Sport Archivi - Cultura https://cultura.biografieonline.it/argomento/sport/ Canale del sito Biografieonline.it Mon, 04 Nov 2024 11:03:44 +0000 it-IT hourly 1 Cos’è la sabermetrica https://cultura.biografieonline.it/la-sabermetrica/ https://cultura.biografieonline.it/la-sabermetrica/#respond Mon, 04 Nov 2024 10:01:39 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=261 La sabermetrica è un’analisi statistica ed economica applicata e specializzata nel gioco del baseball.

Baseball, mazza e pallina su erba

SABR

Il nome trova provenienza dall’acronimo SABR: “Society for American Baseball Research” (Società americana per la ricerca sul Baseball).

Tale termine è stato coniato da Bill James (George William James), scrittore, storico ed esperto statistico, nonché pioniere in questo campo.

Attraverso le statistiche e l’analisi di numerosi parametri, la sabermetrica si pone l’obiettivo di valutare le azioni passate dei giocatori – registrate durante gli incontri ufficiali – per predire il futuro, stabilendo così il valore economico dei giocatori stessi.

Domande e risposte

Attraverso la sabermetrica si cerca di rispondere a domande oggettive come possono essere:

  • “quale giocatore di quella squadra contribuirà di più all’attacco l’anno prossimo?”
  • “quale cambiamento difensivo è possibile applicare per migliorare i risultati?”

Pur considerando che si tratta di una scienza – o disciplina – ancora in fase di forte evoluzione, le analisi sabermetriche hanno prodotto di fatto già diverse innovazioni nel gioco del baseball.

I modelli con cui vengono misurate le prestazioni sono stati poi esportati, come era facile prevedere, in altri ambiti sportivi come il gioco del calcio.

Billy Beane e il film “L’arte di vincere” (Moneyball)

Il dirigente sportivo più noto che grazie alla sabermetrica – e al proprio talento manageriale – ha ottenuto i più grossi risultati è Billy Beane, della squadra degli Athletics di Oakland.

Nel 2003 esce il libro best-seller “Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game” (L’arte di vincere un gioco sleale), scritto da Michael Lewis.

Pochi anni più tardi la sua storia, basata sul libro, viene raccontata nel film “L’arte di vincere” (Moneyball, 2011, di Bennett Miller). È Brad Pitt l’attore che nel lungometraggio interpreta i panni di Billy Beane.

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Adidas: storia del marchio e 3 curiosità https://cultura.biografieonline.it/adidas-storia/ https://cultura.biografieonline.it/adidas-storia/#comments Fri, 16 Aug 2024 15:57:37 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2945 La storia dell’Adidas prende il via nel 1920, a Herzogenaurach, una piccola località non lontana da Norimberga, in Germania. Qui, Adolf Dassler comincia a pensare a realizzare delle scarpe specifiche per fare sport: si tratta di una novità assoluta, che diventa ancora più importante quando Adolf pensa a scarpe specifiche per ogni sport. Dassler, quindi, pianifica la creazione di scarpe pensate per l’atletica: egli, infatti, è a sua volta un atleta, e nel giro di poco tempo dimostra a tutti la qualità delle sue intuizioni.

Logo Adidas
Logo Adidas

Le scarpe alle Olimpiadi

Così, in occasione delle Olimpiadi di Amsterdam in scena nel 1928, gli atleti in gara indossano per la prima volta delle scarpe munite di “spikes”, vale a dire tacchetti, in grado di regalare prestazioni eccezionali grazie a una migliore presa rispetto alle calzature tradizionali.

Jesse Owens
Jesse Owens (1936)

La prima atleta ad aggiudicarsi una medaglia d’oro indossando scarpe nate dall’ingegno di Adolf è Lina Radke, che vince gli ottocento metri stabilendo il nuovo primato mondiale. Dassler, così, riesce a far conoscere in tutto il mondo le sue creazioni, dopo aver aperto, quattro anni prima (nel 1924) insieme al fratello Rudolf Dassler, la “Fabbrica di Scarpe dei fratelli Dassler” (Gebrueder Dassler Schulfabrik), un negozio che vende articoli sportivi.

Dassler ottiene grandi soddisfazioni grazie alle sue idee, e così inizia a pensare anche a scarpe per altri sport: nel 1931, per esempio, è la volta delle scarpe da tennis. Alle Olimpiadi di Berlino del 1936 il campione Jesse Owens indossa scarpe firmate da Dassler, ed è anche grazie a esse che conquista quattro ori a cinque cerchi.

Adidas e Puma

L’anno successivo, la scarpe Dassler possono essere utilizzate in undici sport differenti, per un totale di trenta modelli: la scarpa sportiva moderna è ormai famosa. Le cose, tuttavia, vanno bene dal punto di vista professionale, ma non da quello personale: Adolf, infatti, continua a litigare con suo fratello Rudolf, anche a proposito delle modalità di gestione dell’azienda. I due, così, rompono e si separano: ognuno decide di fondare una propria azienda.

È il 1948: Rudolf fonda una fabbrica chiamata Puma, mentre Adolf dà ufficialmente vita all’Adidas il 18 agosto 1949: il nome Adidas arriva da Adi, il soprannome con cui Adolf viene chiamato dagli amici, e dalle prime tre lettere del suo cognome.

Adolf Dassler mentre sistema i tacchetti di un paio di scarpe da calcio
Adolf Dassler mentre sistema i tacchetti di un paio di scarpe da calcio

Costantemente impegnato nello sviluppo della nuova azienda, Dassler si dedica in particolar modo alle scarpe da calcio, e così nel 1950 dà vita alle Adidas Samba, progettate in maniera particolare per gli allenamenti quotidiani dei giocatori. Ai Campionati del Mondo di Svizzera 1954 i giocatori della Nazionale tedesca calzano scarpe Adidas: a Berna, in occasione della finale, c’è anche Adolf, che alla fine del primo tempo si precipita negli spogliatoi per modificare la forma dei tacchetti e adattarli al terreno bagnato dalla pioggia.

La Germania sconfiggerà l’Ungheria e si laureerà campione del mondo, e Dassler, in virtù dei tacchetti intercambiabili delle sue scarpe, diventerà un eroe al pari dei calciatori.

L’invenzione delle sponsorizzazioni sportive

Adidas inventa, nel contempo, la sponsorizzazione sportiva, e si pubblicizza grazie ai calciatori che equipaggia. Per la fabbrica tedesca viene addirittura inventato il retronimo “All Day I Dream About Sports”, a dimostrazione della sua fama, confermata – per altro – dal fatto che più del 70 % degli atleti che partecipano alle Olimpiadi di Roma vestono Adidas. Vestono, perché nel frattempo si è deciso di puntare anche sull’abbigliamento sportivo: ne sono testimonial, tra gli altri, anche Dick Fosbury, Muhammad Ali, Franz Beckenbauer, il già citato Jesse Owens e Sepp Herberger.

Adidas Strisce

Adidas così inizia, progressivamente, a prendere le caratteristiche che oggi le riconosciamo: per esempio le tre strisce laterali, pensate per favorire la stabilità delle scarpe, e che nel giro di poco tempo divengono un segno riconoscibile del marchio Adidas, al punto da essere riprese anche nei capi di abbigliamento.

Le sponsorizzazioni della casa tedesca vanno oltre lo sport, come dimostrano i vestiti sportivi di Bob Marley: la moda detta legge, e l’idea di sponsorizzare un personaggio famoso (non necessariamente uno sportivo, ma anche un musicista) garantendosi i diritti esclusivi per la sua immagine rappresenta un’intuizione fantastica.

Adidas Bob Marley
Adidas Bob Marley

Il genio di Adolf Dassler

La mano di Adolf, in ogni caso, si rivela indispensabile anche nel momento in cui Adidas diventa una macchina da centinaia di milioni di dollari.

Per esempio, durante le Olimpiadi di Montreal 1976.

Dassler sta guardando in tv le batterie di qualificazione dei quattrocento metri piani: nota nel movimento del cubano Alberto Juantorena qualcosa di strano, uno scivolamento verso l’esterno nelle curve. Adolf chiama i tecnici inviati in Canada per far sì che controllino le scarpe dell’atleta centroamericano: i chiodi regolabili singolarmente, novità messa a punto da Adolf per le Olimpiadi canadesi, sono stati involontariamente manomessi, e la loro altezza è stata aumentata.

Ad accorgersene non è stato Juantorena, ma Dassler, dall’altra parte del mondo, attraverso uno schermo televisivo.

È la conferma del genio.

Una fotografia firmata Adi Dassler
Una fotografia firmata Adi Dassler

Adolf Dassler muore due anni dopo, il 6 settembre 1978, lasciando al mondo un’eredità di circa settecento brevetti.

Adidas, naturalmente, continua la sua cavalcata anche senza il suo fondatore. Oggi l’azienda tedesca è uno dei leader nel settore, e, dopo aver acquistato l’inglese Reebok, è seconda solo al gigante Nike.

Un modello Adidas Samba
Un modello Adidas Samba

I modelli storici di Adidas sono sempre più in voga, grazie alla voglia di vintage dei consumatori, e nel catalogo della casa tedesca resistono modelli come Campus, SuperStar e Samba che hanno fatto la storia per decenni, con fantasie e colori differenti.

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Senza sforzo è un mito. Un punto è solo un punto. Il celebre discorso di Federer https://cultura.biografieonline.it/celebre-discorso-roger-federer/ https://cultura.biografieonline.it/celebre-discorso-roger-federer/#respond Mon, 12 Aug 2024 17:33:26 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=42268 Il super campione di tennis Roger Federer venne insignito di una laurea “honoris causa” in Lettere Umanistiche dal Dartmouth College, università statunitense, situata ad Hanover, nella contea di Grafton (nello stato del New Hampshire). Qui tenne il Commencement speech, tradizionale discorso rivolto ai neolaureati in occasione della cerimonia di consegna dei diplomi.
Questo discorso è rimasto celebre.

Roger Federer - celebre discorso del 2024
Roger Federer durante il suo celebre discorso del 9 giugno 2024

Tre lezioni

Il discorso, straordinariamente efficace e motivazionale, si divide in quattro parti: una introduzione e tre lezioni.

Queste lezioni appaiono semplici ma il loro valore è altissimo.

Queste tre lezioni si possono riassumere così, con questi titoli:

  1. Fare le cose “senza sforzo” è un mito.
  2. Un punto è solo un punto.
  3. La vita è più grande del campo.

Di seguito il testo completo del celebre discorso di Federer tradotto in italiano.

[9 giugno 2024]

Il celebre discorso: introduzione

Grazie!

