome e qualche sfumatura nella leggenda, ma continuando a perpetuare, sempre e dovunque, il sogno di immortalità dell’uomo con il concetto stesso della vita che non finisce ma che, nella morte, si purifica per ricominciare. La sua apoteosi è nella tradizione alchemica che la identifica con la stessa, mitica, pietra filosofale.

La fenice come musa

Fra le muse ispiratrici di artisti e letterati di tutti i tempi, l’araba fenice è stata certamente fra le più feconde: ne parla Giordano Bruno, che la definisce “Unico augel del sol”; per Torquato Tasso è “immortal, innocente, unico augello, che della morte sua rinasce e vive”; William Shakespeare le dedica il piccolo poema “La Fenice e la tortora”; Baudelaire la evoca nei suoi “Fiori del male”. Straordinaria è la sintesi di Pietro Metastasio il quale, nell’esprimere lo scetticismo moderno nei confronti dell’Araba Fenice (parlando dell’infedeltà in amore), scrive: “E’ la fede degli amanti/ come l’araba Fenice,/ che vi sia ciascun lo dice,/ dove sia nessun lo sa”.

Pietro Metastasio
Pietro Metastasio

Questi versi del sacerdote-poeta romano, vissuto nel 1700, sono divenuti felicemente proverbiali e sono ancora oggi in uso nella nostra lingua: si parla, infatti, di “araba fenice” quando ci si vuol riferire a soggetti che tutti citano ma che nessuno ha mai visto.

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Il Proibizionismo https://cultura.biografieonline.it/proibizionismo/ https://cultura.biografieonline.it/proibizionismo/#comments Sat, 05 Jan 2013 00:17:57 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=5805 Sotto la Presidenza del Democratico Thomas Woodrow Wilson, il 28 ottobre 1919 viene ratificato il XVIII emendamento, con il quale gli USA bandiscono l’alcool vietandone categoricamente fabbricazione, vendita, trasporto ed importazione. Il “nobile esperimento”, come viene definito, dà avvio al Proibizionismo.

Una manifestazione di protesta contro il Proibizionismo
Proibizionismo: una manifestazione di protesta

Nel 1914 gli Usa già rappresentano la maggiore potenza economica mondiale e si apprestano ormai a sostituire la sfiancata Europa nel ruolo di faro irradiatore di cultura, scienza ed economia. La prima guerra mondiale si rivela per essi l’affare del secolo: le precarie condizioni economiche dei Paesi europei dell’Intesa (soprattutto Inghilterra, Francia e Italia) ne determinano un indebitamento complessivo di oltre diecimila milioni di dollari verso la potenza d’oltreoceano, somma che, per giunta, fa in gran parte ritorno nel Paese d’origine per pagare le ingenti forniture belliche con annesse tecnologie.

Questo, insieme ad una intelligente politica economica americana che, finita la guerra, sa trasformarsi e dedicarsi ad una produzione industriale “di pace” (edilizia privata, automobili, radiofonia ed elettrodomestici) dà vita ad una esplosione del prodotto nazionale lordo e del reddito pro-capite. Il boom economico arriva improvviso ed inatteso e, insieme agli indiscutibili benefici, porta con sé insani desideri di trasgressione ed euforia. Lo smodato incremento del consumo di alcool, che investe tanto le fasce benestanti della popolazione quanto le masse di diseredati composte dai neri e dai bianchi del sud, diviene presto un fenomeno dilagante e preoccupante.

Riacquistano voce piccole organizzazioni a sfondo moralistico o religioso – come la “American society for the promotion of temperance”, il “Prohibition Party” o la “Anti-Saloon League” – che da decenni predicano il rigore dei costumi, e la battaglia contro l’alcolismo diviene bandiera di un movimento di opinione sempre più vasto e ineludibile, che giunge ad annoverare nomi altisonanti quali quelli di Henry Ford e John D. Rockefeller.

Una data storica

Il XVIII emendamento, detto “Volstead Act”, che sancisce l’inizio del Proibizionismo entra definitivamente in vigore il 16 gennaio 1920, una data che rimarrà incisa nella storia americana non tanto per l’evento che la richiama quanto per gli sconvolgenti effetti che lo stesso determinerà nei decenni a venire.

Il provvedimento legislativo è accompagnato, infatti, dalle migliori intenzioni e tende a sanare una pessima piega che la società americana va assumendo: donne che manifestano pubblicamente la propria rabbia per i maltrattamenti ormai quotidiani da parte di mariti ubriachi (in una fase, peraltro, in cui il ruolo della donna americana è in forte ascesa); etilismo fra i giovani; violenza per le strade; crollo dei rendimenti sul lavoro e, quindi, della produttività.

Quello che non viene compreso dalla classe dirigente è che un atteggiamento proibizionistico in una società ricca e libera non può che sortire un effetto contrario a quello desiderato, e che sarebbe stato molto meglio lanciare una campagna educativa sul rapporto con l’alcool insieme a misure restrittive, piuttosto che bandirlo. L’effetto che ne sortisce, infatti, è quello di determinare una reazione negativa in buona parte della popolazione che, per procacciarsi  birra e whisky, non esita a rivolgersi al contrabbando.

La malavita, vissuta fino a quel momento in una nicchia fisiologica, coglie al volo l’opportunità di impadronirsi di un intero settore industriale e commerciale: fioriscono distillerie clandestine in tutta la nazione parallelamente all’importazione illecita di bevande alcoliche, e le grandi città registrano l’apertura di migliaia di locali, gli “speakeasy” che, sfidando o eludendo i divieti, servono regolarmente birra e liquori di pessima qualità traendone profitti altissimi. Il rigoglio della criminalità promuove il fenomeno del gangsterismo, e le guerre fra clan per il controllo del mercato dell’alcool provocano quotidianamente violenza e morte per le strade.

I “ruggenti anni venti”

La grande ondata di vitalità determinata dal diffuso benessere porterà a definire il decennio successivo alla Grande Guerra come il “Roaring Twenties”, “I ruggenti anni venti”, espressione che sintetizza molto bene – tanto in positivo quanto in negativo – l’esaltazione vissuta dalla società americana.

Insieme ad importanti conquiste sociali è grande il fermento culturale: fioriscono le lettere con autori del calibro di Ernest Hemingway, Ezra Pound, Francis Scott Fitzgerald; nella pittura emergono, tra gli altri,  Edward Hopper, Thomas Hart Benton, Georgia O’Keeffe; sorgono le prime case cinematografiche e a Los Angeles, in California, nasce Hollywood, ma è soprattutto nella musica che deflagra una vera rivoluzione culturale. Si affermano nuovi generi musicali come il ragtime, il blues e, soprattutto, il jazz.

Espressione della cultura dei neri d’Africa giunti in America come schiavi e poi emancipati, il nuovo linguaggio musicale varca in questi anni i confini dei quartieri poveri per irrompere prepotentemente nell’intera società americana e nel mondo, avviando così la “Jazz Age”. Pionieri indimenticati di questa avventura rimangono – per citarne soltanto alcuni – Louis Armstrong, Duke Ellington, Fletcher Henderson, Elizabeth “Bessie” Smith, Coleman Hawkins, Porter Granger, Scott Joplin, Billie Holiday, Benny Noton.

