Alessandro Galano, Autore presso Cultura https://cultura.biografieonline.it/author/alessandro-galano/ Canale del sito Biografieonline.it Sun, 08 Sep 2024 09:14:56 +0000 it-IT hourly 1 Real Madrid: storia e curiosità https://cultura.biografieonline.it/real-madrid/ https://cultura.biografieonline.it/real-madrid/#comments Sat, 01 Jun 2024 21:55:13 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7464 Tra le società calcistiche più importanti del mondo

Real Madrid Club de Fútbol, abbreviato in Real Madrid, è il nome di una delle società calcistiche più note e vincenti del mondo; pochi sanno però che la società – fondata il 6 marzo 1902 – è una polisportiva composta, oltre che dalla citata sezione di calcio, anche da una cestistica legata al basket. In questo articolo si racconta la gloriosa storia di questa grande squadra e società.

Lo stemma del Real Madrid
Breve storia del Real Madrid

Real Madrid: l’inizio di un mito sportivo

Il 13 giugno del 1956 il Real Madrid vince la prima Coppa dei Campioni d’Europa, la prima in assoluto della competizione più famosa del mondo, poi trasformatasi in Uefa Champions League. A Parigi, città designata ad ospitare la prima edizione del torneo, i campioni spagnoli si impongono per 4 a 3 sui francesi dello Stade de Reims. Una vittoria che segna l’inizio di una lunga storia di successi, la quale porterà “i blancos” a diventare il club più amato di sempre, tra i più titolati della storia del calcio.

La provocazione della stampa

E pensare che la competizione calcistica per club attualmente più seguita al mondo, è nata da una sorta di provocazione giornalistica. La si deve al quotidiano L’Équipe, all’epoca diretto da Gabriel Hanot, il quale, esattamente nel 1954, si inserì nell’ampio dibattito scatenato dall’inglese Daily Mail, impegnato a quei tempi a sancire – sulla base di presunte superiorità tecniche evidenti ma di fatto mai dimostrate sul campo – l’indiscussa superiorità del Wolverhampton su tutti gli altri club europei, all’epoca dominatore della lega inglese.

Certo, l’idea di un Campionato del Mondo, o almeno d’Europa – scrisse a tal proposito Hanot – per club, più esteso, più significativo, e meno episodico della Mitropa Cup, e più originale di un Campionato d’Europa per squadre nazionali, merita di essere lanciata. Noi ci proveremo“.

La stampa francese cavalcò l’onda della provocazione, la quale assunse in breve tempo il carattere della vera e propria proposta istituzionale.

Intanto, il dibattito era acceso.

Qual era la squadra più forte del continente europeo?

  • Gli spagnoli del Real Madrid?
  • Gli italiani del Milan?
  • Gli ungheresi dell’Honvéd?
  • O proprio il tanto acclarato Wolverhampton?

Un nuovo torneo

La FIFA e l’UEFA dovettero prendere in considerazione la proposta del quotidiano d’oltralpe, seppure non in modo entusiastico.

L’idea di un campionato fra i maggiori club d’Europa, infatti, a dire delle due federazioni (per giunta appoggiate da quella inglese), avrebbe potuto scalfire il fascino dell’allora Coppa Rimet (l’odierno Campionato Mondiale, ormai seguitissimo) e, soprattutto, quello nascente della Coppa Europea per nazioni.

Tuttavia, i giornalisti de L’Équipe si mossero privatamente coi dirigenti di numerose società e, nell’aprile del 1955, portarono attorno ad un tavolo i vertici dei più importanti club europei, alla fine costringendo proprio la Fifa ad imporre all’Uefa l’organizzazione del nuovo torneo.

Si optò per un torneo organizzato sul meccanismo dell’eliminazione diretta e ammettendo una sola società, indicata dalle federazioni nazionali, per ciascun paese.

Determinante, va detto, fu l’intervento di uno dei personaggi più influenti e ormai leggendari della storia del calcio mondiale: l’allora presidente del Real Madrid, Santiago Bernabeu.

Santiago Bernabeu: l’uomo che fece la competizione

Non è un caso che il più amato presidente della storia delle “merengues” sia stato anche tra i promotori più attivi per quanto riguarda l’organizzazione di una competizione europea per club. Forse Santiago Bernabeu aveva fiutato la forza, non solo nazionale, dei propri campioni, tanto che il Real Madrid si aggiudicò le prime cinque edizioni della futura Champions League, portandosi a casa il trofeo originale (spettante appunto a chi si aggiudica per cinque volte la competizione).

Fatto sta che fu proprio lui, nel corso dello storico summit lanciato da Gabriel Hanot nel 1955, a convincere i vertici delle due federazioni di Fifa e Uefa a dare vita al torneo in questione.

L’incontro si tenne all’Hotel Ambassador di Parigi e diede vita ad una “mutuazione” della precedente Coppa Latina (torneo riservato a squadre di Francia, Spagna, Portogallo e Italia, e che il Real Madrid si aggiudicò nel 1954 e nel 1957): la Coppa dei Campioni.

Una foto del 1967 di Santiago Bernabeu
Santiago Bernabeu, il presidente del Real Madrid più amato, in una foto del 1967

Fu uno dei tanti risultati conseguiti dal presidente del Real. Eletto al vertice del team madrileno il 15 settembre del 1943, Santiago Bernabeu ha ricoperto e mantenuto la carica per 35 anni, praticamente fino alla sua scomparsa. A lui si deve la grande ristrutturazione del club su ogni livello, in una chiave ultramoderna per l’epoca, già proiettata verso il futuro.

L’impresa di Bernabeu

Per ogni sezione della società, diede un team tecnico autonomo e, soprattutto, diede vita alla costruzione del nuovo stadio Chamartín, terminato nel 1947, poi ribattezzato proprio in suo onore “Stadio Santiago Bernabéu”.

Una struttura che si spostava effettivamente solo di alcuni metri da quella precedente e che, all’epoca, risultò essere la più ampia del mondo, forte dei suoi 75mila spettatori (poi portati a 125mila), tanto che durante i lavori non mancarono le critiche al presidente madrileno, considerato una sorta di folle ad impegnarsi in un’impresa così esagerata per l’epoca.

Bernabeu però, ci riuscì eccome nell’impresa, grazie soprattutto al sostegno degli oltre 40.000 soci del club, i quali contribuirono di propria mano alla realizzazione dello stadio. Infine, intraprese la strategia ambiziosa di acquistare giocatori di classe mondiale provenienti dall’estero. Ex giocatore egli stesso del Real, dotato di enorme carisma, Santiago Bernabeu dotò la “Casa bianca” di una struttura societaria superiore a tutte quelle del suo tempo.

Grazie all’acquisto di calciatori di grande prestigio, riuscì nell’impresa di vincere, da presidente del Real Madrid, la bellezza di 16 campionati, 6 Coppe di Spagna, 6 Coppe dei Campioni e 1 Coppa Intercontinentale. La morte lo colse il 2 giugno del 1978.

Il primo titolo del Real Madrid

Il 4 settembre del 1955, a Lisbona, si gioca la prima, storica partita della nuova competizione per club europei. Si affrontano Sporting e Partizan e la partita termina con uno spettacolare 3 a 3. Ed è proprio una di queste due compagini che il Real Madrid, guidato dal bomber Alfredo Di Stefano e dall’allenatore José Villalonga, dopo aver facilmente superato gli svizzeri del Servette nel primo turno, si ritrova davanti nel corso dei quarti di finale.

Allo stadio Chamartin, il Real si sbarazza del Partizan con un sonoro 4 a 0 anche se, al ritorno, deve soffrire non poco contro gli jugoslavi: il Partizan sfiora l’impresa, imponendosi per 3 reti a zero. I rischi però, a conferma di una competizione tutt’altro che banale e dacché ne dicano gli inglesi, non finiscono qui per i blancos. In semifinale infatti, la squadra del presidente Bernabeu deve affrontare i rossoneri del Milan, tra i team più forti d’Europa.

Allo Chamartin, entrando nel vivo della partita, il 19 aprile del 1956, termina 4 a 2 per i padroni di casa. In quell’occasione, vanno a segno Rial, Joseito su rigore, Olsen e il grande Di Stefano, mentre per il Milan segnano Nordhal e Schiaffino, entrambi pareggiando momentaneamente il doppio vantaggio madrileno. Al ritorno però, tocca soffrire un po’ di più, perché al vantaggio di Joseito al ’65 minuto (il quale trafigge con un preciso rasoterra da fuori area il portiere milanista Buffon), replica la doppietta di Dal Monte, il quale mette a segno due rigori, l’ultimo al minuto 86, con circa cinque minuti di estrema sofferenza da parte dei blancos.

Tutto sommato però, la compagine guidata da Di Stefano, Gento, Olsen e Rial, riesce a staccare il biglietto per la Francia, in vista della finalissima.

La finale parigina

Il 13 giugno del 1956, allo stadio “Parco dei Principi” di Parigi, c’è il tutto esaurito. Il Real si trova di fronte lo Stade Reims, forte compagine francese che ha in squadra elementi del calibro di Michel Hidalgo e del mago del dribbling, Raimond Kopa.

Oltre a queste due stelle europee, fanno parte del team guidato dall’allenatore Albert Batteux, anche altri giocatori importanti per l’epoca, come il portiere Raoul Giraudo, Léon Glovacki, l’attaccante Jean Templin e il forte difensore Michel Leblond.

La cronaca

Proprio quest’ultimo apre le marcature, dopo appena sei minuti di gioco, mettendo sotto il Real. Allo shock iniziale, segue il raddoppio, al decimo minuto, firmato Jean Templin.

Gli spagnoli si ritrovano a sorpresa sotto di due gol: al diagonale che apre le segnature, fa seguito la rete rocambolesca del 2 a 0, frutto dell’indecisione in uscita del portiere iberico.

Nel Real però, oltre a Di Stefano giocano altri grandi campioni, come il capitano Miguel Munoz, che suona la carica, l’impeccabile mediano Joseito, la forte ala Zarraga e l’attaccante Juan Alonso.

Così, al ’14 e al ’30, prima il grande Di Stefano con un diagonale da posizione centrale (ben servito da Munoz), e poi il bomber Hector Rial, al termine di un’azione concitata, riportano il punteggio in parità.

