Opere liriche Archivi - Cultura https://cultura.biografieonline.it/argomento/musica/opere-liriche/ Canale del sito Biografieonline.it Fri, 03 Nov 2023 09:12:49 +0000 it-IT hourly 1 Francesca da Rimini: riassunto dell’opera e analisi musicale https://cultura.biografieonline.it/francesca-da-rimini/ https://cultura.biografieonline.it/francesca-da-rimini/#comments Fri, 31 Mar 2023 08:31:38 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14784 Francesca da Rimini è un’opera drammatica, una tragedia in quattro atti, composta da Riccardo Zandonai (Rovereto, 28 maggio 1883 – Trebbiantico, 5 giugno 1944), su libretto di Gabriele D’Annunzio. La prima rappresentazione dell’opera Francesca da Rimini risale al 19 febbraio 1914, a Torino, presso il Teatro Regio. L’opera ebbe un successo indiscusso e occupa oggi con merito un posto di primo piano nel repertorio del teatro lirico moderno.

La storia ricorda il personaggio di Francesca da Polenta (Ravenna, 1259/1260 – Gradara, 1285) – detta anche da Rimini – figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna, soprattutto per la sua presenza nel poema dantesco della Divina Commedia.

Siede sulla terra dove nata fui
su la marina dove ‘l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.

Dante Alighieri, Inferno, Canto V, 97-99

La storia si svolge a Ravenna, nelle Case dei Polentani, e a Rimini, nelle Case dei Malatesta. La sintesi e l’analisi musicale che seguono sono state redatte dal Maestro Direttore d’orchestra Pietro Busolini, di Trieste.

Francesca da Rimini - quadro
Francesca da Rimini, particolare del quadro di William Dyce (1837)

Francesca da Rimini: personaggi dell’opera

I Figli di Guido Minore Da Polenta:

  • Francesca: Soprano
  • Samaritana: Soprano
  • Ostasio: Baritono

I Figli di Malatesta da Verucchio:

  • Giovanni lo Sciancato: Baritono
  • Paolo il Bello: Tenore
  • Malatestino dall’Occhio: Tenore

Le Donne di Francesca:

  • Biancofiore: Soprano
  • Garsenda: Soprano
  • Altichiara: Mezzo-Soprano
  • Donello: Mezzo-Soprano
  • La Schiava: Contralto
  • Ser Toldo Berardengo: Tenore
  • Il Giullare: Basso
  • Il Balestriere: Tenore
  • Il Torrigiano: Baritono
  • I Musici

Riccardo Zandonai e la composizione della “Francesca da Rimini”

Nato a Sacco (Trentino) nel 1883 e italianissimo di sentimenti quando ancora quella regione non era stata ricongiunta alla madre patria per effetto della guerra vittoriosa, Riccardo Zandonai fece i suoi primi studi a Rovereto con Gianferrari; passò quindi al Liceo di Pesaro, dove ricevette l’insegnamento di Mascagni.

La musica di Zandonai si fece notar subito per la nobiltà e la felicità dell’ispirazione, accoppiata ad una tecnica sorprendente e a una tavolozza orchestrale ricca di colori vivaci e di trovate originali.

Riccardo Zandonai
Riccardo Zandonai

Come compositore di teatro, nessuno, dopo Puccini, è stato più di Zandonai perspicace nello scegliere libretti ricchi di situazioni drammatiche e comiche, di sicuro effetto, e di ravvivarle con una musica che va sempre dritta all’animo dell’ascoltatore.

Comprendiamo quindi come Francesca da Rimini, sia l’opera, che, specie per la sua calda passionalità, ha raccolto i maggiori suffragi.

Attratto dal teatro dannunziano, Zandonai aveva dovuto rinunziare a musicare ”La figlia di Jorio”, per la quale il Poeta si era già impegnato con Alberto Franchetti.
La “Francesca da Rimini” lo attraeva, ma la sua lunghezza lo disanimava, e daltronde non osava sperare che D’Annunzio avrebbe consentito a lasciarla mutilare.
Fu Tito Ricordi che lo persuase a tentare, ed egli stesso liberò il fusto magnifico dall’abbondante vegetazione che l’avvolgeva, come ebbe a dire lo Ziliotto nella sua “Guida attraverso il poema e la musica della Francesca da Rimini“.

Accordatisi riduttore e compositore, Tito Ricordi si recò ad Arcachon per avere l’approvazione di D’Annunzio, ma questi oppose che aveva già consentito di musicare Francesca ad una nobildonna. Indurla a rinunziarvi non fu difficile: Zandonai, preso dalla febbre del lavoro compì l’opera di getto, in soli dodici mesi.
La Francesca fu elaborata secondo il canone wagneriano del leitmotiv.
Un senso squisito di equilibrio però avvertiva Zandonai di non applicare troppo rigidamente il sistema del motivo egemonico.

Si inganna però  – osserva lo Ziliotto - chi crede che lo Zandonai abbia fatto precedere alla creazione un lungo studio delle canzoni antiche. Egli si è affidato unicamente alla intuizione artistica che gli ha permesso di interpretare profondamente l’ambiente del dramma e l’animo dei personaggi dannunziani.

Atto I

Appare una corte, nelle case dei Polentani, contigua ad un giardino che brilla di là da una chiusura di marmi traforato in guisa di transenne. Ricorre per l’alto una loggia che a destra corrisponde con le camere gentilesche e di fronte, areata su le sue colonnette, mostra avere una duplice veduta. Ne discende, a manca, una scalla leggera. Una grande porta è a destra, e una bassa finestra ferrata; pè cui vani si scopre una fuga di arcate che circondano unaltra corte più vasta. Presso la scala è unarca bizantina, senza coperchio, riempita di terra come un testo, dove fiorisce un rosaio vermiglio.” (Scena dal libretto originale del 1914)

Riassunto
A Ravenna, in casa dei da Polenta. Francesca da Polenta, figlia del signore della città, Guido, sta per sposare Gianciotto Malatesta, giovane sciancato: lei crede, ingannata, che lo sposo sia in realtà il fratello di Gianciotto, il bel Paolo, che vede palpitando. La sorella di Francesca, Samaritana, è colta da un fosco presagio e le chiede di rinunciare al matrimonio; ma Francesca è salda nel suo convincimento.

Atto II

Appare una piazza duna torre rotonda, nelle case dei Malatesti. Due scale laterali di dieci gradini salgono dalla piazza al battuto della torre; una terza scala fra le due, scende ai sottoposti solai, passando per una botola. Si scorgono i merli quadri di parte guelfa muniti di bertesche e di piombatoie . Un màngano poderoso leva la testa della sua stango e allargo il suo telaio di canapi attorti.
Balestre grosse a bolzoni e verrettoni a quadrelli, baliste, arcubaliste a altre artiglierie di corda sono postate in giro con lor martinetti girelle torni arganelli lieve. La cima della torre malatestiana irta di macchine e darmi campeggia nellaria torbida dominando la città la città di Rimino donde spuntano soli in lontananza i merli a coda di rondine che coronano la più alta torre ghibellina. Alla parete destra è una è una porta; alla sinistra, una stretta finestra imbertescata che guarda l’Adriatico.

Riassunto
Durante la guerra che oppone a Rimini i Malatesta e i Parcitadi. Paolo si fa onore, con accanto, sulla torre, Francesca, che lo rimprovera per linganno subito col matrimonio. Ella lo crede ferito e lo accarezza, gli prende la testa fra le mani. Arriva Gianciotto, non parco di lodi per il valore del fratello Paolo, e brindano alla sua vittoria. Paolo e Francesca si guardano con intensi sensi. Arriva il terzo fratello, Malatestino, ferito, mentre fuori, la furiosa, continua.

Atto III

Appare una camera adorna , vagamente scompartita da formelle che portano istoriette del romanzo di Tristano, tra uccelli fiori frutti imprese. Ricorre sotto il palco, intorno alle pareti, un fregio a guisa di festone dove sono scritte alcune parole duna canzonetta amorosa.

Meglio mè dormire gaudendo
Cavere pensieri vegliando.

A destra, nellangolo, è un letto nascosto da cortine ricchissime; a sinistra, un uscio coverto da una portiera grave; in fondo, una finestra che guarda il Mare Adriatico. Dalla parte delluscio è, sollevato da terra due braccia, un coretto per i musici con compartimenti ornati di gentili trafori.
Presso la finestra è un leggio con suvviaperto il libro della Historia di Lancillotto del Lago, composto di grandi membrane alluminate che costringe la legatura forte di due assicelle vestite di velluto vermiglio. Accanto vè un lettuccio, una sorta di ciscranna senza spalliera e bracciuoli, con molti cuscini di sciamito, posto quasi a paro del davanzale, onde chi vi sadagi scopre tutta la marina di Rimino. Su un deschetto è uno specchio dargento a mano, tra ori canne coppette borse cinture e altri arreddi. Grandi candelieri di ferro salzano presso il coretto. Scannelli e predelle sono sparsi allintorno; e dal mezzo del pavimento sporge il maniglio di una cateratta, per la quale di questa camera si puo scendere in un’altra.”

Riassunto
Francesca legge storie damore e ascolta musica. Entra Paolo, reduce da un lungo viaggio. Le mostra amore, ella quasi gli cede, soli e senza alcun sospetto leggendo dal Lancillotto, di come amor lo strinse. Il disiato riso di Ginevra esser baciato da cotanto amante, Paolo, tutto tremante, bacia Francesca, ed in questo caso il libro fu galeotto.

Paolo e Francesca
Paolo e Francesca

Atto IV – Parte I

Appare una sala ottagona, di pietra bigia, cinque de suoi lati in prospetto. In alto, su la nudita della pietra, ricorre un fregio di licorni in campo doro. Nella parete di fondo e un finestrone invetriato che guarda le montagne, fornito di sedili nello strombo. Nella parete che con quella fa angolo obliquo a destra, è un usciolo ferrato per ove si discende alle prigioni sotterranee. Contro la corrispondente parete, a sinistra, è una panca con alta spalliera, dinanzi a cui sta una tavola lunga e stretta, apparecchiata di cibi e di vini. In ciascuna delle altre due pareti a rimpetto è un uscio: il sinistro, prossimo alla mensa, conduce alle camere di Francesca; il destro, ai corridoi e alle scale. Tutto in , torno sono distribuiti torceri di ferro; ai beccatelli sono appesi budrieri, corregge, turcassi, pezzi darmatura diverse, e poggiate armi in asta : picche, bagordi, spuntoni, verruti mannaie, mazzafrusti.

Atto IV – Parte II

Riappare la camera adorna , con il letto incortinato con la tribuna dei musici , col leggio che regge il libro chiuso. Quattro torchi di cera ardono su uno dei candelieri di ferro; due doppieri ardono sul deschetto. Le vetrate della finestra sono aperte alla notte serena . Sul davanzale è il testo del basilico; e accanto è un piatto dorato, pieno di grappoli duva novella.

Riassunto del Quarto atto
Il terzo fratello, Malatestino, è innamorato pure lui di Francesca. Ella si rifiuta. Si ode il grido di un carcerato, e Malatestino, crudele, a spada sguainata va a far cessare quel lamento, mentre Francesca si lamenta con il marito Gianciotto delle profferte di Malatestino. Credendo forse Francesca Salome, Malatestino rientra con la testa mozza del carcerato che gridava. Francesca, che non è Salome, fugge in preda allorrore. Quando Gianciotto lo rimprovera, Malatestino non ce la fa più e rivela quel che sa di Paolo e Francesca. Gianciotto, con un inganno, scopre tutto .
Paolo e Francesca abbracciati consci della loro fine, sentono lultimo fremito damore attraversare le loro vene, e cadono trafitti dalla lancia di Guanciotto e dal pugnale di Malatestino.

Francesca da Rimini - opera - una scena
Francesca da Rimini, una scena dell’opera

Analisi musicale

Giudicare un’opera in musica può esser facile o di difficile impresa. Dipende dagli elementi assunti come base di giudizio; elementi che sono come i reagenti adoperati per una analisi chimica.
Se prendiamo la Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai presentata al Theatre De Versailles, se vogliamo indagare i valori tecnici della composizione occorrerà il possesso di una cultura musicale storica e specifica non indifferente, ai lumi della quale si può stabilire il posto che spetta all’opera nel campo delle produzioni similari: le derivazioni wagneriane in rapporto all’uso del tematismo; i procedimenti armonici impiegati ed più ancora, gli accorgimenti strumentali che fanno
dello Zandonai un vero maestro fra color che sanno.

Effettivamente l’esame particolareggiato della partitura della Francesca svelerebbe una trama di bellezze raramente raggiunta dai moderni operisti, in diretto rapporto non solo alle doti istintive ma altresì alle esperienze timbriche che lo Zandonai condusse fino da quando, ancor giovanetto e studente, il suo primo maestro lo incaricava di trascrivere composizioni per la banda della natìa Rovereto.

Altri invece – e sarebbero i più – potrebbero assumere a base della indagine gli elementi umani ed affettivi, misurando l’intensità delle vibrazioni provocate nel proprio spirito dalla audizione dell’opera.

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Si può concludere che, la Francesca da Rimini, così come soddisfa i tecnici riesce a commuovere gli ignari, trovando molte ragioni di simpatia e di consonanza con le anime semplici. Basterebbero a tanto l’episodio dell’arrivo di Paolo, nella fine del Primo Atto, e, quasi per intero, nel secondo, dove il musicista è riuscito, col linguaggio che gli è proprio, ad aggiungere poesia alla poesia, oltrepassando di gran lunga i confini espressivi assegnati alla parola.

Anche a prescindere, dai molti pregi di carattere armonico orchestrale, dall’intensa drammaticità raggiunta nel primo quadro dell’ultimo atto - altro esempio della essenzialità dell’apporto musicale – le due ampie oasi liriche citate, sono cose di tale bellezza da non consentire dubbi circa il valore umano ed affettivo della Francesca, che deve ritenersi la migliore tra le molte produzioni di Riccardo Zandonai, e una delle più alte manifestazioni lirico-teatrali del Novecento.

Sia dunque cura di tutti i Teatri ed Enti Lirici tenere nella dovuta considerazione uno spartito tanto importante quanto ricco di così grandi qualità: ridarlo in pieno al repertorio operistico mondiale, significa rendere un servizio alla musica ed al pubblico. Chiunque ami e creda ancora nel teatro lirico non potrà allora che esserne soddisfatto.

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Macbeth, opera di Giuseppe Verdi. Storia e trama. https://cultura.biografieonline.it/macbeth-giuseppe-verdi/ https://cultura.biografieonline.it/macbeth-giuseppe-verdi/#comments Tue, 07 Dec 2021 14:33:55 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7080 Il Macbeth verdiano è un dramma lirico che si compone di quattro atti. Il libretto è di Francesco Maria Piave. La prima rappresentazione andò in scena il giorno 14 marzo 1847 presso il Teatro la Pergola di Firenze. Macbeth è uno tra i più noti drammi scritti da William Shakespeare; è inoltre la sua tragedia più breve. Nel corso dei secoli essa è stata frequentemente riadattata e rappresentata. La versione operistica di Giuseppe Verdi – la sua decima – viene qui riassunta e analizzata.

La prolusione è curata e redatta dal Maestro Pietro Busolini.

Macbeth, di Giuseppe Verdi
L’opera di Verdi andò in scena la prima volta il 14 marzo 1847

La genesi di Macbeth, fu lunga e difficile per Francesco Maria Piave e per Giuseppe Verdi. Il dramma psicologico Shakespeariano ha inciso non poco sull’armonia e sul contrappunto di Verdi, due versioni, quella originaria che debuttò Firenze nel teatro la Pergola, e quella definitiva di Parigi rappresentata al Théàtre Lyrique il 21 aprile 1865, lavoro dell’operazione revisionistica dal Maestro dopo il 1860, cioè dopo gli anni giovanili.

Trama del Macbeth

Atto primo

Scena prima

Nella foresta, “Preludio”. Alcune streghe, riunite per festeggiare le malvagità commesse, incontrano Macbeth e Banco, due generali dell’esercito scozzese di re Duncan. Le streghe salutano in Macbeth il futuro re di Scozia: il giovane soldato è turbato dalla profezia. Arrivano dei messaggeri annunciando a Macbeth che il re Duncan lo ha nominato signore di Cawdor.

Scena seconda

Castello di Macbeth. Lady Macbeth sta leggendo una lettera del marito che le narra del suo incontro con le streghe e delle loro profezie: “Nel dì della vittoria”. Ella decide di infondergli il coraggio per uccidere Duncan: “Vieni! T’affretta!”. Egli così accederà al trono. Un servo annuncia che il re passerà la notte nel castello: “Al cader della sera…”. In una cabaletta: “Or tutti sorgete”, la donna invoca l’aiuto dei signori delle tenebre. Giunge Macbeth: la moglie lo sprona a compiere il tentativo quella notte stessa. Entra il re, scortato da Banco, Malcolm e Macduff.

Ricevuto il benvenuto dei padroni di casa, viene condotto alle proprie stanze. Dopo molti tentennamenti, Macbeth entra nella stanza in cui dorme il sovrano e lo uccide. In preda al panico, esce dalla stanza e descrive alla moglie l’orribile scena: “Fatal mia donna!”. Ella esorta il marito a riportare il pugnale dal re per accusare del delitto gli stallieri. Ma l’uomo è troppo terrorizzato. Ella afferra allora il pugnale ed entra nella stanza di Duncan. Bussano alla porta: mentre la coppia si ritira, entrano Banco e Macduff che hanno l’ordine di svegliare il re: “Di destarlo per tempo”. Scoperto l’assassinio, i due danno l’allarme al castello. Tutti i personaggi riuniti nel salone invocano la punizione divina per l’uccisore: “Schiudi, inferno, la bocca”.