Ciao, classe del 2024!

È una sensazione incredibile essere qui con voi.

Sono così emozionato di unirmi a voi oggi.

Davvero, non avete idea di quanto io sia emozionato. Tenete presente che questa è letteralmente la seconda volta che metto piede in un campus universitario. La seconda volta in assoluto.

Ma per qualche motivo, mi state conferendo un dottorato.

Sono venuto qui solo per fare un discorso, ma potrò tornare a casa come “Dr. Roger”. È un bel bonus.

“Dr. Roger”. Questa deve essere la mia vittoria più inaspettata di sempre!

Presidente Beilock, Consiglio di amministrazione, membri della facoltà, grazie per questo onore.

Presidente Beilock, sono incredibilmente grato. E farò del mio meglio per non soffocare.

Sono un po’ fuori dalla mia zona di comfort oggi. Questa non è la mia solita scena…

E questi non sono i miei soliti vestiti.

Vi vestite così tutti i giorni a Dartmouth?

La toga è difficile da indossare. Tenete presente che ho indossato pantaloncini corti quasi ogni giorno negli ultimi 35 anni.

Non sono una persona che fa molti discorsi come questo. Forse il peggiore… ma un discorso importante… è stato quando ho iniziato nella nazionale svizzera. Avevo 17 anni ed ero così nervoso che non riuscivo nemmeno a dire più di quattro parole:

“Felice… di… essere… qui”.

Bene, eccoci qui, 25 anni dopo. Mi sento ancora un po’ nervoso, ma ho molto più di quattro parole da dirvi.

Inizio con: Sono felice di essere qui! Felice di essere con voi, qui sull’erba.

Come potreste aver sentito… l’erba è la mia superficie preferita.

“Big Green”… deve essere il destino!

C’è un altro motivo per cui sono qui, e posso riassumerlo in due parole:

Beer pong.

O pong, come lo chiamate voi. E immagino che possiate chiamarlo come volete… mi hanno detto che l’ha inventato Dartmouth!

Ora, questo sport… Aspetta. Il pong è uno sport? O è uno stile di vita?

In ogni caso, Dartmouth è il Wimbledon del pong. E sta anche piovendo, proprio come a Wimbledon.

Sono contento di aver potuto lavorare sui miei colpi con alcuni di voi. In realtà sto pensando di diventare professionista.

Ma so che Dartmouth non è solo il pong. Ho trascorso un paio di giorni fantastici qui ad Hanover e mi avete fatto sentire come a casa. Le montagne qui sono esattamente come le Alpi svizzere. Solo… più corte.

Ma mi piace molto qui. Ho avuto la possibilità di tirare qualche palla con i miei figli al Boss Tennis Center… Ho fatto un Woccom [si tratta di una passeggiata attorno all’Occom Pond di Dartmouth, una parola che mischia le parole ‘Walk’ e ‘Occom’ • n.d.r.] … Sono riuscito a scalare la Baker Tower, ho visto delle viste incredibili e ho portato i miei figli a vedere i libri del Dr. Seuss in biblioteca. Ovviamente ho anche sbriciolato dei biscotti al cioccolato da FoCo… e mangiato un panino al pollo EBA da Lou’s.

Ma c’è un altro grande motivo per cui sono qui: Tony G., classe ’93.

Stiamo rappando ora?

Tony Godsick è il mio socio in affari, il mio agente di lunga data, uno dei miei amici più cari e, cosa più importante… L’orgoglioso padre di Isabella, classe 2024.

Da Tony, e ora da Bella, so quanto questo posto sia davvero speciale. E quanto leali siete l’uno con l’altro, e quanto siete ossessionati da questo colore verde. Ero con la loro famiglia, inclusi Mary Joe e Nico, il giorno in cui Bella è arrivata a Dartmouth. Ricordo quanto fosse follemente felice. Ho visto un sorriso e un livello di eccitazione sul suo viso che non avevo mai visto prima…

Ma poi sono arrivato qui… e in realtà, tutti sorridono così.

Vedo quanto siete orgogliosi di questo posto… e di questo momento.

Avete lavorato così duramente per arrivare fin qui. Nutro un enorme rispetto per tutto ciò che avete ottenuto.

E per la famiglia e gli amici che vi hanno aiutati a ottenerlo. Facciamo loro un grande applauso.

Sono ancora più impressionato, perché ho lasciato la scuola all’età di 16 anni per giocare a tennis a tempo pieno.

Quindi non sono mai andato al college… ma mi sono laureato di recente.

Mi sono laureato in tennis.

So che la parola è “ritirarsi“. “Roger Federer si è ritirato dal tennis”. Ritirato… La parola è orribile.

Non diresti di esserti ritirato dal college, vero? Sembra terribile.

Come voi, ho finito una cosa importante e sto passando alla successiva.

Come voi, sto cercando di capire di cosa si tratta.

Laureati, capisco il vostro dolore.

So cosa si prova quando le persone continuano a chiederti quali sono i tuoi piani per il resto della vita.

Mi chiedono: “Ora che non sei più un tennista professionista, cosa fai?”

Non lo so… e va bene non saperlo.

Quindi cosa faccio del mio tempo?

Sono un padre prima di tutto, quindi, immagino, accompagnerò i miei figli a scuola?

Giocare a scacchi online contro degli sconosciuti?

Passare l’aspirapolvere in casa?

No, in verità, adoro la vita di un laureato in tennis. Mi sono laureato in tennis nel 2022 e voi vi laureerete al college nel 2024. Quindi ho un vantaggio nel rispondere alla domanda su cosa succederà dopo.

Oggi voglio condividere alcune lezioni su cui ho fatto affidamento durante questa transizione.

Chiamiamole… lezioni di tennis.

Spero che saranno utili nel mondo che verrà dopo Dartmouth.

Roger Federer con la toga da laureato

Lezione N° 1: “senza sforzo” è un mito

Ecco la prima:

“Senza sforzo”… è un mito. [“Effortless”… is a myth]

Lo dico sul serio.

Lo dico da persona che ha sentito questa parola molto spesso. “Senza sforzo”.

La gente diceva che il mio gioco era senza sforzo. Il più delle volte, lo intendevano come un complimento… Ma mi frustrava quando dicevano: “Ha appena sudato!”

Oppure “Ci sta almeno provando?”

La verità è che ho dovuto lavorare molto duramente… per farlo sembrare facile.

Ho passato anni a lamentarmi… a imprecare… a lanciare la racchetta… prima di imparare a mantenere la calma.

La sveglia è suonata all’inizio della mia carriera, quando un avversario all’Open d’Italia ha pubblicamente messo in dubbio la mia disciplina mentale. Ha detto: “Roger sarà il favorito per le prime due ore, e poi dopo sarò io il favorito”.

All’inizio ero perplesso. Ma alla fine ho capito cosa stava cercando di dire. Tutti possono giocare bene le prime due ore. Sei in forma, sei veloce, sei lucido… e dopo due ore, le tue gambe diventano traballanti, la tua mente inizia a vagare e la tua disciplina inizia a svanire.

Mi ha fatto capire… Ho così tanto lavoro davanti a me e sono pronto a intraprendere questo viaggio ora. Ho capito.

I miei genitori, i miei allenatori, il mio preparatore atletico, tutti mi avevano davvero chiamato in causa, e ora anche i miei rivali lo facevano.

Giocatori!! Grazie! Vi sarò eternamente grato per quello che avete fatto.

Così ho iniziato ad allenarmi più duramente. Molto più duramente.

Ma poi ho capito: vincere senza sforzo è il massimo risultato.

Ho ottenuto quella reputazione perché i miei riscaldamenti ai tornei erano così casuali che la gente non pensava che mi fossi allenato duramente. Ma avevo lavorato duramente… prima del torneo, quando nessuno mi guardava.

Forse avete visto una versione di ciò a Dartmouth.

Quante volte vi siete sentiti come se i vostri compagni di classe stessero accumulando “A” su “A” senza nemmeno provarci… mentre voi tiravate notte… vi riempivate di caffeina… piangevate piano in un angolo della biblioteca Sanborn?

Spero che, come me, voi abbiate imparato che “senza sforzo” è un mito.

Non sono arrivato dove sono arrivato solo con il talento puro. Ci sono arrivato cercando di superare i miei avversari.

Credevo in me stesso. Ma la fede in te stesso deve essere guadagnata.

C’è stato un momento nel 2003 in cui la mia autostima realmente ha preso piede.

Era alle finali ATP, dove si qualificano solo i migliori otto giocatori al mondo.

Ho battuto alcuni giocatori di alto livello che ammiravo molto, puntando dritto ai loro punti di forza. Prima, scappavo dai loro punti di forza. Se un ragazzo aveva un dritto forte, cercavo di colpire sul suo rovescio. Ma ora… cercavo di colpire il suo dritto. Ho cercato di battere i giocatori di fondo campo dalla linea di fondo campo. Ho provato a battere gli attaccanti attaccando. Ho provato a battere i giocatori di rete giocando a rete.

Ho rischiato facendo così.

Allora perché l’ho fatto?

Per amplificare il mio gioco ed espandere le mie opzioni. Hai bisogno di un intero arsenale di punti di forza… quindi se uno di questi si rompe, ti resta qualcosa.

Quando il tuo gioco funziona in questo modo, vincere è facile, relativamente.

Poi ci sono giorni in cui ti senti semplicemente distrutto.

Ti fa male la schiena… ti fa male il ginocchio… Forse sei un po’ malato… o spaventato…

Ma trovi comunque un modo per vincere.

E queste sono le vittorie di cui possiamo essere più orgogliosi.

Perché dimostrano che puoi vincere non solo quando sei al meglio, ma soprattutto quando non lo sei.

Sì, il talento conta. Non starò qui a dirti che non è così.

Ma il talento ha una definizione ampia.

Il più delle volte, non si tratta di avere un dono. Si tratta di avere grinta.

Nel tennis, un grande dritto giocato con velocità da urlo può essere definito un talento.

Ma nel tennis… come nella vita… anche la disciplina è un talento. E così la pazienza.

Avere fiducia in se stessi è un talento. Abbracciare il processo, amare il processo, è un talento.

Gestire la propria vita, gestire se stessi… anche questi possono essere talenti.

Alcune persone nascono con questi talenti. Tutti devono lavorarci.

Da questo giorno in poi, alcune persone daranno per scontato che, poiché vi siete laureati a Dartmouth, tutto vi verrà facile.

E sapete una cosa? Lasciate che ci credano…

Purché voi non ci crediate.

Ok, seconda lezione…

Lezione N° 2: è solo un punto

È solo un punto.