Non è finita però, perché il Reims torna ancora in vantaggio, esattamente al minuto 62, con un preciso colpo di testa di Hidalgo. Passano però appena cinque minuti, e Marquitos pareggia ancora: 3 a 3.

A questo punto, è solo il Real Madrid a spingere e a tentare di portare a casa la vittoria, la quale arriva al minuto 79, con il terzo gol nella competizione di Hector Rial, agevolato ancora una volta da una grandissima giocata al limite dell’area di Alfredo Di Stefano.

I blancos del presidente Santiago Bernabeu alzano per la prima volta nella storia la Coppa Campioni.

Un trofeo che parla madrileno

Le merengues domineranno la scena per altre quattro edizioni della sempre più seguita competizione calcistica europea. Giocatori come Alfredo Di Stéfano, Ferenc Puskas, Raymond Kopa, José Santamaría e Miguel Muooz faranno la storia, anzi la leggenda del club spagnolo, il quale trionferà in Europa fino al 1960.

Proprio quest’ultima edizione pertanto, rimarrà per sempre negli albori del calcio, grazie alla vittoria del Real Madrid sull’Eintracht Francoforte per ben 7 reti a 3. In quell’occasione, si divisero il bottino i due giocatori più forti di quel periodo storico: Alfredo Di Stefano, autore di tre segnature, e il grande Ferenc Puskas, mattatore delle altre quattro.

La finale si giocò all’Hampden Park di Glasgow, davanti alle telecamere della BBC e dell’Eurovisione, forte di un pubblico di oltre 135.000 persone. Ancora oggi, si tratta di un vero e proprio recordo di spettatori per una finale di Coppa dei Campioni.

Dopo la prima edizione, va detto, i blancos superarono in finale, nel 1957, i campioni uscenti della Serie A italiana, ossia la Fiorentina, grazie a un gol di Di Stéfano su rigore e ad un altro di Gento. Nell’edizione 1957-1958, fu ancora una volta un’italiana a contendere il titolo ai madrileni: il Milan.

Dopo una partita bellissima ed equilibrata, protrattasi fino ai tempi supplementari per via del perdurante 2 a 2, a decidere fu ancora una volta Gento, al minuto 107. Infine, prima del record di Hampden Park, toccò nuovamente al Reims fare posto al Real sul primo gradino del podio europeo: a Stoccarda, decisive furono le marcature di Mateos e del solito Di Stéfano.

La Champions League vinta nel 2022 contro il Liverpool è la numero 14 per la società; a guidare la squadra in panchina l’italiano Carlo Ancelotti, primo allenatore della storia del calcio a vincere quattro volte la competizione.

La cavalcata di Ancelotti porta la squadra spagnola a conquistare l’ottava Coppa Intercontinentale nel 2023: il Real Madrid batte per 5-3 i sauditi dell’Al Hilal nella finale che si svolge in Marocco l’11 febbraio.

Il 1° giugno 2024 Ancelotti guida il Real Madrid alla conquista della sua 15ª Champions League: vince a Wembley contro il Borussia Dortmund per 2-0.

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Come viene eletto il Presidente della Repubblica Italiana https://cultura.biografieonline.it/come-viene-eletto-il-presidente-della-repubblica/ https://cultura.biografieonline.it/come-viene-eletto-il-presidente-della-repubblica/#comments Thu, 06 Jan 2022 15:42:42 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=494 Come viene eletto il Presidente della Repubblica Italiana? Ne parliamo in questo articolo, facendo un breve riassunto sul ruolo di questa istituzione: quali sono i poteri, quanto dura il mandato.

NOTA BENE
Sul sito principale Biografieonline.it puoi trovare l’elenco delle biografie dei Presidenti della Repubblica.

Il Capo dello Stato

Simbolo dell’unità nazionale, di cui è rappresentanza vivente e giuridica, il Presidente della Repubblica Italiana ricopre un ruolo molto importante; la sua funzione è scritta sulla Costituzione italiana, in vigore dal 1° gennaio del 1948. Il più alto documento di legge nazionale infatti, stabilisce che può salire alla carica di Presidente qualsiasi cittadino italiano che goda dei diritti civili e politici; c’è un unico vincolo: che abbia compiuto i cinquant’anni di età.

Nella storia d’Italia tuttavia, non è mai accaduto che sia stato eletto un presidente fuori dal Parlamento, preso dunque dalla società civile.

Il Quirinale, Sede del Presidente della Repubblica
Il Quirinale, residenza del Presidente della Repubblica

Il Presidente della Repubblica è un organo costituzionale.

Riportando alla lettera quanto sancito, sarebbe un organo di “garanzia” costituzionale, per quanto sia prevista anche per lui, in alcuni casi, la facoltà d’essere un organo governante. L’articolo 87 comma I della Costituzione dice espressamente che il Presidente della Repubblica Italiana è

il Capo dello Stato e il rappresentante dell’unità nazionale.

Presiede inoltre:

  • il Consiglio Supremo di Difesa;
  • il Consiglio Superiore della Magistratura.

L’elezione del Presidente della Repubblica

Elezioni indirette

La sua elezione si svolge in seduta comune del Parlamento, con l’aggiunta dei rappresentanti di ogni singola regione. Si parla, nel caso specifico dell’elezione presidenziale, di “elezione indiretta”.

In pratica si tratta di un processo adottato da molte repubbliche europee (e non solo), nel quale i votanti che prendono parte all’elezione non scelgono tra i candidati alla carica, bensì eleggono soggetti che, chiamati in causa, dovranno scegliere se accedere o meno, alla carica stessa.

Le elezioni indirette, metodo antico per la verità, sono spesso usate dai sindacati, oltre che in certe corporazioni professionali, civiche o benefiche.

I delegati regionali

Nello specifico, i delegati regionali sono tre per ogni regione (due scelti tra la maggioranza vigente, uno tra la minoranza), eccezion fatta per la Valle d’Aosta, che ne ha uno solo.

L’inclusione nella seduta comune d’elezione dei rappresentanti regionali è necessaria per garantire il rispetto delle minoranze, come dice la Carta Costituzionale.

La convocazione per l’elezione

Ad ogni modo, spetta al Presidente della Camera dei deputati convocare, 30 giorni prima della scadenza effettiva del mandato del Presidente della Repubblica, tutti i membri del Parlamento Italiano, per provvedere alle votazioni.

Il quorum elevato

Al momento dell’elezione, dovrà raggiungersi un quorum elevato, onde evitare, nel rispetto della democrazia vigente, che il presidente incaricato sia espressione della momentanea maggioranza politica al governo.

Come viene eletto il Presidente della Repubblica

L’elezione, la quale avviene a scrutinio segreto, può durare anche tre scrutini. Nei primi due pertanto, la maggioranza dovrà essere pari ai 2/3 dell’Assemblea (si parla in questo caso di “maggioranza qualificata”). Qualora non si riesca ad ottenerla, si procederà al terzo e ultimo scrutinio, il quale prevede il raggiungimento della maggioranza assoluta: la metà dei presenti più uno.

Quanto dura il mandato del Presidente della Repubblica

La durata della carica è di 7 anni.

L’inizio effettivo del mandato del Presidente della Repubblica si ha dal suo Giuramento, che presta davanti al Parlamento. Da questo momento, è in carica per sette anni. La fine del mandato presidenziale può essere determinata, oltre che dal decorrere naturale dei sette anni, anche dai seguenti motivi, espressamente sanciti dalla Costituzione: dimissioni, morte, impedimento permanente, decadenza, destituzione per alto tradimento sancito dalla Corte Costituzionale.

Ruoli e poteri del Presidente della Repubblica

Garanzia ed equilibrio

La Carta fondamentale italiana fissa alcune caratteristiche proprie del Presidente. Tuttavia, non stabilisce con precisione – a differenza di altre cariche dello stato e di altri organi istituzionali – il suo ruolo esatto. Una cosa chiara e chiarita sin da subito, è la sua irresponsabilità politica.

Si dice poi che il suo ruolo, concretamente, varia col variare del momento politico nazionale, in base dunque agli equilibri della maggioranza di Governo.

La facoltà di sciogliere le Camere

Ha, pertanto, facoltà, in caso di rapporti instabili con rischio di crisi imminente, di sciogliere le Camere, in vista di una nuova consultazione elettorale.

Lo scioglimento anticipato poi, si ha solo in casi gravi, e soltanto dopo aver sentito i Presidenti della Camera e del Senato (a patto che il periodo nel quale accada non coincida con gli ultimi sei mesi del mandato del Presidente della Repubblica; salvo l’unico caso in cui questi sei mesi non siano anche gli ultimi sei del governo stesso).

Come un arbitro

Nel caso di rapporti di Governo stabili invece, il Presidente della Repubblica deve farsi esclusivamente garante del rispetto dei valori sanciti dalla Costituzione.

A conferma inoltre della sua irresponsabilità politica, c’è l’articolo 89 della Costituzione, il quale stabilisce i cosiddetti criteri della Controfirma.

Nessun atto del Presidente della Repubblica” – è scritto sulla Carta – “può dirsi valido se non è stato controfirmato dal ministro proponente (o dal Presidente del Consiglio se il caso lo richiede)”.

Tutti gli atti che hanno valore legislativo infatti, devono portare anche e sempre la firma del Presidente del Consiglio.

In pratica, e in sintesi, i ministri o il Presidente del Consiglio propongono un atto che sarà il Presidente della Repubblica ad emanare legalmente.

Tuttavia, prima che vada in vigore, occorre che sia controfirmato, quale ulteriore sigillo di governo, dal ministro che ha proposto l’atto e, ovviamente, dal Presidente del Consiglio in carica. Si distingue in questi casi specifici tra:

  • 1. atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi;
  • 2. atti formalmente e sostanzialmente presidenziali;
  • 3. atti complessi eguali.

Il Presidente della Repubblica ha responsabilità giuridica, all’interno dell’esercizio delle proprie funzioni, unicamente per quanto riguarda i reati di Alto Tradimento e Attentato alla Costituzione; fuori di essi è al pari di un comune cittadino.

La residenza del Presidente della Repubblica

La residenza ufficiale del Presidente della Repubblica Italiana è il Palazzo del Quirinale, che sorge sull’omonimo colle di Roma. Il Quirinale è uno dei simboli dello Stato italiano.