Macbeth: una scena
Scena tratta da una rappresentazione operistica

Atto secondo

Scena prima

Stessa scena. Una camera del castello. Lady Macbeth rimprovera il marito, ora re, di evitarla, “Perché mi sfuggi”. Lui non riesce a dimenticare le streghe e decide, incoraggiato dalla moglie, di far assassinare Banco e suo figlio Fleance, possibili futuri avversar!. Rimasta sola, Lady Macbeth esulta alla prospettiva di togliere ogni ostacolo al trono: “La luce langue”.

Scena seconda

Nel parco del castello. I sicari ingaggiati da Macbeth sono in attesa di Banco e di suo figlio, che arrivano per recarsi ad un banchetto che si terrà nel castello. Mentre Banco viene attaccato e ucciso: “Come dal ciel precipita”, Fleance riesce a fuggire.

Scena terza

La sala dei banchetti del castello. Entrano i coniugi, salutati dagli invitati. Lady Macbeth propone un cordiale brindisi: “Si colmi il calice”, al quale si uniscono tutti. Arriva intanto uno dei sicari che riferisce a Macbeth della morte di Banco e della la fuga di Fleance. Il re si volta per sedersi e trova la poltrona occupata dal fantasma di Banco che nessun altro vede all’infuori di lui: egli è sopraffatto dal terrore. Riavutosi, decide di consultare le streghe per sapere di più sul suo futuro.

Atto terzo

La spelonca della delle streghe. Le streghe stanno eseguendo uno dei loro macabri riti [13] (Tre volte miagola). Entra Macbeth ed interroga le streghe. Esse invocano i signori delle tenebre per far conoscere al re il proprio destino. La prima profezia lo avverte di fare attenzione a Macduff, poi un fanciullo profetizza che Macbeth sarà invincibile fino a quando la foresta di Birnam non si muoverà contro di lui. Sviene. Le streghe convocano gli spiriti dell’aria per farlo riprendere.

Atto quarto

Scena prima

Al confine tra Scozia e Inghilterra. Un gruppo di profughi scozzesi piange la patria, schiacciata e commossi essi vogliono una morte cruente per Macbeth “Patria oppressa”. Del gruppo fa parte anche Macduff, straziato dalla notizia che moglie e figli sono stati massacrati: “O figli”, “Ah! La paterna mano”. Arriva l’esercito inglese di Malcolm. L’erede al trono di Scozia sprona gli esuli a unirsi a lui, e ordina ad ognuno di tagliare un ramo d’albero dalla foresta di Birnam per cogliere il nemico di sorpresa.

Scena seconda

Nella sala del castello di Macbeth. Un medico e una dama del seguito di Lady Macbeth attendono la regina che è stata vista aggirarsi di notte in stato di sonnambulismo: “Vegliammo invan due notti”. Lady Macbeth appare con in mano una candela. Ossessionata dall’assassinio di Duncan ella cerca invano di ripulirsi dal sangue che immagina di vedersi sulle mani: “Una macchia”.

Scena terza

In una stanza del castello. Macbeth medita sulla battaglia che dovrà sostenere contro Malcolm, Macduff ed i loro alleati: “Perfidi”. Piange ciò che ha perso per cieca ambizione:”Pietà, rispetto, amore”. Il soliloquio è interrotto dalla dama del seguito che viene a comunicargli la morte di Lady Macbeth, ma egli ha in testa più urgenti problemi: alcuni soldati riferiscono che la foresta di Birnam si sta muovendo. Macbeth allora comprende il significato della profezia delle streghe e si prepara alla lotta finale.

Scena quarta

In una pianura circondata da foreste e colline. Le truppe di Malcolm avanzano finché non arriva l’ordine di deporre i rami serviti da schermo. Nello scontro che segue Macbeth viene messo alle strette da Macduff. Ormai perduto, Macbeth viene ucciso da quest’ultimo in duello. Ritorna Malcolm, che dichiara vittoria sulle forze di Macbeth: “Vittoria!”

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La traviata, di Giuseppe Verdi: riassunto e storia https://cultura.biografieonline.it/la-traviata-di-verdi-riassunto/ https://cultura.biografieonline.it/la-traviata-di-verdi-riassunto/#comments Tue, 06 Apr 2021 18:29:46 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7661 La traviata è una delle opere più famose, note e belle di Giuseppe Verdi. Scritta su libretto di Francesco Maria Piave, si compone di tre atti ed è tratto dalla pièce teatrale “La signora delle camelie”, scritta dall’autore francese Alexandre Dumas (figlio); quest’opera verdiana, assieme a “Il trovatore” e a “Rigoletto“, fa parte della cosiddetta “trilogia popolare“.

La traviata, di Giuseppe Verdi
La traviata: una scena tratta da una rappresentazione teatrale

In parte composta nella villa degli editori Ricordi a Cadenabbia, nella splendida cornice del lago di Como, la prima rappresentazione teatrale de La traviata, avvenne al Teatro La Fenice di Venezia, nel giorno 6 marzo 1853; in tale occasione, tuttavia, a causa soprattutto di interpreti non di adeguato livello e a causa della scabrosità dei temi, la rappresentazione si rivelò un fiasco totale. Venne ripresa comunque il 15 maggio 1854 quando ottenne il meritato successo.

La prolusione che segue è stata redatta per Biografieonline dal Maestro Pietro Busolini di Trieste.

La traviata: genesi dell’opera

Nella mente di Verdi prende corpo questa nuova fatica, dopo aver visto a teatro “La signora delle camelie” a Parigi, accompagnato da Giuseppina Strepponi, nel febbraio del 1852. Elabora questo dramma – opera di Dumas figlio – e ne ricava un intenso melodramma dal valore emotivo e di un esasperato romanticismo. Giuseppe Verdi ha donato al mondo un’opera di estremo lirismo. Il maestro scriveva, come riportato da giornali dell’epoca, al presidente del teatro alla fenice signor Marzari: “Ho volutamente cercato un soggetto pronto, certamente di sicuro effetto“, con questa frase di fatto, presentava e promuoveva la nuova opera da mettere in scena per il Carnevale del 1853. La sua fatica fu condivisa da Francesco Maria Piave che ne scrisse il libretto nel novembre di quell’anno, per un un compenso di 1.000 lire austriache.

Giuseppe Verdi
Giuseppe Verdi

Un fiasco

Il lavoro per Giuseppe Verdi fu sicuramente grande: la scrisse in 40 giorni, da fine gennaio ai primi di marzo del 1853. Consideriamo anche che “Il trovatore” andò in scena il 19 gennaio del 1853, al teatro Apollo di Roma, cioè solo due mesi prima. La traviata fu rappresentata il 6 marzo 1853 a Venezia, al teatro La Fenice: fu un totale insuccesso, e come disse lo stesso Maestro “un fiasco“.

Leggendo le cronache di allora, si evince che comunque il maestro non si turbò molto, e leggendo le varie lettere da lui spedite da Venezia nei giorni successivi circa il “fiasco”, lo troviamo quasi impassibile. In una sua corrispondenza con casa Ricordi si legge

“non indaghiamo sulle cause, la storia è così. Colpa mia o dei cantanti? […] Il tempo giudicherà”. Al suo corrispondente da Genova rispose in questo modo: “La traviata ha fatto un fiascone e – peggio – ne hanno riso. […] Eppure che vuoi […] Non son turbato. Ho torto io o hanno torto loro? Ma io credo che l’ultima parola sulla Traviata non sia quella di jeri sera, la rivedranno e vedremo!”.

Un successo

Effettivamente il maestro conosceva e sapeva quello che scriveva, attese sino alla sera del 15 maggio 1854, quattordici mesi dopo l’insuccesso alla Fenice, e sempre a Venezia, al teatro San Benedetto il popolo veneziano, ne decretò il successo, ottenendo un completo trionfo ed un completo consenso di stampa. Quella sera non fu altro che il ”preludio”, del percorso che, La traviata, ha fatto nei suoi oltre 160 anni di vita, raccogliendo trionfi e consensi in tutti i teatri del mondo, ponendosi al vertice di tutta la produzione verdiana.

La traviata, locandina del 6 Marzo 1853
Prima de La traviata: locandina del 6 Marzo 1853

Personaggi dell’opera

  • Violetta: soprano
  • Alfredo Germont: tenore
  • Annina: soprano
  • Flora Bervoix: mezzosoprano
  • Giorgio Germont: baritono
  • Gastone, Visconte de Letotieres: tenore
  • Il dottor Grenvil: basso
  • Il marchese Douphol: baritono
  • Il marchese d’Obigny: basso
  • Coro degli amici, bimbi, zingare, domestici, gente del popolo

La traviata: riassunto e trama dell’opera

Atto I

Nel salotto di casa Valery si coglie l’atmosfera di una imminente festa, vista la preparazione e la disposizione di fiori, piante e divani. Violetta sta preparando tutto questo per i suoi amici: sappiamo che la giovane donna è colpita dal mal sottile, ma ella è comunque contenta di come scorre la sua esistenza, diciamo un po’ “leggera” o quantomeno dai modi frivoli per quanto riguarda l’altro sesso. Tra gli invitati notiamo anche Gastone che, arrivando alla festa, presenta Alfredo Germont, segreto ammiratore di Violetta. Si comincia a brindare ed egli è invitato a unirsi all’allegra compagnia.

In un altro salone si uniscono anche altri invitati e si dà inizio a questa gaia serata di ballo. Violetta soddisfatta però ha un momentaneo mancamento: escono gli invitati trasferendosi in altri salotti. Ella quindi chiede di rimaner da sola, Alfredo però rimane con lei per manifestarle la sua ammirazione ed il suo amore. Violetta colpita ed intimamente sorpresa gli fa dono di una camelia dicendogli di riportarla quando sarà appassita.

Atto II

Nella casa di campagna, dove si sono ritirati a vivere Violetta ed Alfredo, essi stanno consumando il loro sogno d’amore vivendolo intensamente. Ad Alfredo però giunge notizia da Annina che la “signora” si era recata a Parigi per vendere i suoi gioielli ed altri beni, questo per prolungare, in maniera più piacevole la loro vita distanti da Parigi. Alfredo si sente offeso e decide all’istante la sua partenza per la capitale, cercando con la sua presenza di aggiustare queste spiacevoli questioni di danaro.

Nello chalet di campagna sopraggiunge il padre di Alfredo, Giorgio Germont, e trova Violetta appena rientrata da Parigi. Germont padre comincia con il chiedere in nome delle convenzioni e del buon nome di rinunciare ad Alfredo, anche per la felicità della figlia e che così facendo, non troverà ostacoli nello sposare un giovane del suo rango. Violetta, per la prima volta, “rinuncia al suo amore per un uomo contro la sua volonta”. Partirà subito lasciando un biglietto ad Alfredo, che lo troverà, al rientro da Parigi. Ma mentre scrive il biglietto di saluti e di congedo arriva Alfredo. Egli nota nella giovane un turbamento e la interroga, mentre Violetta intona la famosa romanza: “Amami Alfredo”, frase che cambierà in una nuova forma, tutta la concezione psicologica dell’opera come per l’appunto la voleva Giuseppe Verdi.

Un domestico si avvicina ad Alfredo e porge un vassoio con un biglietto, in quel biglietto c’è la frase di congedo, con cui Violetta annuncia la sua partenza con Annina; Alfredo legge e, come folgorato, chiede al domestico che confermi. Nell’azione entra immediatamente papà Germont che comincia a concionare sul perché ha lasciato la famiglia e la Provenza, ed a considerare quanti problemi son venuti a crearsi con la sua partenza.

La scena cambia

Ora siamo nella sala da ballo e da gioco in casa dell’amica di Violetta, Flora Bervoix, dove si sta svolgendo un ballo mascherato. Violetta entra nel salone al braccio del barone Douphol, vedendo Alfredo al tavolo da gioco si sente smarrita. Stranamente in quella serata Alfredo ha una fortuna sfacciata al tavolo verde; anch’egli vede Violetta e tutta la scena viene monopolizzata dal gioco e dalle provocazioni che Alfredo ha nei confronto del barone. Ma l’invito della padrona di casa ad andare a tavola smorza quella voglia.

Escono tutti ma Violetta chiama Alfredo per un colloquio chiarificatore. Nel suo spiegare lo prega di capire che il suo amante Douphol le ha chiesto di lasciare Alfredo per amore suo. Alfredo come rapito dà un momento di follia richiama gli invitati e apostrofa Violetta in forma molto triviale e volgare lanciando una borsa con dentro del denaro ai suoi piedi. Entra in scena anche suo padre Giorgio Germont, che allontana Alfredo, mentre il barone le lancia il suo guanto di sfida.

Scena teatrale tratta da La traviata, di G. Verdi
Una scena teatrale tratta da La traviata

Atto III

L’azione si svolge nella camera di Violetta Valery: lei è coricata su di un grande letto con grandi cuscini di seta e merletti. E’ assistita dalla buona Annina: si nota lo sforzo e l’affanno con cui respira. Violetta è stremata dal suo male, e dal segreto ancora più doloroso che ha nel suo cuore. Giunge il medico che la conforta. E’ mattina: chiede di bere; il medico parlando sottovoce con Annina però le annuncia che alla povera Violetta, la vita non le concede che poche ore di vita!

Ora Violetta con tanta fatica si alza e continua a leggere la missiva giuntale da Giorgio Germont, che la continua a ringraziare per il segreto mantenuto, e le annuncia il ferimento del barone ad opera di Alfredo. Germont padre, infine, sentendosi colpevole di quell’atto spregevole, arriverrà a chiederle con la dovuta umiltà il suo perdono.

Violetta è angosciata; e solo il ricordo del “passato”, con il suo Alfredo la conforta. Intanto nella strada sottostante si ode il Carnevale con le sue musiche ed i suoi rumori, con tutta la gente che canta e che balla. In quel momento entra Annina per preparla a ricevere una visita: è Alfredo che ritorna e si getta tra le braccia di Violetta chiedendole perdono; i due innamorati finalmente riuniti continuano a pensare ad un futuro “ancora felice“, ma una nuova crisi aggredisce la giovane. Arriva anche Giorgio Germont, ma è troppo tardi; egli voleva stringerla come una figlia. Violetta è morente e dopo un estremo sussulto, spira tra le braccia di Alfredo.

Analisi musicale

Giuseppe Verdi con la partitura de La traviata, aderisce di fatto al Manzoni ed alla sua esortazione nel favorire la “vraie poesie”, e quindi ad uscire dal “langage de convention”, seguendo dunque la linea romantica dettata in quel preciso momento storico. Il personaggio di Violetta Valery viene rafforzato e la sua figura di donna con nuove implicazioni psicologiche ne sono la riprova; un tema così italiano come il “sacrificio d’amore”, è molto più vero ed attendibile nel personaggio creato da Francesco Maria Piave, che nel personaggio di Margherita Gautier, descritto da Dumas nella sua “Dame aux camelias“.

Seguendo anche la forma tripartita di Traviata osserviamo che, qualchessia la sua lettura, “è imposta” dalla sua stessa struttura musicale. Quest’opera è di fatto innovativa, e lo si nota nella frattura tonale fra il Primo ed il Secondo atto, ed alla corona che ne conclude il Primo atto; notiamo quasi la necessità di eseguire di seguito il primo ed il secondo quadro del Secondo atto, mentre questo arriva da una relazione tonale, ovviamente una relazione molto espressiva che si identifica tra i due quadri, nonchè dalla chiusura del primo e dall’apertura del secondo che, battendo lo stesso tempo chiude al 1° quadro con una corona misurata.

Si osservano delle varianti tra il primo preludio ed il preludio all’atto terzo, il primo in maggiore ed il secondo in minore, tutto molto significativo nella complessità espressiva dell’opera. Il primo preludio è il tema dell’idillio, il secondo della rinuncia, che il “preludio di apertura”, aveva già identificato. ma la svolta psicologica dell’opera, il punto focale, lo troviamo nella romanza “Amami Alfredo“.

Il significato

Il vero significato de La traviata, risiede nella consapevolezza e nella sua capacità di “dare amore”; l’amore di Violetta sta proprio nel suo realizzarsi in questo puro e sublimato sentimento, passato attraverso la passione e la rinuncia. Dunque l’“Amami Alfredo”, esposto al preludio è quindi connesso musicalmente e psicologicamente al concretizzarsi degli eventi, in momenti straordinariamente particolari per la loro univocità.

L’importanza del Terzo Atto

Nel terzo atto si nota la ripresa della forma tradizionale, in “Addio del passato” ed in “Prendi – quest’è l’immagine”, stanno tra il recitativo e la romanza. La traviata ha poi un altro aspetto molto importante nell’opera verdiana, assieme alle precedenti opere, Rigoletto e Trovatore; il maestro ha individuato e cercato i suoi tenori, baritoni, soprano e mezzosoprano, voci particolari con diversi accenti e dalle diverse colorature. Queste sono voci vocalmente innovative, portate ad interpretare i ruoli del Duca di Mantova, di Manrico e di Alfredo, le cosidette “voci verdiane“. Questo proprio per la pienezza e la profondità della voce, coniugata e legata alla conoscenza dell’anima umana, studiata e scrutata nel suo intimo. voci che si aprono a nuove esperienze interpretative, dando quindi una maggiore consapevolezza agli interpreti; ruoli che Verdi cercava e voleva.

Nel terzo atto, e solo in questo, Alfredo, si apre nell’estensione e alla nuova impostazione vocale con un “agitato”, in mezzo ad una frase come “Parigi o cara“, carica di fremente poesia e di squisita dolcezza: si tratta di un pezzo classico della composizione, ma che conferisce in questo caso uno spessore sentimentale e romantico molto intenso, unico. Ugualmente potremmo dire per Giorgio Germont, quella tonalità, quella qualità di impostazione voluta dal Verdi, è molto pertinente con il suo ruolo, distaccato ed estraneo, senza sentimento, quasi una voce fuori dal coro che le dice giuste, ma che non prende macchia se non alla fine del terzo atto quando intona la romanza ”Malcauto vegliardo!”. Insistendo sul sì naturale – ben settolineato dal disegno cromatico dell’orchestra – finalmente scopriamo che anche papà Germond ha dei sentimenti sebben tardivi, ed un’anima sincera.

