Mitologia Archivi - Cultura https://cultura.biografieonline.it/argomento/letteratura/mitologia/ Canale del sito Biografieonline.it Sun, 10 Nov 2024 09:51:35 +0000 it-IT hourly 1 Il mito della caverna di Platone https://cultura.biografieonline.it/mito-della-caverna-platone/ https://cultura.biografieonline.it/mito-della-caverna-platone/#respond Sun, 10 Nov 2024 09:51:33 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=36047 Il mito della caverna è uno dei miti di Platone più famosi in assoluto. Esso fa parte del libro VII de La Repubblica, un’opera filosofica in forma dialogica che ha come tema centrale la giustizia e come protagonista Socrate. Il mito è sicuramente uno dei testi fondamentali della cultura occidentale. Da esso sono partite tante correnti di pensiero e interpretazioni che arrivano fino ai giorni nostri.

Illustrazione che spiega l'allegoria del mito della caverna di Platone
Illustrazione che spiega l’allegoria del mito della caverna di Platone

Come è fatta la caverna

Socrate racconta a Glaucone il mito della caverna proprio all’inizio del VII libro. Egli gli chiede di immaginare che alcune persone vivano, dalla nascita, in una caverna, incatenate mani e piedi senza neanche muovere il collo. Esse non vedono l’apertura perché non possono girarsi e sono rivolte verso la parete di fondo.

Alle loro spalle c’è un fuoco che fa luce. A separarli c’è un piccolo muretto. Lungo il muro altri uomini portano oggetti, persone e piante la cui ombra viene proiettata nella parete difronte. Qualunque persona si trovi a passare per la caverna si potrebbe accorgere che si tratta di semplici ombre. I prigionieri invece non lo sanno e pensano che le ombre che vedono, siano in realtà oggetti reali.

La scoperta del mondo esterno

Se uno di questi uomini venisse liberato, innanzitutto sarebbe accecato dalla luce proveniente dall’apertura, che lui però non ha mai visto. Una volta passata questa sensazione, inizierebbe a guardare le ombre delle cose, i riflessi e poi tutto il resto: i paesaggi, il cielo, la natura. Così capirebbe che il mondo non è quello che lui e i suoi compagni erano abituati a vedere.

Dopo essersi reso conto della situazione in cui si trovava precedentemente, sarebbe tornato nella caverna per raccontare ai compagni la sua verità, con lo scopo di liberarli.

Gli altri prima si mostrerebbero increduli poi, addirittura, lo prenderebbero in giro, fino a volerlo uccidere, deridendolo per il suo assurdo racconto.

Mito della caverna: spiegazione

Dopo aver terminato il racconto, Socrate spiega a Glaucone il significato del mito.

Esso è un’allegoria della situazione che, secondo Platone, vivono gli uomini e della scoperta della realtà delle cose.

La caverna rappresenta la prigione, cioè il mondo conoscibile, tutto ciò che si trova intorno agli uomini.

Nella caverna è difficile vedere il sole, che rappresenta il bene; esso però brilla all’esterno della caverna. Gli uomini secondo Platone, sono quindi tenuti prigionieri e costretti ad osservare solo le ombre delle cose, che invece si trovano all’esterno.

Il prigioniero liberato è il filosofo che, attraverso un percorso lungo e complesso, riesce a vedere la realtà delle cose ma non viene accettato dagli altri al suo ritorno nella caverna. Il filosofo, infatti, è l’unico in grado di governare sugli altri con giustizia.

La teoria filosofica dietro il mito

Platone si riferisce al processo che Socrate subì. Il mito della caverna infatti è la metafora della vita del filosofo che conobbe la verità, ma venne ucciso per averla raccontata a tutti gli uomini.

Inoltre, secondo Platone, il mondo che noi percepiamo è soltanto una copia, una rappresentazione mentale di quello perfetto, il mondo delle idee – che sono immutabili e possono essere conosciute solo dai filosofi.