Speriamo che l’articolo su come viene eletto il Presidente della Repubblica vi sia piaciuto. Ditecelo nei commenti.

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Intervista a Tony di Corcia, autore del libro sulla vita di Gianni Versace https://cultura.biografieonline.it/versace-tony-di-corcia-intervista/ https://cultura.biografieonline.it/versace-tony-di-corcia-intervista/#comments Thu, 01 Aug 2013 17:22:36 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7740 Tony di Corcia è nato a Foggia nel 1975, ed è giornalista professionista. Laureato in Giurisprudenza. Ha scritto di moda per le redazioni pugliesi del Corriere della Sera e di Repubblica. Dirige la testata web Viveur.it. Nel 2010 ha esordito a livello editoriale con il libro “Gianni Versace: lo stilista dal cuore elegante”, una raccolta di interviste incentrate sul grande stilista di Reggio Calabria.

Tony Di Corcia, giornalista e scrittore
Tony Di Corcia, autore di due libri sulla vita di Gianni Versace

Nel 2012 però, grazie alla casa editrice Lindau, Tony Di Corcia è tornato sul “luogo del delitto”, con una biografia molto importante sempre incentrata sulla vita dello stilista morto in circostanze misteriose nel 1997, dal titolo: “Gianni Versace. La biografia“. Ad impreziosire il libro, la prefazione dell’eterno rivale di Versace, Giorgio Armani.

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Gianni Versace – La biografia. Prefazione di Giorgio Armani

Il 31 luglio 2013, la Ares Film, società di produzione cinematografica e televisiva di cui Mediaset è socia, specializzata nella realizzazione di miniserie per la tv (l’ultima delle quali “Pupetta”, con Manuela Arcuri), ha annunciato di aver acquisito i diritti del libro, con il fine di farne un film o una fiction.

Il primo ciak è fissato a novembre 2013. In questa intervista, a pochi giorni dalla “prima” assoluta del suo secondo libro, il giornalista Tony Di Corcia racconta come ha lavorato, quali personalità ha dovuto sentire e la sua idea sulla stessa morte del grande stilista calabrese.

Intervista a Tony Di Corcia

Qual è la differenza tra questo nuovo libro su Gianni Versace e il precedente?

La tipologia di libro, sicuramente. Il primo era una raccolta di interviste, alla quale mi appoggiavo letteralmente: venticinque personaggi che hanno conosciuto, che hanno lavorato con Gianni Versace. Un racconto polifonico a più voci, il quale mi permetteva di raccontare Versace attraverso la voce di chi aveva avuto a che fare con lui. Questa volta invece si tratta di una biografia: mi sono preso la responsabilità di raccontare Versace con la mia voce. Inevitabilmente poi, ho dovuto e voluto fare qualche domanda ad alcune persone, anche per deformazione professionale. Ho sentito personaggi come Patty Pravo, Alba Parietti, o top model come Eva Herzigova, ma anche coloro i quali fanno parte dell’industria della moda: le prime imprenditrici che hanno fatto lavorare Versace come stilista, molti suoi collaboratori, amici, familiari. È nella natura di un tipo di lavoro del genere.

Tra le personalità intervistate, spicca quella di Giorgio Armani, che ha firmato la prefazione al libro. Quale dei personaggi sentiti, compreso lo stesso Armani, ha lasciato maggiormente il segno nel libro?

Trovo che sia molto bello, innanzitutto, che il suo “grande antagonista” abbia deciso di rendergli onore con queste belle parole, impreziosendo addirittura il libro con una sua prefazione. Tra gli altri personaggi sentiti, penso soprattutto ai suoi collaboratori più stretti, soprattutto alla stilista Manuela Brambatti, e alcuni suoi bozzetti sono inclusi nel libro, ma anche a Bruno Gianesi, responsabile del suo ufficio stile: loro mi hanno trasferito tutto l’entusiasmo che Versace riversava nel lavoro.

Quale il momento storico che ti ha divertito di più raccontare, della vicenda legata a Versace?

Gianni Versace
Gianni Versace

Sicuramente quello vissuto in prima persona è stato divertente: agli inizi degli anni ’90 mi sono avvicinato alla moda e ho vissuto quegli anni da vero fan di Gianni Versace, sino alla sua morte.

Tuttavia, il mio periodo preferito è proprio quello che non ho vissuto: negli anni ’80 infatti, soprattutto verso la fine, Versace ha dato vita a delle realizzazioni che ancora oggi vengono copiate a tutto spiano anche dai cosiddetti stilisti di grido.

Raccontare quel periodo mi è servito per comprendere a pieno quanto fosse avanti in quegli anni: aveva previsto un modo di vestire che è quello che utilizziamo ancora oggi.

Versace nel tuo libro è intravisto nei termini di un “dionisiaco”. È questo il tratto essenziale?

Sì, è stato il vero Dioniso della moda. È stato capace di capire quanto attraverso l’abito passino molti più significati di quelli che noi vogliamo dargli: attraverso l’abito è possibile una metamorfosi importante che chiama ad una vera affermazione del sé, che viene a galla. Riuscire a fare questo attraverso un abito è raro…

Volo a Miami” diceva Versace, alla fine di ogni sfilata. Cosa è successo l’ultima volta, nel 1997? Sembra la morte di una rockstar?

È una morte molto cinematografica e a suo modo molto rock. Rimane una morte però molto tragica e nera, e a tratti misteriosa. Io credo che di fronte a questi episodi così complessi, la spiegazione sia sempre la più semplice ed evidente. Gianni Versace era un personaggio estremamente celebre, anche più di una rockstar, se vogliamo. Quando si è troppo celebri si può finire nel mirino di uno squilibrato, abitare le sue ossessioni: è possibile che accada. Io credo che sia successo semplicemente questo: Versace è rimasto vittima della sua celebrità. Io l’ho raccontata esattamente così, rispettando la versione ufficiale.

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Intervista a Walter Siti https://cultura.biografieonline.it/walter-siti-intervista/ https://cultura.biografieonline.it/walter-siti-intervista/#comments Wed, 31 Jul 2013 09:22:43 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7734 Walter Siti, originario di Modena, vive a Roma. È critico letterario, saggista e scrittore. Ha insegnato nelle università di Pisa, Cosenza e L’Aquila. È il curatore delle opere complete di Pier Paolo Pasolini per la pregiata collana editoriale “I Meridiani” (Mondadori). Importanti, alcuni suoi saggi su Eugenio Montale e Sandro Penna. Tra i suoi libri ricordiamo “La magnifica merce” (2004), “Troppi paradisi” (2006) e “Il contagio” (2008), di cui “Il canto del diavolo” è la naturale prosecuzione. Dal novembre del 2008 tiene sulla “Stampa” di Torino una rubrica di televisione intitolata La finestra sul niente. Da segnalare, anche la recente uscita di critica per la casa Nottetempo: “Il realismo è l’impossibile”, tratta da una celeberrima frase di Pablo Picasso.

Walter Siti
Walter Siti

Nel 2012 Walter Siti ha pubblicato, con la casa editrice Rizzoli, lo splendido romanzo dal titolo “Resistere non serve a niente”, vincitore, durante la finale del 4 luglio 2013, del riconoscimento letterario più importante e prestigioso d’Italia: il Premio Strega. In realtà, il romanzo di Walter Siti ha letteralmente trionfato a Roma, nella suggestiva cornice di Villa Giulia, avendo totalizzato la bellezza di 165 voti. Moltissimi, rispetto al secondo classificato Alessandro Perissinotto, con il suo “Le colpe dei padri” (Piemme), giunto a quota 78 voti. (soltanto un voto in più di Paolo Di Paolo, autore di “Mandami tanta vita”, edito da Feltrinelli).

Una foto di Walter Siti
Walter Siti, vincitore del premio Strega 2013

In questa intervista – colta durante una delle poche presentazioni dello scrittore modenese, soprattutto prima dell’assegnazione dello Strega – Walter Siti parla del mondo sotterraneo della finanza, del denaro, del corpo: tre elementi importanti del suo “Resistere non serve a niente”. Ma traccia anche paragoni con i suoi precedenti lavori, come il noto e apprezzatissimo “Troppi paradisi”, infine soffermandosi su cosa sia diventato, negli ultimi tempi, il desiderio, per gli occidentali in generale e per gli italiani in modo particolare.

Intervista a Walter Siti

Leggendo il suo libro, c’è una frase che dice: “L’unica soluzione è la Rivoluzione”. Tuttavia, andando a fondo dello stesso romanzo, viene fuori che forse la Rivoluzione sia stata già fatta e non dal popolo, ma da chi sta molto, molto in alto. È così?

Questa è una cosa che si è detta molte volte nella storia. Prima si è detto che la vera Rivoluzione, in Europa, sia stata quella industriale, ad esempio. Poi, in Italia, si è detto che la vera Rivoluzione l’abbiano fatta i mass media, intorno agli anni sessanta… Naturalmente, succede sempre che ci sono dei movimenti sotterranei che sono molto più decisivi delle cose che salgono in superficie. Resta il fatto che in questo momento si ha l’impressione che, anche se le cose vanno molto male, le persone hanno troppo da perdere da uno sconvolgimento totale. C’è questa specie di immobilismo superficiale sotto il quale si muovono queste correnti profonde che però bisognerebbe capire anche in che direzione vanno.

Rispetto a “Troppi paradisi”, il mondo del gossip, del glamour, è visto in maniera differente: che cosa è successo nella società italiana?

Qui è molto più marginale rispetto al romanzo citato, è vero. Se ne parla soprattutto all’inizio, quando il protagonista incontra l’autore, durante una delle solite feste d’ambito televisivo… Direi che in generale il libro rispecchia anche un cambiamento che è successo nella società italiana: mentre dieci anni fa, quando ho scritto Troppi paradisi, il mondo del glamour era nel suo periodo trionfante, adesso si può dire che è in una fase calante, come durante la “fine di un impero”…

Un esempio?

Mah, per esempio succedono cose come il matrimonio di Valeria Marini, con le persone assiepate alla scalinata che gridano offese e altre cose del genere. Insomma, si ha l’impressione che sia un mondo che in questo momento è molto, molto in decadenza.

Com’è cambiato il desiderio degli italiani, in questi ultimi anni?