Verdi innovatore

Comprendiamo come Giuseppe Verdi, come in precedenza per Rigoletto e Trovatore, trova in questo grande lavoro quella chiave di lettura che lo introduce al nuovo discorso musicale tardo-romantico nel campo della strumentazione operistica; proprio nell’ultimo atto, nel recitativo quasi parlato, egli, fruisce di quella ricercata analisi psicologica musicale. Di fatto La traviata è la riprova di quanto Verdi sia stato un innovatore.

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La bohème di Puccini, riassunto e analisi musicale https://cultura.biografieonline.it/boheme-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/boheme-puccini/#comments Wed, 26 Jul 2017 15:33:12 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=22950 La bohème è una delle opere musicali più importanti di Giacomo Puccini. Si compone di quattro atti, indicati come quadri. Il libretto fu scritto Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, ispirato al romanzo di Henri Murger “Scene della vita di Bohème” (Scènes de la vie de bohème) del 1851. L’opera venne rappresentata per la prima volta il 1° giorno di febbraio del 1896 presso il teatro Regio di Torino. Quella che segue è un’analisi dell’opera sia storica che musicale, redatta dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste, che diresse l’opera il 24 aprile 2012 a New York, presso il Metropolitan Opera House nel contesto del Festival Pucciniano. Il maestro ha dedicato questa sua ricerca e direzione in memoria dell’amico e musicista Ulderico Stolfo di Carlino.

La Bohème - Puccini

La genesi della Bohème

Nessun “soggetto” quanto quello di Bohème era stato più vissuto da Puccini. La “Bohème”, fanfarona ed insolente l’aveva vissuta al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, se non proprio la fame, come aveva argutamente scritto il Fraccaroli, Puccini aveva conosciuto tuttavia quelle sfumature dell’appetito lungamente trascurate che danno allo stomaco un languore che è sentimentale solamente per i poeti. La “Bohème”, vera, era passata attraverso la giovinezza del Lucchese prima di ridere e piangere sulla sua fortunatissima opera.

Narra il Marotti che fu Ruggero Leoncavallo a proporre a Puccini un suo libretto intitolato: Vita di Bohème. Ma Puccini, cui frullavano altre idee per il capo e non conosceva ancora il romanzo di Henri Murger, oppose un cortese rifiuto senza neppur leggere il romanzo del collega. Solamente un anno dopo, essendogli capitato tra le mani il capolavoro di Murge, ed essendo rimasto entusiasta, tanto fece e tanto tempestò Illica e Giocosa – aiutato molto dal paterno aiuto del “Sor Giulio” (Ricordi) – che i due scrittori approntarono il libretto. Crearono versi dolci e melodiosi che Giacomo Puccini poté così divinamente musicare.

Tralascio quello che successe tra Leoncavallo, Puccini, ed il buon Giulio Ricordi. Comunque Bohème vide la luce al teatro Regio di Torino la sera del 1° febbraio 1896, sotto la direzione di Arturo Toscanini.

La grandezza di Giacomo Puccini

La protagonista Mimì, questa sua creatura timida, modesta, sentimentale, con il suo volto aristocratico, ama l’amore per l’amore. Dal corpo fragile e malaticcio esce da quella sua anima sensibile e delicata una maggiore emotività. Ella fu teneramente amata, accarezzata, curata.

Pensate che Puccini rifece daccapo per ben quattro volte il IV atto e scrisse al “Sor Giulio” queste parole:

Quando questa ragazza per la quale ho tanto lavorato, muore, vorrei che uscisse dal mondo meno per sé, e un po’ più per chi gli ha voluto bene.

E aggiungeva:

Quando trovai quegli accordi scuri e lenti e li suonai al piano, venni preso da una tale commozione che dovetti alzarmi ed in mezzo alla sala mi misi a piangere come un fanciullo. Mi faceva l’effetto di aver visto morire una mia creatura.

Quella sua creatura cosi teneramente amata fu dileggiata, stroncata da infami giornalisti piemontesi, italiani e d’oltralpe, con frasi di questo tipo: “Noi ci domandiamo cosa spinse il Puccini sul pendio deplorevole di questa Bohème“.

I giornalisti tutti, non fecero una gran bella figura in quell’occasione. è un po’ quello che fecero anche i colleghi d’oltralpe, usi a dileggiare i nostri grandi compositori. Ma la risposta al genio – semplicemente al genio – cui l’Italia, l’Europa, il Mondo diede, fu: “GLORIA!

Questa parola, non lasciò mai più Puccini, ne allora, ne ora, ne mai.

Analisi musicale

Con “Bohème”, per la prima volta avvertiamo in Puccini la sua inclinazione alla pittura musicale di minuti particolari, capace di far balzare gli oggetti inanimati al livello della vita poetica. Il gaio tremolare delle fiamme nel caminetto, l’acqua che Rodolfo spruzza su Mimì svenuta, il raggio di sole che cade sul viso della fanciulla morente, e così via.

E’ forse in questa sfera che il suo stile di musicista da camera dà i risultati più squisiti. Egualmente degna di nota è la calcolata scelta degli strumenti per la caratterizzazione di personaggi e di scene. Soprattutto archi per Rodolfo e Mimì. Legni per Musetta e per gli altri bohémiens. Piena orchestra, con effetti particolarmente brillanti negli ottoni, per il “Quartiere Latino”, e complesso da camera per le scene d’intimità tra gli amanti.

Ne è un esempio particolarmente memorabile la morte di Mimì con le sue mezze luci-sottofondo di archi legni ed arpa e passaggi a solo, così tenui come le linee di una stampa giapponese. Lo stile melodico ha un carattere sempre più libero, quasi d’improvvisazione. Le frasi tendono a straripare da schemi regolari. Nelle scene comiche prevale l’aforisma, che aggiusta così le esigenze del pucciniano mosaico. Tutte cose, queste, che contribuiscono a dare impressione di spontaneità e naturalezza.

L’armonia

Nell’armonia osserviamo tocchi puntilistici, dissonanze spesso risolte in modo ellittico, specialmente alla fine di una scena dove una pausa permette ad un’armonia di svanire prima che risuoni l’armonia successiva. E come si è notato già nella Manon Lescaut – sebbene lì avesse solo un carattere sperimentale, le successioni armoniche sono elevate al grado di temi caratterizzati, spesso consistenti in un semplice seguito di quinte parallele. Come nel tema del presentimento di morte o in quello dei fiocchi di neve.

Tuttavia, nonostante tutta questa libertà nel linguaggio armonico, Giacomo Puccini organizza la costruzione facendo perno su alcune tonalità principali, credendo nel simbolismo drammatico delle relazioni fra una tonalità e l’altra. Così il primo atto è centrato, sostanzialmente, sulla tonalità di do maggiore.

Il secondo atto comincia in fa maggiore e finisce in si bemolle maggiore. Il quarto atto, che porta alla tragica conclusione, si muove dal do maggiore al do diesis minore.

La Bohème - Puccini - Rodolfo e Mimì - scena
La bohème: una scena tratta da una rappresentazione. Al centro i personaggi di Rodolfo e Mimì

I personaggi

Le principali dramatis personae sono Rodolfo e Mimì. A loro logicamente è riservata la porzione maggiore della musica. Il giovane poeta si presenta col famoso: “Nei cieli bigi” che ricordiamo fu tolto all’incompiuta “Lupa”, mentre ora è messo in relazione con “cieli bigi” e “sfumar di comignoli“. Questo è uno dei molti casi in cui Puccini usa frasi legate ad altri suoi personaggi incompiuti, per far risaltare lo stato d’animo di un altro personaggio o di un’altra situazione – in questo caso l’esuberanza di Rodolfo.

Rodolfo

Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli Parigi, è il Leitmotiv di Rodolfo. Per il completo ritratto del romantico innamorato, dobbiamo attendere l’incontro con Mimì e la sua grande aria – in realtà due arie collegate. Ascoltiamo questo fragor di sentimenti, di estasi appassionata, colma di tenerezza in: Che gelida manina, una delle melodie più pure e fragranti che Puccini abbia mai immaginato.

Non conosco nessuno che abbia descritto la Parigi di quel tempo tanto bene come Puccini in Bohème. (Claude Debussy)

Inizia salmodiante in pianissimo, con gli archi in sordina, che intorno alle linee vocali, fanno dolcemente continuare l’assolo dell’arpa. Rodolfo dopo l’arioso: “Chi son“, prosegue descrivendo la sua povera vita di poeta con In povertà mia lieta. Dopo il quale prorompe con ardore appassionato in: Talor dal mio forziere, ruban tutti i gioielli, e questo d’ora in avanti simbolizzerà l’amore romantico.

Per tutta l’opera della Bohème, la musica di Rodolfo è caratterizzata da simili salti introdotti da anacrusi, movimenti per gradi diatonici con continui mutamenti del taglio ritmico e terzine emotive.

Mimì

Fantastico è anche il quadro musicale che ritrae Mimì da: Mi chiamano Mimì, steso in forma di un libero rondò, nel quale Puccini con finezza psicologica mette in rilievo i diversi aspetti del carattere della fanciulla.

La semplicità infantile, che è il suo tratto fondamentale, è subito enunciata nel suo Leitmotiv. Nettamente Puccini fa una distinzione tra la sartina che adempie ai suoi banali doveri quotidiani e la romantica fanciulla che sogna una primavera. Per esempio nell’espansivo: Ma quando vien lo sgelo, che è il momento centrale di questo mosaico di ariette. E come è psicologicamente vero il semplice parlando Altro di me, con il quale conclude senza enfasi il suo ingenuo racconto.

Musetta

Nel ritrarre, la seconda coppia di amanti, Puccini fa di Musetta un personaggio musicalmente più articolato di Marcello. Lei è insinuante, civetta, candidamente fiera del suo potere di attrazione su tutti gli uomini. Ed è mirabilmente colta nel suo famoso valzer, che si adatta alla sua persona come un guanto.

Marcello, Schaunard e Colline

Marcello, bisogna ammetterlo è trattato piuttosto sotto gamba. Non ha un’assolo, lo si sente solamente in un quartetto ed in un duetto.

Con i suoi amici Schaunard e Colline, più che come personaggio singolo – Murger invece l’aveva dipinto diversamente. Marcello è l’espressione dello spirito collettivo dei bohémiens. Tutti e tre sono spesso accomunati nel tema della Bohème che Puccini prese dal suo Capriccio. Sin dalla sua idea iniziale riconosciamo l’impetuosa linea tematica dell’opera, trasportando un tema da un lavoro scritto dieci anni prima. Senza cadere in alcuna discrepanza stilistica, ricordiamo che il Capriccio è stato una miniera anche per l’Edgar, per Manon Lescaut e Turandot.

Quindi, ritornando ai nostri tre moschettieri, trovo abbastanza singolare che Schaunard e Colline, sebbene personaggi meno importanti del collerico amante di Musetta, abbiano al contrario un loro Leitmotiv. Il musicista ha una specie di rapida marcia francese; il filosofo ha una frase burbera e lapidaria.

Le scene più importanti del I atto

Il segno distintivo di Bohème è nell’incessante intrecciarsi di azioni ed atmosfere che dà a Puccini un nuovo titolo, quello di Prestigiatore. Tutto sembra il prodotto di un’improvvisa ispirazione, ma analizzando, questo non è altro che un piano ben organizzato con una sua coerenza musicale e dei contrasti musicali. Voglio ricordare i vari temi dei “bohémiens” e di Rodolfo, in funzione di ritornelli in mezzo ad un continuo fluire di idee, episodi a sé stanti. Vi sono: una graziosa descrizione delle fiamme saltellanti che divorano il manoscritto di Rodolfo, accordi di quinta e sesta sovrapposti con sapore di bitonalità – sol bemolle maggiore contro mi bemolle minore.

Ricordiamo la deliziosa canzone di Natale Quando un olezzo, di sapore arcaico con le sue quinte parallele a mo’ di organum, e reminescenze di un noèl francese. Con il timido bussare di Mimì l’atmosfera cambia di colpo: l’orchestra insinua furtivamente e lento, il tema di lei e ci dice chi è che bussa.

Le luci sfavillanti della prima metà dell’atto si abbassano, diventando calde e soavi. Si dispiega la scena d’amore e gli archi prendono il posto dei legni, le tonalità diventano più stabili e l’effervescente parlato dei quattro bohemièns fa luogo a melodie lente e sostenute.

La seconda metà dell’atto I

Questa seconda metà del primo atto ci fa capire il climax poetico pucciniano, costruito per gradi fino alla scena d’amore, comincia con una conversazione svagata, seguendo sempre il tema della malattia di Mimì, un sinistro presagio.

Le incalzanti domande di Rodolfo e le brevi risposte della fanciulla son solo chiacchiere. Ma mai chiacchiere ebbero una veste musicale più incantevole.

Una frase spezzata di arioso, qualche pausa, un leggerissimo ostinato affidato al pizzicato degl’archi, questo è tutto. Sentiamo quasi all’unisono il battito dei cuori dei due giovani amanti. Fantastico. Unico.

Successivamente vi è la ricerca della chiave perduta: ancora un banale incidente, poi la musica si fa ricca di calore e sostanza, e porta con una dolce transizione alla parte centrale del duetto, cioè alle due arie di cui abbiamo già parlato.

Puccini ora, con sottile senso d’equilibrio, cambia atmosfera, fa seguire immediatamente due arie di un duetto vero e proprio. Ancora i due amanti non hanno cantato assieme, cosa che avrebbe potuto generare monotonia. L’azione però è disturbata dagli altri bohemiéns che aspettano Rodolfo in strada.

Dopo questa interruzione il duetto che segue, costruito interamente su reminiscenze dell’aria di Rodolfo, unisce infine gli innamorati in un abbraccio appassionato al suono del tema dell’amore: Talor dal mio forziere….

Essi escono lentamente dalla scena, mentre l’orchestra intona la melodia della Gelida manina, sussurrandola. E purtroppo dobbiamo dire che questa frase scritta dal Maestro in “pp perdendosi“, molte volte è ignorata da parte dei cantanti ed alcuni tenori hanno anche voluto correggere il Maestro raddoppiando il do acuto di Mimì, mentre la loro nota finale dovrebbe essere in mi, una sesta sotto.

La delicata poesia di questa scena, Puccini non la superò mai.

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Le scene più importanti del II atto

Analizziamo ora il Secondo atto, quello del Quartiere latino. Ad eccezione del valzer di Musetta, non ha una inventiva altrettanto memorabile del primo atto. Il suo maggior rilievo è nella evocazione della vigilia di Natale su un boulevard parigino. Con l’interesse che si sposta continuamente dalla folla ai solisti e viceversa, unendosi poi tutti nel gran finale della parata militare.

E’ in realtà in contrasto con la dolce e tenera intimità del primo atto, questa sua musica All’aperto. Ricorda l’aria vibrante ed allegra di una fiera natalizia.

Questa apparente confusione con le scene che si succedono le une alle altre, non inficia in alcun modo lo spessore musicale consistente in quattro sezioni distinte, ognuna con il proprio materiale tematico, anche con interferenze dall’una all’altra e con le ultime tre scene radicate in tonalità ben definite.

L’atmosfera generale è subito creata dal tema della vigilia di Natale enunciato da tre trombe – marcatissimo – e sostenute dalle grida del coro. Nelle scene successive troviamo da un lato la musica del Quartiere latino, le multicolori grida della strada, le eccitate accoglienze dei ragazzi a Parpignol ed ai suoi giocattoli, e dall’altro i lirici episodi nei quali emergono i bohémiens.

Notiamo il pigro tema della passeggiata e l’estatico: “Dal mio cervel“, di Rodolfo, che varia abilmente il Leitmotiv – del poeta. Un fatto che in teatro spesso non si bada è quando Rodolfo presenta la sua ragazza agli amici: “Questa è Mimì gaia fioraia“, e l’orchestra suggerisce il tema del presentimento di morte del III atto.

Le sezioni II e III

La seconda sezione apre con l’entrata di Musetta con una tonalità di la bemolle completamente dominata dal tema di lei.

Con la terza sezione in mi maggiore arriviamo al centro lirico dell’atto, costituito dal seducente valzer di Musetta, cantato prima come assolo – anche se con le solite interruzioni degl’altri personaggi – e più tardi ripetuto in sestetto a chiusura della scena. Unico pezzo d’insieme è il sestetto, un brano ammirevole, ma Puccini non affronta i caratteri individuali. Solamente Musetta è dipinta con il suo melodizzare a lunghi intervalli e la sua rapida sillabazione in “staccato”.

Sebbene il fatto che Marcello raddoppi la melodia del valzer, và indubiamete inteso come una sua capitolazione davanti alle seduzioni della sua volubile amante.

Il finale dell’atto è abilmente legato al rullo dei tamburi della parata che si avvicina – ma fuori scena – ed alle note del valzer che si spengono lentamente. Quest’ultima sezione è basata su un’autentica marcia francese del tempo di Luigi Filippo. E raccoglie a mo’ di mosaico i frammenti dei temi precedenti.

Il III atto

Quando ci troviamo dinanzi al terzo atto della Bohème di Puccini ogni discussione diventa oziosa: la bellezza di quelle pagine s’impone e, ciò che più conta, la commozione ci afferra e ci dispensa, ipso facto da ogni altra cavillosa considerazione.

Egli ha sentito la musica di quest’atto introspettivamente, ha sentito i personaggi, si è realmente commosso e di contro è riuscito a commuoverci. Il primo accenno lo troviamo nell’introduzione orchestrale, che evoca una pallida mattina di febbraio con mezzi che non potrebbero essere più semplici ed efficaci. Su una quinta dei violoncelli in tremolo, che si prolunga come pedale per oltre cento battute, è una successione di quinte parallele dei flauti e dell’arpa che suggeriscono il cader della neve.

Come nel terzo atto dell’opera Manon Lescaut un momentaneo tocco di gaiezza è introdotto dalla comparsa del lampionaio, ma avremo un perfetto quadro della situazione nel momento in cui noi vedremo le luci dei cabaret e sentiremo i canti ed il suono del valzer di Musetta, coniugarsi perfettamente con la musica gavoteggiante delle lattivendole e la presenza dei doganieri.