Ma il “Roaring Twenties” si caratterizza anche per l’isolazionismo economico americano, per l’acuirsi di sentimenti xenofobi e per un generalizzato degrado sociale. La malavita che, grazie al proibizionismo, compie un esorbitante salto di qualità, giunge a condizionare pesantemente la vita nelle grandi città americane, ed alcuni fra i suoi capi assurgono ad una notorietà che affianca quella dei maggiori personaggi del mondo artistico e culturale. Fra tutti assume carattere addirittura leggendario la figura di Al Capone.

Al Capone

Al Capone
Al Capone

Nato a Brooklyn nel 1899 da genitori immigrati dall’Italia, Al Capone (Alphonse Gabriel Capone) si dedica sin da ragazzino ad attività di piccola criminalità, distinguendosi per crudeltà ed astuzia. All’età di vent’anni ha già al suo attivo due omicidi, oltre ad una serie di altri reati, tanto che il capo della sua banda, Frankie Yale, decide di trasferirlo a Chicago. Qui entra nel clan di un altro boss, Johnny Torrio che, qualche tempo dopo, gli affida le redini dell’organizzazione.

Si lancia subito nel contrabbando dell’alcool, riuscendo a trarne una vera fortuna economica e divenendone, grazie alla sua spietatezza, ad una campagna di corruzione ed alla speciale abilità nella gestione finanziaria, capo indiscusso e temutissimo. Ne fa le spese la gang rivale di Bugs Muran, sterminata dagli uomini di Al Capone nella “Strage di San Valentino”, il 14 febbraio 1929. La potenza del boss italo-americano continua a crescere fino a quando, non riuscendo ad accusarlo di alcun delitto, gli agenti federali riescono ad arrestarlo per evasione fiscale, ponendo così fine alla sua carriera.

La fine del Proibizioismo

Quando, nel 1932, Franklin Delano Roosevelt viene eletto Presidente degli USA, si trova a dover fronteggiare una gravissima crisi economica conseguente al crollo della Borsa di New York dell’ottobre 1929. Alla disastrosa situazione si aggiungono gli effetti nefasti del proibizionismo che hanno raggiunto proporzioni davvero preoccupanti. Roosevelt dà immediato avvio ad un vasto programma di riforme, il “New Deal”, ed ottiene che il Congresso approvi, nel 1933, il XX Emendamento con il quale si liberalizza l’uso dell’alcool ponendo fine al Proibizionismo.

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La Bohème di Giacomo Puccini https://cultura.biografieonline.it/boheme-di-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/boheme-di-puccini/#comments Mon, 10 Sep 2012 15:42:23 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=3776 Intorno alla metà dell’Ottocento si sviluppa, in Francia, un atteggiamento mentale, più che un movimento, in virtù del quale gli artisti ed i giovani studenti esprimono il proprio malessere esistenziale ed il proprio anticonformismo vivendo una vita disordinata, squattrinata ed errabonda, in uno stato di intima solitudine. Il loro riferimento è il nomadismo degli zingari che, provenienti dalla Boemia, sono approdati in Francia. Colpito e coinvolto personalmente dal nuovo costume, il romanziere Henry Murger (Parigi 1822-61) ne fa materia delle sue “Scene della vita di bohème”, pubblicate a puntate sulla rivista “Corsaire” fra il 1847 ed il 1849.

La Boheme di Puccini, locandina della prima (1 febbraio 1896)
La Bohème di Puccini, locandina della prima (1 febbraio 1896)

L’opera autobiografica contribuisce notevolmente alla diffusione di quel modus vivendi al punto da ispirarne il nome: “bohèmien” diviene, da quel momento, il sostantivo ufficiale per indicare uno stile di vita improntato ad una libertà trasandata, spensierata, povera, a tratti malinconica, che in Italia assume il nome di “Scapigliatura”. Nel 1851 le “Scene” vengono raccolte in volume ed adattate per il teatro, con la collaborazione del drammaturgo Théodore Barrière.

Giacomo Puccini
Giacomo Puccini

Una mattina di 42 anni dopo, il 19 marzo 1893, in un caffé frequentato da artisti e letterati nel centro di Milano, si incontrano occasionalmente i compositori Giacomo Puccini e Ruggero Leoncavallo. Amici di vecchia data, i due non si vedono da molto tempo e si immergono subito in una conversazione sui temi a loro più cari, e cioè la musica ed il teatro.

Ruggero Leoncavallo
Ruggero Leoncavallo

 

Il clima di armonia e di reciproca considerazione è destinato, però, a deteriorarsi improvvisamente quando entrambi scoprono di essere impegnati nella conversione in lirica della medesima opera teatrale: le “Scene della vita di bohème” di Murger. Da quel momento l’amicizia fra i due finisce, rimpiazzata da un’avversione reciproca che giunge a rasentare l’odio.

Il giorno successivo “Il Secolo” dà notizia dell’impegno in corso di Leoncavallo, seguito a ruota dal “Corriere della Sera” che pubblica una nota di Puccini il quale, nell’annunciare che anch’egli sta approntando una “Bohème”, rinvia ogni considerazione nel merito al giudizio finale del pubblico.

La gestazione

Il lavoro della collaudata coppia di librettisti Illica-Giacosa incontra mille difficoltà, non tanto per la permalosità dei due quanto per la spigolosità di Puccini, estremamente esigente oltre che titubante. L’inevitabile tensione sortisce addirittura la rinuncia di Giacosa, nel 1893, fortunatamente subito rientrata. A ciò si aggiunga il calo di entusiasmo, da parte del compositore, che nel 1894 abbandona il lavoro per dedicarsi all’opera “La Lupa”, di Verga; dopo pochi mesi, però, ritrova il fascino e l’interesse per la “Bohème”, ritornando dunque sui suoi passi. Superato brillantemente il complesso adattamento dell’opera originaria nella versione musicale, suddivisa in quattro atti, sul finire del 1895 il melodramma vede finalmente la luce.

Trama della Bohème

L’opera racconta di quattro giovani bohémiens, un pittore, un poeta, un filosofo ed un musicista, che vivono insieme in una vecchia soffitta di Parigi, perennemente in arretrato con l’affitto. Una sera che Rodolfo, il poeta, si trova solo in casa, riceve la visita di una vicina, Mimì, che gli chiede aiuto per riaccendere il lume: tra i due si crea subito una profonda, intima intesa che sfocia in un travolgente amore.

Al caffè Momus, intanto – dove si intrattiene il resto del gruppo – Marcello, il pittore, incontra Musetta, sua vecchia fiamma, ed entrambi scoprono che l’antica, reciproca passione non si è mai sopita. Saranno due storie parallele e molto travagliate, fino a giungere entrambe alla separazione. Mimì, malata di tubercolosi, intanto si aggrava.