Lasciate che vi spieghi.

Potete impegnarvi più di quanto pensate sia possibile… e comunque perdere. A me è successo.

Il tennis è brutale. Non si può ignorare il fatto che ogni torneo finisce allo stesso modo… un giocatore vince un trofeo… Ogni altro giocatore sale su un aereo, guarda fuori dal finestrino e pensa… “come diavolo ho sbagliato quel tiro?”

Immaginate se, oggi, solo uno di voi si laureasse.

Congratulazioni, laureata di quest’anno! Diamole una mano.

Il resto di voi… gli altri mille… avrete più fortuna la prossima volta!

Quindi, sapete, ho cercato di non perdere.

Ma ho perso… a volte alla grande.

Per me, una delle più grandi è stata la finale di Wimbledon nel 2008. Io contro Nadal. Alcuni la chiamano la partita più bella di tutti i tempi. Ok, tutto il rispetto per Rafa, ma penso che sarebbe stato molto molto meglio se avessi vinto.

Perdere a Wimbledon è stato un gran colpo… perché vincere Wimbledon è tutto.

Ovviamente, tranne vincere il titolo di Dartmouth Masters pong, l’estate del secondo anno.

Voglio dire, ho avuto modo di giocare in alcuni luoghi fantastici in giro per il mondo, ma quando hai la possibilità di entrare nel Centre Court di Wimbledon… la cattedrale del tennis… e quando finisci come campione… senti la grandezza del momento. Non c’è niente di simile.

Nel 2008, stavo puntando a un sesto titolo consecutivo da record. Stavo giocando per la storia.

Non vi racconterò la partita, punto per punto. Se lo facessi, staremmo qui per ore.

Quasi cinque ore, per l’esattezza.

Ci sono stati ritardi per pioggia, il sole è tramontato… Rafa ha vinto due set, io ho vinto i due set successivi al tiebreak e ci siamo ritrovati sette pari al quinto.

Capisco perché le persone si concentrano sulla fine… gli ultimi minuti sono stati così bui che riuscivo a malapena a vedere il gesso sull’erba. Ma guardando indietro… mi sento come se avessi perso al primo punto della partita.

Ho guardato oltre la rete e ho visto un ragazzo che, solo poche settimane prima, mi aveva annientato in due set al Roland Garros, e ho pensato… questo ragazzo forse è più affamato di me… E finalmente ha il mio numero.

Ci ho messo fino al terzo set prima che ricordassi a me stesso… ehi, amico, sei il cinque volte campione in carica! E sei sull’erba, tra l’altro. Sai come si fa… Ma è arrivato troppo tardi. E Rafa ha vinto. Ed è stato meritato.

Alcune sconfitte fanno più male di altre.

Sapevo che non avrei mai più avuto la possibilità di vincere Wimbledon sei volte di fila.

Ho perso Wimbledon. Ho perso la mia prima posizione in classifica. E all’improvviso, la gente ha detto: “Ha fatto una grande corsa. È il cambio della guardia?”

Ma sapevo cosa dovevo fare… continuare a lavorare. E continuare a competere.

Nel tennis, la perfezione è impossibile

Nelle 1.526 partite singole che ho giocato nella mia carriera, ne ho vinte quasi l’80%…

Ora, ho una domanda per tutti voi: con quale percentuale di punti pensate che abbia vinto in quelle partite?

Solo il 54%.

In altre parole, ogni altro tennista in cima al ranking vince a malapena più della metà dei punti che gioca.

Quando perdi un punto su due, in media, impari a non soffermarti su ogni colpo.

Impari a pensare: Ok, ho fatto un doppio fallo. È solo un punto.

Ok, sono andato a rete e sono stato superato di nuovo. È solo un punto.

Anche un gran colpo, uno smash di rovescio sopra la testa che finisce nella Top Ten Plays di ESPN: anche quello è solo un punto.

Ecco perché vi sto dicendo questo.

Quando stai giocando un punto, quello è la cosa più importante al mondo.

Ma quando è alle tue spalle, è alle tue spalle.

Questa mentalità è davvero cruciale, perché ti libera per impegnarti completamente nel punto successivo… e in quello dopo ancora… con intensità, chiarezza e concentrazione.

La verità è che, qualunque gioco tu giochi nella vita… a volte perderai.

Un punto, una partita, una stagione, un lavoro… sono montagne russe, con molti alti e bassi.

Ed è naturale, quando sei giù, dubitare di te stesso. Di dispiacerti per te stesso.

E a proposito, anche i tuoi avversari hanno dubbi su se stessi. Non dimenticarlo mai.

Ma l’energia negativa è energia sprecata.

Devi voler diventare un maestro nel superare i momenti difficili. Per me questo è il segno di un campione.

I migliori al mondo non sono i migliori perché vincono ogni punto… È perché sanno che perderanno… ancora e ancora… e hanno imparato come affrontarlo.

Lo accetti. Piangi se ne hai bisogno… poi sforzati di sorridere.

Vai avanti. Sii implacabile. Adattati e cresci.

Lavora di più. Lavora in modo più intelligente.

Ricorda: lavora in modo più intelligente.

Lezione tre…

Mi seguite ancora?

Per un ragazzo che ha lasciato la scuola a 16 anni, sono un sacco di lezioni!

Ok, ecco la terza…

Lezione N° 3: la vita è più grande del campo

la vita è più grande del campo.

Un campo da tennis è un piccolo spazio. 2106 piedi quadrati [196 metri quadrati • n.d.r.] , per l’esattezza. Per le partite in singolare.

Non molto più grande di un dormitorio.

Ok, diciamo tre o quattro dormitori in Mass Row [una via del campus • n.d.r.].

Ho lavorato molto, ho imparato molto e ho corso un sacco di miglia in quel piccolo spazio…

Ma il mondo è molto più grande di così.

Anche quando ho iniziato, sapevo che il tennis mi avrebbe mostrato il mondo… ma il tennis non sarebbe mai stato il mondo.

Sapevo che se fossi stato fortunato, forse avrei potuto giocare a livello competitivo fino ai miei 30 anni. Forse anche… 41!

Ma anche quando ero tra i primi cinque… per me era importante avere una vita… una vita appagante, piena di viaggi, cultura, amicizie e soprattutto famiglia… non ho mai abbandonato le mie radici e non ho mai dimenticato da dove venivo… ma non ho mai perso la voglia di vedere questo mondo immenso.

Ho lasciato la mia casa a 14 anni per andare a scuola nella parte francese della Svizzera, per due anni, e all’inizio avevo una nostalgia orribile di casa… Ma ho imparato ad amare una vita in movimento.

Forse sono queste le ragioni per cui non mi sono mai esaurito.

Ero entusiasta di viaggiare per il mondo, ma non solo come turista… Ho capito molto presto che volevo aiutare altre persone in altri paesi. Motivato da mia madre sudafricana, ho creato una fondazione per dare forza ai bambini attraverso l’istruzione.

L’istruzione nella prima infanzia è qualcosa che diamo per scontato in un posto come la Svizzera. Ma nell’Africa subsahariana, il 75% dei bambini non ha accesso alla scuola materna… Pensaci: il 75%.

Come tutti i bambini… hanno bisogno di un buon inizio se vogliono realizzare il loro potenziale. E finora abbiamo aiutato quasi 3 milioni di bambini a ricevere un’istruzione di qualità, e abbiamo contribuito a formare più di 55.000 insegnanti.

È stato un onore… ed è stato umiliante.

Un onore aiutare ad affrontare questa sfida, e umiliante vedere quanto sia complessa.

Umiliante provare a leggere storie ai bambini in una delle lingue del Lesotho.

Umiliante anche arrivare nella Zambia rurale e dover spiegare cos’è realmente il tennis… Ricordo vividamente di aver disegnato un campo da tennis sulla lavagna perché i bambini lo vedessero, perché ho chiesto loro cosa fosse il tennis, e un bambino ha detto, “è quello con il tavolo, giusto? Con le racchette?”

Di nuovo Pong. È ovunque.

Devo dirti che è una sensazione meravigliosa visitare questi luoghi incredibilmente rurali… e trovare aule piene di bambini che imparano, leggono e giocano, come i bambini di tutto il mondo dovrebbero essere autorizzati a fare.

È anche stimolante vedere cosa diventano da grandi: alcuni sono diventati infermieri… insegnanti… programmatori informatici.

È stato un viaggio emozionante… e ho la sensazione che siamo solo all’inizio… con ancora molto da imparare. Non riesco a credere che abbiamo appena festeggiato vent’anni di questo progetto… Soprattutto perché ho dato vita alla fondazione prima di pensare di essere pronto a farlo.

All’epoca avevo 22 anni, come molti di voi oggi. Non ero pronto per niente che non fosse il tennis. Ma a volte… devi rischiare e poi capire.

La filantropia può significare molte cose. Può significare avviare un’organizzazione non-profit o donare denaro. Ma può anche significare contribuire con le tue idee… il tuo tempo… e la tua energia… a una missione che è più grande di te. Tutti voi avete così tanto da dare e spero che troverete i vostri modi unici per fare la differenza.

Perché la vita è davvero molto più grande del campo.

Come studenti al Dartmouth, avete scelto una specializzazione e siete andati in profondità. Ma avete anche ampliato le direzioni. Gli ingegneri imparavano la storia dell’arte, gli atleti cantavano a cappella e gli informatici imparavano a parlare tedesco.

Il leggendario allenatore di football del Dartmouth Buddy Teevens era solito reclutare i giocatori dicendo ai genitori:

“Vostro figlio sarà un grande giocatore di football quando sarà il momento del football, un grande studente quando sarà il momento accademico e una grande persona per tutto il tempo”.

Ecco cosa significa un’istruzione al Dartmouth.

Il tennis mi ha regalato così tanti ricordi. Ma le mie esperienze fuori dal campo sono quelle che porto con me altrettanto spesso… I posti in cui sono andato… il sistema che mi consente di restituire… e, soprattutto… le persone che ho incontrato lungo il cammino.

Il tennis… come la vita… è uno sport di squadra.

Sì, sei solo dalla tua parte della rete. Ma il tuo successo dipende dalla tua squadra. I tuoi allenatori, i tuoi compagni di squadra, persino i tuoi rivali… tutte queste influenze contribuiscono a renderti ciò che sei.

Non è un caso che la mia partnership commerciale con Tony si chiami “TEAM8”. Un gioco di parole… “Compagno di squadra” [Team Mate • n.d.r.]. Tutto il lavoro che facciamo insieme riflette quello spirito di squadra… il forte legame che abbiamo tra di noi e con i nostri colleghi… con gli atleti che rappresentiamo… e con i partner e gli sponsor. Queste relazioni personali sono le cose che contano di più.