Domanda molto difficile. Intanto, spero che ogni italiano ne abbia conservato una buona parte… Volendo generalizzare, ho l’impressione che spesso, al valore d’uso del desiderio, che significa desiderare una cosa per farne poi uso, si sia sostituito il valore di scambio, cioè desiderare qualcosa perché fa status symbol, perché ti mette in una certa posizione rispetto agli altri…

In altre parole?

Diciamo che è come se si desiderassero cose sempre un po’ più finte, magari, rispetto a quelle che si desideravano prima. Ma non ne sono sicuro.

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I Peanuts https://cultura.biografieonline.it/strisce-peanuts/ https://cultura.biografieonline.it/strisce-peanuts/#comments Wed, 13 Feb 2013 04:41:14 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=6258 Un gruppo di bambini e un cane, anche se un po’ particolare. Questi sono i protagonisti dei Peanuts (in italiano noccioline), una saga di fumetti durata cinquant’anni, creata da Charles M. Schulz, la quale ha attraversato tutti i momenti più importanti della storia occidentale, cambiando con il mondo, talvolta persino influenzandolo. Entrando nella cultura del popolo americano, insediandosi tra le pagine dei giornali epocali, fino a farsi conoscere anche in Europa e poi ovunque, praticamente in tutto il mondo.

Peanuts
I Peanuts

Lezioni di vita, concentrate in una serie di battute e scenette indimenticabili, per raccontare la società, per far pensare, per ridere e far ridere. E pensare che nel 1947, quando per la prima volta vedono la luce i Peanuts, questi sono ancora molto lontani da come diventeranno famosi. Il giornale St. Paul Pioneer Press, dà una chance a Schulz ma la prima pubblicazione vede i personaggi chiamati con un altro nome: “Li’l Folks”, ossia “personcine”. Il prodotto è ancora lontano da quello che conoscono tutti ma, tre anni dopo, la United Feature Syndicate, azienda leader in America nelle strisce a fumetti e colonne editoriali, decide di appropriarsene, cambiando però il nome in Peanuts.

2 ottobre 1950: la prima striscia dei Peanuts
2 ottobre 1950: la prima striscia dei Peanuts

A Schulz non piace il nome, che definisce ridicolo, ma gli tocca accettarlo, visto che in poco tempo, dal 2 ottobre 1950 in poi, le sue strisce vengono pubblicate sui migliori quotidiani statunitensi, dal Washington Post al Chicago Tribune, iniziando una vera e propria ascesa nell’olimpo dei fumetti. Sarà enorme il successo e nessuno, a quel tempo, pur scommettendo sulle grandi capacità dell’autore, avrebbe mai potuto immaginare un risultato di tale portata

Peanuts, arachidi: perché si chiamano così?

Il termine peanuts (in italiano: arachidi o noccioline) venne scelto perché indicava nel teatro la sezione con i posti più economici: così a volte il termine veniva usato per estensione, per indicare il giovane pubblico composto da bambini. E bambini sono proprio i protagonisti delle celebri strisce.

I personaggi principali

C’è Charlie Brown – e chi non lo conosce? – testardo, eterno perdente, timido e insicuro, giocatore di baseball sciagurato, del tutto simile per biografia al suo vero creatore: anche lui figlio di un barbiere, come il padre di Schulz, anche lui innamorato di “una ragazzina dai capelli rossi”, proprio come la donna amata dal disegnatore in gioventù e che, si racconta, finì per abbandonarlo poco prima del matrimonio. Nasce negli anni cinquanta, all’età di quattro anni. Per cinquant’anni poi, fedele al genio di Schulz, non crescerà che di quattro anni ancora, fermandosi per sempre ad otto. È, con Snoopy, il grande protagonista della storia dei Peanuts. D’altronde, l’uno è il padrone dell’altro, anche se il bracchetto di Charlie Brown non è proprio un cane qualsiasi, anzi.

Snoopy è più umano degli umani: pensa, cammina a due zampe, scrive, cucina, gioca come interbase nella squadra di baseball di Charlie e, soprattutto, immagina. Sogna, di continuo. Il beagle ha una fantasia eccezionale e nel corso della sua lunga storia è riuscito ad immedesimarsi in centinaia di personaggi differenti, raccontando storie nelle storie, strisce nelle strisce che, soprattutto negli anni ’60, hanno fatto letteralmente impazzire i bambini (e non solo) di tutti i paesi.

Indimenticabili, le strisce che lo vedono come un pilota della Prima Guerra Mondiale, alle prese con il temibile Barone Rosso, senza dimenticare gli altri alter ego che l’hanno visto protagonista, dall’avvocato al chirurgo, fino all’aspirante scrittore, cui si deve l’incipit più abusato e famoso di sempre: “Era una notte buia e tempestosa”.

C’è poi Lucy van Pelt, sorella maggiore di Linus, prepotente, egoista e dispettosa: a conti fatti il personaggio più temuto dall’intera banda. Picchia spesso il fratello Linus, altro personaggio molto amato, con la sua coperta che lo difende dal mondo, oltre che migliore amico di Charlie Brown. Tuttavia, è proprio quest’ultimo il vero bersaglio della prepotenza di Lucy, che si diverte ad umiliare davanti agli altri bambini non appena ha occasione per mettersi in mostra. È, secondo molti, il primo esemplare di personaggio femminista della storia dei fumetti.

Chiude la carrellata Piperita Patty, all’anagrafe dei fumetti Patricia Reichardt. Mascolina, sportiva e discola, si rivolge a Charlie chiamandolo “Ciccio”, mentre tratta il suo cane come fosse un bambino con il nasone. I suoi amici sono la secchiona Marcie, che la chiama “capo”, e Franklin, l’unico bambino di colore della saga. È innamorata di Charlie Brown, senza essere però corrisposta.

L’ultima “striscia”

Il 13 febbraio 2000, squilla il telefono. Risponde Charlie Brown, ma è Snoopy che vogliono dall’altra parte della cornetta. Il “ragazzo dalla testa tonda” dice che il cane più famoso – e umano – della storia dei fumetti non c’è, probabilmente occupato a dare vita alla sua grande – e poco redditizia – passione. “No, I think he’s writing”, dice Charlie Brown: “credo che stia scrivendo”. E infatti, accanto a lui, nella striscia successiva, Snoopy è sul tetto della propria cuccetta, con la sua macchina da scrivere, intento a battere i tasti sul foglio bianco.

Peanuts, l'ultima striscia a fumetti
13 febbraio 2000: l’ultima striscia a fumetti dei Peanuts con il saluto di Charles M. Schulz

Sopra di lui, compare una scritta: “Dear friends” – “Cari amici”. Sotto, in un’unica striscia, scorrono le immagine storiche che hanno reso Peanuts il fumetto più famoso del mondo, il più amato, il più seguito. C’è Lucy che ruba il pallone a Charlie Brown, Snoopy che attenta alla coperta di Linus, ancora Lucy colpita sulla testa da una palla da baseball, senza dimenticare Snoopy in versione aviatore della Prima Guerra Mondiale, con tanto di occhialini e caschetto. È, questa, l’ultima striscia di Charlie Schulz, morto esattamente il giorno prima, all’età di settantasette anni, il 12 febbraio 2000.

Dopo di ciò, i Peanuts non esisteranno più.

Charles M. Schulz

Si è spento durante la notte, dormendo, il papà dei Peanuts. Da tempo malato di cancro, aveva sofferto a causa di alcune complicazioni seguite al suo intervento di qualche mese prima, esattamente nel novembre del 1999. Proprio dopo quell’operazione di chirurgia addominale, Schulz aveva annunciato al mondo il suo ritiro dalle scene. La striscia di congedo, vedeva Charlie Brown e Snoopy abbracciarsi forte, con un cuore disegnato poco vicino a loro.

Charles M. Schulz
Charles M. Schulz, padre dei Peanuts

Schulz ha disegnato ininterrottamente la striscia per 50 anni, senza avvalersi di assistenti, nemmeno per i testi e la colorazione: un caso raro di dedizione al lavoro, ma anche di originalità e autenticità di stile. I Peanuts sono cambiati, durante gli anni, e la stessa mano dell’autore ha avuto i suoi momenti di difficoltà nel corso del tempo, soprattutto a cominciare dai primi anni ottanta, quando il suo tratto inizia visibilmente a tremare. Pur a fatica, Schulz ha continuato a creare, sino alla pubblicazione della sua ultima striscia: vero e proprio testamento da pubblicare l’indomani della sua morte, in realtà realizzata il 3 gennaio del ‘2000. Oltre a ciò, tra le effettive volontà post mortem, il creatore di Charlie Brown ha proibito la continuazione della serie a fumetti dopo la sua dipartita. Volontà, ad oggi, rispettata, se è vero che in tutto il mondo le uniche cose a firma Schulz che vengono pubblicate, non sono altro che vecchie riedizioni di Peanuts ormai classici, riproposte senza cambiare una virgola dal loro primo concepimento.

La lettera di “Snoopy”

Firmata Charlie Schulz, la lettera di concedo dai suoi lettori, come detto pubblicata esattamente il giorno dopo la morte del disegnatore, recitava così:

«Cari amici sono stato abbastanza fortunato da disegnare Charlie Brown e i suoi amici per quasi 50 anni. Ho realizzato le ambizioni che avevo fin da bambino. Ma sfortunatamente non posso più mantenere i ritmi richiesti da una puntata quotidiana.