Qualche tempo dopo Musetta la incontra per le scale: la ragazza è molto debole e sta male. Musetta l’accompagna subito a casa dei quattro giovani e tutti insieme si prodigano per cercare di aiutare l’inferma. Ma Mimì muore, ed il racconto si chiude con la disperazione di Marcello che non ha mai smesso di amarla e che continua ad invocarne il nome fra lacrime e grida di dolore.

L’opera, caratterizzata da repentini passaggi dalla malinconia all’esuberanza, dalla poesia all’amara quotidianità, offre vari momenti di alta drammaticità e bellezza, come nelle arie divenute celebri “Che gelida manina” e “Sì, mi chiamano Mimí”, del primo atto; ma degne di nota sono pure le arie “Quando men vo’,” nel secondo atto, “Donde lieta uscì”, nel terzo, e “O Mimì, tu più non torni”, “Vecchia zimarra”, “Sono andati? Fingevo di dormire”, nel quarto.

La Prima

Superata la divergenza di opinioni fra Puccini, che avrebbe preferito tenere la prima rappresentazione dell’opera al teatro “Costanzi” di Roma o al “San Carlo” di Napoli, e la casa Ricordi che aveva insistito per il teatro “Regio” di Torino, si opta di comune accordo per quest’ultimo. Il 1° febbraio 1896, dunque, va in scena la Prima della “Bohème” di Giacomo Puccini.

Arturo Toscanini
Arturo Toscanini

A dirigere l’opera c’è un altro grande nome del panorama musicale italiano: Arturo Toscanini, promettente ventinovenne anch’egli voluto dalla Ricordi contro il parere – anche in questo caso – di Puccini, che aveva indicato il maestro Leopoldo Mugnone. La serata va avanti senza intoppi e si conclude con un buon successo di pubblico, anche se l’autore deve fare i conti con le stroncature che la critica gli riserva sulla stampa, il giorno seguente.

Critici qualificati, fra cui Carlo Borsezio, parlano di “incidente di percorso” del maestro o di una sua “abdicazione”; di contro Puccini può confortarsi con il parere – alquanto isolato – del noto Carlo Colombiani il quale, invece, intravede nella “Bohème” una significativa crescita artistica del compositore. Col passar del tempo, e con la messa in scena dell’opera in altri prestigiosi teatri italiani, l’iniziale ostilità della critica deve cedere il passo al sempre più convinto entusiasmo del pubblico: dopo Torino, Roma, Napoli e Palermo, la “Bhoème” approda in Inghilterra e poi negli Stati Uniti. Il suo crescente successo la iscriverà come la più nota opera del maestro lucchese e fra i capolavori della lirica italiana.

L’altra “Bohème”

Non sappiamo se avrebbe conosciuto sorte migliore la “Bohème” di Ruggero Leoncavallo, se Puccini non avesse mai composto la sua. Certamente il compositore napoletano non ha avuto fortuna dovendosi confrontare con la genialità del rivale. La sua “Bohème”, tuttavia, andata in scena il 6 maggio 1897 al teatro “La Fenice” di Venezia, riscuote un ottimo successo ottenendo il viatico per continuare, ancora oggi, ad essere rappresentata.

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La “Tosca” di Puccini https://cultura.biografieonline.it/la-tosca-di-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/la-tosca-di-puccini/#comments Tue, 03 Jul 2012 08:15:51 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2906 Nato a Parigi nel 1831, il giovane insegnante di francese Victorien Sardou si pone in evidenza come apprezzato autore di testi teatrali. La sua copiosa produzione gli conferisce un discreto successo, ma egli è consapevole che si tratta di notorietà effimera che non gli riserverà gloria imperitura nella storia del teatro e, in particolare, della drammaturgia. E così, quando si appresta alla stesura de “La Tosca” – pensata per Sarah Bernhardt – che andrà in scena nel 1887, non immagina che sta invece consegnandosi alla storia non per l’opera teatrale in sé, ma in quanto essa ispirerà il maestro Giacomo Puccini che la convertirà nella celeberrima e omonima opera lirica.

Una scena tratta da "Tosca"
Una scena tratta da “Tosca”, opera lirica in tre atti di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. La prima rappresentazione si tenne a Roma, al Teatro Costanzi, il 14 gennaio 1900.

Tosca incontra Puccini

Il primo incontro fra il musicista lucchese e la rappresentazione teatrale avviene tre anni dopo, nel 1890, in occasione della messa in scena de “La Tosca” a Milano. Puccini viene subito attratto dall’idea di tradurla in melodramma, ma esita nella sua realizzazione per alcuni anni fino a quando torna a rivederla, a Firenze, e questa volta si determina alla realizzazione del progetto caldeggiato, peraltro, anche dal poeta e commediografo Ferdinando Fontana.

Investito il suo editore Ricordi si scopre, però, che l’idea era già venuta al compositore Alberto Franchetti e che il librettista Luigi Illica sta già lavorando alla metrica e, contestualmente, alla riduzione della ponderosa stesura originaria in soli cinque atti. Franchetti, tuttavia, rinuncia al lavoro ben lieto di cederlo all’amico Puccini. Ad Illica viene affiancato Giuseppe Giacosa, che cura i momenti più propriamente melodrammatici dell’opera.

Dopo una intricata serie di disaccordi e scontri fra i vari addetti ai lavori – a cominciare dallo stesso compositore – il cui esito, tra l’altro, è l’ulteriore riduzione del numero degli atti a tre – “Tosca” vede finalmente la luce.

L’opera

L’ambientazione è a Roma, nel giugno dell’Ottocento. La napoleonica Repubblica Romana è appena stata abolita e sono in corso rappresaglie nei confronti degli ex repubblicani. Fra questi Cesare Angelotti, già console della Repubblica che, evaso da Castel Sant’Angelo, trova rifugio nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle. Qui incontra il suo amico pittore Mario Cavaradossi che gli assicura aiuto e collaborazione. Il colloquio fra i due è interrotto dal sopraggiungere della cantante Floria Tosca, amante del pittore, che si lascia andare ad una scenata di gelosia perché si accorge che il volto di Maria Maddalena che Mario sta dipingendo è quello della marchesa Attivanti. Dopo essere stata rassicurata dal pittore, Tosca lascia la chiesa e i due amici fuggono via.

Il resto della storia si sviluppa intorno al personaggio del barone Scarpia, capo delle Guardie Pontificie il quale, venuto a conoscenza dell’intesa fra il fuggiasco ed il pittore, ordisce una trappola per conseguire il duplice obiettivo di sedurre Tosca e catturare Angelotti. Fa dunque arrestare Cavaradossi con l’accusa di cospirazione e poi costringe Tosca, con la promessa di un salvacondotto per il suo amato, a promettersi a lui ed a rivelare il nascondiglio di Angelotti.

Tosca cede al ricatto ma, non appena ottenuto il documento, estrae un coltello ed uccide Scarpia. Corre dunque a salvare il suo uomo ma giunge tardi perché, nel frattempo, Mario è stato fucilato. Colta dalla disperazione, Tosca si toglie la vita gettandosi nelle acque del Tevere.

