Modi di dire Archivi - Cultura https://cultura.biografieonline.it/argomento/modi-di-dire/ Canale del sito Biografieonline.it Wed, 18 Sep 2024 15:52:01 +0000 it-IT hourly 1 Perché si dice “mettere le corna” o “avere le corna”? https://cultura.biografieonline.it/perche-si-dice-mettere-o-avere-le-corna/ https://cultura.biografieonline.it/perche-si-dice-mettere-o-avere-le-corna/#comments Wed, 18 Sep 2024 15:49:45 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7567 Nel linguaggio comune mettere le corna equivale a “tradire il proprio partner”, mentre “avere le corna” è lo stato in cui si trova il poveretto che viene tradito ed è vittima del fedifrago.

Il significato di queste due espressioni è condiviso in alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia.

Qual è l’origine di questi modi di dire per intendere rispettivamente il compiere e il subire adulterio?

mettere le corna, avere le corna
Da dove deriva il modo di dire avere o mettere le corna

Il mito del Minotuaro

L’ipotesi più accreditata risale all’antica civiltà greca.

Si racconta che la moglie del re di Creta Minosse, chiamata Pasifae, si invaghì di un toro dalla rara bellezza che era stato inviato in dono da Poseidone al re per essere sacrificato.

Il re Minosse, accortosi della straordinaria bellezza dell’animale, decise di sacrificarne un altro al suo posto.

Ciò scatenò l’ira di Poseidone, che pensò di vendicarsi.

La vendetta fu di far innamorare Pasifae del toro, tanto da farla impazzire per la passione.

La donna infatti, per potersi congiungere carnalmente con il toro, chiese a Dedalo di costruire una mucca di legno.

Dall’unione tra Pasifae e il toro nacque il Minotauro, famoso personaggio leggendario dell’antica mitologia greca.

Da qual giorno gli abitanti di Creta cominciarono a salutare il re Minosse facendo il segno delle corna per schernirlo del tradimento di sua moglie con il toro.

=> Leggi anche: frasi sul tradimento <=

Il Minotauro in una foto mitologica
Una raffigurazione del mitologico Minotauro

Le corna

Però in genere anticamente le corna non avevano una valenza negativa.

Anzi, le divinità e i personaggi più in vista venivano spesso rappresentati con le corna in testa per evidenziare la virilità e il coraggio.

Per esempio a Roma esisteva la nobile famiglia dei Cornelii.

I poeti latini Tibullo e Orazio dedicarono versi alle “corna d’oro” del Dio Bacco.

Leonardo da Vinci - Bacco - 1510-1515
Leonardo da Vinci, Bacco, 1510-1515

Quando, invece, le corna cominciarono ad assumere il connotato negativo che gli diamo noi oggi?

A partire da quando dire “cornuto” a qualcuno diventa un insulto?

I cornuti

La storia narra di un imperatore bizantino, chiamato Andronico I Comneno, che era un tipo poco raccomandabile, violento e con il vizio delle donne.

L’imperatore non era ben visto né dalla sua famiglia, né dai sudditi, sia perché tramava contro lo stesso impero, sia perché era capace di portarsi a letto qualsiasi donna volesse.

Dal 1183 al 1185 Andronico Comneno conquistò il potere e cominciò ad accanirsi contro i sudditi, soprattutto contro chi lo avversava.

Oltre a fare imprigionare chiunque senza alcuna ragione, l’imperatore rapiva le donne e le manteneva come concubine fino a quando non si stancava.

Poi faceva appendere sui muri delle case dei poveri mariti delle teste di cervi per burlarsi di loro.

Dal 1185 in poi cherata poiein in greco significò “mettere le corna” per indicare lo scherno pubblico subito dai poveri mariti sudditi dell’imperatore Andronico.

Quando i soldati del re  Guglielmo II il Normanno entrarono nella città di Salonicco e videro le corna appese sui muri e le finestre di alcuni palazzi, ne chiesero il motivo.

L’epiteto “cornuto” raggiunse così la terra di Sicilia, poi il resto d’Italia e infine altri Paesi europei.

Dopo la caduta di Salonicco nelle mani dell’esercito siciliano, i sudditi-cornuti di Andronico insorsero contro di lui.

Dopo essere stato catturato e seviziato, l’imperatore venne appeso alla facciata del suo palazzo: una punizione esemplare per le sue nefandezze.