Ho imparato questo modo di pensare dai migliori… i miei genitori. Mi hanno sempre sostenuto, mi hanno sempre incoraggiato e hanno sempre capito cosa desideravo e di cui avevo bisogno.

Una famiglia è una squadra.

Mi sento davvero fortunato che la mia incredibile moglie, Mirka… che rende ogni gioia della mia vita ancora più luminosa… e i nostri quattro fantastici figli, Myla, Charlene, Leo e Lenny, siano qui con me oggi.

E ancora più importante, che siamo qui l’uno per l’altro ogni giorno.

Laureati, so che lo stesso vale per voi. I vostri genitori, le vostre famiglie… hanno fatto sacrifici per portarvi qui… Hanno condiviso i vostri trionfi e le vostre lotte… Saranno sempre, sempre al vostro fianco.

E non solo loro. Mentre vi dirigete verso il mondo, non dimenticate: potete portare tutto questo con voi… questa cultura, questa energia, queste persone, questo colore verde… Gli amici che vi hanno spinto e sostenuto a diventare la versione migliore di voi stessi… gli amici che non smetteranno mai di fare il tifo per voi, proprio come oggi.

E continuerete a fare amicizia nella comunità di Dartmouth… Forse anche oggi… Quindi, ora, rivolgiti alle persone alla tua sinistra e alla tua destra… Forse questa è la prima volta che vi incontrate. Potreste non condividere esperienze o punti di vista, ma ora condividete questo ricordo. E molto altro ancora.

Quando ho lasciato il tennis, sono diventato un ex giocatore di tennis. Ma voi non siete ex di niente.

Siete futuri detentori di record e viaggiatori del mondo… futuri volontari e filantropi… futuri vincitori e futuri leader.

Sono qui per dirvi… dall’altra parte della laurea… che lasciare un mondo familiare alle spalle e trovarne di nuovi è incredibilmente, profondamente, meravigliosamente eccitante.

Finale

Quindi, Dartmouth, ecco le vostre lezioni di tennis per oggi.

  • La semplicità è un mito.
  • È solo un punto.
  • La vita è più grande del campo.

Aspettate, aspettate, ho un’altra lezione.

Presidente Beilock, posso avere la mia racchetta ora?

Ok, quindi, per il dritto, dovresti usare una presa orientale. Tieni le nocche un po’ divaricate. Ovviamente, non dovresti stringere troppo la presa… passare dal dritto al rovescio dovrebbe essere facile… Inoltre, ricorda che tutto inizia con il gioco di gambe e il take-back è importante quanto il follow-through.

No, questa non è una metafora! È solo una buona tecnica.

Dartmouth, questo è stato un onore incredibile per me.

Grazie per la laurea honoris causa.

Grazie per avermi reso partecipe del vostro giorno davvero importante.

Sono felice di aver incontrato così tanti di voi in questi ultimi giorni. Se mai vi trovate in Svizzera, o in qualsiasi altro posto al mondo, e mi vedete per strada… anche tra 20 o 30 anni… che abbia i capelli grigi o no… Voglio che mi fermiate e diciate… “Ero lì quel giorno sul Green. Sono un membro della vostra classe… la classe del 2024”.

Non dimenticherò mai questo giorno, e so che nemmeno voi lo farete.

Avete lavorato così duramente per arrivare fin qui, e non avete lasciato nulla in campo… o sul tavolo da pong.

Da un laureato all’altro, non vedo l’ora di vedere cosa farete tutti dopo.

Qualunque gioco scegliate, date il massimo.

Fate i vostri tiri. Giocate liberi. Provate tutto.

E soprattutto, siate gentili gli uni con gli altri… e divertitevi là fuori.

Congratulazioni ancora, Classe del 2024!

Il video e il testo originale in lingua inglese

Qui il testo originale in lingua inglese, direttamente del sito del college:

https://home.dartmouth.edu/news/2024/06/2024-commencement-address-roger-federer

Di seguito il video:

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Cerchi olimpici: qual è il significato dei loro colori? https://cultura.biografieonline.it/colori-cerchi-olimpici/ https://cultura.biografieonline.it/colori-cerchi-olimpici/#comments Mon, 29 Jul 2024 06:53:27 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=9359 I cinque anelli colorati e intrecciati su fondo bianco costituiscono il simbolo e la bandiera del Comitato Internazionale Olimpico (CIO). Inizialmente, la disposizione dei cerchi era differente da quella attuale: si trovavano tutti e cinque allineati orizzontalmente, come gli anelli di una stessa catena. Ad ogni cerchio corrispondeva un colore e di conseguenza un continente: blu per l’Oceania, nero per l’Africa, rosso per le Americhe, verde per l’Europa e giallo per l’Asia.

Sul Manuale Olimpico Ufficiale fino al 1951 era riportata un’associazione tra colori dei cerchi e continenti. L’associazione è stata poi ritirata dal CIO e dunque formalmente non è più ufficiale; è rimasta comunque un’associazione mentale nel sentire comune.

 

Bandiera olimpica (I cinque cerchi olimpici)
Qual è il significato dei cinque colori dei cerchi olimpici

Pierre de Coubertin, ideatore dei Giochi Olimpici Moderni, scelse lui stesso questi cinque colori aggiungendoli al bianco dello sfondo, perché all’epoca rappresentavano tutti i colori usati nelle bandiere mondiali.

In questo modo la bandiera olimpica, raffigurante i cinque cerchi su sfondo bianco, ha iniziato a rappresentare tutte le nazionalità della Terra.

«La Bandiera Olimpica ha un fondo bianco, con cinque anelli intrecciati al centro: azzurro, giallo, nero, verde e rosso. Questo disegno è simbolico; rappresenta i cinque continenti abitati del mondo, uniti dall’Olimpismo; inoltre i cinque colori sono quelli che appaiono fino ad ora in tutte le bandiere nazionali.»

Pierre de Coubertin, 1931

 

La bandiera olimpica

La bandiera con i cinque cerchi apparve per la prima volta nell’anno 1913, nell’intestazione di una lettera scritta da Pierre De Coubertin.

I cerchi furono disegnati e colorati direttamente da lui stesso.

Sempre in quell’anno, il nuovo simbolo venne riportato e descritto nel numero di agosto della “Rivista Olimpica”.

La bandiera olimpica con i suoi cinque cerchi, fu presentata ufficialmente nel 1914 al Congresso Olimpico di Parigi, simboleggiando gli ideali di fratellanza e universalità che per il periodo storico erano una proposta molto innovativa; ciò  va considerato nel contesto storico: l’inizio del XX secolo viveva in un clima mondiale sempre più teso e segnato da fortissimi nazionalismi.

I cerchi olimpici oggi

Attualmente l’uso del logo dei “cinque cerchi” è severamente regolamentato dal CIO.

Infatti possono essere usati solo come parte dei loghi e dei segni distintivi dei Comitati Olimpici Nazionali (in Italia il CONI), dei Comitati Organizzatori dei Giochi Olimpici, dalla città svizzera di Losanna.

Quest’ultima, in quanto sede del CIO, può esser definita a tutti gli effetti con il titolo di città olimpica.

Possono essere usati anche da tutte quelle città che si propongono di ospitare le Olimpiadi, perché entrate così di diritto nell’elenco delle città candidate.

Infine, dal punto di vista commerciale, possono essere usati dai network radiotelevisivi che hanno ottenuto i diritti di trasmissione, così come dagli sponsor e partner del CIO.

Curiosità: conosci la differenza tra l’aggettivo olimpico e olimpionico?

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Real Madrid: storia e curiosità https://cultura.biografieonline.it/real-madrid/ https://cultura.biografieonline.it/real-madrid/#comments Sat, 01 Jun 2024 21:55:13 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7464 Tra le società calcistiche più importanti del mondo

Real Madrid Club de Fútbol, abbreviato in Real Madrid, è il nome di una delle società calcistiche più note e vincenti del mondo; pochi sanno però che la società – fondata il 6 marzo 1902 – è una polisportiva composta, oltre che dalla citata sezione di calcio, anche da una cestistica legata al basket. In questo articolo si racconta la gloriosa storia di questa grande squadra e società.

Lo stemma del Real Madrid
Breve storia del Real Madrid

Real Madrid: l’inizio di un mito sportivo

Il 13 giugno del 1956 il Real Madrid vince la prima Coppa dei Campioni d’Europa, la prima in assoluto della competizione più famosa del mondo, poi trasformatasi in Uefa Champions League. A Parigi, città designata ad ospitare la prima edizione del torneo, i campioni spagnoli si impongono per 4 a 3 sui francesi dello Stade de Reims. Una vittoria che segna l’inizio di una lunga storia di successi, la quale porterà “i blancos” a diventare il club più amato di sempre, tra i più titolati della storia del calcio.

La provocazione della stampa

E pensare che la competizione calcistica per club attualmente più seguita al mondo, è nata da una sorta di provocazione giornalistica. La si deve al quotidiano L’Équipe, all’epoca diretto da Gabriel Hanot, il quale, esattamente nel 1954, si inserì nell’ampio dibattito scatenato dall’inglese Daily Mail, impegnato a quei tempi a sancire – sulla base di presunte superiorità tecniche evidenti ma di fatto mai dimostrate sul campo – l’indiscussa superiorità del Wolverhampton su tutti gli altri club europei, all’epoca dominatore della lega inglese.

Certo, l’idea di un Campionato del Mondo, o almeno d’Europa – scrisse a tal proposito Hanot – per club, più esteso, più significativo, e meno episodico della Mitropa Cup, e più originale di un Campionato d’Europa per squadre nazionali, merita di essere lanciata. Noi ci proveremo“.

La stampa francese cavalcò l’onda della provocazione, la quale assunse in breve tempo il carattere della vera e propria proposta istituzionale.

Intanto, il dibattito era acceso.

Qual era la squadra più forte del continente europeo?

  • Gli spagnoli del Real Madrid?
  • Gli italiani del Milan?
  • Gli ungheresi dell’Honvéd?
  • O proprio il tanto acclarato Wolverhampton?

Un nuovo torneo

La FIFA e l’UEFA dovettero prendere in considerazione la proposta del quotidiano d’oltralpe, seppure non in modo entusiastico.

L’idea di un campionato fra i maggiori club d’Europa, infatti, a dire delle due federazioni (per giunta appoggiate da quella inglese), avrebbe potuto scalfire il fascino dell’allora Coppa Rimet (l’odierno Campionato Mondiale, ormai seguitissimo) e, soprattutto, quello nascente della Coppa Europea per nazioni.