I momenti più intensi del melodramma pucciniano sono probabilmente contenuti nelle arie “Vissi d’arte”, nel II atto, ed “E lucevan le stelle”, nel III. In “Vissi d’arte”, romanza divenuta celebbre, si coglie la poetica disperazione e lo smarrimento di Tosca che, sotto l’atroce ricatto di Scarpia, si scopre incapace di concepire e di comprendere tanta cattiveria e si rivolge a Dio con toni di supplica ma anche di risentimento: “Vissi d’arte, vissi d’amore, non feci mai male ad anima viva!… Nell’ora del dolore, perché, perché Signore, perché me ne rimuneri così?

In “E lucevan le stelle”, romanza ancor più famosa, il pittore Cavaradossi rinchiuso in carcere e consapevole del destino che lo attende di lì a poco, ripercorre con la mente i bei momenti trascorsi con la sua amata in un insieme di nostalgia, passione e scoramento: “… Oh! dolci baci, o languide carezze, mentr’io fremente le belle forme disciogliea dai veli! Svanì per sempre il sogno mio d’amore… L’ora è fuggita… E muoio disperato! E non ho amato mai tanto la vita!… ”.

La prima

Il quadro politico dell’Italia, nei primi del Novecento, è caratterizzato da malcontento e tensioni. Movimenti antiunitari, antimonarchici e anarchici esercitano, ognuno per proprio conto, azioni di disturbo anche attraverso iniziative violente e sanguinarie; a ciò si aggiungano l’ostilità mai sopita del Vaticano che si ostina a non riconoscere il Regno d’Italia, una severa crisi economica e l’isolamento internazionale dell’Italia.

Questo è il clima preoccupante con il quale, nel gennaio 1900, ci si appresta ad accogliere la prima della Tosca di Puccini, e che non mancherà di condizionare l’importante evento. A Roma, la sera del 14 gennaio 1900, infatti, con un Teatro dell’Opera (detto anche Teatro Costanzi) ridondante di pubblico, poco prima dell’apertura del sipario il direttore d’orchestra Leopoldo Mugnone è raggiunto da un funzionario di polizia che lo informa del concreto rischio di un attentato nel corso della serata, cosa già accaduta in altri teatri.

Si paventano iniziative di disturbo da parte dei rivali di Puccini ma, soprattutto, la annunciata presenza in sala della regina Margherita fa temere iniziative terroristiche da parte degli anarchici.

Alla prima saranno inoltre presenti personalità politiche e del mondo culturale di primissimo piano. Con queste premesse e con conseguente pessimo stato d’animo il maestro Mugnone raggiunge dunque il suo posto e la serata ha inizio. Fortunatamente, dopo un iniziale rumoreggiare dei soliti detrattori che determina una breve sospensione dell’esecuzione, la rappresentazione riprende e giunge felicemente a conclusione con un grande successo.

La critica

Tra le opere di Puccini, la “Tosca” rimarrà la più maltrattata nelle recensioni della stampa specializzata. Scriverà Colombani, sul “Corriere della Sera”:

…Con tutta la deferenza pel grande drammaturgo francese, io vorrei affermare che il suo lavoro fu migliorato prima dall’Illica e dal Giacosa, che ne affinarono i principali elementi, poi dal Puccini che con una tavolozza delicata e aristocratica ne nobilitò la rappresentazione. Ma – per quanto abilmente mascherato – il difetto originale del dramma a tinte troppo forti, e povero di ogni elemento psicologico, rimane visibile ostacolo ad una libera estrinsecazione della fantasia musicale di Giacomo Puccini…”.

Di tenore analogo sono i commenti del “Secolo” e di altri quotidiani, che trovano l’opera musicalmente poco originale e la trama eccessivamente appesantita da torture, assassini e suicidi. Nonostante le perplessità della critica, però, la “Tosca” viene promossa a pieni voti dal pubblico ed inizia a fare il giro del mondo, dall’Europa all’intero continente americano passando per Costantinopoli e Il Cairo, fregiandosi negli anni delle più prestigiose interpreti fino a Maria Callas, nel 1941.

Maria Callas
Maria Callas

“Tosca”, insieme a “Manon Lescaut” (1893), “La Bohème” (1896), “Madama Butterfly” (1904), “Turandot” (1926), costituiscono solo una parte della copiosa produzione pucciniana che fa del maestro lucchese uno dei massimi rappresentanti della nuova scuola operistica italiana e lo iscrive fra più grandi compositori della storia della musica.

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Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale https://cultura.biografieonline.it/lo-scoppio-della-prima-guerra-mondiale/ https://cultura.biografieonline.it/lo-scoppio-della-prima-guerra-mondiale/#comments Wed, 13 Jun 2012 18:51:57 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2538 Partiamo con una breve analisi del contesto storico che portò allo scoppio della prima guerra mondiale. La nuova Europa disegnata dalla Rivoluzione Francese vive, dopo il 1789, alcuni decenni di pace. Si tratta però di una pace labile perché non si sono mai sopiti nelle varie potenze, reconditi propositi di conquista, di rivincita o di supremazia.

Nel vecchio continente regna, dunque, una pace armata e agli inizi del Novecento la tensione va paurosamente crescendo toccando livelli di sempre più difficile gestione: l’assassinio, avvenuto a Sarajevo il 28 giugno 1914, dell’erede al trono austro-ungarico Francesco Ferdinando, innesca la miccia che porterà, di lì a poco, all’esplosione della Grande Guerra.

Il quadro politico che portò allo scoppio della prima guerra mondiale

La nascita dell’impero tedesco, il primo Reich, nel 1871, porta la Germania ad un boom economico e tecnologico. La grande ricchezza che ne scaturisce induce Guglielmo II, salito al trono imperiale nel 1888, a maturare rinnovate ambizioni coloniali. Anche per scoraggiare iniziative espansionistiche delle altre potenze – in particolare di quella britannica – dà avvio all’armamento di una gigantesca flotta da guerra; la Germania, fra l’altro, ha anche bisogno di tutelare il suo intenso traffico commerciale marittimo. Con tale iniziativa, però, ottiene l’effetto contrario perché la Gran Bretagna, da sempre detentrice della supremazia sui mari, allarmata da quanto avviene nell’impero tedesco incrementa a sua volta il potenziamento della flotta e stringe alleanze precauzionali con Francia e Russia (Intesa). Guglielmo II, per non rimanere isolato, si allea a sua volta con l’Austria-Ungheria.

All’alleanza tra gli Imperi Centrali (tedesco ed austro-ungarico), nel 1914 si unisce quello Ottomano, in conflitto con la Russia.

Prima Guerra Mondiale, soldati russi
Prima Guerra Mondiale, soldati russi

La Guerra Mondiale

L’assassinio di Sarajevo determina la “crisi di luglio”, l’inasprimento, cioè, dei rapporti fra Austria e Serbia che indurrà Francesco Giuseppe I alla dichiarazione di guerra alla Stato balcanico dando così avvio ad un devastante effetto domino. Nell’agosto 1914 la Russia e la Francia con le sue colonie si mobilitano in favore della Serbia ricevendo, di conseguenza, la dichiarazione di guerra da parte della Germania, alleata dell’Austria.