Il filosofo quindi ha un ruolo fondamentale all’interno della società.

Interpretazioni

Il mito della caverna è uno dei più famosi della cultura occidentale e l’idea della liberazione dalle catene, così come della conseguente conoscenza della realtà, ha sempre fatto parte delle tematiche più importanti di tutte le arti.

Ci sono state molteplici rappresentazioni in chiave moderna del mito, soprattutto in campo cinematografico

Basti pensare a due film cult:

Nel primo, il protagonista  sembra vivere una vita apparentemente normale. In realtà poi scopre che si trattava di uno show televisivo di cui lui era l’inconsapevole protagonista.

Ascoltami Truman, là fuori non troverai più verità di quanta non ne esista nel mondo che ho creato per te… le stesse ipocrisie, gli stessi inganni; ma nel mio mondo tu non hai niente da temere.

Christof, dal film “The Truman Show”

Nella saga di Matrix, gli uomini vengono sfruttati dalle macchine, credendo di vivere liberamente, quando in realtà il mondo non esiste più da un centinaio di anni ed essi si trovano in una condizione di prigionia.

Il mito della caverna, quindi, non è soltanto un racconto di liberazione di un prigioniero ma il fondamento della cultura europea, che ha spinto letterati e filosofi ad interrogarsi sempre di più sulla vita umana.

caverna

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Perché si dice “mettere le corna” o “avere le corna”? https://cultura.biografieonline.it/perche-si-dice-mettere-o-avere-le-corna/ https://cultura.biografieonline.it/perche-si-dice-mettere-o-avere-le-corna/#comments Wed, 18 Sep 2024 15:49:45 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7567 Nel linguaggio comune mettere le corna equivale a “tradire il proprio partner”, mentre “avere le corna” è lo stato in cui si trova il poveretto che viene tradito ed è vittima del fedifrago.

Il significato di queste due espressioni è condiviso in alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia.

Qual è l’origine di questi modi di dire per intendere rispettivamente il compiere e il subire adulterio?

mettere le corna, avere le corna
Da dove deriva il modo di dire avere o mettere le corna

Il mito del Minotuaro

L’ipotesi più accreditata risale all’antica civiltà greca.

Si racconta che la moglie del re di Creta Minosse, chiamata Pasifae, si invaghì di un toro dalla rara bellezza che era stato inviato in dono da Poseidone al re per essere sacrificato.

Il re Minosse, accortosi della straordinaria bellezza dell’animale, decise di sacrificarne un altro al suo posto.

Ciò scatenò l’ira di Poseidone, che pensò di vendicarsi.

La vendetta fu di far innamorare Pasifae del toro, tanto da farla impazzire per la passione.

La donna infatti, per potersi congiungere carnalmente con il toro, chiese a Dedalo di costruire una mucca di legno.

Dall’unione tra Pasifae e il toro nacque il Minotauro, famoso personaggio leggendario dell’antica mitologia greca.

Da qual giorno gli abitanti di Creta cominciarono a salutare il re Minosse facendo il segno delle corna per schernirlo del tradimento di sua moglie con il toro.

=> Leggi anche: frasi sul tradimento <=

Il Minotauro in una foto mitologica
Una raffigurazione del mitologico Minotauro

Le corna

Però in genere anticamente le corna non avevano una valenza negativa.

Anzi, le divinità e i personaggi più in vista venivano spesso rappresentati con le corna in testa per evidenziare la virilità e il coraggio.

Per esempio a Roma esisteva la nobile famiglia dei Cornelii.

I poeti latini Tibullo e Orazio dedicarono versi alle “corna d’oro” del Dio Bacco.

Leonardo da Vinci - Bacco - 1510-1515
Leonardo da Vinci, Bacco, 1510-1515

Quando, invece, le corna cominciarono ad assumere il connotato negativo che gli diamo noi oggi?

A partire da quando dire “cornuto” a qualcuno diventa un insulto?