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Che cosa significa il motto “festina lente”? https://cultura.biografieonline.it/festina-lente/ https://cultura.biografieonline.it/festina-lente/#comments Wed, 04 Sep 2024 16:44:44 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=3643 “Festina lente” significa “affrettati lentamente” ed unisce due concetti divergenti, velocità e lentezza. La frase è attribuita all’Imperatore Augusto dallo scrittore latino Gaio Svetonio Tranquillo, nel suo testo “Vita di Augusto, 25, 4”; essa sta ad indicare un modo di agire senza indugi, ma con cautela.

Festina lente: il simbolo della tartaruga con la vela
Festina lente: il simbolo della tartaruga con la vela

Un ossimoro

“Festina lente” è un ossimoro, ovvero un accostamento di due termini contraddittori. Questa contraddizione è intenzionale e serve a sottolineare l’importanza di un equilibrio tra velocità e cautela nell’agire.

Oltre il significato letterale

Il significato va oltre la semplice esortazione a fare le cose in fretta ma con calma. Implica la necessità di agire con determinazione ma senza precipitarsi, ponderando bene ogni passo.

Secoli dopo

Nel XVI secolo, Cosimo I de’ Medici, secondo duca di Firenze ed in seguito primo granduca di Toscana, associò questo motto al simbolo di una tartaruga con la vela, facendone l’emblema della sua flotta.

La tartaruga, caratterizzata dall’estrema lentezza, simboleggia la prudenza.

La vela, che spinge la nave gonfiata dal vento, simboleggia l’azione.

All’interno del Palazzo Vecchio a Firenze, su soffitti e pavimenti, sono presenti molte raffigurazioni di questo emblema.

Anche il celebre stampatore veneziano Aldo Manuzio scelse questo motto, sottolineando così la sua attenzione alla qualità e alla precisione nella produzione dei suoi libri.

L’uso contemporaneo di “Festina lente” oggi, fa di questo motto un’espressione ancora attuale e viene utilizzato in diversi ambiti, dallo sport alla politica, per sottolineare l’importanza di un approccio equilibrato e ponderato.

Il bisogno di equilibrare fretta e cautela è una necessità umana universale, che trascende epoche e culture.

In un mondo sempre più frenetico, “festina lente” ci ricorda l’importanza di pianificare le nostre azioni e di non lasciarci trasportare dall’impazienza.

Questo motto ci invita a concentrarci sulla qualità dei nostri risultati piuttosto che sulla velocità con cui li otteniamo.

Altre curiosità

Il brand di orologi Festina trae il nome proprio da questo motto, sottolineando la sua filosofia di coniugare precisione e stile.

L’immagine della tartaruga con la vela è stata ripresa e reinterpretata da numerosi artisti nel corso dei secoli, diventando un’icona dell’arte e della cultura occidentale.

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Piantare in asso: perché si dice così? (ci sono diverse cose curiose) https://cultura.biografieonline.it/piantare-in-asso/ https://cultura.biografieonline.it/piantare-in-asso/#comments Wed, 24 Jul 2024 08:11:49 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=21244 Vi siete mai chiesti da dove deriva il modo di dire piantare in asso? Il primo pensiero e la prima associazione figurativa – probabilmente – rimanda alla carta da gioco tanto cara al poker, l’asso. Ma potrebbe non centrare nulla. Vediamo perché. Innanzitutto ricordiamo che chi viene piantato in asso è una persona solitamente lasciata a sé stessa, da un momento all’altro. Il significato del detto – o del modo di dire – è proprio quello dell’abbandono senza preavviso.

L’asso

Secondo il Dizionario etimologico della Lingua italiana (di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, 1999), il detto in esame va probabilmente ricondotto al gioco delle carte o dei dadi. In questo contesto l’asso è interpretato come la carta di valore 1, e il significato del modo di dire “piantare in asso” è quello di “realizzare il punto più basso”.

Si trova un’analoga spiegazione anche nel Vocabolario etimologico della lingua italiana (di Ottorino Pianigiani, 1907). Secondo questa interpretazione l’asso viene lasciato – abbandonato inaspettatamente, magari in modo brusco – in quanto costituisce il punto peggiore possibile nel gioco. A sostegno di questa tesi vi è anche il detto tedesco “im Stich lassen” (lasciare in punto), la cui frase e concetto sono equivalenti.