La prima azione di guerra si ha con l’invasione tedesca del Lussemburgo e del Belgio, nell’agosto 1914, Stati neutrali ma passaggi obbligati per arrivare in Francia, che viene invasa riuscendo però ad evitare, con la battaglia della Marna, che il nemico giunga ad occupare Parigi; al che la Gran Bretagna ed i suoi dominion (Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica) si vedono costretti ad entrare in guerra contro la Germania. Nello stesso mese di agosto anche il Giappone, alleato dell’Inghilterra ed interessato alle colonie tedesche in Cina, entra nel conflitto. Nel settembre è la volta della Turchia, alleata degli imperi centrali.

A questo punto gli schieramenti sono definiti: mancano soltanto l’Italia e gli USA, che si schiereranno a fianco dell’Intesa rispettivamente nel 1915 e nel 1917, e la Bulgaria che nel settembre 1915 affiancherà gli Imperi Centrali.

Il ruolo dell’Italia

Allo scoppio della prima guerra mondiale l’Italia si trova alleata ad Austria e Germania in virtù del trattato risalente al 1882 che aveva dato vita alla Triplice Alleanza. Nel dichiarare guerra alla Serbia, però, l’Austria viola l’impegno di consultare preventivamente l’Italia, che si ritiene a quel punto svincolata dal patto e dichiara, il 3 agosto 1914, la propria neutralità. Il passo successivo è la sottoscrizione, il 26 aprile 1915, del Patto di Londra, un accordo segreto con l’Intesa la quale, in cambio dell’entrata in guerra dell’Italia le assicura, in caso di vittoria, le città di Trento e Trieste, ora in mano austriaca, insieme ad una serie di territori sull’Adriatico ed in Asia Minore. Il 24 maggio 1915, dunque, l’Italia entra in guerra affiancando le potenze dell’Intesa.

Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Il Corriere della Sera del 24 maggio 1915
Prima Guerra Mondiale, Il Corriere della Sera del 24 maggio 1915

Le tappe del conflitto

Dopo alcuni successi iniziali degli imperi Centrali, con l’occupazione del Lussemburgo e del Belgio e, il 6 novembre 1915, di Belgrado, e con l’avvio della micidiale guerra sottomarina tedesca contro le navi mercantili, inizia una fase di stallo: l’offensiva tedesca di Verdun, dal febbraio al luglio 1916 e la risposta dell’Intesa della Somme, da luglio a novembre 1916, si sono trasformate in guerre di trincea senza un sostanziale esito, a parte l’occupazione di Bucarest da parte degli austro-tedeschi nell’autunno dello stesso anno.

Prima Guerra Mondiale, soldati in trincea (1916)
Prima Guerra Mondiale, soldati in trincea (1916)

Nel novembre 1917, però, sul fronte italiano le forze austro-tedesche sfondano le linee a Caporetto, e su quello orientale la resistenza russa si va affievolendo in vista di una pace separata che i bolscevichi – che in seguito alla Rivoluzione di Ottobre hanno preso il potere demolendo il regime zarista – stanno concludendo con gli Imperi Centrali. Le guerre di posizione che si svolgono su tutti i fronti, intanto, mietono centinaia di migliaia di vittime.

Dopo Caporetto l’avanzata austro-tedesca viene però bloccata dalla durissima resistenza dell’esercito italiano sul Piave, mentre Francia e Gran Bretagna riscuotono successi sul fronte occidentale contro quelli che sono ormai colpi di coda delle forze nemiche, grazie anche all’intervento americano che, con il fenomenale potenziale bellico dei suoi centomila uomini, costituisce una forza d’urto irresistibile che accelera inesorabilmente la fine del conflitto.

Il 24 ottobre 1918 l’esercito italiano sfonda le linee austriache a Vittorio Veneto costringendo l’Austria alla capitolazione, seguita a breve dalla Germania. La Conferenza di Parigi del 1919 e la neonata Società delle Nazioni mostrano tutta la cecità dei Paesi vincitori che impongono agli sconfitti umilianti condizioni smembrandone i rispettivi imperi e creando così i presupposti per nuovi risentimenti ed odi che sfoceranno, circa 25 anni dopo, nella Seconda Guerra Mondiale.

Austria e Germania precipitano nei disordini provocati dalle emergenti forze comuniste che tentano di impadronirsi del potere, ostacolate in ciò dai nascenti movimenti di estrema destra, preludio all’avvento del nazionalsocialismo di Hitler.

Gli effetti

L’assurda e devastante guerra, che per la prima volta nella storia coinvolge circa 40 Paesi – oltre alle colonie tedesche, inglesi, francesi, italiane, portoghesi e belghe – assumendo connotati mondiali, anche in virtù dell’utilizzo di nuovi micidiali strumenti come mitragliatrici, mine a percussione, gas asfissianti, sommergibili e, soprattutto, aerei, nei 4 anni e tre mesi della sua durata provoca la spaventosa cifra, tra caduti e dispersi, di oltre16 milioni di vittime tra i militari e 10 milioni tra i civili.

La partecipazione dell’Italia, che a Vittorio Veneto si è resa determinante per la conclusione vittoriosa del conflitto e che ha contribuito con 650.000 morti e 600.000 dispersi, assume peraltro – anche aldilà della molta retorica che è stata fatta in proposito – caratteri epici.

Prima Guerra Mondiale, soldati usano una mitragliatrice
Prima Guerra Mondiale, soldati usano una mitragliatrice

Così il generale Diaz annuncia la fine della guerra, nel Bollettino emesso dopo Vittorio Veneto: “La guerra contro l’Austria-Ungheria, che sotto l’alta guida di S.M. il Re, Duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore di numero e di mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevan parte: 51 Divisioni italiane, 3 britanniche, 2 francesi, 1 cecoslovacca e 1 Reggimento americano, contro 73 Divisioni austro-ungariche, è finita. La fulminea avanzata su Trento del 29° Corpo d’Armata, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad Occidente dalle truppe della 7^ Armata e ad Oriente da quelle della 1^, 6^ e 4^, ha determinato ieri lo sfacelo totale del fronte avversario. Dal Brenta al Torre l’irresistibile slancio della 12^, dell’8^, della 10^ Armata e delle Divisioni di Cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura S.A.R. il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta 3^ Armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già gloriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L’Esercito austro-ungarico è annientato. Esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni di lotta e nell’inseguimento; ha perduto quantità ingentissime di materiali d’ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi; ha lasciato finora nelle nostre mani circa 300.000 prigionieri con interi Stati Maggiori e non meno di 5.000 cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del Mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.

L’esultanza e la soddisfazione di Diaz e degli italiani, purtroppo, verranno presto mortificate da una profonda crisi economica conseguente ai costi della guerra e dal venir meno degli alleati agli impegni assunti nel Patto di Londra. Per l’Italia si parlerà di “vittoria mutilata” e presto maturerà la coscienza della “follia” di quel conflitto. Una consapevolezza che, purtroppo, non si tradurrà in saggezza: l’Italia, l’Europa e il mondo intero, dopo appena due decenni, si ritroveranno a rivivere quella follia.