Scene successive

Nelle scene successive altri lineamenti si aggiungono ai tratti di Mimì e Rodolfo. Duettando con Marcello: “C’è Rodolfo?“, con le sue frasi discendenti, gli esitanti sincopati e le nervose terzine, la fanciulla palesa la sua angoscia per i mutati sentimenti dell’amante.

D’altro canto, vediamo Rodolfo passare attraverso sentimenti diversi, impazienza, amarezza, gelosia; ma obbiettivamente la musica qui non esprime con chiarezza questi sentimenti, né tantomeno è ispirata, tranne per la sezione in minore: “Mimì è una civetta“, un lamento appassionato sulla vena di: “Manon, sempre la stessa“, di Des Grieux.

Ora Rodolfo sopraffatto dalla disperazione, rivela a Marcello la mortale malattia di Mimì, qui Puccini si mostra all’altezza della situazione con: “Mimì è tanto malata“, questo melodiare molto scuro dell’orchestra ci suona come una campana a morto. La tensione in scena aumenta in quanto Mimì, ascolta non vista le parole di Rodolfo ed apprende quale triste fine l’attende. La musica per l’addio definitivo: “Addio dolce svegliare“, è tolta dalla canzone: “Sole e amore“, scritta da Puccini nel 1888 per la rivista “Paganini”.

La canzone viene ripetuta due volte e con un efficace contrasto nella ripresa, quando il duetto si muta in quartetto per l’irrompere sulla scena di Musetta e Rodolfo trascinando anche il loro furioso battibecco, l’ennesimo dei loro eterni litigi. L’atto termina in un clima tranquillo sulla falsariga del primo, con Mimì e Rodolfo che si avviano all’uscita della scena: “Mano nella mano”.

Il IV atto

Analizzando ora il quarto atto della Bohème di Puccini troviamo la scena e la struttura del primo, con la differenza che questa volta la prima metà dell’atto ha un che di febbrile, un’allegria sopra le righe, come se i quattro bohémiens presentissero vagamente l’imminente tragedia nascondendo il loro disagio in una ilarità artificiale.

Ora i ritmi sono più nervosi, le frasi più frammentate e l’orchestrazione più rude, a volte aspra, con gli ottoni frequentemente in azione, specie dopo che Schaunard e Colline hanno raggiunto gli altri due amici. Puccini, però prima di immergersi in questa atmosfera di forzata gaiezza, inserisce uno di quei suoi quadretti poetici tanto caratteristici del suo stile drammatico. Cioè il grazioso episodio in cui Rodolfo e Marcello contemplano con nostalgico affetto gli oggettini che ancora conservano delle loro infedeli amanti.

Lo squisito duetto, tenero e sognante, costituisce una momentanea evasione dalla realtà e Puccini sembra sottolineare il suo carattere parentetico ossia di parentesi, in questo contesto di parole. Dopo aver riassunto in un breve postludio orchestrale – un melanconico stato d’animo – la melodia viene ripresa in ottava dal violino solo e violoncello solo, echeggianti rispettivamente le voci di Rodolfo e Marcello che l’autore ci riporta a terra con il: “Che ora sia“, di Rodolfo.

Con poche eccezioni: una il duetto di cui abbiamo testè parlato, la musica del quarto atto e fatta da reminiscenze. Procedimento aspramente avversato agl’inizi, da critica e pubblico.

La narrazione dell’orchestra

Ma il modo con cui Puccini impiega temi e motivi dei primi due atti – allegri – nel nuovo contesto è psicologicamente sagace e logico. Ora il dramma ci viene narrato principalmente dall’orchestra. Basti citare il violento scarto dall’accordo di si bemolle a quello di mi minore quando Musetta entra in scena inaspettatamente portando la notizia dell’imminente arrivo di Mimì. O la seguente versione del Leitmotiv di Mimì, ormai l’ombra di se stessa, affidata al corno inglese ed alle viole sui brividi del basso. O ancora il successivo racconto di Musetta del casuale incontro con la fanciulla morente, accompagnato da sincopati che sono come battiti spasmodici di un cuore angosciato.

Ora l’orchestra rivela allo spettatore quello che gli stessi personaggi ancora ignorano. Così l’improvviso passaggio dal re bemolle maggiore al si minore dopo le ultime parole di Mimì, ci dice già che il suo sonno non avrà risveglio. Quando poi verso la fine dell’opera Rodolfo chiede in tono di sgomento: “Che vuol dire quell’andare e venire.. quel guardarmi così?…“, l’orchestra sola gli dà la risposta, con la sua straziante trenodia.

Il finale

Puccini non sarebbe stato Puccini se non avesse immortalato gli ultimi momenti di Mimì con una delle sue più ispirate melodie mai uscite prima dal suo “essere” di poeta e musicista. Il “Sono andati“, è l’incarnazione della tristezza, con una sua linea vocale che discende per un’ottava tutti i gradi della scala fino al do basso del soprano, incupita dal raddoppio dei violoncelli e sostenuta dal singhiozzo di funebri accordi.

Più invecchio, più mi convinco che La bohème è un capolavoro e che adoro Puccini, il quale mi sembra sempre più bello. (Igor Stravinsky)

Egli ripete quindi questo tema così penetrante nell’epilogo orchestrale. Proprio alla fine dell’opera, dove esplode a piena orchestra con tutta la sua forza. Introdotto dagli accordi degli ottoni, che si abbattono sullo spettatore come una lama di una ghigliottina.

Dopo la vibrante melodia in do minore, Mimì con le sue ultime forze canta l’ardente frase: “Sei il mio amor“. Via via che la vita l’ abbandona, la musica diviene più trasparente e tenue. Si riduce poi ad un sussurro quando la fanciulla ricorda il suo primo incontro con Rodolfo in quella lontana notte di Natale. In quest’attimo l’orchestra ripropone la frase della: “Gelida manina“, con colori di incorporea bellezza.

Davvero pochi finali d’opera, compreso quello della Traviata, arrivano ad uguagliare il pathos della “Bohème”, ed il suo potere di commozione.

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Sansone e Dalila, opera lirica in tre atti di Camille Saint-Saëns https://cultura.biografieonline.it/sansone-e-dalila-saint-saens/ https://cultura.biografieonline.it/sansone-e-dalila-saint-saens/#respond Wed, 01 Mar 2017 17:32:42 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=21601 L’opera lirica “Samson et Dalila” – in italiano Sansone e Dalila – scritta di Camille Saint-Saëns (1835-1921) si ispira, come è facilmente intuibile, all’episodio biblico di Dalila e Sansone. L’opera si compone di tre atti e quattro quadri; il libretto è di Ferdinand Lemaire (1832-1879) autore creolo, originario della Martinica.

Sansone e Dalila - Rubens
Dettaglio del quadro di Rubens Sansone e Dalila

L’opera Sansone e Dalila debuttò il giorno 2 dicembre 1877 al Teatro Granducale di Weimar, in Germania. La prima rappresentazione fu pertanto presentata in lingua tedesca con il titolo Simson und Delila. Da subito riscosse un grande successo. La prima esecuzione in lingua francese avvenne molti anni dopo. Essa risale al 23 marzo 1890, a Rouen. In tale occasione non suscitò l’entusiasmo del pubblico. Trovò comunque riscatto e merito in seguito, diventando l’opera più celebre di Saint-Saëns. Ad oggi i principali teatri del mondo la annoverano nel proprio repertorio operistico. Le prolusione e l’analisi musicale seguenti, sono state redatte del maestro Pietro Busolini.

Personaggi dell’opera

  • Dalila (Mezzosoprano);
  • Sansone (Tenore);
  • il Gran Sacerdote di Dagon (Baritono);
  • Abimélech Satrapo di Gaza (Basso);
  • un vecchio ebreo (Basso);
  • un messaggero filisteo (Tenore);
  • due filistei (Tenore, Basso);
  • ebrei, filistei;
  • coro di ebrei;
  • coro di donne filistei;
  • danzatori d’ambo i sessi

L’azione si svolge a Gaza-Palestina, in epoca biblica.

Camille Saint-Saëns
Camille Saint-Saëns

Samson et Dalila (Sansone e Dalila), genesi dell’opera

Nel giugno 1870, Camille Saint-Saëns si sentì offrire da Franz Liszt, la disponibilità del teatro di Weimar, per tenere a battesimo Samson et Dalila, in quanto egli ne era direttore artistico. Il Maestro felicemente accettò l’invito. Sicuramente egli non pensava ancora, quanto sarebbe stato arduo farla rappresentare.

Comunque un pubblico entusiasta e festante decretò il trionfo di “Samson und Dalila“. Tredici anni dovettero passare prima che, Samson fosse unito a Dalila, dalla più appropriata congiunzione “et ” e questo accadde a Rouen, il 3 marzo 1890. L’esito fu trionfale, ripagando così il sessantacinquenne compositore da amarezze e delusioni, e consacrando formalmente l’opera alla storia, dopo tribolati periodi di attesa.

Quando iniziò la composizione del Samson et Dalila, il Maestro aveva già scritto Le Timbre d’argent (1865) e pensava a un opéra-comique, la “Princesse Jaune“. Ma questa partitura non era ancora stata presentata a nessun impresario teatrale.

Il nuovo lavoro ebbe una lunga e travagliata storia: un primo intoppo lo ebbe nel 1870, quando, l’audizione privata di un brano, si risolse in una cocente bocciatura.

Foto di Franz Liszt
Franz Liszt

L’offerta lisztiana per Sansone e Dalila nacque proprio in questo periodo. Essa rincuorò Saint-Saëns, il quale, ripresa la composizione, la terminò nel 1874. Una prima esecuzione in forma di concerto del primo atto, il 12 marzo 1875, non dette purtroppo esiti molto incoraggianti. Tantomeno la prima rappresentazione di “Le Timbre d’argent“, accolta freddamente all’Opéra di Parigi nel 1871. Nulla al tempo, giocava a favore di una messa in scena francese del Samson em Dalila, che, come si è visto, prese la strada di Weimar.

Concepito inizialmente per un allestimento oratoriale, il soggetto dell’opera in esame era stato scelto dallo stesso compositore. Non mancavano illustri precedenti letterari: il Samson Agonistes (I nemici di Sansone) tragedia di John Milton del 1671; il Samson, libretto scritto da Voltaire per l’opera di Jean-Philippe Rameau
nel 1733; né era ignoto a Saint-Saëns, il Samson del venerato Händel (1741-1742).

Il libretto verseggiato con cura, da Lemaire per Saint-Saëns (si dice abbia messo mano anche il compositore, che del resto era un fine letterato), sembra risentirne nella scansione drammaturgica dell’originaria destinazione. Una caratteristica questa che lo accomuna a molti dei testi letterari musicati in seguito, da Saint-Saëns.

Riassunto e trama dell’opera Sansone e Dalila

Atto primo

Prima che si apra il sipario, s’ode in lontananza il pianto degli ebrei, abbandonati dal Signore per la loro empietà. Sono ora sconfitti dai filistei e ridotti in schiavitù a Gaza. S’alza il sipario su di una enorme piazza nella città di Gaza. Gli ebrei piangono la schiavitù che li assoggetta ai filistei: “Dieu d’Israel“. Sansone li rimprovera di aver perso la fiducia in Dio e si dice pronto a spezzare il giogo che li opprime: “Arrêtez ô mes frères“.

Le grida di entusiasmo con cui sono accolte le sue parole fanno intervenire il Satrapo di Gaza, Abimélech, il quale schernisce il Dio degli israeliti, sordo ai loro lamenti: “Ce Dieu que votre voix implore“. Affrontato da Sansone, il Satrapo vorrebbe trafiggerlo con la spada, ma l’ebreo Sansone gliela strappa di mano, e lo uccide.

Animato da una forza che sembra sovrumana, Sansone mette in fuga i soldati filistei che scortano Abimélech. Abbandona poi la piazza seguito dagli ebrei. Appare sulla soglia del tempio il Gran Sacerdote, davanti al cadavere di Abimélech. Egli ordina che Sansone e il suo popolo siano sterminati. Un messaggero porta la notizia che gli ebrei, ormai senza freni, stanno devastando il paese. Il Gran Sacerdote, maledice i ribelli, parte con i filistei per rifugiarsi sulle montagne: “Maudite à jamais“.

Col nuovo giorno la piazza si riempie di ebrei, che elevano un inno di ringraziamento al Signore: “Hymne de joie“. Dal tempio escono uno stuolo di fanciulle filistee, guidate dalla bellissima Dalila. Esse lodano la vittoria di Sansone: “Voici la printemps“. Dalila venuta a coronare la fronte dell’eroe gli svela il proprio amore, invitandolo a raggiungerla nella sua dimora, nella vallata di Sorek: “Printemps qui commence“.

Sansone è dilaniato da opposti sentimenti, ma, nonostante gli ammonimenti di un vecchio, decide di raggiungere la donna nella sua casa. Dalila attende l’arrivo di Samson mentre le fanciulle danzano. Dalila rivolge ancora all’eroe un dolcissimo invito d’amore.

Sansone e Dalila - coro degli ebrei
Una foto tratta da una rappresentazione di Sansone e Dalila: il coro degli ebrei

Atto secondo

La scena si svolge nella vallata di Sorek. A sinistra c’è la casa di Dalila. E’ sera. Dalila attende Sansone. Arriva il Gran Sacerdote che narra la situazione disperata dei filistei. Per eccitare Dalila a conquistare Sansone, il sacerdote ne tocca la vanità dicendole che Sansone un tempo innamorato di lei ora si è stancato. Ma tutto ciò è inutile: Dalila sa bene che non è vero, ella rifiuta i doni che il Gran Sacerdote le offre per aver nelle sue mani Sansone col proposito di vendicare i filistei: “Amour, viens aider ma faiblesse“.

Dalila non vuole nulla: “anche perché essa odia Sansone come egli – odia lei“. Ella, donna debole ed imbelle, sarà invece lo strumento della vittoria del suo popolo. Infine giunge il Grande Eroe: Sansone è agitato dal desiderio e dal pentimento. Egli sa che il suo popolo l’attende per esser liberato. Sa che il Signore lo ha eletto per compiere una missione.

In Sansone però prevalgono i sensi. Si odono ancor lontani i primi suoni e i primi bagliori d’un violento temporale che avanza. Dalila lo accoglie dolcissimamente, alternando voluttà e lusinghe, pronunciando lunghe frasi d’amore. Sansone invoca l’aiuto al Signore, ma cede al suo fascino, alla sua passione. Egli per ben tre volte le dichiara il suo amore ed ogni volta più intensamente: “Mon coeur s’ouvre a ta voix“.

Dalila si fa sempre più languida, più sensuale e chiede a Sansone di provargli il suo amore, di darle la prova d’essere un amante fedele e non solo fedele al suo Dio. Ella vuole che le provi veramente il suo amore, rivelandole il segreto della sua potenza. Sansone, però, non vuole cedere anche su questo. Lei allora lo sprezza come vile, come un amante debole. Dopo averlo ancora accusato di non amarla veramente, lo scaccia e si rifugia in casa. Intanto imperversa il temporale. Sansone la segue: si arrende del tutto alla sua dominatrice.

Qualche istante dopo giungono i filistei del Gran Sacerdote, essi si appostano nei pressi della casa ed attendono. Si ode la voce di Dalila chiamare: “Sansone!“, ora è in mano sua.

Atto terzo

Scena nella prigione di Gaza. Sansone incatenato, langue. È cieco, privo dei capelli che erano l’origine della sua forza. E’ legato ad una macina. Dalle sue labbra sale un’invocazione a Dio affinché sottragga al loro destino gli ebrei nuovamente in cattività :”Vois ma misère“.

Da lontano si odono le voci degli ebrei piangenti che accusano Sansone di averli traditi per amore di una donna. Giungono alcune guardie che devono condurre il prigioniero al tempio di Dagon. Nel tempio si festeggia, con un’orgia sfrenata, la vittoria filistea.

L’arrivo di Samson è salutato dallo scherno generale. Il gran sacerdote sfida ironicamente Jehova, il Dio degli ebrei: restituisca quel Dio, la forza e la vista a Samson se ne è capace. Eleva quindi un inno a Dagon, unico vero Dio, cui si uniscono Dalila e tutto il popolo.

Sansone invoca allora l’aiuto divino, chiedendo gli venga restituita ancora una volta la forza di un tempo. Appoggiando quindi le sue nerborute braccia a due dei pilastri del tempio, ritrova per un momento la sua potenza formidabile. Il tempio sprofonda, inghiottendo Sansone e tutti i filistei.

Sansone e Dalila - Scena danza del Baccanale
L’orgia sfrenata: una scena teatrale della danza e del baccanale

Analisi musicale

Musica strepitosa, concertazione fantastica. Queste sono le prime considerazioni – dopo una prima lettura veloce alla partitura di: “Sansone e Dalila“. Sono già evidentissime, dalle varie sezioni del primo coro l’iterazione continua e tormentosa, tonalmente cangiante, dalla base di partenza di si minore, acefalica e sincopata la frase, di “Dieu d’Israel“, dalla sovrapposizione contrappuntistica di “Un jour de nous tu detournas la face“, ed il cromatico motivo di fuga, non sviluppato, seppur l’orchestra lo sorregge.

La vera e propria fuga, in stile rigoroso e plasticamente haendeliana, è un altro vero e proprio calco stilistico su : “Nous avons vu nos citees renversees“, un blocco di brani che apre l’opera con solennità singolare, ed un senso del recupero, che ha del prodigioso, proprio per la sua vitalità. Ma giova notare che l’arcaismo “neoclassico” della scrittura non è visto in funzione esclusivamente sacra, sol riferito agli ebrei. Cosa che sarebbe troppo facile e troppo ingenua. Essa si lega, anzi, strettamente alla presenza dei filistei, determinando una loro cifra stilistica ben netta per tutta l’opera.