Piantare in asso o piantare in Nasso: etimologia

In realtà “piantare in asso” è la forma errata (alterazione linguistica) di “piantare in Nasso”, che si presume si sia modificata nel tempo. Stiamo parlando di tempo immemore, in quanto la correlazione all’isola di Nasso ci catapulta indietro fino alla mitologia greca.

La leggenda di Arianna – celebre per avere suggerito a Teseo di entrare nel labirinto del Minotauro dipanando un filo – termina con il suo abbandono sull’isola di Nasso. Ad abbandonarla – o… piantarla – fu proprio l’amato Teseo, con cui inizialmente fuggì e di cui si innamorò. Esistono diverse versioni sulle motivazioni dell’abbandono; vedasi: L’abbandono di Arianna.

Arianna a Nasso – Piantare in asso
Arianna a Nasso (opera di Evelyn De Morgan, 1877)

Nell’italiano colloquiale il toponimo esotico Nasso si sarebbe trasformato in un più comune asso. Troviamo richiami a questa tesi anche in diversi libri di Luciano De Crescenzo: “Le donne sono diverse” (1999), “I grandi miti greci” (1999) e “Ulisse era un fico” (2010).

In lingua italiana si può definire piantare in asso come polirematica: si tratta di una unità sintattica significativa autonoma (o sintagma). La locuzione pertanto assume un significato autonomo rispetto ai singoli termini che costituiscono il modo di dire.

Come lo dicono gli altri

Oltre al già citato tedesco, è curioso vedere come anche le altre lingue esprimono lo stesso concetto. In inglese: leaving somebody in the lurch (oppure leave somebody stranded). In francese: laisser quelqu’un tomber. In spagnolo: dejar a alguien en la estacada.

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Canta che ti passa: da dove deriva il modo di dire? https://cultura.biografieonline.it/perche-si-dice-canta-che-ti-passa/ https://cultura.biografieonline.it/perche-si-dice-canta-che-ti-passa/#respond Fri, 26 Apr 2024 15:05:14 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=1740 Il modo di dire “canta che ti passa” pare che derivi da un incisione fatta su una trincea durante la Prima Guerra Mondiale da un soldato sconosciuto.

Piero Jahier

Piero Jahier, scrittore e poeta italiano nato nel 1884 e arruolato nel 1916 come volontario negli Alpini con il grado di sottotenente, lo cita nell’epigrafe della sua raccolta di Canti di soldato pubblicata nel 1919, che si ispira al periodo passato in trincea.

Nella raccolta, firmata con lo pseudonimo di Pietro Barba, Jahier parla del “buon consiglio che un fante compagno aveva graffiato nella parete della dolina: canta che ti passa”. Un modo di dire ai giorni nostri molto diffuso per invitare a superare con il canto le preoccupazioni che la vita quotidianamente presenta.

Tra l’altro è noto che nel Corpo militare degli Alpini vi sia una lunga tradizione di canti.

Il canto nell’antichità

La forza del canto è nota sin dall’antichità: Orfeo, figura della mitologia greca, con il suono della sua lira e del suo canto, ammansiva le bestie feroci, dava vita alle rocce e agli elementi della natura, resisteva alla forza seduttrice delle sirene.

Canta che ti passa
Incisione dell’artista Virgilius Solis raffigurante Orfeo – 16° secolo

Anche un verso del poeta e scrittore italiano Francesco Petrarca cita:

Perché cantando il duol si disacerba
(Canzoniere, XXIII, 4)

Cosa dice la scienza

Oggi, la scienza conferma quanto già intuito in passato: il canto ha effetti positivi sul corpo e sulla mente.

Riduce lo stress, l’ansia e la tensione, abbassa la pressione sanguigna e rinforza il sistema immunitario.

Inoltre, stimola la produzione di endorfine, le “molecole della felicità”, migliorando l’umore e il senso di benessere.

cantare in cucina - canta che ti passa

Quindi, la prossima volta che ti senti giù, prova a cantare! Potresti sorprenderti di quanto ti faccia bene.