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Storia del Principato di Monaco https://cultura.biografieonline.it/storia-del-principato-di-monaco/ https://cultura.biografieonline.it/storia-del-principato-di-monaco/#comments Sat, 09 Jun 2012 08:56:35 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2465 Le origini

Nell’VIII secolo a.C. i greci fondano la città di Focea, nella Ionia in Turchia. I suoi abitanti, i Focesi, si rivelano un popolo intraprendente, dedito ai commerci ed alle esplorazioni marinare. Narra Erodoto che, avventuratisi nei mari che bagnano la penisola italica ed il sud di quella iberica, fondano colonie in tutto il Mediterraneo tra le quali, si presume, l’attuale Principato di Monaco. Ma prima dei focesi la Rocca di Monaco viene abitata dai fenici, e secondo alcuni sono questi ultimi i veri fondatori della città dove, tra l’altro, erigono un tempio dedicato ad Ercole Mòneco dal quale ne deriverebbe il nome.

Dopo fenici e greci, nel 122 a.C. sono i romani ad occupare quelle terre, che chiameranno Portus Herculis Monoeci, e che non abbandoneranno per molti secoli. Augusto fa passare da Turbia – a circa 6 km dalla zona del porto – la via Julia Augusta, e vi erige il famoso Tropaeum Alpinum, detto anche Tropaeum Augusta, per celebrare la definitiva vittoria sulle tribù alpine che nuocevano ai commerci. Sull’altura detta “Testa di Cane” si susseguono, intorno all’anno mille, saraceni, genovesi e pirati, fino all’avvento della fiera e bellicosa famiglia guelfa genovese dei conti Grimaldi che governerà quasi ininterrottamente la città di Monaco, trasformandola successivamente in principato, fino ai nostri giorni.

La famiglia Grimaldi

Arricchitasi con i commerci, la finanza e l’acquisto di terre, i Grimaldi entrano prepotentemente nella storia di Genova, insieme a poche altre famiglie quali i D’Oria, gli Spinola, i Fieschi e gli Imperiale, esprimendo molti personaggi di valore, di ingegno e di armi. Il primo esponente della famiglia ad impadronirsi di Monaco è Francesco, detto il “Malizia”, nel 1297. Da questo momento le sorti della città seguono di pari passo quelle della nobile famiglia genovese.

Bandiera del Principato di Monaco con stemma della famiglia Grimaldi e cartina geografica
Bandiera del Principato di Monaco con stemma della famiglia Grimaldi e cartina geografica

A lui succede suo cugino Ranieri I il quale, dopo soli quattro anni, nel 1301, sconfitto dai genovesi è costretto a cedere loro la Rocca. Ci penserà suo figlio Carlo I a riconquistarla trent’anni dopo, nel 1331. Nel 1346 estende la signoria sulla città di Mentone e nel 1355 anche su Roccabruna. Carlo I è considerato il primo vero Signore di Monaco e, quindi, il capostipite della dinastia monegasca. Fra il 1357 ed il 1436 la città ricadrà per altre tre volte sotto il dominio genovese, per complessivi 57 anni, e per un mese circa, nel 1436, sotto quello del Ducato di Milano. Ma da questo momento la famiglia Grimaldi regnerà senza soluzione di continuità, se si eccettua una parentesi durante la Rivoluzione Francese.

Nel 1489 la città ottiene dal re di Francia Carlo VIII e dal duca di Savoia il riconoscimento della propria sovranità e nel 1512 Luigi XII di Francia ne riconosce l’indipendenza. Quello con la Francia è un legame molto solido e duraturo: l’unica eccezione si ha fra il 1524 ed il 1641, ad opera di Agostino I che, in contrasto con i confinanti d’Oltralpe, si pone sotto il protettorato spagnolo. E’ in questa fase che nasce il Principato di Monaco quando, nel 1612, Onorato II assume il titolo ereditario di principe con il riconoscimento del re di Spagna.

Il 14 settembre 1641 lo stesso Onorato II sottoscrive un trattato con Luigi XIII nel quale la Francia conferma il riconoscimento della sovranità di Monaco ed accorda parità di rango fra il principe e la più alta nobiltà francese. Il protettorato, dunque, ritorna alla Francia che, verso la fine del XVII secolo, nomina il principe Luigi I proprio ambasciatore presso la Santa Sede.

Gli sconvolgimenti della Rivoluzione Francese travolgono il Principato che, nel febbraio 1793, viene annesso alla Francia e la moglie di Giuseppe Grimaldi condotta alla ghigliottina. Il Principato tornerà ai Grimaldi nel 1814, col primo trattato di Parigi; il secondo trattato di Parigi, l’anno successivo, lo porrà sotto il protettorato del Re di Sardegna. Con la cessione alla Francia delle città di Mentone e Roccabruna (o Roquebrune), avvenuta il 2 febbraio 1861, il territorio si riduce di circa l’ottanta per cento assumendo così la sua definitiva fisionomia.

Il Principato

Fatta eccezione per il Vaticano, il Principato di Monaco è il più piccolo Stato del mondo. Con i suoi 36.000 abitanti, un quinto dei quali è italiano, distribuiti su un’estensione di appena 200 ettari è una città-Stato: la capitale, Monaco, occupa infatti l’intero territorio e si divide in dieci quartieri. Ai quattro originari – Monaco, La Condamine, Montecarlo e Fontvieille – se ne sono aggiunti nel tempo altri 6: Moneghetti, Larvotto, Saint Roman, Saint Michel, La Colle e Les Révoires. In particolare l’area di Fontvieille, estesa per 22 ettari e sede del porto, è stata interamente ricavata dal mare, negli anni ’60 del Novecento, per rispondere alle pressanti esigenze di spazi dei quali il Principato non poteva disporre.

Principato di Monaco, Montecarlo
Principato di Monaco, Montecarlo

Terra di seduzione

E’ singolare come uno Stato pressoché insignificante per popolazione ed estensione territoriale sia invece famoso in tutto il mondo ed ambita meta del turismo internazionale. I motivi sono da ricercarsi innanzitutto nella mitezza del suo clima e nelle sue bellezze naturali: i quattro chilometri di spiaggia sul mar Ligure, nel cuore della Costa Azzurra, fanno del Principato un vero angolo di paradiso.

La pittoresca baia cui fa da sfondo la rocca della Testa di Cane con i bastioni, il castello e l’antica e austera capitale, Monaco e, scendendo con lo sguardo, la terrazza con i giardini fioriti e le fastose ville di Montecarlo costituiscono un quadretto suggestivo ed unico. A ciò si aggiunga una sapiente politica di sviluppo turistico che la famiglia Grimaldi ha posto in essere a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, da quando, cioè, un colpo di genio del principe Carlo III non ne muta radicalmente le sorti.