Notiamo già nella splendida aria del povero Abimalèch “Ce dieu que votre voix implore“, la voce all’unisono con gli ottoni e interventi acutissimi e volutamente volgari degli strumentini, volti a riaffermare l’atmosfera esotica nella severità del contesto. Ma è particolare ed in esteso, il gran sacerdote ad essere caratterizzato da tale procedimento. Sapore arcaico ho la sua aria nel primo atto “Mautide a jamais soit la race“.

E ancor più il suo duetto con Dalila, al termine del primo quadro del secondo atto “Il faut pour assouvir ma haine“, formalmente nettissimo e con le voci in imitazione, e pur dotato di intensa carica drammatica, per culminare nel brano più eclatante, il duetto di Dalila con il coro: “Glorie a Dagon“, nel terzo atto. Esso è regolare e squadrato così poco scolastico ed accademico, da poter sembrare addirittura una pagina stravinskiana, per l’impudico sprezzo dell’originale matrice del materiale.

Questo Gran Sacerdote permea nella sua aura arcaistica, ogni brano in cui compare, salvo parte del secondo quadro del terzo atto, sarcasticamente parallela, sintetizzando le grandi scene d’amore dei due atti precedenti. Ed il baccanale, sfrenata orgia di sensualità con le sue asimmetrie ritmiche alla percussione, sul finale, a sostegno d’una melodia il cui carattere orientale è dato dal consueto uso dell’intervallo di seconda aumentata.

Ed è comunque personaggio forse non inferiore alla dolcissima e tanto perversa Dalila, e certo tanto più interessante e riuscito di Sansone: “eroico”, spesso di maniera, e talora povero nella sua vocalità “di forza”. Questo si evince seguendo la partitura e, per quanto oggi sia facile irridere la crudele Dalila, simile alle fredde “Donne – Gatto“, di Baudelaire, da cui ogni poeta vorrebbe essere dilaniato. Concludendo come dice il poeta nel monologo: “Pour dire les plus longues phrases, elle n’à pas besoin de mots“, ella è tra i personaggi più riusciti e forse conturbanti della sua epoca, slittante dolcemente su di un’armonia languida e vaporosa, in cui la dissonanza acquista per lo più funzione coloristica, tra i sussurri d’una curatissima orchestrazione, la provocazione erotica di Dalila, la sua sublime impudicizia, già contengono, nella scoperta tensione della sua melodia, tutti i germi del suo sadico dominio.

La più atroce beffa è che, quell’amore appassionatissimo e delicato, colmo come pochi di dolcezze, anche da noi godibili, al cui livello Sansone nemmeno tenta di portarsi, è solo finzione. L’impotenza, certo!…elevata a sistema è la categoria attraverso cui l’autore stesso di Sansone e Dalila vede il suo personaggio che… non può possedere!

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Aida, di Giuseppe Verdi: riassunto e analisi https://cultura.biografieonline.it/aida-riassunto/ https://cultura.biografieonline.it/aida-riassunto/#comments Wed, 08 Feb 2017 09:22:55 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=21251 Aida è un’opera di genere drammatico, tra le più celebri di Giuseppe Verdi. Si compone di quattro atti. Il libretto è di Antonio Ghislanzoni. L’opera si basa su un soggetto originale dell’archeologo francese Auguste Mariette. L’analisi che segue è stata realizzata dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste.

Aida - Verdi - riassunto

La prima

La prima rappresentazione avvenne al Teatro khediviale dell’Opera della Città del Cairo il 24 dicembre 1871. Fu diretta da Giovanni Bottesini. Per l’anteprima italiana sotto la sua diretta supervisione, Verdi scrisse una ouverture, che però alla fine non venne eseguita per un ripensamento, considerando il breve preludio più organico ed efficace. Aida fu scritta in onore e gloria per l’apertura del Canale di Suez. La nuova opera del Maestro Giuseppe Verdi, inaugurò nel contempo anche il nuovo teatro della capitale egiziana.

La prima rappresentazione in Italia avviene invece l’8 febbraio 1872, al teatro alla Scala di Milano.

Aida, la genesi dell’opera

Il Maestro Giuseppe Verdi ricevette l’incarico dall’illustre collega Camille du Locle direttore dell’Opera-Comique di Parigi. Dopo una titubanza iniziale, ebbe per quest’opera un interesse particolare. Il lavoro fu eseguito in lingua francese, con la collaborazione dello stesso du Locle per la prosa. L’interesse del Maestro per questa nuova stesura, fu certamente l’esigenza di creare una fantasmagorica grand-opéra, strutturandola nel nuovo contesto musicale dell’epoca.

Aida fu creata scena per scena, per un totale di 4 atti e 7 quadri, sempre con l’aiuto dell’amico du Locle. Per quanto riguarda il libretto italiano, da quanto si evince dai carteggi dell’epoca, Verdi aveva contattato Giuseppe Ghislanzoni, fine letterato e uomo di cultura. Ghislanzoni era molto conosciuto nell’ambito del teatro del tempo.

Potremmo confermare anche che questa storia, fu immaginata dall’egittologo francese Mariette. Verdi però non la diresse al Cairo. Inviò – come da accordi – una persona di sua fiducia: il Maestro Giovanni Bottesini.

Queste erano le clausole che Verdi concordò con il Sovrano dell’Egitto: l’opera doveva essere pronta entro la metà dell’anno 1871, per i mesi di giugno o luglio, per una somma di centocinquantamila franchi.

Giuseppe Verdi, ritratto da Giovanni Boldini nel 1886
Giuseppe Verdi, ritratto da Giovanni Boldini nel 1886

Considerazioni sull’opera

Si tratta di un’opera del Verdi maturo. Essa divenne in breve tempo molto popolare, come lo erano già Rigoletto, Traviata, Trovatore, ed altre ancora.

Voglio ricordare anche che uno strumento musicale, creato il secolo prima da Giovanni Barbieri da Cremona, ossia l’organo a rullo o a cartone – chiamato più semplicemente Organetto di Barberia – veicolò queste opere in tutto il mondo. Dall’Europa alle Americhe, fino all’Asia, tali opere erano cantate in italiano, e conosciute dal popolo. Fu anche grazie a questo strumento che si diffuse la conoscenza e l’amore per la nostra lingua italiana in questi continenti.

Il Maestro Giuseppe Verdi volle con questo nuovo lavoro di ricerca e di sperimentazione, l’Aida, colmare quel desiderio, quel suo incessante cercare. Ciò che fece fu creare rinnovandosi a nuove tematiche di ordine armonico e orchestrale. Da questo nacque una monumentale scenografia musicale, per scender poi nella struttura psicologica dei singoli interpreti. A parer mio, questo suo trapassare, lo fece cercando e trovando in piena verità teatrale grandi squarci collettivi.

Egli intimisticamente entrò nelle pieghe nell’anima dei personaggi di Aida, Radamès, Amneris e Amonasro, creando quell’impalpabile tessuto connettivo, che colpì lo spettatore dell’epoca decretandone l’assoluto trionfo.

Aida, trama e riassunto

Atto I

Scena Prima. L’azione si svolge nella sala del trono nella reggia di Menfi.

Durante una spedizione militare contro l’Etiopia, i soldati egizi catturano la principessa Aida. Ignorando la sua vera identità, la portano a Menfi e la mettono in schiavitù.

Suo padre – il Re di Etiopia Amonasro – organizza un’incursione per liberarla e ricondurla a casa. Non sa che sua figlia si è innamorata del giovane condottiero Radamès, il quale ricambia questo suo sentimento.

Purtroppo anche Amneris, figlia del Re d’Egitto, si è invaghita del giovane. La principessa Amneris intuisce subito che possa esserci qualcosa tra la giovane schiava e il suo amato. Cerca allora subdolamente di consolare Aida, con lo scopo di scoprire qualcosa in più.

Il Re apprende le ultime notizie dal confine: l’esercito Etiope sta marciando contro l’Egitto. A Radamès viene concesso il rango di Duce dell’esercito egizio, con il compito di fermare l’avanzata dell’esercito di Amonasro.
Aida è contrastata tra l’amore per la Patria e l’amore verso il suo Radamès.

Scena Seconda. Interno del tempio di Vulcano a Menfi.

Avvengono cerimonie solenni e la danza delle sacerdotesse per l’investitura di Radamès come comandante in capo.

Radamès - Aida
Aida, scena tratta da una rappresentazione: Radamès viene nominato capo delle guardie.

Atto II

Scena Prima. Nella camera di Amneris

Amneris riceve nelle sue stanze la schiava Aida. Con malizia finge che Radamès sia morto in battaglia per spingerla a dichiarare il suo amore per lui. L’inganno di Amneris funziona e la reazione involontaria di Aida la tradisce, rivelando i suoi sentimenti.

A questo punto anche Amneris mette le carte in tavola e dichiara il suo amore per Radamès. Come potrebbe un’umile schiava competere con la figlia del Faraone? Mossa da orgoglio Aida svela la sua vera identità di figlia del Re Etiope.

Dal fronte arrivano notizie di vittorie e Amneris costringe Aida ad assistere al trionfo dell’Egitto e alla sconfitta del suo popolo.

Scena Seconda. Nella città di Tebe: la porta è festosamente addobbata. I soldati e il popolo sono festanti.

Una marcia trionfale accoglie il ritorno vittorioso di Radamès. Come ricompensa, il Re gli concede qualsiasi cosa desideri. I prigionieri etiopi sono condotti al cospetto del Re. Tra di loro c’è anche Amonasro. Aida corre a ricongiungersi con il padre, tuttavia le loro vere identità rimangono ancora sconosciute agli egizi. Il Re Etiope è infatti dato per morto in battaglia.

Radamès, per amore di Aida, esprime il desiderio offertogli dal Re, e chiede il rilascio di tutti i prigionieri etiopi.
Il Re Amonasro, pieno di gratitudine verso Radamès, lo dichiara suo successore al trono, offrendogli la mano di Amneris.

Tutti i prigionieri etiopi vengono rilasciati tranne Aida e Amonasro. Essi sono trattenuti su consiglio del sommo sacerdote Ramfis. Ciò per evitare che gli etiopi cerchino la vendetta dopo la cocente sconfitta.

Atto III

La scena si sposta sulle rive del Nilo. E’ notte: si scorge sullo sfondo il tempio di Iside.

Mentre Ramfis conduce Amneris al Tempio per propiziare la dea alla vigilia delle nozze, Aida attende nascosta Radamès. Ma giunge prima suo Padre, che cerca di convincere la figlia a farsi dire dall’amato, quale via seguiranno le truppe egizie per invadere l’Etiopia.

Nonostante che il padre le rammenti con patetici accenti la patria lontana, Aida si ribella a lui (Rivredrai le foreste imbalsamate).

Giunge Radamès. Amonasro si nasconde. Aida propone all’amato di fuggire dall’Egitto. Radamès conosce un sentiero per arrivare in Etiopia: non sapendo di essere sentito egli indica le gole di Napatà. Appare Amonasro, si fa riconoscere, e Radamès capisce d’aver rivelato un segreto tradendo la sua patria.

Contemporaneamente sbuca Amneris proveniente dal Tempio, che sentendo anch’essa la parole di Radamès, grida al tradimento. Amonasro la vuole uccidere, ma Radamès lo ferma. Consegna poi la spada a Ramfis facendosi prendere prigioniero, mentre Amonasro fugge con Aida.

Atto IV

Scena Prima. Nella fastosa sala del palazzo del Faraone.

Amneris, sapendo che Radamès è innocente, lo supplica di discolparsi. Ma egli si rifiuta, condannandosi per l’incauto gesto. Durante il processo, egli tace, non pronunciando una sola parola in propria difesa.

Amneris si appella alla pietà dei Sacerdoti, ma nonostante il suo accorato appello, Radamès viene condannato a morte per alto tradimento. Viene portato nelle prigioni del Faraone.

Scena Seconda. L’interno del tempio di Vulcano e la tomba di Radamès. La scena è divisa in due piani: il piano superiore rappresenta l’interno del tempio splendente d’oro e di luce; il piano inferiore, un sotterraneo.

La condanna prevede che Radamès sia sepolto vivo. Radamès crede di essere solo nella sua cripta, ma poco dopo si accorge che Aida si è nascosta lì per poter morire insieme a lui. I due amanti confermano l’amore reciproco e accettano il loro triste destino. Mentre questi attendono che l’alba porti via le loro pene, Amneris piange e prega sopra la loro tomba.

Analisi musicale

Dopo il preludio, che già regala una tonale intimità drammatica, la successiva introduzione con l’aria: “Celeste Aida“, coniugano un Giuseppe Verdi essenziale e popolare piuttosto che emotivo, e di effetto. E’ una perfetta ed impressionante orchestrazione, che crea un continuo rapporto dinamico, distribuendolo sapientemente nella sua scelta timbrica e di colore, come scriveva Eduard Hanslick.

Nel procedere nella conoscenza dell’opera incontriamo uno struggente “allegro – giusto poco agitato”, che precede il “Numi, Pietà“, di Aida. E’ il vero diamante della produzione verdiana.

Quindi vi è la scena della consacrazione ed il finale che chiude il primo atto. Questo passaggio colorisce timbricamente l’orchestra, accelerandone armonicamente tutto l’impianto scenico e di canto, facendoci così capire cosa intendeva Verdi per Grand-Opéra.

Nel secondo atto

L’impatto che avvertiamo immediatamente nel secondo atto, con la sua introduzione, è quello di stabilire un nuovo modo stilistico. Impressionista nel proporre lo spartito e condividerne i fatti – sino alla danza dei piccoli mori.

Segue la scena tra Amneris e Aida nel suo drammatismo più letterale. Furore, pietà, dolore sono coniugati in maniera apertamente falsa e bugiarda. Cogliamo nell’arco musicale una calma fantastica nell’intonare: “Numi, pietà“, di Aida. Esso è immediatamente squarciato dal gran finale del secondo atto, con l’inno, la marcia trionfale e le danze. Grande spazio a quest’ultime, per il meraviglioso contributo sinfonico, l’ampiezza e la molteplice varietà dei loro inserti esotici.

Il gran finale con cui Giuseppe Verdi termina l’atto, lo porta a toccare vette altissime, come vero ed unico mito di questo periodo storico musicale. Popolare? …Anche! Ma unico nell’interpretare un rapporto così stretto e carico di pathos fra l’orchestra ed il palcoscenico. E’ un’osmosi che si chiude con la ripresa del tema della marcia trionfale. E’ semplicemente grandioso!

Nel terzo atto

Entrando in punta di piedi nel terzo atto, notiamo lo scorrere pacifico del Nilo. Davanti a noi si staglia un disegno impressionista, accompagnato dal musicare di un flauto, che è, fra i più suggestivi effetti timbrici del Verdi.

Lo strumento è magicamente suonato per ricordare il vellutato ed intimistico momento d’amore. E anche il momento più violentemente drammatico di quest’opera. Direi che questo il più musicalmente riuscito, dei quattro atti.

Ci attende ora il duetto Amonasro – Aida, fantasticamente composto da voci Verdiane, con l’ “andante assai sostenuto”, che introduce: “Pensa che un popolo vinto“. Qui la voce del baritono vien tenuta ppp. (piano pianissimo), con un malcelato grido, preparando la successiva scena di Aida e Radamès, colma di un particolare rilievo drammatico e psicologico che ritroviamo anche alla fine dell’atto, con discrepanze tenorili di effetto e di sostanza.

Nel quarto atto

Entrando nel quarto atto rileviamo una straordinaria e misurata, quanto calibrata, concertazione di taluni Leitmotive, concernenti il personaggio di Amneris. La principessa combattuta tra l’amore per Radamès e la ragion di stato, si esprime in finezze vocali tradotte in grida e singhiozzi. Vi è un drammatismo che esalta senza soffocare una vasta tessitura vocale. Continuando con l'”allegro agitato” “Chi ti salva sciagurato“, con un andamento strofico da cabaletta.

Successivamente arriva in scena il Gran Sacerdote accompagnato dal suo regale seguito. Amneris in attesa della cerimonia politico-religiosa, mantiene quell’impulso iroso contro i rituali sacrificali del Gran Sacerdote e della Corte. Qui vi è un colpo di genio del Maestro che capovolge di fatto tutte le precedenti e fastose scene. Amneris intona la romanza: “Oh infami! Ne’ di sangue son paghi giammai. E si chiaman ministri del ciel“.

Il gran finale

Ora seguiamo il gran finale nelle sottostanti celle – con l’analisi della scena – recitativo: “La fatal pietra sovra me si chiuse“. E il duetto: “O terra addio“. Radamès cammina nell’oscurità e nel silenzio più profondo, quando intravede una figura venirle incontro. E’ Aida. Ella spiega a Radamès di aver presagito la sua condanna e di essersi introdotta nella tomba per morire assieme a lui. Aida intona: “Presago il core della tua condanna“.

L’accompagnamento orchestrale è una successione di minime sul re, eseguite dai clarinetti bassi, fagotti, viole e dai violoncelli rinforzati dalla gran cassa che illustra l’effetto espressivo e funebre. Segue un rintocco di campane come presagio di morte.

Continuando ad analizzare la melodia: “O terra addio“, attraverso il suo ripetuto ascolto, entriamo nella cabaletta finale. E’ uno straordinario finale, uno dei più grandi nella storia dell’opera. Notiamo che questa melodia vien ripetuta ben 12 volte, prima da Aida, poi da Radamès ed infine all’unisono da entrambi.

Contemporaneamente udivamo il canto sacro dei sacerdoti inneggiare: “Immenso Fthà“, dedicato agli Dei dell’Egitto.

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Commento

Le considerazioni ovviamente sono d’obbligo quando si pensa che in Baviera viveva Richard Wagner che con le sue liriche ed i suoi poemi creava un nuovo modo di concertare. Per questo possiamo ipotizzare che all’epoca ci fossero forti diatribe e parallelismi tra le musiche dei due Grandi e Geniali musicisti. Ma abbiamo ragione di credere che, leggendo gli spartiti dell’uno e dell’altro nell’epoca dell’Aida, entrambi espressero la propria genialità, creando e cercando nuove sperimentazioni di ordine armonico ed orchestrale.