La mia famiglia non vuole che nessun altro continui a disegnare i Peanuts al posto mio e per questo devo annunciare il mio ritiro, perciò annuncio il mio ritiro. Per anni – prosegue il messaggio – sono grato ai miei editori per la fedeltà che mi hanno dimostrato in tutti questi anni e ai fan dei miei fumetti per l’affetto e il sostegno che mi hanno dato. Charlie e Sally Brown, Snoopy, Linus, Lucy… come potrò mai dimenticarli…»

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Così fan tutte. Storia e trama dell’opera di Mozart https://cultura.biografieonline.it/cosi-fan-tutte-mozart/ https://cultura.biografieonline.it/cosi-fan-tutte-mozart/#comments Wed, 23 Jan 2013 00:36:18 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=6068 Così fan tutte è un’opera lirica in due atti, senza ombra di dubbio tra le più amate e celebrate del celebre compositore Wolfgang Amadeus Mozart. Cronologicamente, si colloca tra le cosiddette opere italiane, la terza scritta dall’artista di Salisburgo, su libretto di Lorenzo da Ponte. Al Burgtheater di Vienna, il 26 gennaio 1790, viene per la prima volta rappresentata l’opera, quasi al termine di quello che verrà poi definito come il noto decennio d’oro del grande compositore austriaco, poco prima della sua dipartita.

cosi fan tutte mozart
Così fan tutte è un’opera celebre di Mozart

Al centro della vicenda, domina il tema amoroso, naturalmente. Da una parte v’è la caducità e la superficialità dell’amore femminile, messo alla prova da un classico scambio delle parti, tale da evidenziare quanto si dice in uno dei versi dell’opera, tra i più noti: “È la fede delle femmine come l’Araba fenice: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa!”. Dall’altra parte invece, c’è l’amore visto al maschile, più maturo secondo l’autore, in grado di esibire il perdono, ma appunto come mera esibizione, nel rispetto e in ossequio – quando non obbligo – di quelle convenzioni sociali ancora piuttosto tetre e inalterabili, sempre secondo l’idea del compositore.

Il contesto storico-artistico

L’opera arriva proprio sul finire di quel decennio considerato magico per Mozart, nel quale vedono la luce alcuni dei migliori lavori dell’intera storia della musica lirica. Il compositore ha perso per sempre Aloysia, la sua amata, e ha ripiegato sulla sorella, Costanza. L’esito di questo momento, è tratteggiato nell’opera “Il ratto del serraglio”, sorta di tentativo liminare di dare vita ad un vero e proprio dramma lirico tedesco. Molto deve, in questo periodo, all’italiano Lorenzo da Ponte, poeta ufficiale del Teatro di Vienna, librettista importante, il quale lo incoraggia ad aprirsi sempre di più al teatro, dopo i ripiegamenti nei quartetti dei primi anni ’80. Risultato di questo binomio lavorativo è la rappresentazione delle “Nozze di Figaro”, andata in scena prima a Vienna e poi a Praga, la quale costituì un vero trionfo per Mozart. Nonostante i tentavi dei suoi vari detrattori e rivali, tra i quali il noto Salieri, il direttore del teatro di Praga, Bondini, gli affida l’incarico di scrivere un’opera per la stagione seguente: il “Don Giovanni”. È, ancora una volta, un “Don Giovanni italiano”, marcato dalla mano del Da Ponte, il quale anima l’opera d’un senso autobiografico: ne viene fuori una vera e propria commedia, varia e guizzante, che Mozart rende equilibrata ed esalta all’ennesima potenza, evidenziando la vivacità dei personaggi e delle situazioni.

Amadeus Mozart
Mozart

È una commedia, come detto, stando almeno al registro e ai temi, ma sembra anche l’annuncio ufficiale del mondo romantico che sta arrivando. Ed è anche e soprattutto un’opera lunga, nel suo lavorio, che Mozart comincia ufficialmente nel 1787, per terminare praticamente soltanto alla vigilia della prova generale, il 28 ottobre: fu un successo straordinario. Il compositore perde suo padre, ma a Vienna gli viene tributato il dovuto con la nomina a “Kammermusikus dell’imperatore” e la rappresentazione del Don Giovanni nella capitale austriaca, il 7 maggio del 1788. Il pubblico di casa però, come spesso accade, è tiepido, e Wolfgang riparte per la Germania, al seguito del principe Lichnowsky. Passano un paio d’anni e, senza cedere alle lusinghe del re Federico Guglielmo II, Mozart torna in patria e accetta, da Giuseppe II, di scrivere la sua nuova opera, dal titolo “Così fan tutte, ossia La Scuola degli amanti”, anch’essa su libretto del Da Ponte. Ma come accade a molti geni, il pubblico e le contingenze si rivelano ostili e anche questa rappresentazione, la prima andata in scena, come suddetto, nel gennaio del 1790, non viene accolta nel migliore dei modi. Inoltre, nel medesimo periodo, arriva anche la morte di Giuseppe II, che di certo non è di buon auspicio per la carriera dell’artista viennese. Ci vorrà Leopoldo II e, soprattutto, l’opera “Il flauto magico”, successivamente, a restituire la giusta notorietà a Mozart, riportandolo ai suoi successi e dando modo e tempo a pubblico e critica austriaca di ricredersi, e tanto, anche sui suoi vecchi lavori, su tutti la stessa opera “Così fan tutte”.

L’intreccio e i personaggi

Semplice e geometrica, la vicenda. Il gioco d’amore si basa su una girandola a quattro, la quale comprende e disattende gli ardori di due coppie di fidanzati. Fulcro dell’intreccio poi, è un filosofo, di natura cinica e calcolatrice, per quanto libera da condizionamenti legati alle convenzioni sociali. Questi ottiene che le due ragazze protagoniste, che sono anche sorelle, si innamorino ciascuna del fidanzato dell’altra. Ma alla base, come nella più classica delle commedie plautine o terenziane, c’è il travestimento: i due fidanzati vengono a conoscenza degli intenti del filosofo e accettano la sua sfida. Così facendo, si cangiano d’aspetto, travestendosi appunto e impersonando la parte di due ufficiali stranieri. Il gioco è facile, a quel punto: le loro rispettive donne credono d’amare l’altro e dimenticano subito i loro rispettivi e ordinari fidanzati per poi però, finire per accettare il ritorno di ogni cosa al punto di partenza, ciascuna con i propri amati iniziali. Il trionfo è quello dell’equità, dell’amore e della sua virtù che, a scapito della superficialità – qui rappresentata dalla frivolezza delle due donne – finisce comunque per affermarsi, superando anche la stessa intelligenza del filosofo. Stando al libretto classico, questi di seguito sono i personaggi principali dell’opera “Così fan tutte”: Fiordiligi e Dorabella, rispettivamente soprano e mezzo-soprano; Ferrando e Guglielmo, tenore e baritono; Despina, soprano; Don Alfonso, basso.

L’antefatto

I due militari Ferrando e Guglielmo sono in un caffè di Napoli, al cospetto di Don Alfonso. Entrambi raccontano della bellezza delle due sorelle e vantano la loro fedeltà, nonostante il filosofo che è con loro, affermi invece che in materia femminile, la parola fedeltà non si sa dove sia. L’onore delle due donne, Dorabella e Fiordiligi, viene messo in discussione e prontamente, i due fidanzati sfidano a duello Don Alfonso. Questi però, ha un’altra soluzione: cento zecchini per provare loro che le fidanzate non sono diverse dalle altre. I due uomini dovranno attenersi alle regole che imporrà il filosofo, se davvero vogliono contraddire la sua teoria.

Al fronte

Don Alfonso si accorda con la serva di casa delle due sorelle, Despina: entrambi fanno in modo che le due donne credano che i loro rispettivi fidanzati sono stati richiamati al fronte. Passa poco tempo e due ufficiali albanesi si presentano ai piedi di Fiordiligi e Dorabella: sono Tizio e Sempronio, ma altri non sono che i due fidanzati reali, travestiti. Questi vengono inizialmente respinti, le due sorelle si dichiarano fedeli e causano così, il loro suicidio per amore. In realtà, è una trovata anche questa, la quale permette ai due agonizzanti di presentarsi davanti alle esterrefatte sorelle, le quali iniziano a provare per loro compassione. Il medico che li riporta in vita, è Despina, anch’ella travestita – Don Alfonso è in combutta con lei e le ha promesso dei soldi se l’avesse aiutato nell’impresa – e l’evento porta i due ufficiali a rinnovare ancora di più il loro amore.

La notte sul mare

Despina convince le due sorelle: “sarà un gioco” dice loro, e la gente crederà che i due spasimanti sono lì per lei. Viene organizzata una serenata alle dame, sul mare, nel giardino. Fiordiligi e Ferrando allora, si allontanano, suscitando così la gelosia di Guglielmo, che offre un regalo a Dorabella e riesce a conquistarla. Quest’ultima cede per prima e convince, poi, Fiordiligi stessa, una volta in casa, a fare altrettanto. Tocca a lei, allora, travestirsi: con gli abiti di un ufficiale, raggiunge il promesso sposo sul campo di battaglia ma viene fermata da Ferrando stesso, ancora una volta, il quale finisce per conquistarla davanti agli occhi di Guglielmo, il suo promesso.

YouTube video

Così fan tutte

Guglielmo è furente ma anche Ferrando odia la sua ex donna, entrambi sono stati delusi. Don Alfonso ha da impartire il proprio insegnamento, forte di aver ottenuto quello che voleva e anzi, li esorta a finire la commedia con doppie nozze: tanto, come sostiene dando loro delle “cornacchie spennacchiate”, una donna vale l’altra. La colpa non è delle due sorelle in questione, sostiene poi il filosofo, ma è della stessa natura… “se così fan tutte”. Alla fine, i due veri cavalieri irrompono durante le finte nozze organizzate da Despina e mandano in fuga i due amanti albanesi, i quali altri non sono che loro stessi, nel frattempo nascosti (per sempre) dalle due donne. L’atto termina con il matrimonio delle due coppie legittime.

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Le regole del Football Americano e il Super Bowl https://cultura.biografieonline.it/football-americano-regole-campionato-superbowl/ https://cultura.biografieonline.it/football-americano-regole-campionato-superbowl/#comments Wed, 14 Nov 2012 17:26:11 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=4861 Prima della NFL, ossia della National Football League, ci fu l’American Professional Football Association, nata nel 1920, la quale diede l’abbrivio al professionismo del football americano. Appena due anni dopo si trasformò in National Football League la quale però, era molto, molto diversa dall’attuale confederazione sportiva di oggi, comprendente nella pratica tutte le squadre professionistiche dei vari stati americani.

Football americano: NFL (National Football League)
Football americano: NFL (National Football League)

Al principio la NFL raggruppava appena dieci squadre e gareggiava, per rivalità di organizzazione e blasone, con la All-American Football Conference. Nella stessa NFL non v’era alcuna divisione tra eastern e western, in quanto non ve n’era assolutamente bisogno. La prima batteria di play-off infatti, costituita nelle cosiddette fasi finali di un campionato fino all’assegnazione del titolo a seguito di una finalissima, si disputò solamente nella stagione 1933, a causa proprio della divisione delle squadre in due conferences, ossia due gironi: Eastern Division e Western Division.