Va detto che il Principato, privo di risorse naturali, fino a metà Ottocento è una terra poverissima, ed i suoi abitanti vivono in miseria e sono oberati dalle tasse. Il palazzo del Principe è decadente e, nonostante la sua imponenza, se ne utilizzano soltanto tre stanze come abitazione del sovrano essendo tutte le altre impraticabili; è proprio da questa miseria estrema che in Carlo III va maturando l’idea che porterà alla svolta epocale: l’apertura di una casa da gioco.

Per superare l’isolamento cede alla Francia le citate Mentone e Roquebrune, ottenendone in cambio, tra l’altro, un’importante arteria di collegamento fra Monaco a Nizza ed una fermata della linea ferroviaria tra Genova e la stessa Nizza. Dopo i primi anni di insuccessi finalmente, nel 1863, il capitalista francese François Blanc, concessionario dei giochi d’azzardo, inaugura il casinò che, sorto su di un’altura che domina il mare, prende il nome di Monte Carlo, in omaggio al principe.

Montecarlo, il casinò
Montecarlo, il casinò

L’iniziativa si rivela subito un enorme affare, per cui Blanc provvede, a proprie spese, alla sistemazione della viabilità nel Principato, alla sua illuminazione, all’istituzione di servizi di collegamento via terra e via mare con la Francia e con l’Italia ed alla costruzione dell’Hotel de Paris che diventerà il più sontuoso d’Europa. Contemporaneamente i prezzi dei terreni e delle case salgono vertiginosamente e, grazie ai notevolissimi proventi derivanti dalla concessione a Blanc, già nel 1869 sono abolite tutte le tasse a carico dei cittadini monegaschi.

Dopo la morte di Blanc sua moglie Marie realizza, nel 1879, un grande teatro all’interno del casinò, l’”Opera”, alla cui inaugurazione, madrina l’attrice francese Sarah Bernhardt, interviene la più alta società francese e non solo. L’avvento della “Belle Epoque” trova nel Principato e in Montecarlo, frequentati ormai dalla nobiltà e dall’alta borghesia di tutto il continente, una delle sue capitali più brillanti e rappresentative.

L’intraprendente gestione di Camille, figlio di Blanc, contribuisce notevolmente all’ulteriore sviluppo della località, con l’avvio di numerose iniziative che durano ancora oggi e rappresentano, ognuna nel proprio campo, motivo di interesse ed attrazione turistica. Nascono così i tornei di tennis, golf, boxe, gare ciclistiche, regate veliche, il “Rally di Montecarlo”, concorsi di bellezza e le terme di Montecarlo. Il principe Alberto, dal canto suo, appassionato di oceanografia e di preistoria, crea nel 1902 il Museo d’Antropologia Preistorica; nel 1906 istituisce la Fondazione dell’ Istituto Oceanografico e, quattro anni dopo, il Museo Oceanografico. I due musei, di fama mondiale, sono oggi visitatissimi.

Il principe Luigi II, nel 1929, realizza un circuito di corse automobilistiche dando vita al Gran Premio di Formula 1 di Montecarlo. Dopo la seconda guerra mondiale la società che fu di Blanc passa al ricchissimo Aristotele Onassis, mentre il principe Ranieri III è impegnato nella ricerca di nuove iniziative da avviare, anche per rilanciare il nome del Principato che ormai si identifica nel solo casinò.

Ranieri III di Monaco
Ranieri III di Monaco

Con l’avvento della televisione fonda le emittenti Telemontecarlo e Radiomontecarlo, che trasmettono in lingua francese ed italiana, avviando così un nuovo, ricco business. Ad alimentare le suggestioni fiabesche di cui gode il Principato nel mondo giungono il felice incontro e le successive nozze tra Ranieri e la grande attrice americana Grace Kelly. Il ricevimento diviene un evento storico internazionale, presenti teste coronate, capi di Stato e stelle del cinema. La bella fiaba avrà purtroppo un triste epilogo con la morte della principessa Grace in un incidente stradale.

Grace Kelly
Grace Kelly

Montecarlo oggi

Con la scomparsa del principe Ranieri III la reggenza è passata al figlio Alberto II che il 2 luglio 2011 ha sposato la ex atleta nuotatrice sudafricana Charlene Wittstock.

Per le sue numerosissime attrattive, per la mitezza del clima, per le invidiabili e invidiate condizioni dei suoi abitanti oggi Montecarlo è uno dei luoghi di villeggiatura più esclusivi al mondo. Punto di ritrovo dell’alta società internazionale e meta continua di visitatori da tutto il globo, nell’immaginario collettivo il Principato di Monaco rimane un luogo da fiaba, un oggetto del desiderio, una terra cui a ognuno piacerebbe appartenere.

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L’invenzione del telefono: la rivalità tra Meucci e Bell https://cultura.biografieonline.it/storia-del-telefono/ https://cultura.biografieonline.it/storia-del-telefono/#comments Fri, 11 May 2012 08:35:25 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=1914 Comunico, “ergo sum”!

In quanto “animale sociale” l’uomo è sempre stato proteso alla comunicazione: è per questo che dai preistorici suoni gutturali è passato alla messa a punto di linguaggi compiuti e comuni, tali da consentire esaustive conversazioni fra due o più soggetti. Raggiunto questo basilare obiettivo, si è subito presentato un nuovo problema: come comunicare a distanza? Gli antichi greci e romani utilizzavano segnali di fumo, di giorno, e fiamme di notte; un altro sistema è stato quello di sventolare bandiere o drappi fra un’altura e l’altra, per finire con l’eliografo, o telegrafo ottico, uno specchietto che riflettendo i raggi del sole riesce ad essere visibile anche a grandi distanze. E così è stato per millenni, fino a quando, passo dopo passo, nel XVIII secolo sono state finalmente scoperte e comprese le leggi che regolano l’elettricità, traguardo fondamentale per passare alle sue applicazioni pratiche.

L’avvento dell’elettricità

Il primo ad intuire che l’elettricità avrebbe potuto consentire, tramite fasci di fili elettrici, la comunicazione su grandi distanze è stato il meteorologo ed inventore inglese Francesco Ronalds, nato nel 1788 a Londra, che così dà vita al telegrafo elettrico. Poco dopo gli inventori inglesi Carlo Wheatstone e Guglielmo Cooke trovano il modo per rendere la scoperta più economica, riducendo il fascio ad un solo filo. Quasi contemporaneamente in America Samuel Morse mette a punto il telegrafo elettromagnetico e l’apposito codice che da lui prende il nome.

Samuel Morse
Samuel Morse

Sempre nell’Ottocento gli studi di Lord Kelvin, fisico ed ingegnere britannico, consentono la collocazione dei cavi sul fondo del mare, gigantesco passo in avanti perché vengono così annullate le distanze fra i continenti. L’americano Thomas Alva Edison, inventore ed imprenditore, detto “il mago dell’elettricità”, perfeziona ulteriormente il sistema telegrafico, riuscendo a potenziarlo.