Percorsero quindi la stessa strada, ma con una diversa visione e con una diversa bellezza musicale. Giuseppe Verdi lo fece con sfarzose parate, marce trionfali dai colori accesi, con la sua diligente elaborazione tecnica, creando una unità di stile, e quella coscienziosa e drammatica linea, che troveremo nelle sue opere, sino ad Otello.

Di contro il grande tedesco creò quella linea epica – mitologica e fantastica del Mito Teutonico, sdoganando così tutta una serie di drammi contenuti nella storia e nella letteratura Germanica. Si tratta du musica potente ed imperativa, adatta al sentir del suo popolo.

Mentre il Verdi, allunga la schiera dei grandi musicisti italiani, implementando le pagine del nostro “Melodramma”.

Altra musica in Europa? Certamente SI’! Un modo di concepire e di proporsi a nuove ed opposte idee nel moderno sentire. Innovare è il credo, di questo nuovo periodo musicale.

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Cavalleria rusticana (opera di Mascagni) https://cultura.biografieonline.it/cavalleria-rusticana-mascagni/ https://cultura.biografieonline.it/cavalleria-rusticana-mascagni/#comments Tue, 17 May 2016 16:58:02 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18479 La data di nascita dell’opera “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni è il 17 maggio 1890; in questo giorno, questo Melodramma in un atto, fu eseguito presso il Teatro Costanzi di Roma; tale data è stata assunta dalla storia come termine di riferimento, anzi come spartiacque per disegnare l’evoluzione del melodramma italiano di fine Ottocento. Il libretto dell’opera è di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci; la storia è tratta dalla novella omonima di Giovanni Verga. Quella che segue è un’analisi redatta dal Maestro Pietro Busolini, che l’ha diretta nel mese di marzo 2011 in Ungheria, presso il Teatro dell’Opera di Budapest.

Cavalleria rusticana - opera di Pietro Mascagni
L’opera andò in scena per la prima volta il 17 maggio 1890 a Roma

La genesi dell’opera e il contesto storico

Il panorama che l’Italia offriva dopo l’Unità nell’ambito della musica teatrale era variegato, ma tutt’altro che entusiasmante: nonostante le impennate avveniristiche del Mefistofele (1868-1875) di Arrigo Boito, intriso di cultura germanica, e qualche altra velleitaria espressione della Scapigliatura come l’Amleto (1865) di Franco Faccio, il maggiore epigono Verdiano, Amilcare Ponchielli, aveva preferito adagiarsi sugli schemi consolidati dell’opera romantica, con robusti innesti di elementi corali e coreografici recuperati dai modelli del grand-opéra francese (si pensi a “La Gioconda”, del 1876, al suo terzo atto con la “Danza delle ore”); il suo solido mestiere, una buona inventiva melodica, una conoscenza delle voci e dei meccanismi drammaturgici più funzionali avevano fatto di Pietro Mascagni l’unico autore di un certo rilievo nel decennio 1870-1880, e un autorevole maestro di composizione al Conservatorio di Milano.

Ma quando si rappresenta la Cavalleria rusticana, la calma routine di quegli anni viene letteralmente sconvolta (neppure Giacomo Puccini, con Le Villi del 1884 e l’Edgar del 1889, aveva proposto qualcosa di altrettanto originale e provocatorio): si parla di rivelazione, di capolavoro, al limite del caso e dello scandalo; e il giovane musicista livornese diviene all’improvviso famoso, l’opera varca in pochi mesi le Alpi, mietendo successi e riconoscimenti critici ovunque, perfino in Germania e Austria, dove il severo Eduard Hanslick dedica al lavoro di Mascagni un saggio entusiastico. Sull’onda di questo autentico trionfo, Mascagni sarà poi costretto a una attività convulsa, improntata a una volontà di rinnovamento drammaturgico e stilistico, a una sorta di sperimentalismo e di crescita culturale che saranno i tratti caratteristici della sua produzione matura.

Ma al tempo di Cavalleria rusticana egli era pressoché uno sconosciuto: nato in una modesta famiglia di Livorno, iniziati gli studi sotto la guida di Alfredo Soffredini, si era fatto conoscere nella sua città con liriche, pezzi sacri, cantate; trasferitosi poi a Milano per studiare con Ponchielli, aveva respirato l’aria scapigliata iniziando un’opera, “Guglielmo Ratcliff”, tratta da un fosco dramma di Heinrich Heine; poi però aveva abbandonato il Conservatorio senza conseguire il diploma di composizione. E da un grosso borgo della Puglia, Cerignola, dove si era stabilito, Mascagni partecipò al concorso per un’opera inedita in un atto, indetto dall’editore Sonzogno, e lo vinse con questo lavoro – Cavalleria rusticana – ispirato all’omonimo dramma di Giovanni Verga, che con la sua poetica è considerato il maestro del verismo letterario.

Cavalleria rusticana: un’opera fortunata

Senza dubbio, tra i motivi che determinarono la fortuna di Cavalleria rusticana si debbono annoverare il drammatico soggetto, la sua passionalità accesa, l’ambiente popolare: le teste coronate del melodramma romantico (compresa Aida, schiava etiope, ma figlia di re) venivano soppiantate da una classe proletaria dai sentimenti elementari e violenti come amore, vendetta, tradimento, a cui finalmente rivolgeva una qualche attenzione il genere operistico, convenzionale e paludato; i poveri personaggi, diseredati sociali, “vinti”, secondo la qualificazione verghiana – soprattutto Santuzza, ma anche Turiddu e Mamma Lucia – trovano udienza sulla scena lirica, grazie a un compositore che sa interpretarne i moti più profondi e tradurli in un linguaggio essenziale ed efficace.

Del giovane musicista Mascagni, dovette impressionare la vena di canto nuova e personale nella sua spontaneità un po’ irruenta, al limite della volgarità, l’originale impiego delle voci, sospinte verso il registro acuto, che veniva raggiunto con slancio, spesso con una forza confinante con il grido; ma Pietro Mascagni si faceva apprezzare anche per la bella sicurezza con cui manovrava le masse corali, ricorrenti in tutto l’atto, a rafforzare il senso di una presenza di massa, di un popolo in scena; e soprattutto per gli ampi squarci sinfonici, inseriti quasi a dimostrazione che un musicista che volesse essere “moderno” non poteva – dopo l’esempio wagneriano – non affidare all’orchestra un ruolo di spicco, in una rinnovata concezione dell’opera in musica.

Personaggi

  • Santuzza (Soprano)
  • Lola (Mezzo soprano)
  • Turiddu (Tenore)
  • Alfio (Baritono)
  • Lucia (Contralto)
  • Contadini e contadine

Analisi musicale dell’opera

Se questi furono gli aspetti più clamorosi che fecero la fortuna immediata di “Cavalleria rusticana“, a distanza di oltre un secolo non sarà tuttavia difficile osservare che, accanto a evidenti tratti di novità, essa presentava un solido impianto che non rompeva con la tradizione, come invece accadeva per l’altra opera che Mascagni stava componendo – e che interruppe – in quegli anni, l’opera tragica in quattro atti “Guglielmo Ratcliff”.

In questo lavoro giovanile, Mascagni aveva tentato un geniale esperimento sulla parola, alla ricerca di un recitativo-arioso libero, asimmetrico, ad ampie arcate, e di una struttura che prescindesse in toto dalla divisione in numeri chiusi. Ma era naturale che, scrivendo per un concorso, Mascagni non intendesse rischiare troppo, adottando soluzioni che potessero in qualche modo sapere di “melodia infinita”, e attirare su di lui l’accusa di wagnerismo; così, a cominciare dal frontespizio, in cui Cavalleria rusticana è ancora indicata come “melodramma”, l’opera adotta una struttura ripartita “a numeri'”(romanze, duetti, concertati), una distribuzione convenzionale dei ruoli vocali (i due amanti, tenore e soprano; la rivale, l’Altra, mezzosoprano, e l’Altro, l’«Uomo nero» secondo la sorridente definizione di Palazzeschi, baritono); e si apre addirittura con un preludio e, soprattutto, con un coro d’introduzione, secondo la migliore tradizione del melodramma romantico.

Si pensi, però, quale effetto dirompente ha l’inedito inserimento, a sipario chiuso, della serenata di Turiddu in dialetto siciliano (“O Lola ch’ai di latti la cammisa”), con l’accompagnamento dell’arpa, quasi una chitarra amplificata, che interrompe – come una ventata di accesa passionalità – il bel preludio strumentale.

Pietro Mascagni
Pietro Mascagni

L’originalità di Pietro Mascagni si fa notare anche in altre soluzioni: egli recupera le forme chiuse della tradizione solo quando la vicenda drammatica richieda l’inserimento di una canzone; compone insomma quella che si suol definire “musica di scena”, quando, cioè, anche fuori della finzione scenica, nella vita, i personaggi impiegherebbero un canto intonato e non la semplice parola detta. Sono episodi numerosi e inequivocabili: il coro “Gli aranci olezzano” e la preghiera “Inneggiamo, il Signor non è morto”, e poi la sortita di Alfio carrettiere “Il cavallo scalpita”, lo stornello di Lola “Fior di giaggiolo”, il brindisi di Turiddu “Viva il vino spumeggiante”.

Si tratta, con l’inserimento di questi canti, di un’adesione al principio della “verità”, che l’estetica naturalistica trasmette a una forma tipicamente non-realistica come l’opera lirica, avviandone la radicale trasformazione verso il dramma musicale.

Ma là dove il libretto non prevede canzoni o simili, Mascagni propone nella sua “Cavalleria rusticana” soluzioni più geniali e personali, soprattutto per quanto attiene il profilo del recitativo, che viene innervato di una carica melodica a dir poco inedita.

Si sa che per il compositore livornese il problema del recitativo sarà oggetto di riflessioni e sperimentazioni continue, dal primo caso di Ratcliff alla Parisina (1913), su testo di D’Annunzio, fino all’estremo lavoro teatrale, il Nerone (1935); e Cavalleria rusticana offre già risultati eccellenti di questa ricerca: ricordiamo, ad esempio, nella scena di Santuzza con Lucia, la frase «Mamma Lucia, vi supplico piangendo,/ fate come il Signore a Maddalena», o l’attacco del duetto Santuzza-Turiddu “Tu qui, Santuzza?”, che non hanno più nulla del recitativo convenzionale.

E naturalmente questa volontà melodica si estende ancor più alle “romanze”, ai brani destinati ad essere estrapolati dalla partitura e cantati come pezzi da concerto, i quali però hanno un andamento e un taglio che non assomigliano più alla composta stroficità di un “Cielo e mar” dalla Gioconda , o di una “Celeste Aida”: in esse Mascagni adotta un tipo di costruzione “a episodi” (solo rari esempi isolati potevano ritrovarsi in Giuseppe Verdi: pensiamo alla scena aggiunta nel 1865 al Macbeth , “La luce langue”, e alla grande aria di Elisabetta “Tu che le vanità” nel Don Carlos ); sono una serie di nuclei melodici, dei pensieri musicali in sé conclusi, senza rispondenze strofiche, di diversa ampiezza e di carattere contrastante, che seguono lo svolgersi narrativo del testo.

Esempio principe di questo nuovo articolarsi della forma-romanza è la sortita di Santuzza, nella quale si possono individuare almeno tre blocchi lirico-espressivi (“Voi lo sapete, o mamma”, ripreso e variato nel successivo «Tornò, la seppe sposa»; il centrale «Quell’invida» e la chiusa «Priva dell’onor mio») che corrispondono alle fasi di un autentico “racconto” che si dipana di fronte al pubblico, e sostituisce il principio dell’aria lirica, statica, che era stato il retaggio di quasi tre secoli di melodramma. E si consideri anche che l’assolo di Santuzza non si conclude sul la di «io piango», ma si salda senza soluzione con l’intervento di Mamma Lucia «Miseri noi…» e con le altre battute di dialogo fra le due donne.

Analoga la struttura dell'”Addio alla madre“, ove due ampie arcate cantabili, «Ma prima voglio» e «Voi dovrete fare» (riproposto e variato in «Per me pregate Iddio»), sono alternate a episodi in stile arioso, innervato di forti spunti melodici, ma addirittura interrotte dall’intervento di Mamma Lucia «Perché parli così, figliolo mio?», a confermare la violenza al modello del pezzo chiuso che Mascagni intende fare, inserendo nella scena a solo il principio del dialogo. Sono soluzioni formali stabilite nel 1890, a cui guarderà negli anni successivi, facendole sue, Giacomo Puccini, a cominciare dalla scena “Sola, perduta, abbandonata” di Manon Lescaut (1893), grande esempio di aria-racconto.

Il pubblico che decretò il trionfo internazionale di Cavalleria rusticana , forse, non fu colpito dalle novità stilistiche e formali cui s’è fatto cenno; ciò che più trascinò e convinse fu senza dubbio quel senso di “aria aperta”, di Sicilia presa dal vivo, quasi di cinematografia ante litteram, che la partitura suscitava ad ogni momento, al di là degli evidenti ossequi alla tradizione; fu quell’inedito clima paesano tutto d’invenzione, senza alcun rispetto per il folclore siciliano, ricreato con il toscanissimo stornello di Lola o con gli altri canti d’impronta popolaresca (“Il cavallo scalpita”, “Viva il vino”); fu soprattutto il sensuale empito melodico che si espandeva dagli interventi solistici ai cori e alle ampie pagine sinfoniche, come il fortunatissimo “Intermezzo“, di straordinaria inventiva musicale e capacità emotiva, che costituì anche per Mascagni un modello da tener sempre presente, come il celebre “Sogno” del suo Ratcliff , quasi certamente già composto.

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Un nuovo mondo espressivo, per cui gli affetti sono dipinti in scene sintetiche e coinvolgenti, un’originale proposta drammaturgica improntata a una tensione costante, a un’assoluta necessità, venivano scoperti in questo rapido atto ispirato al Verga: e in un’epoca in cui il teatro lirico era ancora un’impresa commerciale redditizia, era naturale che, sull’onda del successo di Cavalleria rusticana, non solo il suo creatore, ma altri compositori ed editori tentassero di riprenderne modelli e ambienti.

La rivincita dell’Italia del Sud nel teatro lirico

Così, negli anni immediatamente successivi al 1890, una vera miriade di drammi passionali e di sangue, di ambiente popolare, e con forti caratterizzazioni regionali, invase la scena operistica, a voler mostrare – come già era avvenuto in letteratura – che il Regno d’Italia non si riduceva solo a Milano, Roma e Torino, ma comprendeva un mondo ben altrimenti articolato, sofferente e drammaticamente isolato dallo sviluppo commerciale e dal progetto sociale che investiva soltanto il Nord della penisola.

Una rapida scorsa ai titoli di quegli anni: Mala Pasqua! (ancora sulla Cavalleria del Verga, del 1890) di Gastaldon; Silvano dello stesso Mascagni e Nozze istriane di Smareglia (entrambi del 1895); Mala vita di Giordano (1892), tratta da ‘O voto di Salvatore Di Giacomo; A Santa Lucia di Tasca, la Tilda di Cilea e soprattutto i fortunatissimi Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, tutti del 1892: è l’Italia del Sud che sul palcoscenico illustre dell’opera fa sentire la sua presenza, troppo a lungo elusa, con i suoi cantori e le sue vicende; è un’Italia ancora povera e semianalfabeta che a teatro, almeno, si sente finalmente rappresentata con una voce sonora e convincente.

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Gianni Schicchi (opera di Puccini) https://cultura.biografieonline.it/gianni-schicchi-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/gianni-schicchi-puccini/#comments Wed, 23 Sep 2015 14:05:36 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=15139 Gianni Schicchi” è una delle opere più celebri del Maestro italiano Giacomo Puccini. Si tratta di un’opera in un atto, su libretto di Giovacchino Forzano. Essa fa parte del Trittico, nome con cui sono conosciute tre opere in un atto pucciniane: Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi, appunto. La prima assoluta di quest’opera ebbe luogo negli Stati Uniti, al Metropolitan Opera House di New York, il giorno 14 dicembre 1918. Il Maestro concertatore e Direttore d’orchestra fu Roberto Moranzoni.

La prolusione che segue (che comprende le genesi dell’opera, un riassunto della trama e l’analisi musicale) è stata redatta dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste.

Gianni Schicchi

La trama vien estrapolata dal 30° canto dell’Inferno, dove Dante e la sua guida, discendono all’ottava bolgia popolata dai falsari di parole, di persone e di monete. Qui vedon “due ombre smorte e nude – che mordendo correvan di quel modo – che  ‘l porco quando dal porcil  si schiude“.

La prima ombra è quella di Mirra, figlia del Re di Cipro, che avendo concepito un’azione incestuosa con il padre, raggiunse il suo scopo fingendosi un’altra.
L’altra ombra “o in sul nodo – del collo l’assannò, – si che’, tirando  – grattar li fece il ventre – al fondo sodo.”  Quell’ombra è quella di Gianni Schicchi:

quel folletto è gianni schicchi
e va’ rabbioso altrui così conciando

Il peccato di Schicchi è quello di aver osato

Per guadagnar la donna della torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma

Il personaggio

Gianni Schicchi fu un personaggio storico che commise realmente il delitto per il quale Dante Alighieri lo collocò nel suo Inferno, immortalandolo. Narra la storia che quando il ricco Buoso Donati morì, il figlio Simone fu assalito dalla paura che il padre avesse lasciato tutto ai frati di Signa, ossia tutti i suoi beni, in espiazione delle cattive azioni compiute in vita – avendo egli disonestamente accumulato grandi ricchezze.  Simone, prima di rendere nota la morte del padre, consultò un certo Gianni Schicchi, un fiorentino vicino alla famiglia Cavalcanti, ghibellina, noto in città come un abile mimo e simulatore.