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Perché si dice: “Carpe Diem”? https://cultura.biografieonline.it/perche-si-dice-carpe-diem/ https://cultura.biografieonline.it/perche-si-dice-carpe-diem/#comments Thu, 25 Apr 2024 19:44:52 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2310 Carpe diem” è una locuzione tratta dalle Odi del poeta latino Quinto Orazio Flacco, noto comunemente come Orazio (Odi I, 11, 8). Letteralmente “Cogli il giorno” ma tradotta generalmente con “Cogli l’attimo”, oltre ad essere una delle più celebri citazioni latine, è anche una delle filosofie di vita più conosciute nella storia.

Quinto Orazio Flacco
Quinto Orazio Flacco

Il verso di Orazio

Il verso oraziano completo cita:

Dum loquimur fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero

tradotto:

Mentre parliamo il tempo invidioso sarà già fuggito. Cogli il giorno, confidando il meno possibile nel domani”.

Una filosofia in due parole

Questa filosofia si basa sul fondamento che all’uomo non è concesso di conoscere il futuro, né di predeterminarlo. Potendo agire solo sul presente, l’uomo deve concentrarsi sull’oggi, cogliendo le opportunità e le gioie di ogni giorno, senza essere condizionato da pensieri verso il futuro.

Questo pensiero è stato egregiamente proposto nel film del 1989, “L’attimo fuggente”, interpretato da Robin Williams.

È un invito a vivere il presente con intensità e ad apprezzare ciò che si ha, perché il futuro è incerto e il tempo passa inesorabilmente.

Il concetto espresso da “carpe diem” non si limita a un semplice invito all’edonismo o alla spensieratezza.

Si tratta piuttosto, come dicevamo, di una filosofia di vita che ci incoraggia a vivere ogni giorno al massimo delle nostre possibilità, perseguendo i nostri sogni e obiettivi senza lasciarci sopraffare dai timori o dalle incertezze del futuro.

Carpe Diem
Carpe Diem

Perché “carpe diem” è ancora oggi un motto attuale

  • Ci ricorda la brevità della vita
    Il tempo è un bene prezioso e non rinnovabile, e dobbiamo imparare ad apprezzarlo al meglio. Non possiamo tornare indietro nel passato e non possiamo sapere cosa ci riserva il futuro, quindi è importante vivere il presente con intensità.
  • Ci incoraggia a non rimandare
    Spesso tendiamo a rimandare le cose che ci piacerebbe fare o che sappiamo di dover fare, per paura o per pigrizia. Ma rimandare non fa che peggiorare le cose e ci fa perdere tempo prezioso. “Carpe diem” ci spinge ad agire e a non sprecare le nostre occasioni.
  • Aiuta a concentrarci sul positivo
    La vita è piena di sfide e difficoltà, ma è importante non perdersi d’animo e concentrarsi sugli aspetti positivi. “Carpe diem” ci ricorda che ci sono sempre motivi per essere felici e grati, anche nei momenti più bui.
  • Ci incoraggia a vivere con autenticità
    Non dovremmo vivere la nostra vita cercando di accontentare gli altri o di conformarci alle aspettative sociali. “Carpe diem” ci spinge ad essere fedeli a noi stessi e a vivere la nostra vita in modo autentico.

In definitiva, “carpe diem” è un invito a vivere la vita al massimo e a non sprecare neanche un attimo.

È un messaggio di speranza e di positività che può aiutarci a superare le difficoltà e a raggiungere i nostri obiettivi.

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Fare le cose alla carlona: cosa vuol dire e perché si dice? https://cultura.biografieonline.it/fare-le-cose-alla-carlona/ https://cultura.biografieonline.it/fare-le-cose-alla-carlona/#comments Mon, 15 Jan 2024 14:36:23 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=9310 Con il detto fare le cose alla carlona, usato soprattutto nell’area lombarda, si indica l’affrontare le cose in modo superficiale, alla buona, senza cura, in modo trasandato e grossolano.

Le origini del detto

L’origine di tale modo di dire risale al periodo degli anni in cui regnava l’Imperatore Carlo Magno (742-814), denominato appunto Carlone.

Egli viene rappresentato nei vari poemi cavallereschi come un uomo goffo, malaccorto nelle sue azioni e semplice, che ama indossare abiti non pregiati ma caratterizzati da stoffa rozza.