Thomas Alva Edison
Thomas Alva Edison

La trasmissione del suono

Ma l’uomo, per sua natura, non è mai pago: ora che si è riusciti ad inviare messaggi dovunque ed in tempi rapidissimi, la nuova scommessa è la trasmissione della voce. A questo obiettivo sono in tanti a lavorare, nel mondo, e ciascuno per proprio conto, ma è un italiano sfortunato e geniale che, cogliendo la necessaria intuizione, regala al mondo l’ “elettrofono”, come egli lo definisce, dando avvio ad una rivoluzione che ancora oggi è di grande attualità ed in constante evoluzione: il suo nome è Antonio Meucci.

La rivalità tra Meucci e Bell

Antonio Meucci
Antonio Meucci

Nato a Firenze il 13 aprile 1808, Antonio Meucci frequenta l’Accademia delle Belle Arti dove approfondisce gli studi di chimica e meccanica. Inizia a lavorare come daziere, per poi passare al “Teatro della Pergola” come aiuto macchinista. Qui si rivela la sua passione per la trasmissione dei suoni, mettendo a punto una prima invenzione, il “tubo acustico”, ancora oggi in uso in alcuni teatri. Coinvolto nei moti del 1831 è costretto a lasciare l’Italia dopo aver sposato, nel 1834, la costumista Ester Mochi. Emigra all’Avana, capitale di Cuba, dove trova occupazione come sovrintendente tecnico presso il “Gran Teatro de Tacon”, il più prestigioso d’America. Ritorna a lavorare al suo progetto, maturando però l’idea di “telegrafare la parola”, di trasmettere i suoni, cioè, attraverso la corrente elettrica.

Interrompe le sue ricerche dal 1844 al 1848 per rientrare in Italia e partecipare alla nuova ondata rivoluzionaria. Tornato all’Avana, nel 1849 riesce per la prima volta a trasmettere il suono mediante un rudimentale apparecchio telegrafico sonoro. Nel 1850 un incendio distrugge il teatro ed egli rimane disoccupato; decide allora di trasferirsi a Clifton, nell’isola di Staten Island, vicino a New York.

Qui ospita ed aiuta molti rifugiati politici italiani tra i quali un operaio, Giuseppe Garibaldi, giovane ed ancora del tutto ignaro di quel che sarebbe diventata la sua vita di lì a poco. Garibaldi rimane tre anni a Clifton, occupato nella fabbrica di candele che Meucci ha aperto, svolgendo altresì un importante ruolo di stimolo ed incoraggiamento per l’amico a persistere nei suoi esperimenti e ricerche. Oltre alle candele Meucci diviene, intanto, anche produttore di birra.

Fra il 1854 ed il 1856 realizza finalmente il suo primo telefono, ma non dispone dei capitali necessari né per la sua messa in produzione né, tantomeno, per brevettarlo. Nel 1871 riesce comunque ad ottenere un “caveat”, una sorta di brevetto a scadenza, che per un anno tutela l’invenzione, e che egli riesce a rinnovare anche nei due anni successivi; nel 1874, però, le sue condizioni economiche non gli consentono più il rinnovo del brevetto al quale è costretto a rinunciare. La sua invenzione rimane così priva di protezioni. La Compagnia Telegrafica di New York, alla quale si propone, non coglie l’importanza della novità e respinge la sua offerta perdendo, tra l’altro, stranamente, il relativo fascicolo.

Il 14 febbraio 1876 all’ufficio brevetti si presenta prima Alexander Graham Bell, fisico americano di origine scozzese e studioso di fisiologia degli organi vocali, che deposita il progetto per la trasmissione della voce tra due apparecchi collegati con un filo elettrico; qualche ora dopo è la volta dell’ingegnere Elisha Gray, con un progetto molto simile ma, ovviamente, il brevetto va al primo arrivato.

Alexander Graham Bell
Alexander Graham Bell

Non appena Meucci ne viene a conoscenza denuncia prima sulla stampa e poi in sede giudiziaria Bell e la “Bell Telephone Comp.”: la lunga e complessa vertenza registra un primo successo quando, nel 1886, un rapporto del Ministero dell’Interno riconosce a Meucci la priorità dell’invenzione. Ma si dovranno percorrere vari gradi di giudizio per giungere ad un verdetto definitivo, e quando il 18 ottobre 1889 Antonio Meucci muore, la sospirata sentenza non è ancora giunta.

Nel 1897 l’intricatissimo iter giudiziario, che ha prodotto circa 50.000 pagine di documenti, si conclude con una pronuncia della Corte Suprema degli Stati Uniti che, però, non stabilisce chi abbia ragione fra le parti in causa. Dovrà passare oltre un secolo perché, grazie all’ingegnere e scienziato siciliano Basilio Catania – che al Meucci ha dedicato una ponderosa opera in quattro volumi – il Congresso degli Stati Uniti d’America riconosca in via definitiva che la paternità dell’invenzione del telefono appartiene allo scienziato italiano Antonio Meucci: ciò che non ha saputo stabilire la giustizia lo ha così sancito la storia.

La City University of New York ha assegnato al prof. Catania, nel 2000, il titolo di “Vindicator of Meucci” e nel 2003 lo stesso ha presieduto la giornata italiana celebrativa dell’agognato riconoscimento e del suo artefice.

Il congresso degli Stati Uniti d’America, con la risoluzione N° 269, ha riconosciuto ufficialmente Antonio Meucci come primo inventore del telefono, al posto di Alexander Graham Bell, il giorno 11 giugno 2002.

Un altro “genio italico”

Per completezza di trattazione non si può non citare un altro grande italiano, Guglielmo Marconi, nato nel 1874, proprio mentre Meucci lavora alla trasmissione elettrica del suono. Fisico e scienziato, Marconi mette a punto l’utilizzo delle onde radio, altra grande rivoluzione nella storia della civiltà umana e per la quale è insignito, nel 1909, del premio Nobel per la Fisica. Marconi è, tra l’altro, un grande estimatore di Antonio Meucci.

Guglielmo Marconi
Guglielmo Marconi, protagonista storico dell’invenzione della radio

Nel 1930 il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), del quale egli è presidente, pubblica uno studio dell’ing. Luigi Respighi intitolato “Sulla priorità di Antonio Meucci nell’invenzione del telefono”. Due anni dopo dà incarico al dr. Francesco Moncada di effettuare, in USA, ricerche approfondite sull’argomento, ma l’improvvisa morte del Moncada vanifica l’iniziativa. Ed ancora Marconi, nel 1933, sulla base di appunti autografi dello stesso Meucci, fa riprodurre due modelli di telefono (o telettrofono) che invia all’esposizione di Chicago intitolata “Un secolo di progresso”.

Il prof. Catania riporta che Francesca Vinciguerra, alias Frances Winwar, scrittrice statunitense di origine italiana nonché vincitrice del prestigioso premio Pulitzer, descrive un Marconi che, in visita alla casa di Meucci a Staten Island, rimane “a lungo dinanzi ad essa a capo scoperto”.

Se oggi ogni singolo cittadino è in grado di comunicare con tutto il mondo, utilizzando la telefonia o ”navigando” nella rete internet, lo si deve prioritariamente a questi due grandi italiani: Meucci, per la connessione via cavo, e Marconi per quella via etere.

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