Lo Schicchi si offrì di impersonare Buoso in punto di morte e di dettare un testamento secondo i desideri di Simone, e per questo ebbe la ricompensa di una bella mula: o
donna della torma“, secondo Dante. Scorrendo un’altra edizione e naturalmente versione, si legge che lo Schicchi facendo testamento avrebbe lasciato “la più bella mula di Toscana“,  e un grosso legato a sé medesimo.

Il Maestro Giacomo Puccini, mise in musica, questa versione, “gli garbò di più“!

Dante illuminò Puccini? O Giovacchino Forzano?… Nel sceglier la burla di Gianni Schicchi vestito con i  panni di Buoso Donati!

Fantasmagorico è l’ultimo atto – unico del trittico – musicato con impari bellezza, sia per lo stile melodico e prevalentemente diatonico che per un alternar di farse melodrammaticamente argute – dalla vis comica, unica ed irripetibile.

Gianni Schicchi

La genesi dell’opera

L’opera in un atto si avvale del libretto di Giovacchino Forzano, che costituisce l’ultima parte del Trittico. Egli ebbe l’importante ruolo di persuadere Puccini, circa la fattibilità di musicare un soggetto dantesco come l’episodio di Gianni Schicchi, personaggio condannato alle fiamme eterne per il peccato di falsa testimonianza.

L’argomento sicuramente non poteva esser migliore, per chiudere come terza opera in quanto ad eleganza e buffoneria coniugata ad intelligenza, brillantezza e ribaltamento di situazioni, degna conclusione di questo polittico Pucciniano, tanto voluto e cercato, tant’è che Puccini scriveva al librettista:

Dopo il Tabarro di tinta nera / sento la voglia di buffeggiare. / Lei non si picchi / se faccio prima – quel Gianni Schicchi“.

L’opera impegnò il Maestro dal luglio del 1917 all’aprile del 1918, ma durante tale periodo la sua incessante creatività e la voglia di terminare, lo portò a chiudere la stesura della “SUA SUOR ANGELICA” (vedere il carteggio Puccini–Forzano).

Per la sua “Angelica” si avvalse dei consigli di sua sorella Badessa Agostiniana, per capire  la vita ed il mondo claustrale, mentre per i canti e le musiche sacre, ricorse al suo buon amico Don Pietro Panichelli, che già in Tosca ed in altre produzioni aveva dato la disponibilità.

Fu rappresenta al Metropolitan Opera House di New York, il 14 dicembre 1918, senza la presenza del Maestro, e fu proprio la chiusura  con il Gianni Schicchi a riscuotere il maggiore successo, persino indispettendo lo stesso Puccini  che, invece, riteneva Il Tabarro un lavoro innovativo e  Suor Angelica un’opera di grande profondità introspettiva.

Nel gennaio del 1919 precisamente il giorno 11, il Trittico ebbe la sua prima italiana, al Teatro Costanzi di Roma, sotto la direzione del Maestro Gino Marinuzzi. La denominazione de: “Il Trittico“, è dovuta al pittore Marotti, amico personale  di Giacomo Puccini, che fu di completo gradimento del musicista.

Voglio ricordare che proprio in occasione delle rappresentazioni del Trittico, i rapporti del compositore con Arturo Toscanini divennero assai aspri, al punto che Puccini espressamente interdisse la direzione delle tre opere al celebre direttore, assumendo un atteggiamento molto personale, di cui non cito in questa mia prolusione.

Giacomo Puccini
Foto di Giacomo Puccini

Giacomo Puccini ebbe un rapporto di amore/odio con Gianni Schicchi; fin troppo evidente che egli preferisse gli argomenti drammatici e tragici, per altro meglio collocati nella temperie decadentista, ma si evince dalla sua voglia di vivere e di far allegria che il compositore amasse gli episodi burleschi, come diversivi, ed anche all’interno di grandi vicende.

Non a caso il musicista insiste perché nella stesura finale, il grottesco prevalga sul buffo e non si preoccupa, anzi sottolinea, taluni aspetti macabri, primo fra tutti l’incombente presenza del cadavere in scena. Anche i risvolti morali sembrano avere conquistato l’attenzione di Puccini: l’avidità di Buoso e la cruenza della pena del taglio della mano, da comminare ai falsari.

Il libretto è insolitamente meticoloso nell’informarci circa l’età e i rapporti di parentela dei personaggi, in particolare della famiglia Donati; guelfa, non pochi in relazione alla breve durata della composizione; il motivo è la volontà di rendere chiaro l’asse ereditario, essendo il testamento di Buoso l’elemento centrale della vicenda e l’oggetto dell’inganno di Gianni Schicchi.

I toscanismi abbondano come i riferimenti storici, architettonici e paesaggistici. Esplicitamente, Puccini aveva dichiarato di voler realizzare un’opera  brillante che superasse Die Rosenkavalier (Il cavaliere della rosa) di Richard Strauss; in Gianni Schicchi, così come nell’opera straussianna, i personaggi sono numerosi e variegati sotto il profilo vocale; tuttavia lo sviluppo è centrato sul protagonista del titolo (baritono), su Lauretta, figlia dei questi (soprano) su Rinuccio Donati (tenore) figlio di Buoso e futuro genero di Schicchi.

La struttura musicale è didascalica e solo apparentemente semplice; il breve preludio presenta i due temi contrapposti: quello del lutto e quello della meschinità, variato da quello della burla.

I momenti più truffaldini sono sottolineati da un’orchestrazione che privilegia le ance, il solo episodio sentimentale – spiegato – l’aria di Lauretta, per il resto attinge, viceversa al repertorio coloristico più tardo-romantico.

Un terzo elemento tematico è quello dell’inganno e viene  proposto da Rinuccio nell’atto spesso di prospettare ai parenti l’intervento di Schicchi.

Notevole anche l’affinità che Puccini sottolinea tematicamente, tra Legge e Medicina, riservando materiale molto simile ai due rappresentanti delle discipline, il notaio Ser Amantio da Nicolai e il medico Maestro Spinelloccio,  entrambi beffati dallo Schicchi.

Trama in breve

Firenze 1299: Buoso Donati  è appena spirato e attorno al letto di morte i suoi parenti sono assorti in preghiera.

Corrono voci che  Buoso abbia destinato in beneficenza i suoi beni ai frati di Signa, viene letto il testamento e, quel  che sembravan sospetti, vengono confermati con grande disappunto dei parenti.

Rinuccio è il figlio di Buoso ed è  fidanzato di Lauretta, figlia di Gianni Schicchi; conoscendo l’astuzia del futuro suocero, suggerisce ai propri parenti di ricorrere a questi per escogitare qualche stratagemma: “Avete torto! – È fine … astuto…“.

Zita, soprannominata “La Vecchia” , alla vista di Schicchi, lo rimprovera per le modeste origini, e questi, offeso, se ne sarebbe andato, se non fosse per le tenere suppliche di Lauretta:  “O mio babbino caro“. (Romanza)

Gianni ha in mente un piano: contraffacendo la voce di Buoso, con cui risponde al dottor Spinelloccio, avvalorando la tesi che l’uomo è ancora in vita.

Viene  convocato d’urgenza il notaio: “Si corre dal notaio” (Romanza) e  Schicchi si dispone nel letto di morte di Buoso, dettando il nuovo testamento, e, truffaldinamente, destina a sé  la casa di Firenze, la più bella mula di Toscana, ed i mulini.

Naturalmente i parenti di Donati non possono protestare senza svelare la truffa : “Addio, Firenze, addio, cielo divino“. (Romanza)

Alla fine della commedia vengon tutti scacciati dalla casa che ormai Gianni assume come propria, mentre i due giovani fidanzati amoreggiano felici intonando la romanza : “Lauretta mia, staremo sempre qui“; il protagonista, rivolgendosi al  pubblico, invoca l’attenuante di avere agito nell’interesse dei due giovani e del loro amore.

Analisi musicale

Stilisticamente Gianni Schicchi, impressiona in quanto dà la prova delle capacità del Maestro, ad adattare il suo stile temprato in opere tragiche, seppure di un romanticismo esasperato, al più puro spirito della commedia.

Difficile pensare ad altro compositore capace di esprimere il suo sentirsi “zinghero”, e commediante, in un lavoro così toscano e specifico come il Gianni Schicchi.

La sua musica sbalordisce in quanto il Puccini sa creare per ciascuna sua opera un climax, ed una personalità coniugata all’abilità, che appartiene solo lui.

Osserviamo il prevalere dei tempi  rapidi nella musica e dei ritmi netti ed incisivi per lo più in 2/4 e 4/4, escluso la colorita partecipazione dei due giovani, gli altri son tutti temi e motivi che mostrano concisione e contorni esatti. Lo stile melodico e prevalentemente diatonico, contrassegnato da intervalli ampi e da frasi vocali che iniziano in levare.

Ricordiamoci che l’opera inizia in si bemolle e finisce in sol bemolle maggiore. Il maggiore è onnipresente nella tonalità con i bemolli. Il maestro si volge al minore per sottolineare l’ipocrisia nel lamento dei parenti di Buoso, o per far capire la loro disapprovazione per l’inganno subito da Gianni Schicchi.

Analizzando la partitura notiamo che gli strumenti dominanti sono “i legni “; gli archi vengono usati per dare espressività al canto dei due innamorati, usati sempre nelle opere Pucciniane quale tocco leggero e trasparente, in questo caso assumono aspetto settecentesco. Nelle scene d’insieme i robusti massicci “tutti”, si odono deliziosi passaggi di musica da camera di stile comico.

Come sempre nelle opere del Maestro, l’organico orchestrale è completo: legni a tre, con ottavino, corno inglese e clarinetto basso, 2 fagotti, quattro corni, tre trombe, quattro tromboni, arpa, celesta, una campana a morto, timpani e parecchi strumenti a percussione usati per gli effetti grotteschi.

Lo Schicchi ha due arie : tutt’e due estremamente caratteristiche, forse non son proprio eccezionali dal punto di vista melodico, ma garbate ed  intriganti.  Nella prima sottolineamo le arie del “corriamo dal Notaro“, illustrando gli aspetti della natura dello Schicchi, notiamo l’estrema volubilità ed energia nell’allegro iniziale in re maggiore, abilmente Puccini manipola i temi del notaro e dell’avvertimento,  e notiamo il suo macabro umorismo nel successivo in do minore con quegli accordi che sfilano come automi ricordano la canzone “della Frugola nel Tabarro” ed ha anche, una sostanziale somiglianza con il monologo di “Michele“, entrambe  hanno la quadratura di una danza e si basano su di un’idea di carattere processionale in do minore, entrambe nel momento top, la voce si eleva improvvisamente in una quinta, dal do al sol, con dissonanze un po’ aspre.

Sarebbe logico chiedersi il perché della somiglianza di linguaggi che possiamo notare anche in Otello e Falstaff, sembrerebbe che i due massimi esponente del melodramma cercassero di parodiare la loro tragicità per ritrarre un personaggio comico.

Mentre nella seconda aria dello Schicchi, egli ricorda ai parenti di Buoso, la tremenda pena per i falsificatori di testamenti; aria di una vis comica unica e colma di ironia, lo Schicchi intona:    Addio Firenze, addio cielo divino
Io ti saluto con questo moncherino
Io vo’ randagio come un Ghibellino

melodia con un lacrimoso addio alla città amata, e, minacciosamente ricordando a tutti, l’immaginario moncherino.

Questo tema non è propriamente Pucciniano, è parzialmente modale ed emana un profumo di canzone popolare toscana. Comicità unica e sfrenata, la troviamo nella scena successiva, quando Schicchi detta il testamento al Notaro tra il cantato ed il mezzo parlato, tenendo in scacco i parenti impazienti di sentire pronunciare il loro nome, per sapere di cosa potranno disporre dopo la dettatura.

La bravura del baritono sta proprio nella capacità di cantare in falsetto e quasi senza fiato, richiesta anche in altre scene, interpretare Schicchi significa possedere un rapido intuito  di caratterizzazione vocale; per non parlare poi, di una indispensabile agilità istrionica.

Voglio anche ricordare l’uso del Leitmotiv, che il Maestro considerò tema adatto anche alla dolce Lauretta, perché nella scena successiva all’arrivo della fanciulla col  padre, l’orchestra lo riprende in una combinazione contrappuntistica, con il tema di Schicchi, fornendo il materiale per la famosa aria: “O mio babbino caro“, musica deliziosa in un fluente ritmo di “siciliana in 6/8“, che nella sua semplicità armonica non abbandona il la bemolle.

Voglio anche notare l’uso felice nella scena della dettatura del testamento, dove il borbottio fitto e meccanico vien accompagnato dal preambolo latino in contrappunto a quattro parti. Nulla di meglio di questo procedimento scolastico avrebbe potuto evocare il tipo del leguleio erudito.

Non fa quindi  meraviglia, questo mio ricercar lo SCHICCHI ghibellin-randagio, dagl’INFERI sin A FLORENTIA, per poter descriver colui che, ancora oggi, incarna l’ultimo supremo esempio, dell’umorismo operistico italiano.

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Lucia di Lammermoor https://cultura.biografieonline.it/lucia-di-lammermoor/ https://cultura.biografieonline.it/lucia-di-lammermoor/#respond Tue, 14 Jul 2015 23:38:59 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14703 L’opera in tre atti “Lucia di Lammermoor” fu composta da Gaetano Donizetti (1797-1848) su libretto di Salvatore Cammarano (1801–1852). La storia è tratta da “The Bride of Lammermoor” (La sposa di Lammermoor) dello scrittore scozzese Walter Scott (1771-1832). Tra le opere serie di Donizetti è la più celebre. La prima assoluta ebbe luogo al Real teatro di San Carlo di Napoli il 26 settembre 1835, e riscosse grande successo. Nei ruoli dei protagonisti ricordiamo Fanny Tacchinardi (Lucia), Gilbert Duprez (Edgardo) e Domenico Cosselli (Enrico).

L’analisi e il riassunto che seguono sono stati redatti dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste.

Lucia di Lammermoor - una scena
Lucia di Lammermoor – una scena

Personaggi dell’opera

  • Sir Edgardo di Ravenswood (Tenore);
  • Lucia di Lammermoor (Soprano);
  • Lord Enrico Ashton (Baritono);
  • Lord Arturo Bucklaw (Tenore);
  • Raimondo Bidebend, educatore ed amico di Lucia (Baritono);
  • Alisa, damigiella di Lucia (Mezzosoprano);
  • Normanno, capo degli armigeri di Ravenswood (Tenore);
  • Dame e cavalieri, congiunti di Ashton, abitanti di Lammermoor, paggi e armigeri e domestici di Ashton.

La storia dell’opera di Donizetti

Il soggetto della Lucia di Lammermoor fu desunto dal celebre romanzo “The bride of Lammermoor“, in cui Walter Scott adombrò le vicende della famiglia Stair, gli Ashton, e di lord Rutherford, Edgardo di Ravenswood. Gli avvenimenti ai quali Scott si ispirò ebbero luogo nel 1689, all’epoca delle lotte fra i seguaci di Guglielmo III d’Orange e quelli dell’ex re Giacomo II.

Nel libretto dell’epoca di Donizetti, invece, i fatti sono retrodatati alla fine del Cinquecento. Non si conoscono le ragioni che indussero Donizzeti a scegliere come soggetto il romanzo di Scott. “The Bride of Lammermoor” ad ogni modo aveva proprio in quegli anni colpito la fantasia di diversi operisti: Michele Carafa in La flancèe de Lammermoor, Parigi 1829; Luigi Riesck in La fidanzata di Lammermoor, Trieste 1831; Ivar Frederik Bredal in Bruden fra Lammermoor, Copenaghen 1832; Alberto Mazzuccato in la fidanzata di Lammermoor, Padova 1834, ebbe il maggior successo prima di quello di Donizetti.

Già nel novembre 1834 Gaetano Donizetti si era impegnato a far rappresentare un’opera al San Carlo per l’estate del 1835. è presumibile che egli non avesse, a quell’epoca, ancora scelto il soggetto ed è soltanto in una lettera del 18 maggio 1835, destinata a Luigi Spadaro del Bosch, che si parla per la prima volta della “Sposa di Lammermor” di Walter Scott.

L’opera venne ultimata il 6 luglio – data che figura sulla partitura – e pare che Donizetti abbia cominciato a comporla tra la fine del mese di maggio e gli inizi del mese di giugno del 1835. Lucia di Lammermoor costituì la consacrazione di Donizetti a grande compositore di opere serie.

Nei confronti dei precedenti lavori la caratterizzano due elementi fondamentali: la continuità dell’ispirazione ed un contesto vocale che non indulge mai, o quasi, a facilonerie e convenzionalismi. Giovò indubbiamente a Donizetti la collaborazione del Cammarano, ben provvisto di quelle capacità di sintesi che furono la migliore dote dei grandi librettisti della prima metà dell’Ottocento.

Il romanzo di Scott acquista nella riduzione del libretto un singolare dinamismo ed un taglio prettamente melodrammatico. Il Cammarano seppe togliere i punti più violenti e le passioni esasperate; per rispettare certe scelte tradizionali del teatro musicale, non ci pensò due volte a rimanipolarli. Cammarano fece tutto questo sopprimendo il personaggio della madre di Lucia, avversa ad Edgargo, con il capovolgimento della storia, elminando alcune scene cruente e selvagge a tutto vantaggio dell’effetto teatrale.

Salvatore Cammarano scelse di suddividere il libretto in due parti, “La partenza” e “Il contratto nuziale”, la seconda delle quali suddivisa a sua volta in altre due. Nell’autografo Gaetano Donizetti fece corrispondere la prima parte dell’opera al primo atto – La partenza – e altre due sezioni della seconda parte a due atti successivi: in conclusione, la suddivisione è quella tipica in tre atti.

Lucia di Lammermoor: prima parte

Odio, odio, odio, l’atavico odio, ha sempre separato le loro famiglie, ma i giovani Edgardo di Ravenswood e Lucia di Lammermoor si amano soavemente d’un amore infinito e s’incontrano furtivamente fuori dalle mura del castello.