Tuttavia, i giornalisti de L’Équipe si mossero privatamente coi dirigenti di numerose società e, nell’aprile del 1955, portarono attorno ad un tavolo i vertici dei più importanti club europei, alla fine costringendo proprio la Fifa ad imporre all’Uefa l’organizzazione del nuovo torneo.

Si optò per un torneo organizzato sul meccanismo dell’eliminazione diretta e ammettendo una sola società, indicata dalle federazioni nazionali, per ciascun paese.

Determinante, va detto, fu l’intervento di uno dei personaggi più influenti e ormai leggendari della storia del calcio mondiale: l’allora presidente del Real Madrid, Santiago Bernabeu.

Santiago Bernabeu: l’uomo che fece la competizione

Non è un caso che il più amato presidente della storia delle “merengues” sia stato anche tra i promotori più attivi per quanto riguarda l’organizzazione di una competizione europea per club. Forse Santiago Bernabeu aveva fiutato la forza, non solo nazionale, dei propri campioni, tanto che il Real Madrid si aggiudicò le prime cinque edizioni della futura Champions League, portandosi a casa il trofeo originale (spettante appunto a chi si aggiudica per cinque volte la competizione).

Fatto sta che fu proprio lui, nel corso dello storico summit lanciato da Gabriel Hanot nel 1955, a convincere i vertici delle due federazioni di Fifa e Uefa a dare vita al torneo in questione.

L’incontro si tenne all’Hotel Ambassador di Parigi e diede vita ad una “mutuazione” della precedente Coppa Latina (torneo riservato a squadre di Francia, Spagna, Portogallo e Italia, e che il Real Madrid si aggiudicò nel 1954 e nel 1957): la Coppa dei Campioni.

Una foto del 1967 di Santiago Bernabeu
Santiago Bernabeu, il presidente del Real Madrid più amato, in una foto del 1967

Fu uno dei tanti risultati conseguiti dal presidente del Real. Eletto al vertice del team madrileno il 15 settembre del 1943, Santiago Bernabeu ha ricoperto e mantenuto la carica per 35 anni, praticamente fino alla sua scomparsa. A lui si deve la grande ristrutturazione del club su ogni livello, in una chiave ultramoderna per l’epoca, già proiettata verso il futuro.

L’impresa di Bernabeu

Per ogni sezione della società, diede un team tecnico autonomo e, soprattutto, diede vita alla costruzione del nuovo stadio Chamartín, terminato nel 1947, poi ribattezzato proprio in suo onore “Stadio Santiago Bernabéu”.

Una struttura che si spostava effettivamente solo di alcuni metri da quella precedente e che, all’epoca, risultò essere la più ampia del mondo, forte dei suoi 75mila spettatori (poi portati a 125mila), tanto che durante i lavori non mancarono le critiche al presidente madrileno, considerato una sorta di folle ad impegnarsi in un’impresa così esagerata per l’epoca.

Bernabeu però, ci riuscì eccome nell’impresa, grazie soprattutto al sostegno degli oltre 40.000 soci del club, i quali contribuirono di propria mano alla realizzazione dello stadio. Infine, intraprese la strategia ambiziosa di acquistare giocatori di classe mondiale provenienti dall’estero. Ex giocatore egli stesso del Real, dotato di enorme carisma, Santiago Bernabeu dotò la “Casa bianca” di una struttura societaria superiore a tutte quelle del suo tempo.

Grazie all’acquisto di calciatori di grande prestigio, riuscì nell’impresa di vincere, da presidente del Real Madrid, la bellezza di 16 campionati, 6 Coppe di Spagna, 6 Coppe dei Campioni e 1 Coppa Intercontinentale. La morte lo colse il 2 giugno del 1978.

Il primo titolo del Real Madrid

Il 4 settembre del 1955, a Lisbona, si gioca la prima, storica partita della nuova competizione per club europei. Si affrontano Sporting e Partizan e la partita termina con uno spettacolare 3 a 3. Ed è proprio una di queste due compagini che il Real Madrid, guidato dal bomber Alfredo Di Stefano e dall’allenatore José Villalonga, dopo aver facilmente superato gli svizzeri del Servette nel primo turno, si ritrova davanti nel corso dei quarti di finale.

Allo stadio Chamartin, il Real si sbarazza del Partizan con un sonoro 4 a 0 anche se, al ritorno, deve soffrire non poco contro gli jugoslavi: il Partizan sfiora l’impresa, imponendosi per 3 reti a zero. I rischi però, a conferma di una competizione tutt’altro che banale e dacché ne dicano gli inglesi, non finiscono qui per i blancos. In semifinale infatti, la squadra del presidente Bernabeu deve affrontare i rossoneri del Milan, tra i team più forti d’Europa.

Allo Chamartin, entrando nel vivo della partita, il 19 aprile del 1956, termina 4 a 2 per i padroni di casa. In quell’occasione, vanno a segno Rial, Joseito su rigore, Olsen e il grande Di Stefano, mentre per il Milan segnano Nordhal e Schiaffino, entrambi pareggiando momentaneamente il doppio vantaggio madrileno. Al ritorno però, tocca soffrire un po’ di più, perché al vantaggio di Joseito al ’65 minuto (il quale trafigge con un preciso rasoterra da fuori area il portiere milanista Buffon), replica la doppietta di Dal Monte, il quale mette a segno due rigori, l’ultimo al minuto 86, con circa cinque minuti di estrema sofferenza da parte dei blancos.

Tutto sommato però, la compagine guidata da Di Stefano, Gento, Olsen e Rial, riesce a staccare il biglietto per la Francia, in vista della finalissima.

La finale parigina

Il 13 giugno del 1956, allo stadio “Parco dei Principi” di Parigi, c’è il tutto esaurito. Il Real si trova di fronte lo Stade Reims, forte compagine francese che ha in squadra elementi del calibro di Michel Hidalgo e del mago del dribbling, Raimond Kopa.

Oltre a queste due stelle europee, fanno parte del team guidato dall’allenatore Albert Batteux, anche altri giocatori importanti per l’epoca, come il portiere Raoul Giraudo, Léon Glovacki, l’attaccante Jean Templin e il forte difensore Michel Leblond.

La cronaca

Proprio quest’ultimo apre le marcature, dopo appena sei minuti di gioco, mettendo sotto il Real. Allo shock iniziale, segue il raddoppio, al decimo minuto, firmato Jean Templin.

Gli spagnoli si ritrovano a sorpresa sotto di due gol: al diagonale che apre le segnature, fa seguito la rete rocambolesca del 2 a 0, frutto dell’indecisione in uscita del portiere iberico.

Nel Real però, oltre a Di Stefano giocano altri grandi campioni, come il capitano Miguel Munoz, che suona la carica, l’impeccabile mediano Joseito, la forte ala Zarraga e l’attaccante Juan Alonso.

Così, al ’14 e al ’30, prima il grande Di Stefano con un diagonale da posizione centrale (ben servito da Munoz), e poi il bomber Hector Rial, al termine di un’azione concitata, riportano il punteggio in parità.

Non è finita però, perché il Reims torna ancora in vantaggio, esattamente al minuto 62, con un preciso colpo di testa di Hidalgo. Passano però appena cinque minuti, e Marquitos pareggia ancora: 3 a 3.

A questo punto, è solo il Real Madrid a spingere e a tentare di portare a casa la vittoria, la quale arriva al minuto 79, con il terzo gol nella competizione di Hector Rial, agevolato ancora una volta da una grandissima giocata al limite dell’area di Alfredo Di Stefano.

I blancos del presidente Santiago Bernabeu alzano per la prima volta nella storia la Coppa Campioni.

Un trofeo che parla madrileno

Le merengues domineranno la scena per altre quattro edizioni della sempre più seguita competizione calcistica europea. Giocatori come Alfredo Di Stéfano, Ferenc Puskas, Raymond Kopa, José Santamaría e Miguel Muooz faranno la storia, anzi la leggenda del club spagnolo, il quale trionferà in Europa fino al 1960.

Proprio quest’ultima edizione pertanto, rimarrà per sempre negli albori del calcio, grazie alla vittoria del Real Madrid sull’Eintracht Francoforte per ben 7 reti a 3. In quell’occasione, si divisero il bottino i due giocatori più forti di quel periodo storico: Alfredo Di Stefano, autore di tre segnature, e il grande Ferenc Puskas, mattatore delle altre quattro.

La finale si giocò all’Hampden Park di Glasgow, davanti alle telecamere della BBC e dell’Eurovisione, forte di un pubblico di oltre 135.000 persone. Ancora oggi, si tratta di un vero e proprio recordo di spettatori per una finale di Coppa dei Campioni.

Dopo la prima edizione, va detto, i blancos superarono in finale, nel 1957, i campioni uscenti della Serie A italiana, ossia la Fiorentina, grazie a un gol di Di Stéfano su rigore e ad un altro di Gento. Nell’edizione 1957-1958, fu ancora una volta un’italiana a contendere il titolo ai madrileni: il Milan.

Dopo una partita bellissima ed equilibrata, protrattasi fino ai tempi supplementari per via del perdurante 2 a 2, a decidere fu ancora una volta Gento, al minuto 107. Infine, prima del record di Hampden Park, toccò nuovamente al Reims fare posto al Real sul primo gradino del podio europeo: a Stoccarda, decisive furono le marcature di Mateos e del solito Di Stéfano.

La Champions League vinta nel 2022 contro il Liverpool è la numero 14 per la società; a guidare la squadra in panchina l’italiano Carlo Ancelotti, primo allenatore della storia del calcio a vincere quattro volte la competizione.

La cavalcata di Ancelotti porta la squadra spagnola a conquistare l’ottava Coppa Intercontinentale nel 2023: il Real Madrid batte per 5-3 i sauditi dell’Al Hilal nella finale che si svolge in Marocco l’11 febbraio.

Il 1° giugno 2024 Ancelotti guida il Real Madrid alla conquista della sua 15ª Champions League: vince a Wembley contro il Borussia Dortmund per 2-0.

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Strage dell’Heysel: 29 maggio 1985 https://cultura.biografieonline.it/strage-heysel/ https://cultura.biografieonline.it/strage-heysel/#respond Thu, 25 Apr 2024 16:13:12 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=41171 Poco prima del fischio d’inizio della finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus e il Liverpool, presso lo Stadio Heysel di Bruxelles, in Belgio, si verifica un gravissimo episodio, passato alla storia come strage dell’Heysel. È il 29 maggio 1985. In quella partita maledetta perdono la vita 39 persone, tra cui 32 italiani. I feriti sono invece circa seicento. È uno degli episodi più tristi della storia del calcio.