Carlo Magno - fare le cose alla carlona
Carlo Magno : il modo di dire “fare le cose alla carlona” deriva dal suo nome

Lo stile dell’Imperatore

Si racconta che anche quando l’Imperatore Carlo Magno doveva essere ritratto, indossava sempre vestiti non alla portata del suo rango, usando uno stile non consono ad un Imperatore, bensì uno stile più vicino a quello di un plebeo.

Leggenda: la battuta di caccia

La leggenda narra che ad una battuta di caccia, l’Imperatore Carlo Magno, si presentò tra lo stupore generale dei partecipanti, che indossavano per l’occasione abiti da caccia e sfarzosi, con un abito dimesso, fatto di ruvida stoffa indossata solitamente dai contadini.

L’Imperatore, accortosi dello stupore dei presenti, disse a quel punto che il suo abbigliamento un po’ rozzo non era casuale, serviva alla bisogna.

Di lì a poco, si scatenò un violento temporale e Carlo Magno fu l’unico a passare indenne alla tempesta. Gli eleganti cacciatori si inzupparono, rovinando i loro abiti preziosi, ridotti alla fine in un pessimo stato.

A questo punto l’Imperatore fece notare ai partecipanti alla battuta di caccia, di essere totalmente asciutto grazie ai suoi abiti umili e di stoffa grezza.

Da quel giorno in poi, si cominciò ad usare il modo di dire: essere vestiti alla carlona.

Il significato oggi

Il termine indica inoltre altri concetti simili:

  • fare le cose in modo veloce, sbrigativo e alla meno peggio possibile;
  • fare qualcosa senza curarne i dettagli;
  • essere una persona alla buona (“quello è un tipo alla carlona”)

Ed infine può significare anche essere troppo ingenui.

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Testa o croce: da dove deriva, come si dice in inglese, è veramente imparziale? https://cultura.biografieonline.it/perche-si-dice-testa-o-croce/ https://cultura.biografieonline.it/perche-si-dice-testa-o-croce/#comments Fri, 27 Oct 2023 15:11:44 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2011 Da dove deriva il termine testa o croce
1 lira del 1863
1 lira del 1863: faccia raffigurante “testa”
1 lira del 1863
1 lira del 1863: faccia raffigurante “croce”

Il termine testa o croce è molto comune e si utilizza quando si deve effettuare una scelta tra due possibilità, utilizzando la tecnica del lancio di una moneta.

Associando la propria scelta alla testa o alla croce, decretiamo quella ottenuta a seconda di quale faccia della moneta sarà mostrata dopo averla lanciata in aria (o averla presa al volo tra le mani).

Questa tecnica cambia il suo nome in base alle raffigurazioni presenti sulle facce delle monete utilizzate.

Il nome che attribuiamo comunemente in Italia deriva dalle monete raffiguranti il volto del re e il simbolo cristiano della croce.

Nell’antica Roma si chiamava “navis aut caput” (nave o testa), in quanto su alcune monete romane era raffigurata una nave su un lato e la testa dell’imperatore dall’altro.

Testa o croce

Come si dice testa o croce in inglese

  • In inglese “head or tail” (testa o coda), testa del monarca e coda del leone araldico;

Come si dice negli altri paesi

  • in Germania, “Kopf oder Zahl” (testa o numero), dato che su di un lato della moneta era indicato il valore della stessa;
  • in Irlanda, “heads or harps” (teste o arpe), in quanto questo strumento musicale è raffigurato sulle monete molto spesso;
  • in Brasile, “cara ou coroa” (faccia o corona);
  • in Messico “águila o sol” (aquila o sole);
  • in Russia “орёл или ре́шка” (aquila o l’altro simbolo);
  • ad Hong Kong testa o parola, dato che sulle monete il valore è scritto per esteso.

È veramente imparziale?

La logica farebbe pensare – e prevedere – che il lancio di una moneta porti al 50% di possibilità che esca Testa, e al 50% di possibilità che esca Croce.

Una ricerca del 2023 dimostra che la pratica del lancio della monetina non è imparziale.

Quando gettiamo in aria una monetina, il lato che guarda verso l’alto prima del lancio, vince nel 50,8% dei casi.

La ricerca sperimentale è stata condotta dall’università di Amsterdam, sotto la guida professor Eric-Jan Wagenmakers.

Il prof ha arruolato prima 5 studenti, che hanno compiuto 15mila lanci ciascuno, registrando i risultati. Poi ha accolto altri volontari, per un totale di 48. Questi hanno gettato in aria 46 dischi di valute diverse: i test registrati sono stati 350.757.