I cornuti

La storia narra di un imperatore bizantino, chiamato Andronico I Comneno, che era un tipo poco raccomandabile, violento e con il vizio delle donne.

L’imperatore non era ben visto né dalla sua famiglia, né dai sudditi, sia perché tramava contro lo stesso impero, sia perché era capace di portarsi a letto qualsiasi donna volesse.

Dal 1183 al 1185 Andronico Comneno conquistò il potere e cominciò ad accanirsi contro i sudditi, soprattutto contro chi lo avversava.

Oltre a fare imprigionare chiunque senza alcuna ragione, l’imperatore rapiva le donne e le manteneva come concubine fino a quando non si stancava.

Poi faceva appendere sui muri delle case dei poveri mariti delle teste di cervi per burlarsi di loro.

Dal 1185 in poi cherata poiein in greco significò “mettere le corna” per indicare lo scherno pubblico subito dai poveri mariti sudditi dell’imperatore Andronico.

Quando i soldati del re  Guglielmo II il Normanno entrarono nella città di Salonicco e videro le corna appese sui muri e le finestre di alcuni palazzi, ne chiesero il motivo.

L’epiteto “cornuto” raggiunse così la terra di Sicilia, poi il resto d’Italia e infine altri Paesi europei.

Dopo la caduta di Salonicco nelle mani dell’esercito siciliano, i sudditi-cornuti di Andronico insorsero contro di lui.

Dopo essere stato catturato e seviziato, l’imperatore venne appeso alla facciata del suo palazzo: una punizione esemplare per le sue nefandezze.

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Nascita di Venere: spiegazione e interpretazione dell’opera di Botticelli https://cultura.biografieonline.it/venere-botticelli/ https://cultura.biografieonline.it/venere-botticelli/#comments Thu, 29 Aug 2024 13:11:10 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17241 Se il concetto di bellezza è per sua natura mutevole e indefinibile, nel tempo risiede l’antidoto che impedisce alla beltà espressa nell’arte di invecchiare e tramutarsi in una lode effimera. La Venere, realizzata da Sandro Botticelli tra il 1482 e il 1485, tracciò con i suoi lunghi capelli e le longilinee gambe affusolate, l’inizio di un periodo glorioso per l’arte italiana, connotando il canone di una bellezza eternamente fulgente e proclamando un’innovazione in pieno spirito rinascimentale. Realizzata per la famiglia de’ Medici, la “Nascita di Venere“, sviluppò in se stessa gli ideali classici che, nel risveglio nell'”humana conscientia“, ritornarono a popolare le tele dei migliori pittori di corte italiani ed europei.

Nascita di Venere (Venere di Botticelli, Birth of Venus)
La “Nascita di Venere” (1482-1485, opera spesso indicata anche come “Venere di Botticelli“) è un dipinto a tempera su tela di lino (172 cm × 278 cm) esposto agli Uffizi di Firenze. Per bellezza, intensità, poesia e notorietà, è di fatto un’opera simbolo per l’intera epoca del Rinascimento.

Per chi fosse interessato ad ammirare in una sola immagine ciò che sotto il nome di Rinascimento riempie libri interi, può concedersi il lusso di un contatto diretto con la storia della Firenze rinascimentale visitando la Galleria degli Uffizi.

Nascita di Venere: analisi dell’opera con note tecniche e descrittive

Dalla pelle chiara e dai lunghi capelli dorati, Venere sorse dalle acque schiumose di un mare sconosciuto e, nascondendo con la folta chioma divina le pudiche membra, si eresse misteriosa e timida nella sua identità mitologica e manchevole di ogni umana volgarità.
Nell’immagine surreale e pagana di una vita che scorga da una conchiglia, dal cielo piovono rose, generate, secondo la leggenda, dal mite vento primaverile.