Nel 1950 poi, avvenne un’ulteriore fusione, la quale aumentò sensibilmente il numero di squadre partecipanti: la NFL e la All-America Football Conference divennero un unico campionato, suddiviso in National Conference e American Conference per poi, tre anni dopo, mutare nuovamente in Eastern Conference e Western Conference. Queste ultime due nel 1967 subirono altre suddivisioni, rispettivamente in Capitol Division e Century Division, e Coastal Division e Central Division.

La storia del football americano però, resta travagliata e segnata, durante questi anni, sino ai primi del ‘2000, da ulteriori suddivisioni e scissioni. È quanto accadde nel 1970: tre squadre della NFL infatti si unirono alla rivale American Football League, detta AFL, da sempre a 10 squadre, costituendo l’AFC, ossia American Football Conference. Le restanti squadre della NFL entrarono nella National Football Conference, ossia NFC, e ciascuna di queste suddivisioni subì, al proprio interno, altre divisioni in rispettivi gironi, sempre organizzati per aree geografiche: East, Central e West.

Passarono molti anni, con diversi tentativi di interrompere la cosiddetta egemonia di interesse sul pubblico che esercitavano le nuove riorganizzazioni delle squadre, ad opera ad esempio della World Football League (WFL) e della United States Football League (USFL), entrambi fallimentari, nonostante si svolgessero in momenti differenti della stagione. Per la cronaca, il primo tentativo fallì al primo colpo, il secondo durò appena tre campionati.

Dalle accuse di razzismo al successo planetario

Negli anni Settanta poi, grazie anche all’invenzione, per così dire, dell’ormai famoso Super Bowl, in grado di attirare mediaticamente un pubblico sempre più vasto e includendo al proprio interno spettacoli e show capaci di catalizzare l’attenzione al di là del contesto puramente sportivo, avvenne il cosiddetto sorpasso: il football attirava più spettatori del baseball, un tempo considerato il vero sport nazionale a stelle e strisce.

Questo segnò anche la fine di molti atteggiamenti razzisti, i quali avevano visto i dirigenti di molte squadre di football professionistico e non solo, evitare più volte l’ingaggio di giocatori di colore, se non in casi “estremi”, ossia quando l’atleta in questione, oltre ad essere nero, aveva anche un grande talento. Fu un cambio di marcia importante, anche questo, il quale “internazionalizzò” una disciplina sportiva che aveva il proprio naturale discendente nel rugby europeo e, in ogni caso, nei college americani per bianchi.

La cosa andò liscia, anche a livello federale, fino al 2002, quando venne effettuata un’ulteriore riorganizzazione che portò a 32 il numero di squadre, separate sempre in AFC e NFC, distribuite tra quattro divisions e tutte sotto la National Football League. All’interno di ogni conference poi, ancora una volta, le squadre partecipanti sono suddivise su base geografica in 4 gironi, di 4 squadre ciascuna, per un totale di sedici team per entrambe le due conferences.

Il Super Bowl

Il Super Bowl è la finale, anzi la finalissima, da disputarsi ogni anno in una città degli Stati Uniti d’America, similmente alla Champions League europea per quanto riguarda il mondo del calcio. Questo è il Super Bowl, almeno in sintesi: la partita che decide il titolo NFL e che mette davanti le vincitrici delle due conferences.

Super Bowl
Super Bowl

Solitamente, si disputa a fine gennaio ma, come già detto, non si deve pensare ad un momento che duri unicamente l’arco della partita giocata. Durante la settimana del Super Bowl infatti, nella città che ospita la partita, vengono organizzate diverse manifestazioni, con eventi collaterali e in tema con il football, come ad esempio la NFL Experience: sorta di Disneyland costruita sul mondo del football americano, visitata giornalmente da migliaia di persone.

Il Super Bowl nasce nel 1967, ufficialmente, con la vittoria dei Green Bay Packers sui Kansas City Chiefs, con un punteggio di 35 a 10. Sono, entrambe, due tra le squadre con una storia più longeva negli Usa. Inutile dire quanto sia importante acquisire i diritti del Super Bowl da parte di un’emittente televisiva, considerato che il match finale mette davanti la tv milioni di spettatori e risulta sempre essere, come indici di ascolto, tra le prime tre trasmissioni dell’anno.

Pittsburgh Steelers
Pittsburgh Steelers

Una cosa curiosa inoltre, è il fatto che la cronologia delle edizioni del Super Bowl venga indicata con i numeri romani e che ogni finale venga giocata esattamente al principio del nuovo anno, a conclusione del precedente.

Ad ogni modo, la squadra che ha ottenuto più successi è quella dei Pittsburgh Steelers, con sei titoli. Il trofeo vero e proprio poi, è un gioiello creato da Tiffany e dedicato ad uno storico allenatore di origini italiane: il “Vince Lombardi Trophy”. Si tratta di una palla da football interamente d’argento, rappresentata in posizione di kick off e del valore di circa venticinquemila dollari.

Il regolamento

La cosiddetta regular season, per ogni squadra dell’NFL, consta di 17 partite. Si gioca sempre nel week-end, compreso il “Monday Night”, il classico appuntamento del lunedì. Il calendario, ad ogni modo, è suddiviso secondo gli incontri di Intraconference e Interconference, secondo un meccanismo di rotazione piuttosto complicato: ciò significa che nella prima fase, ogni squadra deve affrontare sei volte tutte le altre squadre della sua stessa Division, più quattro contro altre quattro squadre di un’altra Division della stessa Conference; nella seconda fase invece, si giocano quattro partite contro altre quattro di una Division dell’altra Conference, per poi concludere con le ultime due partite, in casa e in trasferta, da disputare contro team della stessa Conference (escluse quelle della Division in rotazione), che condividono lo stesso piazzamento di Division della stagione precedente.

Alla fine della regular season, accedono ai playoff le migliori sei squadre di ogni conference. Avviene allora che la terza e la quarta squadra affrontano rispettivamente la sesta e la quinta, mentre le prime due di ogni conference saltano questo primo turno, detto “Wild Card Round”, per accedere direttamente a quello successivo, il “Divisional Playoff”.

Football Americano - Casco

Da quest’ultima batteria di incontri, escono le finaliste di conference, che sono poi le due squadre più forti, le quali si contendono il Super Bowl. In ogni partita inoltre, la squadra con la migliore classifica in regular season affronta la propria avversaria davanti al suo pubblico, giocando in casa. Questo, ovviamente, ad eccezione della finalissima che, come detto, viene stabilita dalla lega. A questo proposito, va aggiunto, solitamente la sede del Super Bowl viene scelta nelle località più miti d’America, con uno stadio all’aperto, giocandosi in un periodo dell’anno invernale. Ma accade talvolta che la finalissima si disputi anche in qualche impianto indoor.

Il “Pro Bowl”

Il Pro Bowl è un’anticipazione del Super Bowl e, di fatto, chiude la stagione professionistica. Similmente al basket, con le Hall Star Game, vengono selezionati tutti i migliori giocatori delle conference AFC e NFC, per una partita ad alto contenuto spettacolare. Dal 1980, sede fissa è Honolulu, nelle Hawaii. Prima dell’invenzione del Super Bowl inoltre, il Pro Bowl veniva considerato la classica del football americano. Tuttora, è più un happening, per quanto molto seguito dagli spettatori.

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Il diritto di decidere: intervista a Beppino Englaro https://cultura.biografieonline.it/beppino-englaro-intervista/ https://cultura.biografieonline.it/beppino-englaro-intervista/#respond Fri, 09 Nov 2012 10:42:41 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=4716 Beppino Englaro: “Nessuna famiglia dovrà patire quello che abbiamo subito. Io posso solo continuare a battermi per una legge che rispetti la persona, che non dia ad altri se non a lei stessa il diritto di decidere del proprio corpo”.

Nelle sue parole, pubblicate da Rizzoli nel libro dal titolo “La vita senza limiti”, tutta l’anima, la forza e la vicenda del papà di Eluana Englaro, la ragazza che il 9 febbraio 2009, dopo 17 anni di stato vegetativo irreversibile e dopo una battaglia culturale, legale e civile operata dalla sua famiglia, ha ottenuto il diritto alla sospensione della nutrizione artificiale.

A settembre 2012 inoltre, la storia della famiglia Englaro ha ispirato anche il regista Marco Bellocchio, nel suo “Bella addormentata”, film presentato anche al Festival di Venezia e considerato tra i più interessanti andati in sala negli ultimi anni.

Beppino Englaro con una foto di Eluana
Beppino Englaro con una foto di Eluana

La storia di Beppino Englaro è diventata famosa per la sua ostinazione, la volontà di credere nella legge e in uno Stato di diritto, nonostante tutte le strumentalizzazioni, politiche e culturali, che ha dovuto subire, prima che la sua volontà e quella di sua figlia, venissero riconosciute definitivamente.

In un’intervista, la storia e il calvario, oltre che le considerazioni di Beppino Englaro, alla luce di una vicenda che ha appassionato e diviso, per anni, l’Italia.

Una battaglia durata 17 anni per affermare un diritto, quale, precisamente?

Il diritto era quello di non portare Eluana in una condizione clinica estranea al modo di concepire l’esistenza che lei aveva molto chiaro, pur nella sua giovane età. Prima del suo incidente, un anno prima, era andata a trovare un suo amico che versava nelle stesse condizioni nelle quali si sarebbe ritrovata lei. Avendo percepito questi pericoli, ossia le evoluzioni che può avere la rianimazione ad oltranza in certi casi, essendosi espressa anche in casa, perché se ne parlava sempre, di morte, vita, e dignità della persona, noi abbiamo solo dato voce a quello che voleva lei: questa è la nostra rivendicazione.

Eppure, attualmente, nonostante si parli tanto di “testamento biologico”, la soluzione, almeno in termini legislativi, sembra ancora ferma.

Le cose si sono evolute, invece. L’opinione pubblica è bene informata, rispetto a quando ho cominciato io a muovermi, e questa è una cosa importantissima. La gente vuol sapere, adesso. Grazie anche a questa vicenda la gente si cautela, dà la propria disposizione, e poi c’è una sentenza della magistratura, della Corte Costituzionale che parla chiaro.

Un calvario, il suo e della sua famiglia, vissuto anche in Parlamento. In che modo?