L’imparzialità del lancio della moneta era già stata messa in discussione e smontata matematicamente nel 2007. Allora, Persi Diaconis, Susan Holmes e Richard Montgomery della Stanford University (due matematici e uno statistico) elaborarono un loro modello.

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Dopo di noi il diluvio: da dove viene questo modo di dire https://cultura.biografieonline.it/dopo-di-noi-il-diluvio-origini/ https://cultura.biografieonline.it/dopo-di-noi-il-diluvio-origini/#respond Wed, 20 Sep 2023 16:19:37 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=41473 Dopo di noi, il diluvio è un modo di dire italiano. A volte lo stesso detto si ritrova nella forma: Dopo di noi la tempesta.

Sai da dove viene questo modo dire?

Le origini sono curiose.

Scopriamole assieme in questo breve articolo di approfondimento.

Coppia di sposi sotto un diluvio
Coppia di sposi sotto un diluvio

Dopo di noi il diluvio: significato

La frase è la traduzione dell’originale francese:

Après nous, le déluge.

L’espressione sta a indicare che dopo la propria morte le cose andranno a finire male.

La morte può essere intesa come reale o anche metaforica.

Pronunciando questa frase viene dimostrato il disinteresse verso per il destino del prossimo.

Da un’altra angolazione il detto dopo di noi il diluvio può assumere un significato un poco differente. Può essere cioè legato all’avvicinamento di una rivoluzione; qualcosa che potrebbe cambiare le cose in modo decisamente significativo.

Un esempio: tale frase può considerare che dopo la caduta di un regime non vi può essere che il caos e la devastazione.

Le origini della frase

Après nous, le déluge è una frase attribuita a Jeanne-Antoinette Poisson, che la storia ricorda come Madame de Pompadour, favorita del re di Francia Luigi XV.

Luigi XV di Francia
Luigi XV di Francia
Madame de Pompadour
Madame de Pompadour

Ella pronunciò la frase con l’intenzione di sollevare il morale al suo amante in seguito alla sconfitta di Rossbach.

La frase era di fatto un invito a non pensare alle drammatiche conseguenze.

La battaglia di Rossbach

Il 5 novembre 1757 a Rossbach avvenne una battaglia. La località è presente oggi in Sassonia-Anhalt, in Germania. Il re di Prussia Federico il Grande sconfisse le truppe franco-austriache al comando del principe di Soubise (1715 – 1787), coadiuvato dal comandante delle truppe della coalizzata Austria, feldmaresciallo Giuseppe Federico di Sassonia-Hildburghausen.

Lo scontro segnò il punto di svolta nella Guerra dei sette anni: da allora il confronto militare con la Francia sarebbe rimasto confinato alle terre della Germania occidentale.

Usi celebri dell’espressione

Lucio Battisti

Il modo di dire è presente nella canzone Il diluvio di Lucio Battisti, contenuta nell’album Don Giovanni (1986). Il testo è di Pasquale Panella, e inizia così:

Dopo di noi diluvierà
non spioverà, va bene
Noi la fortuna degli ombrellai
Chili di liquidi dopo di noi
Va bene, come vuoi. dopo di noi
Diluvierà, non spioverà
Dopo di noi: il diluvio
Vittime fa l’ottima idea
d’essere noi finali

Sposi sotto il diluvio

Valéry Giscard d’Estaing e Valentino

Il 20° Presidente della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing, dopo la sconfitta elettorale del 1981pronunciò un ultimo discorso. Seguì un copione scenografico che venne poi definito come un’evocazione del modo di dire Dopo di noi il diluvio. L’evento è ricordato anche da Valentino Garavani rivolto al collega Karl Lagerfeld nel docu-film del 2008 Valentino: The Last Emperor.

Marx e Il Capitale

Karl Marx scrisse ne Il capitale (Vol. 1, Parte III, Capitolo Otto, Sezione 5):

Après moi, le déluge! è la parola d’ordine di ogni capitalista e di ogni nazione capitalista. Quindi il capitale non si cura della salute o della durata della vita del lavoratore, a meno che non sia costretto dalla società.

Dostoevskij

Fëdor Dostoevskij nel romanzo I fratelli Karamazov fa pronunciare la frase “Après moi, le déluge” a un personaggio.