La neonata Venere si esibisce timorosamente al mondo e reggendosi su unico piede, contribuisce alla messa in scena del concetto classico di “contrapposto”, con spalle e gambe ruotate rispetto al busto, espediente che conferisce un portamento più sciolto e rilassato.
Il valore classico della pudicizia è rimarcato dalla giovane donna che, avvolta nello splendido abito ricamato a fiordalisi, soccorre la Venere con un mantello quasi a voler a proteggere universalmente il senso del pudore.

La fanciulla che arriva dalla riva è un’Ora (custode dell’Olimpo) e viene in questo caso rappresentata dal Botticelli senza le altre sorelle, innovando e contrastando la versione proposta dalla letteratura mitologica. La giovane donna è cinta al petto da un tralcio di rose identico a quello presente nella “Primavera“, con uno scollo abbellito da ghirlande di mirto, la pianta sacra a Venere.

La Primavera di Botticelli
Primavera (Sandro Botticelli, 1482 circa) – Tempera su tavola, dipinto per la villa medicea di Castello. Conservata a Firenze, nella Galleria degli Uffizi – E’ possibile notare le somiglianze dell’abito della figura femminile sulla destra, cinto di fiori, con la Nascita di Venere.

Il drappo si apre ad accogliere il corpo nudo e tenero della dea; si tratta di un mantello regale dalla lucente e preziosa bellezza della seta vermiglia, ricamata con sottili e raffinati decori floreali.

Mentre Zefiro, Brezza – in alcuni casi identificata con la ninfa Clori, la futura sposa di Zefiro – e l’Ora rivolgono i propri sguardi verso Venere, questa si offre sottomessa alla vista dell’osservatore; gli occhi languidi dalle pupille dilatate e la testa reclinata si oppongono alla tradizionale vocazione classica che invece permea il resto della composizione pittorica.
Gli occhi velati di una triste malinconia, come molti degli altri elementi estremamente naturalistici, elargiscono alla tela fiorentina un’armoniosa bellezza e una potente simbologia.

Un dettaglio della Nascita di Venere (Venere di Botticelli)
Un dettaglio del quadro: i volti e gli sguardi di Zefiro, Brezza (o Clori), e la Venere di Botticelli

Nella rappresentazione di una nascita sovrumana dalle origini violente e divine, Botticelli considerò l’archetipo della “Venere pudica” e della “Afrodite anadyomenē” di echi notoriamente classicheggianti.

Dal punto di vista tecnico Botticelli si servì, inconsuetamente per l’epoca, di una tela di lino su cui stendendo un’imprimitura a base di gesso accorse all’uso di una tempera magra, sperimentando sia l’uso della tecnica a pennello che a “missione”.

Nascita di Venere: la genesi dell’opera

Risulta grandemente difficoltoso definire con certezza, in modo definitivo e approfondito, la storia di questo straordinario capolavoro. Vasari citò per la prima volta l’opera botticelliana nel 1550: la “Nascita di Venere” era collocata nella Villa di Castello del Duca Cosimo dove

“due quadri figuranti, l’un, Venere che nasce, e quelle aure e venti che fanno venire in terra con gli Amori; e così un’altra Venere, che le Grazie la fioriscono, dinotando la primavera; le quali da lui con grazia si veggono espresse” (VASARI).

La Venere di Poliziano incontra la Venere di Botticelli

Angelo Poliziano (1454-1494) nell’opera incompiuta conosciuta come “Stanze de messer Angelo Poliziano cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de Medici” (1475) anticipava di qualche anno il tema classico e mitologico dell'”Afrodite anadyomenē” (Ἀφροδίτη Ἀναδυομένη, nascente dal mare), ripreso dal Botticelli solo nel 1482, si profilò come il più adeguato a racchiudere lo spirito del proprio tempo, divenendo, di fatti, l’emblema del primo Rinascimento fiorentino.