Il Parlamento, prima che scoppiasse il caso di Eluana, non aveva mai legiferato come avrebbe dovuto, nonostante gli appelli della stampa. A quel punto però, è intervenuta la magistratura, la quale non poteva non rispondere alla domanda di giustizia del cittadino e ha risposto, infatti, lo ha fatto con precisione. Sono loro, sono stati loro, o meglio alcuni rami del parlamento che, di fronte alla risposta della magistratura, hanno sollevato un conflitto di attribuzione, parlando di sentenza creativa, come se la magistratura non avesse voce in capitolo. Loro hanno sollevato questo conflitto assurdo che di fatti la Corte Costituzionale, dopo, ha giudicato inammissibile.

Cosa può dire alle famiglie che vivono una situazione simile a quella di Eluana?

Io, solo cadendoci dentro, ho capito di avere idee diverse. Bisogna ritrovarsi in certe situazioni, per capire bene. Qui è in gioco la coscienza comune: altri accettano queste condizioni, a differenza di Eluana, di come la vedeva lei, la vita. Ma è una vicenda che non va contro nessuno, la nostra: noi abbiamo rispetto delle persone e dei convincimenti della gente, punto. È una questione interiore, nient’altro, e di fatti la magistratura stessa, prima di emettere la sentenza, ha voluto sapere i convincimenti etici, confessionali e filosofici della ragazza. Questo il punto.

Beppino Englaro
Beppino Englaro

Credo che le famiglie non hanno bisogno di me, delle mie informazioni. Ciò che ha sorpreso è stato il nostro modo di muoverci: noi avevamo un modo di concepire la cosa diametralmente opposta a quella di allora, ma il clima culturale per fortuna adesso è diverso, la magistratura si è allineata alla Costituzione, che prevede “l’inviolabilità della persona e della sua dignità e libertà”. Anche questo va rispettato, come l’idea religiosa della sacralità umana, spesso sventolata. Eluana aveva le idee molto chiare sulla sua vita e noi l’abbiamo rispettata.

C’è una lettera di Eluana, inserita nel libro, in apertura, e risalente a un mese prima dell’incidente nella quale è evidente il rapporto che avesse con noi, con la sua famiglia: un rapporto basato sul rispetto e sull’aiuto reciproco. Noi l’abbiamo applicato.

Per il cardinale Martini è stato rifiutato l’accanimento terapeutico, accompagnandolo verso la morte. Quali differenze con la vicenda di Eluana?

Le gerarchie ecclesiastiche non vogliono sentir parlare di questo, parlano di sacro e profano. Martini è stato accompagnato con cure palliative nella fase terminale della sua vita. Per Eluana bisognava riprendere il processo per morire, che era stato interrotto. Ma è stata accompagnata anche lei: le due situazioni non vanno mescolate ma sono un accompagnamento attraverso le cure palliative verso la morte.

Come giudica il film di Marco Bellocchio, “Bella addormentata”?

Bellocchio ha fatto una creazione artistica notevole, muovendosi dentro i sette giorni cruciali di Eluana, ossia gli ultimi. È un film molto elegante, non ideologico. Semplicemente, un gran bel film.

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Il football americano e la sua storia https://cultura.biografieonline.it/storia-football-americano/ https://cultura.biografieonline.it/storia-football-americano/#comments Tue, 06 Nov 2012 09:51:00 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=4659 Il football americano, la versione del rugby a stelle e strisce, nasce nel New Jersey, ufficialmente, il 6 novembre 1869, nella città di New Brunswick, quando ha luogo il primo match ufficiale di football. Le squadre sono due rappresentative universitarie: Rutgers e Princeton, e ad applaudirli, secondo le cronache dell’epoca, ci sono appena cento spettatori, unici testimoni oculari di un evento sportivo che assumerà una rilevanza storica.

Storia del football americano
Storia del football americano

Si tratta, in pratica, del primo di una serie di tre incontri tra le due squadre universitarie, che però non fu mai portato a termine. La prima partita venne vinta da Rutgers per 6-4, la seconda venne vinta da Princeton la quale poi, per il rifiuto degli avversari di disputare la cosiddetta “bella”, ossia la terza gara, si aggiudicò anche la vittoria della serie e, dunque, del minitorneo.

Ciò che gli americani ereditarono dalla London Football Association, sfruttandone alcune regole e facendo da sé per molte altre, fu solo un lontano parente del football americano moderno. Vero è che, dopo quelle due partite, questa nuova disciplina sportiva, seppur in modo disorganico, si diffuse ampiamente, sempre esclusivamente nei college statunitensi, soprattutto del circondario di Boston. Le prime vere riunioni tra allenatori, giocatori e dirigenti avvennero intorno al 1873, con il fine di studiare un testo unico che avesse un regolamento dettagliato e preciso.

Gli albori del moderno American Football

Con tutta probabilità, sebbene il rugby o, quanto meno, una versione ancora primitiva di questo sport si praticasse già a livello dilettantistico in molti college americani, sin dagli anni ’20 e ’30 dell’Ottocento, va a Princeton il merito di aver posto le basi del futuro football americano. Fu un gruppo di studenti di questa università infatti, a far diffondere di campus in campus un gioco semplice ed efficace, consistente nel fare avanzare la palla oltre gli avversari, tanto con le mani che con i piedi, con tanto di corpo a corpo, in uno scontro di forza basato essenzialmente sul gioco di squadra. Le regole, in breve, erano sostanzialmente queste.

Football americano: un moderno pallone ovale
Football americano: un moderno pallone ovale

La palla, il primo esemplare moderno, per così dire, realizzato sulla forma di un grosso uovo, compare e si diffonde grazie agli studenti di Harvard e al lancio di quella che diventerà una vera e propria tradizione: ogni primo lunedì di ogni anno accademico, le matricole e i veterani dell’università si scontrano in una partita quasi all’ultimo sangue, tanto che l’evento è diventato una sorta di macabro appuntamento fisso, fino da farsi conoscere anche fuori dai confini accademici con l’irriguardosa espressione del “Lunedì di sangue”. Anche a Boston, questa pratica cominciò a diffondersi, prendendo piede a partire dal 1860.

Finita la Guerra Civile americana, dal 1865 in poi, molti college hanno preso ad organizzare partite interne di football, favorendone la diffusione. Princeton, ancora una volta, ha aperto la strada, fissando le prime, basilari, regole di gioco.

I primi regolamenti

La prima storica partita, come detto tra Princeton e Rutgers, si tenne in un campo di gioco nettamente differente, per dimensioni, da quelli sanciti successivamente dai regolamenti federali, e fissati sulle 100 yards di lunghezza e 53,5 di larghezza. Il match si giocò su un campo lungo 120 yards e largo 75, dunque ben più grande. D’altronde, i giocatori in campo all’inizio erano 50, ben 25 contro 25. Ogni segnatura dava un punto di punteggio e ogni volta che si faceva meta, bisognava invertire il campo. Si vinceva al meglio dei 10 punti (chiamati “game”) e, cosa che dimostra ancor di più quanto fosse rudimentale all’inizio il football, la stessa palla poteva essere colpita con piedi, mani o testa.

I giocatori poi, non conoscevano falli e placcaggi regolari o meno: tutto, nella pratica, era possibile. Si trattava, in un certo senso, di una sorta di sintesi primitiva del rugby e del calcio europei, in una versione tutta americana, privilegiando soprattutto l’aspetto aggressivo, fisico, corporale.

Per quasi dieci anni questa riduzione, per così dire, continuò ad essere praticata, finché gli americani, e i loro college, non scelsero definitivamente di accostarsi al rugby, di fatto facendo fuori il calcio. Anche le regole, da quel momento, divennero più chiare e meglio assimilate a quelle dell’altro antico sport nato in Inghilterra, anch’esso praticato con la cosiddetta palla ovale.

Verso il Football NFL

Il 1873 è un altro anno cardine nella storia di questo sport tanto amato dagli americani, il quale verso la fine del XX secolo diventerà il primo sport degli States, quello più seguito e spettacolarizzato tramite i mezzi di informazione, in grado di mobilitare stelle dello spettacolo e di incollare davanti gli schermi televisivi, per uan finale, milioni e milioni di persone in tutto il mondo.

Ad ogni modo, accade che quell’anno i rappresentanti di Columbia, Rutgers, Princeton e Yale decidano di incontrarsi a New York City, con il fine di mettere definitivamente nero su bianco una serie di regole ben codificate, oltre che per stabilire un vero e proprio campionato intercollegiale di football. Queste quattro squadre pertanto, hanno finito per istituire un’associazione, la “Intercollegiate Football”, fissando a 15 giocatori, come nel rugby europeo, il numero massimo di elementi ammessi per team durante una partita.

Una foto della squadra di Yale del 1894
Una foto della squadra di Yale del 1894

A dare una svolta importantissima, facendo in modo che il football americano si distaccasse definitivamente dal rugby europeo, fu Walter Camp, un allenatore di stanza a Yale, il quale dal 1880 introdusse la regola dello schieramento, detto “scrimmage”, fondamentale per iniziare ogni azione di gioco. Tre anni dopo, il distacco fu completo, con la riduzione del numero di 11 giocatori per ogni squadra.

Intanto, già dall’anno prima, molte squadre di molti stati americani avevano dato vita alle prime società professionistiche di football, data la popolarità che il nuovo sport andava acquisendo tra la gente. In questo stesso periodo, si ebbe anche il primo, vero campione di football: Jim Thorpe, il quale era noto al grande pubblico sportivo anche per essere stato un pluricampione olimpico di atletica e un grande giocatore di baseball.

Football americano: NFL (National Football League)
Football americano: il simbolo della NFL (National Football League)

Sarà proprio lui, il 17 settembre 1920, a fondare la moderna National Football League (N.F.L.), fissando le ultime regole di gioco (come la possibilità di lanciare la palla in avanti, una delle regole maggiormente vietate nel rugby e che segnano la grande differenza tra questi due sport), con il fine di ridurre gli aspetti violenti di questa nuova disciplina sportiva, la quale solo nel 1905 portò alla morte di ben 18 atleti e al ferimento di altri 150, con tanto di denuncia da parte del Congresso del Governo americano, il quale chiamò in causa direttamente il Presidente Roosevelt.