Si tratta del procuratore Ippolìt Kirìllovič che durante il processo contro Dmìtrij Karamàzov stigmatizza i principi morali del padre di quest’ultimo, Fjòdor Pàvlovic Karamàzov, giudicato completamente disinteressato verso la sorte dei suoi figli.

La Piovra

Infine, la citazione è presente nella 6ª e ultima puntata dello sceneggiato “La Piovra 2”: viene pronunciata in una scena tra il commissario Corrado Cattani (Michele Placido) e il prof. Gianfranco Laudeo (Paul Guers).

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Laudator temporis acti: cosa significa https://cultura.biografieonline.it/laudator-temporis-acti-significato/ https://cultura.biografieonline.it/laudator-temporis-acti-significato/#respond Mon, 31 Jul 2023 09:39:23 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=41345 Qual è il significato e perché si dice: laudator temporis acti

È una frase celebre e simbolica in lingua latina. Laudator temporis acti significa “lodatore del tempo passato”.

L’espressione viene da Orazio (Quinto Orazio Flacco), poeta lirico e scrittore satirico dell’antica Roma che visse nel primo secolo a. C.

L’opera da cui è tratta è l’Ars poetica, altrimenti conosciuta come Epistola ai Pisoni (Epistula ad Pisones).

Laudator Temporis Acti
Laudator Temporis Acti

Anziani che furono fanciulli

L’espressione completa sarebbe laudator temporis acti se puero : lodatore del tempo passato, quando egli era fanciullo.

Orazio sottolinea una caratteristica umana attribuendola a un malanno dell’età senile.

Oggi tale frase si usa per riferirsi al carattere conservatore o tradizionalista di una persona – non necessariamente anziana.

Tale espressione sottolinea l’animo di chi non accetta le novità, mostrando nostalgia per il passato.

Orazio
Orazio

Le persone anziane, secondo Orazio, spesso e in modo noioso parlano del loro tempo passato e della loro esperienza, quando tutto andava meglio che nel presente.

Tale atteggiamento si può anche riassumere con il detto: si stava meglio quando si stava peggio.

Orazio è inoltre autore del celebre detto Carpe Diem.

Laudator temporis acti e l’Ars poetica

L’opera di Orazio da cui è tratta la frase laudator temporis acti è di fatto una corrispondenza epistolare che spesso si fa rientrare nel secondo libro delle Epistole, anche se di per sé non ne fa parte.

È un trattato sulla poesia, paragonabile solo alla Poetica di Aristotele.

Orazio in quest’opera sostiene la ripresa della poesia e del teatro greco. Sottolinea inoltre l’importanza del labor limae, concetto che oggi chiamiamo lavoro di cesello; una rigida e attenta ricerca della perfezione con continue revisioni.

Appare chiaro nell’Ars poetica di Orazio, come l’autore consideri il precetto aristotelico che vede la poesia come un organismo vivente.

L’opera:

  • dà suggerimenti su come creare uno stile perfetto;
  • spiega come si deve sempre usare una lingua facile da capire;
  • sottolinea come il poeta deve saper distribuire ogni particolare in modo appropriato senza spingersi al di là delle proprie capacità.

Esprime un principio; per comporre una poesia sono necessarie due cose:

  1. la genialità dell’ispirazione;
  2. l’arte per elaborare un componimento in perfetto stile.

Il testo da cui è tratta la frase

Ecco il passaggio completo del testo dove compare la nostra frase:

Multa senem circumueniunt incommoda, uel quod
quaerit et inuentis miser abstinet ac timet uti,
uel quod res omnis timide gelideque ministrat,
dilator, spe longus, iners auidusque futuri,
difficilis, querulus, laudator temporis acti
se puero, castigator censorque minorum.

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Perché si dice parlare a vanvera. Cos’è la vanvera? https://cultura.biografieonline.it/parlare-a-vanvera/ https://cultura.biografieonline.it/parlare-a-vanvera/#comments Fri, 26 May 2023 08:12:26 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=25916 Con l’espressione “Parlare a vanvera” si indica una situazione in cui si pronunciano parole senza un vero fine. Si potrebbe comunemente tradurre in “parlare a caso” o “parlare a casaccio”, quindi senza considerare ciò che si sta dicendo. Un altro modo di dire analogo a questo potrebbe essere “dare fiato alla bocca”. Ma torniamo all’espressione parlare a vanvera e alle sue origini.