Vale la pena riportare un breve estratto dell’opera nella quale Poliziano, sposando l’oraziano “Ut pictura poësis”, redige con delle pennellate fatte di poesia il Regno di Venere, quello che Botticelli (1445-1510) renderà in sinfonie di colori e profumate atmosfere:

“Al regno ov’ogni Grazia si diletta,
ove Biltà di fiori al crin fa brolo,
ove tutto lascivo, drieto a Flora,
Zefiro vola e la verde erba infiora.”
(Poliziano, Il Regno di Venere, Stanza 68)

Simonetta Vespucci: la musa botticelliana

Che cosa induce la nascita di un capolavoro? L’ispirazione spesso fluisce dai più alti emisferi del pensiero umano, intrecciandosi con gli ideali e spesso ricondotta in una forma visibile grazie alla “divina” mano dell’artista. Scultori e pittori rendono visibile l’invisibile, tramutando gli ideali in simbologie e le simbologie in forme e colori.

Quando l’inteligentia è toccata dal mirabile spirito dell’amore, che già di per sé è una forma d’arte, il merito dell’artista è semplicemente quello di aver prestato alla sua arte la bellezza di un volto già esistente.

È questo il caso di Simonetta Vespucci (1453-1476), musa ispiratrice di Botticelli, che inondò di ammirazione i cuori di chi ebbe la fortuna di incontrarla, tanto da prestare i suoi bei connotati alla sposa di Efesto, Venere.

La Vespucci fu l’amante di Giuliano de’ Medici nel segno di un’immagine simbolo di ciò che nell’ideale collettivo incarna il Rinascimento, ma al di là di Botticelli, Simonetta, ispirò opere teatrali e musicali, serbando per sempre la sua giovane anima nel cuore dell’arte e di chi l’amò.

Il dettaglio del viso della Venere di Botticelli
Foto dettagliata del volto poetico della Nascita di Venere, dipinto dalle sapienti mani Sandro Botticelli

Note bibliografiche

  • G. Lazzi, Simonetta Vespucci: la nascita della venere fiorentina, Polistampa, Firenze, 2010
  • E. L. Buchoholz, G. BÜhler, K. Hille, S. Kaeppelle, I. Stotland, Storia dell’arte, Touring Editore, Milano, 2012
  • G. Vasari, Le opere di Giorgio Vasari pittore e architetto aretino, Davide Passigli e soci, Firenze, 1832-2838
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Piantare in asso: perché si dice così? (ci sono diverse cose curiose) https://cultura.biografieonline.it/piantare-in-asso/ https://cultura.biografieonline.it/piantare-in-asso/#comments Wed, 24 Jul 2024 08:11:49 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=21244 Vi siete mai chiesti da dove deriva il modo di dire piantare in asso? Il primo pensiero e la prima associazione figurativa – probabilmente – rimanda alla carta da gioco tanto cara al poker, l’asso. Ma potrebbe non centrare nulla. Vediamo perché. Innanzitutto ricordiamo che chi viene piantato in asso è una persona solitamente lasciata a sé stessa, da un momento all’altro. Il significato del detto – o del modo di dire – è proprio quello dell’abbandono senza preavviso.

L’asso

Secondo il Dizionario etimologico della Lingua italiana (di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, 1999), il detto in esame va probabilmente ricondotto al gioco delle carte o dei dadi. In questo contesto l’asso è interpretato come la carta di valore 1, e il significato del modo di dire “piantare in asso” è quello di “realizzare il punto più basso”.

Si trova un’analoga spiegazione anche nel Vocabolario etimologico della lingua italiana (di Ottorino Pianigiani, 1907). Secondo questa interpretazione l’asso viene lasciato – abbandonato inaspettatamente, magari in modo brusco – in quanto costituisce il punto peggiore possibile nel gioco. A sostegno di questa tesi vi è anche il detto tedesco “im Stich lassen” (lasciare in punto), la cui frase e concetto sono equivalenti.

Piantare in asso o piantare in Nasso: etimologia

In realtà “piantare in asso” è la forma errata (alterazione linguistica) di “piantare in Nasso”, che si presume si sia modificata nel tempo. Stiamo parlando di tempo immemore, in quanto la correlazione all’isola di Nasso ci catapulta indietro fino alla mitologia greca.