A partire dal 1903 infine, si ebbero i primi veri stadi, con la costruzione dell’impianto di Harvard, ancora oggi tra i più grandi d’America e uno dei primi ad essere eretto per poter ospitare migliaia di tifosi. La capienza di molti altri stadi, sulla scia di Harvard, da quel momento cominciò ad aggirarsi stabilmente sui cento mila posti.

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L’epico incontro tra Ali e Foreman https://cultura.biografieonline.it/ali-foreman-quando-eravamo-re/ https://cultura.biografieonline.it/ali-foreman-quando-eravamo-re/#comments Tue, 30 Oct 2012 15:38:48 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=4520 Me lo mangerò in un boccone! Sono troppo veloce per lui! Troppo veloce!”. Comincia così uno dei docu-film più appassionanti di sempre, diretto dal regista Leon Gast e dal titolo, emblematico, “Quando eravamo re”. Un prodotto cinematografico epocale, soprattutto per la gestazione dell’opera in sé, durata circa ventidue anni. Al principio il documentario avrebbe dovuto raccontare, quasi esclusivamente, il concerto di musica soul che doveva precedere l’incontro di pugilato tra Muhammad Ali e il campione del mondo George Foreman, a Kinshasa, nella capitale dell’allora stato dello Zaire (poi Congo Belga), avvenuto il 30 ottobre 1974. Ne venne fuori, invece, un ritratto appassionante, formidabile, incentrato sulla figura di Cassius Clay, il pugile nato negli States e convertitosi all’Islam dopo la conquista del suo primo titolo mondiale, esattamente il giorno dopo, nel 1964.

Ali-Foreman, Kinshasa (Zaire), 30 ottobre 1974
Ali-Foreman, Kinshasa (Zaire), 30 ottobre 1974

Veloce come una farfalla e pungente come un’ape

All’epoca, il giovane pugile, definito un atleta politico per la sua determinazione nel farsi portavoce del riscatto del popolo afroamericano, “veloce come una farfalla e pungente come un’ape” (fly like a butterfly, sting like a bee), si appropriò del titolo mondiale mandando al tappeto il campione uscente Sonny Liston – impresa che ripeté l’anno dopo, nel Maine, dopo pochi attimi di gara e con il famoso “pugno fantasma”.

Nel 1974 invece, dopo aver perso il titolo mondiale contro Joe Frazier nel 1971 (la stampa lo definì “L’incontro del secolo”), l’ormai divenuto Muhammad Ali ebbe il coraggio di sfidare il campionissimo George Foreman, uno dei più grandi pugili di sempre, tra l’altro più giovane di lui. Foreman aveva inoltre battuto proprio Frazier, per prendersi il titolo, mandandolo a tappeto sei volte prima del K.O. finale. I bookmaker lo davano come strafavorito, tra l’altro in un momento di forma straordinario, che lo aveva visto sconfiggere in soli due round un altro pugile di enorme qualità e forza, Ken Norton, lo stesso che aveva fratturato la mascella a Muhammad Ali.

Cassius Clay a Kinshasa
Cassius Clay a Kinshasa

Entrambi i pugili passarono l’estate intera nello Zaire, per allenarsi e acclimatarsi all’ambiente africano. Per Ali fu un ritorno alle origini, un rientro a casa, che sfruttò fino all’ultimo, cavalcando il sogno di un riscatto africano a tutti gli effetti, in un momento cruciale della storia dei neri d’America e non solo. L’incontro si sarebbe dovuto tenere il 25 settembre, ma Foreman si ferì durante gli allenamenti e venne procrastinato di un mese.

Quando eravamo Re: il docu-film

Nel documentario di Leon Gast, scorrono le immagini preparatorie del match, gli allenamenti, le interviste ad Ali, le sue parole, le sfide più o meno audaci che lancia di continuo al suo sfidante, le provocazioni assurde e assolutamente d’impatto. “Lo manderò in pensione” dice Ali, “manderò in pensione il campione George Foreman”, “la cosa farà più scalpore delle dimissioni di Nixon, vedrete!”.

When we were kings - Quando eravamo re
When we were kings – Quando eravamo re

Emerge, chiaramente, il carisma di uno sportivo che sapeva bene d’essere più debole, ai pugni, del suo avversario, ma consapevole del fatto che, se fosse riuscito a portare dalla sua parte il pubblico, avrebbe potuto godere di un vantaggio psicologico non indifferente nei confronti di un pugile che faceva della stazza e della potenza fisica le proprie armi – gli esperti più volte parlarono di Foreman come l’atleta più forte in assoluto che sia mai esistito.

Ad ogni modo, nonostante fossero entrambi di chiare origini africane, è Foreman che viene subito individuato come l’Occidentale, l’americano imperialista da mandare al tappeto per riscattare un intero continente. Muhammad Ali si appropria del pubblico, lo incanala dalla sua parte, come spiega il grande regista Spike Lee, uno degli intervistati nel docu-film “Quando eravamo re”: “Per quei due pugili afroamericani – afferma il cineasta – era molto importante ritornare in Africa; Hollywood e la televisione ci avevano insegnato ad odiare l’Africa, un tempo se chiamavi “africano” un nero rischiavi il pestaggio”.

Ali si appropria del termine e, com’è riportato nel documentario, durante le svariate interviste preparatorie all’evento, senza mezzi termini manda al diavolo l’America e afferma solennemente l’appartenenza dei neri, degli afroamericani, alla grande mamma Africa. Secondo lo scrittore Norman Mailer invece – che anche lui descrisse la vicenda epocale in più di un lavoro – Muhammad Ali aveva paura, e sapeva che questa sarebbe aumentata con l’avvicinarsi dell’evento e aveva bisogno di esorcizzarla, di farla propria, di trasformarla in boxe.

Il prodotto di Leon Gast, ad ogni modo, venne fuori solo nel 1996 e vinse numerosi riconoscimenti: l’Oscar, innanzitutto. Ma anche il “Broadcast Film Critics Association Award”, “l’Independent Spirit Award”, il “New York Film Critics Circle Award”, il premio come miglior documentario da parte del “National Society of Film Critics Award”, e molti altri. Nel docu-film la musica ebbe un ruolo importante, come da copione, almeno inizialmente, con sprazzi di concerti molto intensi, come quello dell’eroina Miriam Makeba e dei Crusades.

Ma, oltre alla vicenda di Ali, alla sua carriera, alle sue provocazioni continue e affermazioni più o meno politiche, fu soprattutto il combattimento tra i due pugili ad avere un ruolo centrale.

Terremoto nella giungla

Ali bomaye! Ali bomaye! Ali bomaye!”. Il 30 ottobre 1974, allo Stade Tata Raphaël di Kinshasa, nell’allora Zaire, il pubblico ha già scelto per quale pugile fare il tifo e, per tutta la durata dell’incontro, non fa che ripetere quel coro: “Ali, uccidilo!“.

Il match passerà alla storia come “Il terremoto nella giungla” (A Rumble in the Jungle) e, soprattutto, per l’impresa di Muhammad Ali: l’unico, dopo Floyd Patterson, capace di riprendersi il titolo dei Pesi Massimi dopo averlo perduto.

L’incontro cominciò alle 5 di mattina secondo l’ora di Kinshasa, in modo che tutte le televisioni potessero trasmetterlo, in particolar modo la tv americana, con il consueto commento di Bob Sheridan. All’incontro, tra il pubblico, erano presenti anche i “grandi sconfitti” Ken Norton e Joe Frazier.

La vittoria di Ali segnò un cambio di passo epocale nella storia della boxe: fu un risultato figlio di una pianificazione tattica senza precedenti, rappresentata da quella che lo stesso Ali, più volte anche prima del match, aveva definito anche ai suoi stessi allenatori come la sua “tattica segreta”.

Io sono il più grande
Muhammad Ali: Il più grande

Il futuro campione, dopo i primi due round nei quali diede sfoggio della sua capacità atletica e della velocità di gambe, intuì che non avrebbe potuto reggere per tutto l’incontro quei suoi stessi ritmi. Assestò alcuni colpi a Foreman, leggeri ma precisi, giocò d’astuzia per tutti i round, provocandolo con frasi come “mi avevano detto che sapevi dare pugni” e altre, le quali non facevano altro che innervosire l’avversario, di fatto deconcentrandolo.

Ma ben presto si incollò alle corde, per oltre sei riprese, dando la possibilità a Foreman di sfogarsi: un’idea rischiosa ma, a suo modo, geniale. L’azione elastica delle corde infatti, attutiva i colpi, rendendoli meno potenti, consentendo ad Ali tempi di ripresa superiori, preziosi in una condizione del genere. Nel frattempo, ogni volta che gli riusciva, Ali colpiva Foreman al collo e in pieno viso, destabilizzandolo.

L’ottavo decisivo round

All’ottavo round, Foreman era stremato. Nonostante avesse tenuto in mano l’incontro per tutti i round, era quello che riportava i segni più netti sulla faccia, mal ridotta dalle puntata del suo sfidante, come sempre velocissimo e astuto nell’assestare i suoi colpi.

Alì colse il momento al volo e, vedendo Foreman più lento del solito, si lanciò in una serie di jab e uppercut che fecero crollare il rivale al tappeto: prima gli alzò il viso e poi lo stese con un diretto micidiale. Il gigante indietreggiò per quasi mezzo ring, per poi accasciarsi a terra, di schiena. Impiegò nove secondi per rialzarsi ma, anche quando fu sulle ginocchia, l’arbitro decretò la fine del match, sancendo anche il decimo secondo.

Fu la più memorabile delle vittorie per Muhammad Ali.

Muhammad Ali campione
Muhammad Ali esulta a braccia alzate

Il premio Oscar

Alla cerimonia degli Oscar del 1997, vinto da Gast e Sonenberg per il loro “When we were kings” (titolo originale di “Quando eravamo re”), fu proprio Muhammad Ali ad essere chiamato sul palco per ricevere l’ambita statuetta. Affetto dal morbo di Parkinson però, l’ex campionissimo fece fatica a salire i gradini e a raggiungere i presentatori che lo attendevano per la cerimonia di premiazione.

A quel punto, fu proprio l’eterno rivale George Foreman ad aiutarlo a salire le scale. I due infatti, dopo il famoso incontro e, soprattutto, dopo anni di polemiche, erano diventati amici.

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