La cronaca: ricostruiamo i fatti

C’è molta attesa per il match, soprattutto da parte dei tifosi juventini, che accompagnano la squadra del cuore sperando che possa aggiudicarsi la prima Coppa dei Campioni della carriera.

Il Liverpool invece, campione d’Europa in carica, è intenzionato a ripetere l’ottima esperienza dell’anno precedente, ed è molto carico dopo aver sconfitto facilmente in semifinale la squadra greca del Panathinaikos.

Lo stadio scelto per disputare la partita è l’Heysel di Bruxelles, il fischio di inizio è fissato per le ore 20.15.

L’impianto, ristrutturato una prima volta negli anni Settanta, se valutato oggi sicuramente non rispetterebbe gli standard di sicurezza previsti per una finale europea. Ma quella partita si giocò lo stesso, in condizioni generali alquanto precarie.

Lo stadio

L’Heysel non dispone di vie di fuga adeguate, ed anche il servizio d’ordine fa acqua da tutte le parti.

Le tribune ed il campo di gioco, poi, non sono certo adatti ad una competizione calcistica di alto livello. Per non parlare dei muri divisori dei settori, che si sgretolano in calcinacci che colpiscono gli spettatori. Sono del tutto inadeguati i servizi igienici.

Lo stadio, predisposto per ospitare al massimo 60 mila spettatori, viene riempito con circa 400 mila persone (la maggior parte dei tagliandi viene venduta agli italiani).

I biglietti e le zone

La vendita dei ticket allo stadio viene gestita male, in maniera alquanto approssimativa. Ai tifosi bianconeri sono assegnati i settori M, N, O (posizionati nella zona sud-est dell’impianto), mentre gli Inglesi occupano la curva opposta (zone X e Y).

Il “settore Z”, adiacente a quello degli Ultrà del Liverpool, è separato da semplici reti metalliche, e viene destinato ai tifosi neutrali, ovvero non appartenenti ad un gruppo organizzato.

Sono i tifosi bianconeri ad acquistare la maggior parte dei biglietti, ma l’organizzazione sottovaluta l’eventualità che tra le due tifoserie opposte possa scoppiare qualche tafferuglio o scontro.

Probabilmente entrambe le società ritengono che la situazione possa essere facilmente gestita seguendo le regole burocratiche e il senso di civiltà e rispetto che dovrebbero contraddistinguere qualsiasi evento sportivo.

Gli scontri tra i tifosi

Nelle ore che precedono la partita i tifosi del Liverpool arrivano in città, abusano di alcol e accade qualche scaramuccia, ma nulla di preoccupante. O meglio, niente che lasci presagire la tragedia che sarebbe accaduta dopo, tra gli spalti dello stadio Heysel.

All’apertura dei cancelli i controlli sono pochi e disattenti.

Il settore Z viene occupato per lo più da persone tranquille, famiglie, non solo italiane ma anche di altri paesi, che simpatizzano per la Juventus. Circa seimila tifosi inglesi riescono ad entrare senza biglietto e vanno ad occupare la Curva: insieme a loro ci sono anche alcuni Ultrà del Chelsea, del gruppo Headhunters di estrema destra, particolarmente violenti e facinorosi.

Purtroppo ci sono tutti i presupposti per trasformare un evento sportivo in una tragedia di cui parlare a lungo.

Manca un’ora all’inizio della partita, e gli animi cominciano a riscaldarsi. I tifosi inglesi, molti dei quali entrati ubriachi allo stadio, iniziano a lanciare cori e slogan contro gli juventini.

I settori dello stadio dell'Heysel
I settori dello stadio dell’Heysel

La tragedia

Alcuni Ultras del Liverpool, credendo che i tifosi presenti nel settore Z siano tutti italiani, allo scopo di intimidirli cominciano ad ondeggiare con forza. Dopo tre cariche da parte degli Hooligans, le recinzioni cedono paurosamente.

I poliziotti non riescono a fronteggiare gli Ultras inglesi, che invadono letteralmente lo spazio occupato dagli altri tifosi.

Cominciano i lanci di bottiglie, che colpiscono i tifosi, ferendone qualcuno alla testa.

I tifosi del settore Z, terrorizzati dalla furia degli hooligans, cercando disperatamente di lasciare lo stadio.

I cancelli di uscita in alto dell’impianto sono serrati, e non è possibile raggiungere il terreno di gioco perché i poliziotti lo impediscono a suon di manganellate.

Presi dal panico, i tifosi italiani finiscono con l’asserragliarsi nell’angolo più basso e lontano del settore, schiacciati contro il muro che divide le opposte tifoserie.

Alcuni tentano di lanciarsi nel vuoto, nello spazio che separa il settore Z dalla tribuna. Altri però non ce la fanno, perché vengono raggiunti dalla calca in fuga e restano schiacciati. Ad un certo punto, il muretto crolla. È la strage.

Una pattuglia della polizia belga raggiunge lo stadio Heysel, ma solo dopo mezz’ora. L’impianto ha le sembianze di un campo di battaglia, ci sono morti e feriti ovunque.

La partita

Nonostante l’entità della tragedia, la partita si gioca comunque: si verifica solo un rinvio di un’ora e 25 minuti. Le autorità prendono tale decisione per motivi di ordine pubblico: si teme che i tifosi bianconeri possano rivendicare ciò che è successo.

Pare che i giocatori siano stati obbligati a giocare. Sia la Juventus che il Liverpool non hanno intenzione di scendere in campo, ma l’effetto rinuncia fa paura.

La Juventus vince per 1-0.

Molti ricorderanno per sempre la telecronaca di quella partita maledetta, i surreali festeggiamenti finali, e tutte le polemiche – legittime – che ne seguirono.

Alcune emittenti televisive, come quella tedesca ed austriaca, si rifiutarono di trasmettere la partita.

In Italia Bruno Pizzul, poco prima dell’inizio della telecronaca, rilascia queste dichiarazioni:

Gentili telespettatori, la partita verrà commentata in tono il più neutro, impersonale e asettico possibile.

Ancora oggi, a distanza di tanto tempo, rimane uno degli episodi più tristi del calcio e dello sport in genere.

Strage dell’Heysel
La targa commemorativa

Lo stadio è stato completamente ristrutturato nel periodo 1994-1995; il suo nome è cambiato ed è stato intitolato a Re Baldovino. Oggi è presente una targa commemorativa con i nomi delle vittime della strage dell’Heysel, a loro imperitura memoria.

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La 24 Ore di Le Mans: storia e curiosità https://cultura.biografieonline.it/la-24-ore-di-le-mans-storia/ https://cultura.biografieonline.it/la-24-ore-di-le-mans-storia/#respond Sun, 11 Jun 2023 15:22:49 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=35843 La 24 Ore di Le Mans è una gara di automobilismo che si svolge tutti gli anni sul “Circuit de la Sarthe” di Le Mans, in Francia. Si tratta di un circuito parzialmente permanente, ossia in parte chiuso e in parte aperto al traffico normale nel resto dell’anno. La prima edizione si svolse tra il 26 e il 27 maggio 1923; ogni team era composto da due piloti che si alternavano: uno alla guida mentre l’altro riposava. Nel 1979, e poi dal 1986 in via definitiva, i team si compongono di 3 piloti ciascuno.

Poster dell'edizione 1959 della 24 Ore di Le Mans (in francese, 24 Heures du Mans)
Poster dell’edizione 1959 della 24 Ore di Le Mans (in francese, 24 Heures du Mans)

La storia della corsa

La 24 Ore deve la sua fama alla lunghezza e alla semplicità del regolamento: vince chi in 24 ore percorre più strada. Ma ci sono anche altri aspetti che hanno contribuito a crearne la leggenda.

Per esempio, la famosa partenza “alla Le Mans”: essa avveniva con i piloti schierati su un lato della pista e pronti a scattare a piedi verso le rispettive vetture al segnale dello starter, per poi avviarle e partire.

Nel 1970 si passò però a uno stile di partenza più tradizionale, anche in seguito alla plateale protesta di Jacky Ickx, che l’anno prima aveva “passeggiato” fino alla sua vettura.

Jacky Ickx a Le Mans 1969: passeggia verso l'auto
Le Mans 1969: il pilota belga Jacky Ickx e la sua celebre passeggiata

Il problema infatti era che i piloti, dovendo partire senza l’ausilio dei meccanici, non erano in grado di allacciarsi correttamente le cinture di sicurezza e questo rendeva realmente pericolosa la prima parte di gara (dopo il primo cambio che avveniva ai box, i meccanici potevano allacciare le cinture al pilota subentrante).

L’incidente più grave

Tristemente famosa è l’edizione del 1955 nel corso della quale si verificò l’incidente più grave in tutta la storia dell’automobilismo.

Durante la terza ora di gara, la Mercedes di Pierre Levegh “decollò” in seguito a un tamponamento con Lance Macklin e atterrò sulle tribune.

Oltre al pilota morirono 83 spettatori e 120 rimasero feriti. Dopo questo incidente, i circuiti vennero resi più sicuri; a Le Mans in particolare si lavorò per migliorare la sicurezza degli spettatori; fu una cosa non molto facile se si pensa che in diversi punti dei circa 13,5 km di lunghezza del percorso, le auto transitano nei pressi di abitazioni.

La vittoria più contestata a Le Mans

La gara si disputa tradizionalmente a giugno, con pochissime eccezioni, tra le quali la prima edizione e quelle del 2020 e 2021, posticipate a causa dell’epidemia di COVID-19.

Nel 1966, dopo un estenuante duello con la Ferrari, due vetture Ford piombarono contemporaneamente sul traguardo. Mentre si pensava già ad una vittoria ex aequo, la giuria decise di premiare i neozelandesi Bruce McLaren, fondatore della casa automobilistica che porta tuttora il suo nome, e Chris Amon perché, essendo partiti dietro in griglia, avevano percorso 20 metri in più dei rivali!

Modellino Ferrari Le Mans 1966, numero 21
Un modellino riproduce la Ferrari, nel suo tradizionale colore rosso, della storica edizione di Le Mans del 1966

Nel 2023 la Ferrari torna a Le Mans dopo 50 anni di assenza e fa la storia. Dopo una lunghissima battaglia con la Toyota numero 8, la Ferrari 499P numero 51 trionfa.