Questa locuzione avverbiale compare per la prima volta a cavallo tra il Medioevo e l’era moderna.

Nel 1565 lo storico fiorentino Benedetto Varchi in un suo testo spiega il significato con l’azione di dire cose senza senso o senza fondamento.

Anche Francesco Serdonati, poligrafo toscano vissuto tra il XVI e il XVII secolo, alla lettera P dei suoi “Proverbi” (successivi al 1610) ci dice che “a vanvera” veniva già usato insieme al verbo “parlare”.

Etimologia

L’Accademia della Crusca ci spiega che vanvera è un termine che non esiste come sostantivo, ma solo in quanto parte della locuzione “a vanvera”. Perciò si può legare di volta in volta ad altri verbi, in vari contesti.

Si può quindi cucinare a vanvera; ci si può pettinare o vestire a vanvera; si può studiare a vanvera, cicalare a vanvera, correre a vanvera, tagliare a vanvera; e a vanvera si può poetare o recitare. È possibile inoltre tacere o pensare a vanvera; e ancora vanverare o vanvereggiare.

Sono note varianti regionali, in particolare nel pisano e nel lucchese, dove si usano le espressioni “a cianfera” e “a bámbera”. Quest’ultima è una locuzione di probabili origini spagnole, con la quale s’intendeva una perdita di tempo.

Oggi gli etimologisti sono più propensi a credere che vanvera sia una variante di “fanfera”, una parola di origine onomatopeica che significa “cosa da nulla” (fanf-fanf riproduce il suono di chi parla farfugliando, senza pertanto dire nulla di sensato). In origine vi sarebbe il suono fan-fan, tipico delle trombe militari. Fanfarone si dice infatti di persona che si comporta da millantatore o spaccone.

Parlare a vanvera. Parlare a caso, senza considerare quel che si dica. Dicesi anche: parlare in aria. Cioè: senza fondamento, senza senso, a caso, senza riflettere.

La vanvera

L’ampio ventaglio dell’applicazione dell’espressione ha dato origine anche a usi fantasiosi, fino ad arrivare a interpretazioni colorite e volgari. Esiste un oggetto chiamato piritera o anche vanvera, simile all’antico prallo. Fu molto in voga presso gli aristocratici veneziani e napoletani del XVII secolo.

Parlare a vanvera

La vanvera poteva essere da passeggio o da letto: la sua funzione era quella di risolvere i disturbi gastrointestinali dal punto di vista… sociale. Spieghiamo meglio il concetto definendo di seguito la funzione degli strumenti.

Il prallo

Si tratta di un oggetto antico a forma di uovo, di ceramica o di legno, dotato di due fori comunicanti. Tale uovo durante i lunghi banchetti degli aristocratici veniva infilato nel pertugio anale al fine di attenuare l’effetto dei miasmi delle flatulenze. Al suo interno vi si infilavano delle erbe odorose. Il gas nell’attraversare il prallo provocava una curiosa nota musicale tipo trombetta o fischietto.

La piritera

Di simile utilizzo del prallo era la piritera. Essa non andava appoggiata ai glutei bensì aveva una cannula per essere infilata direttamente nell’ano.

La vanvera da passeggio

L’oggetto era costruito in pelle di vari colori ed era diviso in quattro parti.

Vanvera da passeggio
Vanvera da passeggio

La prima parte, per aderire completamente alle natiche era fatta a coppa, realizzata su misura. Questa comunicava attraverso un collo ad una vescica che riceveva i gas intestinali. Essa terminava con un pertugio munito di chiusura con spago, per consentirne lo sfiato.

L’utilizzatore che soffriva di meteorismo, ma che si trovava nella necessità di uscire in società, la indossava sotto il mantello oppure sotto la gonna. Ogni rumore veniva attenuato ed ogni odore evitato. Una volta isolati si poteva aprire lo spago.

vanvera

Oggigiorno questi tipi di oggetto suscitano ilarità. E’ bene ricordare che il termine vanvera non deriva però da quest’ultimo strumento descritto. E’ piuttosto il contrario: lo strumento prende il nome vanvera proprio per l’assonanza onomatopeica del “parlare all’aria”.

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