Ma Edgardo deve partire per la Francia, chiamato altrove a causa dalle vicende politiche nella quale è impegnato con la sua fazione e ricorderà a Lucia prima di partire che, Enrico Ashton gli ha ucciso il padre.

Lo perdonerà, tuttavia, se potrà sposarla. Lucia lo prega di tenere ancora segreto il loro amore, intonando il duetto: “Verranno a te sull’aure“, scambiandosi un’anello, e contemporaneamente: “giurandosi eterna fedeltà“.

Seconda parte

Lord Enrico Ashton, sentendo vicina la sconfitta, in quanto la sua fazione è perdente, inganna Lucia facendole credere che Edgardo s’è legato a un’altra donna e la costringe a sposare il potente Lord Arturo Bucklaw.

Durante la cerimonia di nozze Edgardo irrompe nel castello degli Ashton, rimprovera Lucia per l’infedeltà di cui s’è macchiata e maledice lei e la sua stirpe. Nella seconda parte del secondo atto – Edgardo trascorrere la notte nel disadorno salone della torre nella quale risiede.

Sopraggiunge Enrico, venuto a sfidare colui che ha osato turbare la cerimonia delle, nozze. Edgardo accetta la sfida, che avverrà all’alba.

Nella terza scena del secondo atto, nel castello di Enrico gli invitati festeggiano ancora le nozze di Lucia con Arturo, ma sopraggiunge Raimondo sconvolto. Egli narra che Lucia ha ucciso il marito trafiggendolo con la spada.

Gli invitati alle nozze sono ancor piu preoccupati per la scomparsa di Lucia che, in preda alla follia, immagina prima che si stiano celebrando le sue nozze con Edgardo e poi, con una sorta di ritorno alla realtà, di rivelare all’amato di essere stata costretta a sposare Arturo. A questo punto cade a terra svenuta.

L’ultima scena

Nell’ultima scena, che si svolge all’esterno della torre di Edgardo, questi, affranto per essere stato tradito da Lucia, immagina di rivolgersi a lei e di annunciarle che tra poco egli morrà.

Medita evidentemente – anche se il libretto non lo precisa – di lasciarsi uccidere da Enrico.
Sopraggiungono Raimondo e gli invitati alle nozze ed Edgardo da loro apprende ciò che è accaduto, e che, la sua Lucia è agonizzante.
Vorrebbe rivederla, ma quando i rintocchi d’una campana annunciano che Lucia è morta, disperato per la fine di quell’amore finito, si dà la morte.

Lucia di Lammermoor
Lucia di Lammermoor

Analisi musicale

Questo equilibrio tra sentimenti sconvolgenti e melodie soavi ed ornate, caratterizza sopratutto la figura della protagonista, ma si estende, almeno a tratti, agli altri personaggi dell’opera e investe anche la parte corale. La squillante introduzione orchestrale al coro dei cacciatori che Normanno invia sulle tracce di Lucia e di Edgardo, e subito dopo la risposta degli abitanti del castello, non perdono: “pur nella evidente faziosità e ipocrisia dei seguaci degli Asthon“, il lirismo di un mondo idilliaco.

Semmai è l’entrata in scena di Enrico Asthon che determina, con un recitativo scarno e vigoroso, un’atmosfera di asprezza e di violenza, correlata, d’altronde, alla dialettica del melodramma romantico, che nello scontro tra il bene ed il male scorgeva nel baritono il simbolo della perversità. E tuttavia l’ampio e largo andamento del larghetto: “Cruda, funesta smania”, non è privo di nobiltà, nella parte iniziale; non solo, ma svela nel furore di Enrico, anche un turbarbamento ed un sincero dolore.

A questo punto, il ritorno dei cacciatori, con l’ingenua melopea del coro: “Come vinti da stanchezza“, tipico esempio post-rossiniano di concezioni melodiche ristabilisce per qualche attimo il lirismo. Lucia di Lammermoor come già accennato, è il personaggio dell’opera in cui la passione meglio si distende in melodie di celestiale soavità.

Sin dal suo apparire preannunciato dai languidi arabeschi di un’arpa, Lucia evoca la fanciulla angelica del melodramma romantico. Il larghetto “Regnava nel silenzio” narra l’apparizione del fantasma con la melodia che prende l’avvio da un’ampio intervallo ascendente per poi ricadere lentamente per gradi congiuntti, a trati di carattere cromatico.

Di qui la dolcezza, ma anche il tono misterioso e dolente del brano, mentre nei momenti in cui il racconto si fa più concitato, Donizetti ricorre a fiorettature ed arpeggi e trilli che da un lato rispecchiano la cosiddetta ornamentazione espressiva rilanciata da Rossini, dall’altro mantengono Lucia sul piano di sentimenti sublimati, per cui non configurati e nemmeno percepibili attraverso un linguaggio realistico.

Gaetano Donizetti
Gaetano Donizetti

Con un energico recitativo di entrata, Edgardo lascia intuire che è molto più cavalleresco di Enrico, ma ugualmente fiero ed aggressivo nelle sue passioni. Lucia ha il potere di condurlo musicalmente negli spazi delle melodie eteree e sublimate; il motivo al commiato “Verranno a te sull’aure“, è, nella sua scoperta semplicità il più nostalgico e lancinante messaggio di tutto il teatro musicale romantico.

All’inizio della seconda parte una cupa introduzione orchestrale sembra alludere all’inganno ordito da Enrico, mentre l’arrivo di Lucia è proceduto da una querula frase dell’oboe. Nel duetto che segue la frase di Lucia: “Il pallor funesto orrendo“, ed il suo svolgimento, sembrano preludere ad una rivolta contro la durezza di Enrico. Ma l’accorato lamento: “Soffriva nel pianto“, con il quale Lucia accoglie la falsa notizia del tradimento di Edgardo, sancisce il crollo psicologico della vittima.

E’ notevole in questo duetto la risposta del baritono: “Un folle t’accese, un perfido amore“, giacchè l’ambiguità e la simulata sofferenza di Enrico vi trovano un eloquente tratteggio melodico.

Incastonata in un coro festoso l’arietta di Arturo è seguita da un recitativo melodico con il quale Donizetti, facendo intervenire a turno il tenore ed il baritono su un nitido motivo orchestrale, risolve con molta abilità lo scambio di convenevoli dei due futuri cognati.

L’ingresso di Lucia è accompagnato da una patetica melodia degli archi che funge da filo conduttore durante la cerimonia della firma del contratto nuziale. Poi, l’irruzione di Edgardo dà luogo a quel sestetto che è universalmente considerato come uno dei momenti fondamentali dell’opera. Il tema enunciato da Edgardo e da Enrico e ripreso da Lucia – con il sostegno della voce del basso – frena con la sua solenne ampiezza le passioni dei contendenti e le orienta verso la pietà per la vittima.

L’intervento di Alisa di Arturo e del coro, insieme alla sofferenza, questa volta autentica di Enrico, dilagano in un imponente finale legato da Donizetti con grande efficacia teatrale per l’mprovviso riaccendersi delle contrastanti passioni dei personaggi.

La maledizione di Edgardo, in cui la melodia è tesa fino a sfiorare il canto declamatorio, seguita dalla violenta risposta di Enrico, di Arturo e del coro, ed infine l’appasionata replica all’unisono di Edgardo e di Lucia, sono squarci di una intensa drammaticità.

All’inizio del secondo atto-parte seconda, troviamo un concentrato di luoghi comuni melodrammatici già ampiamente sfruttati dal teatro settencentesco, dalla descrizione dell’uragano al duetto della sfida. Tuttavia, la musica di Donizetti investe in questo tema molto sentito una violenza ed una foga che lo tramutano in uno dei più caratteristici squarci di romanticismo operistico.

Ricordo il clangore dell’uragano con la cupa e corrusca tavolozza orchestrale, i ritmi minacciosi e solenni che accompagnano le esplosioni d’ira di Edgardo o di Enrico: “Qui del padre ancor respira“, ed infine il motivo della sfida: “O sole, più ratto a sorger t’appresta“, sfociando in una scena di notevole effetto teatrale.

La ripresa del coro festoso, nella dimora degli Asthon, ed il larghetto, con il quale Raimondo narra il folle gesto di Lucia, è improntato ad un melodismo non trascendentale; riprende il coro con: “Oh, qual funesto avvenimento“, e da alcune patetiche frasi di Raimondo: “Ah, quella destra di sangue impura“, creando quella atmosfera di sbigottimento e dolore che è uno degli elementi fondamentali della grande scena della follia di Lucia.

Nella prima parte della lunga scena della pazzia, udiamo attraverso la mutevolezza del ritmo, che dall’andante di: “Il dolce suono mi colpì di sua voce“, passa all’allegro: “Ohimè! Sorge il tremendo fantasma“, e quindi al larghetto: “Sparsa è di rose“, e di nuovo all’andante: “Ah, l’inno suona di nozze!“, per poi giungere ad un altro laghetto: “Ardon gli incensi“, attraverso rapide divagazioni di allegri e di maestosi.

In Lucia noi troviamo l’essenza più tipica di quel melodramma romantico italiano del 1830, sconvolgente, tragico, espresso attraverso la lancinante levità delle cantilene; quindi, analizzando, non vuole essere che un estatico linguaggio lirico con i suoi sfoghi e le sue espansioni che il romanticismo ha trattato in chiave disperata, e quindi di violento realismo.

Il recitativo di Edgardo con cui chiude l’opera, abbandonandosi al proprio dolore, è uno dei più ispirati e vari dell’Ottocento operistico e il carattere arioso porta a sé l’immediata saldatura, per carattere e stile, con il larghetto: “Fra poco a me ricovero“. Da questo punto fino al suicidio di Edgardo, trionfa nuovamente l’elegiaca, quasi pastorale melodia delle cantilene. Il coro: “Fur le nozze a lui funeste“, le implorazioni di Edgardo: “Di chi mai, di chi piangete“, e: “Questo dì che sta sorgendo“, ed infine la cabaletta: “Tu che a Dio spiegasti l’ali“, si intrecciano in questa scena di morte, in una commozione che si risolve tutta in purezza e linearità di canto.

Ancora una volta la suggestione della donna angelicata ha elevato l’irriducibile Edgardo, al clima sublimato dalla melodia traboccante di soavità.

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Madama Butterfly (Puccini): analisi musicale https://cultura.biografieonline.it/analisi-madama-butterfly-puccini/ https://cultura.biografieonline.it/analisi-madama-butterfly-puccini/#comments Mon, 25 May 2015 10:05:52 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14373 Madama Butterfly è una delle più celebri opere del compositore italiano Giacomo Puccini. Quella che segue è un’analisi musicale, redatta per noi dal Maestro Pietro Busolini, di Trieste. Questo che state leggendo è il seguito di un precedente articolo, in cui è possibile leggere la storia e la trama dell’opera Madama Butterfly; nello stesso articolo è presente l’elenco dei personaggi.

Madama Butterfly - opera di Puccini

Analisi musicale dei tre atti di Madama Butterfly

Nel primo atto Puccini compie il suo massimo sforzo di ricostruzione pittorica ambientale, specialmente quando l’orchestra, in cui predominano i procedimenti, i ritmi, i temi e le scale orientali, procede alla coloratissima presentazione del parentado di Butterfly; mentre, com’è naturale, Pinkerton e Sharpless cantano secondo i tradizionali moduli Pucciniani.

Nel secondo e terzo atto si fa meno invadente l’ambientazione orientaleggiante, cui era dedicata tanta parte del primo: è come se Cio-cio-san, in una «casa americana», come ella dice, faccia sempre più spesso ricorso a invenzioni melodiche d’impronta occidentale, mentre la scrittura orchestrale e il gusto timbrico rimangono costantemente improntati a una ricercatezza estrema, a una sagacia di dosaggi, a una sensibilità per il particolare che molto debbono alla cultura musicale francese, (Debussy, ma anche Ravel).

La costruzione a tasselli, a brevi episodi, propria della prima parte dell’opera cede a più larghe campiture, a “quadri drammatici”, incentrati su situazioni emotive di ampio respiro, che inducono Puccini a strutturare l’atto secondo moduli, se vogliamo, più tradizionali.

Pensiamo alla celebrazione della speranza nell’aria “Un bel dì vedremo“, allo scontro tra realtà e illusione nel duetto Butterfly-Sharpless, all’affetto materno e all’ipotesi del suicidio raffigurati nella tragica sarabanda di: “Che tua madre“, come anche alla disposizione d’animo, fiduciosa e disperata della protagonista: “espressa dal coro a bocca chiusa”.

Notevole anche l’ampia pagina sinfonica, la più ambiziosa di tutta l’opera, che apre il terzo atto, in cui Puccini dà fondo a tutte le sue risorse di sapiente orchestratore, nonché di abile “costruttore a frammenti”. L’attesa di Cio-cio-san è descritta dall’orchestra attraverso un sagace impiego dei cosiddetti “ritorni logici“, dei temi degli atti precedenti, quasi un incomposto e intenso riaffiorare alla memoria e alla coscienza della donna di tutto un mondo di affetti, di momenti perduti, di sogni.

Analisi musicale generale

Nel suo insieme, il linguaggio musicale di Madama Butterfly non si allontana in modo clamoroso da quello di Bohème e Tosca: l’elemento di distinzione tra questa opera e le precedenti non è infatti da cercarsi nel melodismo puro e semplice, ma anzitutto nel cosiddetto “aggiornamento” armonico, che investe la scrittura orchestrale, (solo in parte anche la condotta vocale), facendo tesoro delle esperienze dei musicisti francesi.

Tuttavia il tessuto sinfonico Pucciniano, investito da una rigogliosa inventiva melodica, rivela l’autore italiano e si distacca nettamente dalla frantumazione cellulare di quello debussiano. E se non inedita era l’acclimatazione esotica, con l’uso di scale pentatoniche, esatonali, incomplete, ritmi di danza caratteristici, timbri strumentali, “locali”, assolutamente nuovo è il modo con cui Puccini si pone di fronte all’elemento ambiente, diverso il ruolo che assegna allo “sfondo”, in questa rinnovata drammaturgia.

Con Butterfly, il Maestro sente per la prima volta la necessità di una documentazione larga e minuziosa, e se inventa ex novo alcuni temi orientaleggianti, si cura che posseggano il particolare colorito di quelli originali, sì da costituire, musicalmente, un autentico polo d’attrazione – rispetto alle invenzioni melodiche “‘occidentali”.

Inoltre la quantità degli episodi, lo spazio concesso a questo tipo di pittura ambientale è enorme, specialmente nella versione primitiva: i dettagli di scena assumono un valore: “in sé”, sostituiscono l’azione, che, difatti, ristagna per lasciar posto a queste diffuse pennellate che sanciscono l’importanza dell’elemento decorativo, addirittura al di sopra della patetica vicenda umana.

Il ritmo di Butterfly , fin dal primo atto, è la lentezza quasi esasperante, con cui ogni momento della giornata, ogni pensiero, ogni turbamento, è dilatato come attraverso una lente d’ingrandimento, diventando un evento di straordinario rilievo e importanza, come le cose, le piccole cose che accompagnano la quotidiana vicenda della donna: una cintura, un piccolo fermaglio, un ventaglio, la lama con cui il padre si è suicidato, l’obi che vestì da sposa.

Madama Butterfly - una scena
Madama Butterfly – una scena

Questo tipo di frammentazione analitica dei vari momenti della storia, va di pari passo a una sorta di diffusione capillare della presenza di Butterfly in tutta l’opera, anche quando materialmente ella non compare. Essa è l’unico centro d’interesse, il costante riferimento per tutti gli altri personaggi, che vivono solo in funzione di lei.

Già il primitivo secondo atto si presentava come un lungo monologo interiore della protagonista femminile; le presenze del console e di Yamadori, gli interventi di Suzuki sono da leggersi come espedienti pratici, in omaggio a naturalistiche convenzioni teatrali: in effetti, Puccini, ce li fa sentire niente più che come fantasmi della memoria di Butterfly, che si presentano a lei provocandone moti e passioni, ma non posseggono una loro autonomia, né una spiccata caratterizzazione musicale; essi sono pervasi dallo stesso slancio, dalla stessa tenerezza di Butterfly (il buon console come l’antipatico Pinkerton, Yamadori come Kate: «Sotto il gran ponte del cielo/ non c’è donna di voi più felice»), cantano con gli accenti con cui ella li ricorda, li contempla, li trasfigura nella sua tenera mente che si rifiuta alla realtà.

Per questo ho ritenuto giusto definire quest’opera come uno stupendo “monodramma”, in cui la musica non si cura di altri personaggi, di un loro coerente svolgimento e verità psicologica, ma solo della storia interiore dell’unica protagonista; un monodramma in cui i parametri del teatro naturalista, adottati dal libretto, vengono fatti saltare attraverso il linguaggio musicale.

Giacomo Puccini
Giacomo Puccini

Assistendo a “Madama Butterfly” di Puccini, siamo di fronte a un dramma eminentemente psicologico, anzi psicoanalitico: fu questo davvero che sconvolse i frequentatori dei teatri d’opera del primo Novecento. E ancor più che le precedenti opere pucciniane, Butterfly era l’apoteosi del mito femminile, così cara a tutta la cultura di fine Ottocento, realizzata con i moderni metodi dell’analisi.

Strano che questa storia freudiana fosse a scriverla un italiano e non un musicista di estrazione mitteleuropea, come ad esempio Richard Strauss; ma i tempi per creare un teatro che non fosse di emblemi, ma di uomini e donne palpitanti, “veri”, non erano ancora pronti. Allora nella soddisfatta Germania di Guglielmo II, la borghesia si recava all’opera con l’idea di trovare raffigurato un mondo platonico, iperumano a cui astrattamente tendere.

Allora i musicisti cercavano la via dell’identificazione fra storie rappresentate e pubblico presente in sala; ma Puccini si spingeva con questa opera “subdolamente antica” ancora più in là: egli indicava i modi attraverso cui sarebbe giunto, assai più tardi, a comprendere il suo estraniamento dalla realtà.

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