I plurivincitori della 24 ore di Le Mans

  • Il danese Tom Kristensen è il pilota che ha vinto il maggior numero di edizioni della corsa: ben 9, tra il 1997 e il 2013.
  • Tra gli italiani spicca Emanuele Pirro che ha trionfato 5 volte fra il 2000 e il 2007.
  • Il costruttore più vincente a Le Mans è la Porsche che vanta 19 primi posti tra il 1970 e 2017.
  • Sono 9 gli allori della Ferrari tra il 1949 e il 1965; gli ultimi 6 sono consecutivi: sconfiggere il Cavallino Rampante in quegli anni sembrava pressoché impossibile. Ci riuscì la Ford nella già menzionata edizione del 1966.
  • L’altra casa italiana ad aver ottenuto vittorie è l’Alfa Romeo: quattro consecutive dal 1931 al 1934.

La 24 Ore al cinema

La fama di questa competizione è tale che ha ispirato anche diverse pellicole cinematografiche. La più famosa è forse “La 24 Ore di Le Mans”: Steve McQueen è il protagonista e interpreta un pilota della Porsche.

Parzialmente ambientato a Le Mans è il film “Adrenalina blu – La leggenda di Michel Vaillant” che si ispira liberamente al pilota immaginario Michel Vaillant, protagonista di fumetti.

Del 2019 è invece il film Le Mans ’66 – La grande sfida ispirato al duello tra Ferrari e Ford.

Lee Iacocca: Signor Ford, c’è un messaggio di Ferrari per lei, signore.

Henry Ford II: Che cosa dice?

Lee Iacocca: Dice che Ford fa piccole e brutte macchine in brutte fabbriche. E… l’ha chiamata ciccione, signore.

Cit. dal film Le Mans ’66

Diversi videogiochi simulano la 24 Ore di Le Mans.

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Dick Fosbury e il salto in alto https://cultura.biografieonline.it/dick-fosbury-e-il-salto-in-alto/ https://cultura.biografieonline.it/dick-fosbury-e-il-salto-in-alto/#comments Mon, 13 Mar 2023 15:20:26 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=3259 Richard Douglas Fosbury, detto Dick, nasce il 6 marzo 1947 a Portland (USA).

L’invenzione di Fosbury

A lui si deve l’invenzione della tecnica moderna del salto in alto, il cosiddetto Fosbury Flop: un modo di saltare l’ostacolo, mostrato al mondo per la prima volta nel 1968, attraverso cui l’atleta rovescia all’indietro il corpo per scavalcare l’asticella, e cade sulla schiena.

Il Fosbury Flop, chiamato anche salto dorsale, al giorno d’oggi è impiegato universalmente, ma nel momento in cui venne mostrato dal giovane di Portland alle Olimpiadi del 1968 a Città del Messico suscitò stupore.

Dick Fosbury
Atletica leggera, salto in alto: Dick Fosbury immortalato nel gesto atletico che porta il suo nome

In cosa consisteva l’innovazione apportata da Fosbury?

Dopo aver compiuto una rincorsa curvilinea (fatto che – già da solo – rappresentava una novità rispetto agli stili precedenti, che prevedevano una traiettoria lineare), nel momento del salto eseguiva una rotazione sul piede di stacco, sorvolando l’ostacolo dopo avergli dato le spalle e curvando all’indietro il corpo. La tecnica messa in pratica da Dick Fosbury rappresentò il risultato di un certosino lavoro di ricerche e studi di biomeccanica applicata, svolti dall’atleta alla Oregon State University.

Alla base del salto dorsale, infatti, c’è la forza centrifuga prodotta dalla rincorsa curvilinea, che permette di aumentare la velocità del saltatore nel momento dello stacco (e quindi della spinta); di conseguenza, viene aumentata anche la sua elevazione, mentre il corpo – in virtù della posizione dorsale incurvata – viene mantenuto sopra la traiettoria del cosiddetto centro di massa, situato sotto l’asticella.

Le fasi del salto in alto alla Fosbury
Le fasi del salto in alto alla Fosbury

L’innovazione di Fosbury peraltro riguardava anche i materiali utilizzati per l’atterraggio: non più trucioli di legno o sabbia, ma schiuma sintetica (i materassi che vediamo ancora oggi), che proteggeva la schiena dell’atleta e in generale assicurava un atterraggio più morbido. Fosbury, applicando la sua nuova tecnica, ottenne un vantaggio competitivo evidente: mentre i rivali Gavrilov e Caruthers fondavano il proprio valore sulla potenza fisica di cui necessitava la tecnica ventrale, lo scavalcamento dorsale richiedeva unicamente velocità, e un dominio – per così dire – acrobatico delle braccia e del resto del corpo nel momento del salto.

Il record

Dick Fosbury, così, riuscì a vincere la medaglia d’oro olimpica, stabilendo anche il nuovo record a cinque cerchi, con un salto di 2,24 metri.

La tecnica rivoluzionaria era stata proposta da Fosbury prima durante il campionato Ncaa, e poi durante i trials, cioè le gare di qualificazione nazionali alle Olimpiadi. Dopo essere diventato famoso negli Stati Uniti, tuttavia, Fosbury venne “protetto”: i filmati e le immagini dei trials statunitensi, infatti, non vennero diffusi per evitare che atleti di altre nazioni venissero a conoscenza del nuovo stile dorsale (in un’epoca in cui – ovviamente – non c’era la disponibilità di immagini permessa oggi dalla televisione e da Internet).

Tra l’altro, nella gara che lo fece conoscere al mondo, Fosbury indossò due scarpe di colore differente: non si trattò di una scelta di marketing, ma di una decisione dovuta unicamente a motivi di spinta, visto che la scarpa destra scelta gli forniva una spinta superiore rispetto alla scarpa destra che faceva il paio con la sinistra.

Non fu il primo, anche se porta il suo nome

È bene sottolineare, tuttavia, che Dick Fosbury non fu il primo a usare la tecnica del salto dorsale, ma semplicemente quello che la fece conoscere al mondo. Questo tipo di salto, infatti, era stato usato anche dalla canadese Debbie Brill nel 1966, quando aveva solo 13 anni, e – in precedenza – anche da Bruce Quande, un ragazzone del Montana, nel 1963.

Nel 1981 è entrato a far parte della National Track & Field Hall of Fame.

Dick Fosbury si è spento all’età di 76 anni nella sua città natale, il 12 marzo 2023.

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Milan, calcio: Storia del Milan https://cultura.biografieonline.it/milan-calcio-storia/ https://cultura.biografieonline.it/milan-calcio-storia/#comments Sun, 22 May 2022 18:32:26 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=4345 Che cosa ha portato il Milan a diventare una delle squadre di calcio più seguite in Italia ed una delle più forti in Europa? A contribuire alla forza di questo gruppo sportivo sono stati i vari calciatori, presidenti e allenatori che si sono avvicendati scommettendo nelle enormi potenzialità della squadra. Per ricostruire la storia dell’A.C. Milan dobbiamo risalire indietro nel tempo, alla fondazione ufficiale del “Milan Foot-Ball and Cricket Club”, che avviene presumibilmente il 13 o il 16 dicembre 1899.

Storia del Milan
Storia del Milan

E’ certo invece che il 18 dicembre 1899 La Gazzetta dello Sport rende nota la sua nascita: i soci fondatori fanno parte di un gruppo di inglesi e italiani animati dalla passione per il gioco del calcio e del cricket. Inizialmente la sede viene fissata in Via Berchet, a Torino, presso la Fiaschetteria Toscana.

L’attività ufficiale della squadra comincia con una partita contro l’F.C. Torinese, poi nel 1900/1901 arriva il primo scudetto, seguito dal secondo (nella stagione 1905/1906) e nella stagione successiva se ne aggiunge anche un terzo. Intanto la società comincia ad avere qualche problema interno: un gruppo di soci si stacca dalla compagine iniziale e fonda la società “Football Club Internazionale Milano”, oggi conosciuta da tutti come Inter.

Nel 1919 la società prende il nome di “Milan Football Club”: pur ottenendo buoni risultati, avvalendosi di grandi giocatori in campo (quali Giuseppe Meazza e Aldo Boffi), la squadra non riesce a superare il terzo posto, rimanendo fermo a metà classifica, dietro all’Inter e al Bologna. In questo periodo la società sportiva viene affidata a Piero Pirelli: durante la sua lunga presidenza viene inaugurato lo Stadio di San Siro, nel 1926. Dopo una serie di cambiamenti nella denominazione, si arriva nel 1945 alla nascita dell’Associazione Calcio Milan. Intanto Umberto Trabattoni dirige la squadra dal 1940 al 1954: il Milan però in questi anni va avanti tra alti e bassi, senza mai spiccare veramente il volo.

Il Milan vince lo scudetto nel 1956/1957, mentre è guidato dal Presidente Gipo Viani. La squadra può contare su una rosa di giocatori di grande livello, ai quali nel 1958 ai aggiunge anche Josè Altafini, il giocatore brasiliano che conquista subito il cuore dei tifosi. Questo è uno dei momenti d’oro del Milan, che vince il titolo sconfiggendo la Fiorentina. Il decennio successivo (1960-1970) è caratterizzato dalla presenza di molti calciatori italiani che si impongono a livello internazionale con la loro bravura (è il caso d Gianni Rivera).

Gianni Rivera
Gianni Rivera

Nel 1963 la Società cambia ancora nome in “Milan Associazione Sportiva”. Il risultato più importante di questo periodo è la conquista della Coppa dei Campioni, che avviene nella stagione 1962/63: il Benfica viene sconfitto in finale dal Milan per due gol ad uno. Il capitano che alza la coppa al cielo è Cesare Maldini. Nel 1967/68 il Milan vince lo scudetto, la Coppa dei Campioni ed anche la sua prima Coppa intercontinentale. Il Pallone d’Oro viene riconosciuto al mitico Gianni Rivera.

Gli anni Settanta non rappresentano un buon periodo per il Milan, che raccoglie ben poche soddisfazioni. Gianni Rivera in questi anni lascia il calcio, ma resta nella società milanista ricoprendo il ruolo di Vice Presidente. Gli anni Ottanta non sono granché, ma i tifosi li ricordano soprattutto per l’esordio del giocatore Paolo Maldini.

Nel 1986 Silvio Berlusconi diventa Presidente del Milan, e decide di ridare smalto alla squadra. A quanto pare ci riesce, perché nel 1987 il Milan va alla riscossa. Il Milan conquista l’undicesimo scudetto, schierando in campo gli olandesi Gullit e Van Basten.

Nel 1988/1989 il Milan conquista la Coppa dei Campioni a Barcellona. Con la guida di Arrigo Sacchi in panchina e Franco Baresi in campo, conquista due volte la Coppa Intercontinentale. Nel 1992/93 subentra Fabio Capello, che porta il Milan alla conquista di quattro scudetti, una Supercoppa Europea, tre Supercoppe di Lega e una Champions League. Davvero un bel traguardo per la squadra rossonera!

Negli anni Novanta in panchina si avvicendano diversi tecnici, ma la squadra decolla solo con Paolo Zaccheroni: nel 1999 il Milan ottiene il suo sedicesimo scudetto. Un altro tecnico che ha segnato la storia della società calcistica rossonera è Carlo Ancelotti: il suo arrivo apre nuovi scenari e la conquista di altri trofei. Nel 2009/2010 come allenatore subentra Leonardo, che vanta  un passato da calciatore (sempre nella compagine milanista).

Il dopo-Leonardo schiera in campo alcune stelle del calcio come Ronaldinho e Pato, due calciatori scelti dal Presidente Berlusconi. Da allora la stagione d’oro del Milan è in pieno svolgimento: di certo la squadra ha scritto e scriverà ancora pagine memorabili nella storia calcistica italiana e mondiale.

Nell’estate del 2016 la società viene venduta a una cordata di aziende orientali, perlopiù cinesi. Dopo varie vicissitudini necessarie al perfezionamento dell’accordo economico, diventa formalmente cinese nel mese di aprile 2017: dopo 31 anni finisce così l’era di Berlusconi. Il nuovo presidente è l’imprenditore cinese Yonghong Li.

Nel 2022 il Milan vince il suo scudetto N° 19 grazie alla guida dell’allenatore Stefano Pioli.

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Giro delle Fiandre: storia, percorsi, successi e curiosità https://cultura.biografieonline.it/giro-fiandre-storia/ https://cultura.biografieonline.it/giro-fiandre-storia/#respond Tue, 22 Mar 2022 16:05:22 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=39591 Il Giro delle Fiandre (Ronde van Vlaanderen in fiammingo) è una delle cosiddette 5 classiche monumento del ciclismo su strada. Le altre corse che ne fanno parte sono:

  • Milano-Sanremo
  • Parigi-Roubaix
  • Liegi-Bastogne-Liegi
  • Giro di Lombardia.

Molti considerano il Giro delle Fiandre l’università del ciclismo e per almeno 3 buoni motivi.

  1. In primo luogo si disputa nella parte fiamminga del Belgio, dove il ciclismo è considerato poco meno di una religione.
  2. In secondo luogo è celebre per i cosiddetti muri – salite brevi ma spesso ripidissime – e i pavé, dove i più forti possono fare la differenza.
  3. Ed è proprio questo il terzo punto: raramente il Fiandre “laurea” un carneade, perché per vincere una gara alla quale puntano tutti i migliori specialisti, belgi e non solo, e per di più su un percorso così duro, è necessaria tanta tanta classe e una condizione di forma al top.
Giro delle Fiandre illustrazione

La storia del Giro delle Fiandre

La prima edizione del Fiandre si è corsa il 25 maggio 1913. La fama e l’importanza della gara sono cresciute progressivamente fino a portarla definitivamente nel novero delle classiche del nord, le gare che si svolgono in primavera in Belgio, Olanda e Francia settentrionale. È anzi la prima classica del Nord in calendario e precede di una settimana la Parigi – Roubaix.

Ad avere iscritto più volte il proprio nome nell’albo d’oro, con tre trionfi a testa, sono:

  • Achiel Buysse
  • Fiorenzo Magni
  • Eric Leman
  • Johan Museeuw
  • Tom Boonen
  • Fabian Cancellara.

Il toscano Magni è l’unico riuscito nell’impresa di ottenere le sue tre vittorie in modo consecutivo.

I belgi, da soli, nel primo secolo di storia di questa corsa hanno vinto il Fiandre un numero di volte quasi doppio rispetto ai corridori di tutti gli altri Paesi messi insieme. Ciò a conferma di quanto sia difficile primeggiare per chi non è nato da queste parti e non ha quindi l’abitudine a correre sui muri, con il vento, la pioggia e il gelo delle Fiandre.

Il percorso

Nelle prime edizioni il percorso superava ampiamente i 300 chilometri andando a toccare tutte le principali città del Belgio fiammingo.

In anni più recenti lo si è ridotto a “soli” 250-260 chilometri.

A differenza di gare come la Milano – Sanremo, il percorso varia spesso, anche perché le condizioni dei muri richiedono una manutenzione frequente; non è scontato che tutti i muri siano percorribili il giorno della corsa.

Negli anni a cavallo tra la fine dei 2010 e l’inizio dei 2020 l’arrivo è spesso fissato a Oudenaarde, cittadina sul fiume Schelda.

Il muro simbolo della corsa

Il simbolo della corsa è probabilmente il Muro di Grammont, o Muur van Geraardsbergen in fiammingo, come amava ricordare Adriano De Zan nelle sue appassionate telecronache, o anche Kapelmuur perché giusto in cima c’è una piccola chiesa.

E’ simbolico sia per la difficoltà dell’ascesa, che tocca anche la pendenza del 20%, sia perché in questo tratto si sono spesso decise le sorti della corsa, magari dopo duelli epici.

Un duello epico fu quello del 2010: lo svizzero Fabian Cancellara staccò l’idolo di casa Tom Boonen e si involò per cogliere il 1° dei suoi 3 successi: fu un trionfo clamoroso – ma non scevro di polemiche.

Cancellara Fiandre 2010
Fabian Cancellara sul pavé del Fiandre 2010 con moltissimi tifosi che lo incitano

Altri muri quasi altrettanto famosi e spettacolari sono:

  • l’Oude Kwaremont
  • il Paterberg
  • il brutale Koppenberg, che tocca il 22% di pendenza!

I tifosi

Sono tanti gli aneddoti sui tifosi che circondano questa corsa. Ogni storia testimonia l’infinita passione dei fiamminghi per il ciclismo e per il “loro” Giro delle Fiandre in particolare.

Si dice che fra i tifosi assiepati ai margini delle strade la birra – bevanda tradizionale del paese – scorra a fiumi e l’odore degli hotdog impregni l’aria per ore. Ma non tutti i tifosi sono “stanziali”: ci sono autentiche gare per riuscire a vedere più volte il passaggio degli atleti; e per riuscirci i tifosi si spostano in macchina da un punto all’altro del percorso.

Ovviamente non possono percorrere le stesse strade dei corridori e sono quindi costretti a studiare alternative che includono stradine di campagna a malapena transitabili.

Il colore predominante lungo tutto il percorso è decisamente il giallo, non solo quello dorato delle birre ma anche e soprattutto quello del leone fiammingo: la bandiera delle Fiandre rappresenta un leone nero in campo, appunto, giallo.

Bandiera delle Fiandre - Flanders flag
La bandiera delle Fiandre: un leone nero con lingua e artigli rossi campeggia sullo sfondo giallo

I vincitori italiani

Quando Fiorenzo Magni partì per andare a cogliere il suo primo trionfo, i corridori italiani non erano considerati adatti alle corse del Nord, tanto che non solo non vi partecipavano, ma nemmeno le conoscevano in dettaglio. La stessa squadra del toscano, la Willier Triestina, gli accordò il permesso di partecipare ma senza garantirgli alcun supporto.

Così Magni partì in treno, con la sua bicicletta e un unico gregario. Vinse la volata finale dopo 7 ore e 20 minuti di gara. Era il 10 aprile 1949.

Gli altri due successi consecutivi (1950 e 1951), ottenuti entrambi per distacco, gli valsero il soprannome di Leone delle Fiandre.

Il fenomenale “terzo uomo” del ciclismo italiano (chiamato così perché considerato tra i grandissimi della sua epoca, dopo Fausto Coppi e Gino Bartali) aveva uno spaventoso furore agonistico. Era un passista di rara potenza e si trovava perfettamente a suo agio nel gelo e nella pioggia, condizioni che spesso caratterizzano le Fiandre a inizio aprile.

Fiorenzo Magni - Fiandre 1951 - Tuttosport
La prima pagina del quotidiano sportivo Tuttosport (3 aprile 1951) con Fiorenzo Magni vincitore del Giro delle Fiandre

Il secondo italiano a imporsi fu il veneto Dino Zandegù, nel 1967.

Bisognerà poi aspettare fino al 1990 per un nuovo trionfo italiano. Quello di Moreno Argentin, che vinse al termine di una fuga a due con il belga Dhaenens.

Quattro anni (1994) dopo si parlò di Pasqua di resurrezione perché, alla fine di una splendida corsa che aveva chiamato allo scoperto molto presto i grandi favoriti, si impose Gianni Bugno, “risorgendo” da un periodo buio, con un contestatissimo sprint sul belga Museeuw; altro campione che su queste strade ha scritto pagine importanti.

Poco sofferta nel 1996 la vittoria del toscano Michele Bartoli, per quanto agevole possa essere un trionfo al Fiandre, in considerazione della straordinaria superiorità del toscano.

Il primo decennio del 2000 vide diverse vittorie tricolori: Gianluca Bortolami nel 2001; Andrea Tafi nel 2002; il veneto Alessandro Ballan vinse nel 2007 e l’anno successivo sarebbe diventato campione del mondo a Varese.

Nel 2019 vinse a sorpresa Alberto Bettiol, staccando di forza gli avversari con un’irresistibile progressione sull’Oude Kwaremont.

Le donne

Dal 2004 si disputa anche la corsa femminile, nello stesso giorno e sulle stesse strade degli uomini, sia pure su un chilometraggio ridotto.

La prima edizione fu vinta dalla russa Zul’fija Zabirova.

Le azzurre non si sono però limitate a fare da comprimarie e possono vantare già 2 successi. La prima vittoria risale al 2015 (edizione corsa su un totale di 145 chilometri) quando una Elisa Longo-Borghini realmente in stato di grazia salutò una compagnia comprendente tutte le più forti a 20 chilometri dall’arrivo, per non essere più rivista fino al traguardo.

Nel 2019 fu la campionessa europea in carica, Marta Bastianelli, a replicare: fulminò in volata due fuoriclasse come Annemiek van Vleuten e Cecilie Ludwig.

Fiandre 2019 - Alberto Bettiol e Marta Bastianelli
Al Fiandre 2019 i vincitori sono entrambe italiani: Alberto Bettiol e Marta Bastianelli

Sito ufficiale

Se state pianificando una gita e un viaggio in Belgio per assistere alla gara o addirittura pedalare lungo i percorsi del Giro delle Fiandre, vi consigliamo di visitare il sito ufficiale Visit Flanders.

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