La leggenda di Arianna – celebre per avere suggerito a Teseo di entrare nel labirinto del Minotauro dipanando un filo – termina con il suo abbandono sull’isola di Nasso. Ad abbandonarla – o… piantarla – fu proprio l’amato Teseo, con cui inizialmente fuggì e di cui si innamorò. Esistono diverse versioni sulle motivazioni dell’abbandono; vedasi: L’abbandono di Arianna.

Arianna a Nasso – Piantare in asso
Arianna a Nasso (opera di Evelyn De Morgan, 1877)

Nell’italiano colloquiale il toponimo esotico Nasso si sarebbe trasformato in un più comune asso. Troviamo richiami a questa tesi anche in diversi libri di Luciano De Crescenzo: “Le donne sono diverse” (1999), “I grandi miti greci” (1999) e “Ulisse era un fico” (2010).

In lingua italiana si può definire piantare in asso come polirematica: si tratta di una unità sintattica significativa autonoma (o sintagma). La locuzione pertanto assume un significato autonomo rispetto ai singoli termini che costituiscono il modo di dire.

Come lo dicono gli altri

Oltre al già citato tedesco, è curioso vedere come anche le altre lingue esprimono lo stesso concetto. In inglese: leaving somebody in the lurch (oppure leave somebody stranded). In francese: laisser quelqu’un tomber. In spagnolo: dejar a alguien en la estacada.

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Giasone e il vello d’oro spiegato bene https://cultura.biografieonline.it/giasone-vello-oro/ https://cultura.biografieonline.it/giasone-vello-oro/#comments Tue, 23 Apr 2024 05:44:04 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14795 Figlio di Esone, ma dalla madre incerta, Giasone è di Iolco e appartiene alla discendenza di Eolo. A Iolco c’è Pelia, zio di Giasone, che ha usurpato il regno ad Esone e governa al posto suo. Un’altra versione del racconto mitologico “Giasone e il vello d’oro” ritiene invece che questi sia stato investito della “reggenza” fino a quando Giasone non fosse in grado di regnare a tutti gli effetti.

Giasone e il vello d'oro
Giasone e il vello d’oro

La storia di Giasone

Intanto il giovane Giasone cresce sotto la guida del Centauro Chirone, dal quale apprende con passione ed entusiasmo la disciplina medica. Una volta diventato adulto, Giasone torna nel suo paese natio indossando abiti piuttosto bizzarri, con una lancia in mano ed un piede sprovvisto di calzare. Mentre lo zio Pelia è intento ad offrire sacrifici agli Dei nella piazza del paese, Giasone irrompe e lo fa spaventare.

L’uomo era stato avvisato da un oracolo che sarebbero arrivate sventure per conto di un uomo con un piede privo di calzare. Giasone reclama il trono che spetta a suo padre Esone ma Pelia gli dice che sarà disposto a cederglielo soltanto a patto che il nipote gli riporti il magico vello d’oro, la pelle di ariete dorato che re Eeta custodisce nella Colchide.

Il sovrano a sua volta aveva ricevuto il vello d’oro in dono da Frisso. Per riuscire nell’impresa, che si prospetta alquanto ardua, Giasone si avvale dell’aiuto di un gruppo di eroi, gli Argonauti, con i quali parte a bordo della nave Argo. Il gruppo di eroi è formato da: Ila, Eracle, Zete e Calaide, Filottete, Meleagro, Telamone, Polluce e Castore, Orfeo, Peleo, Mopso, Idmone, Eufemo ed Issione. Il re Eeta dice a Giasone di cedergli il vello d’oro a condizione che superi tre difficili prove.

Argonauti
La spedizione degli argonauti (1484 – 1490) • Museo degli Eremitani, Padova • Quadro di Lorenzo Costa (Ferrara, 1460 – Mantova 1535)

Appena apprende l’entità delle prove Giasone si scoraggia parecchio, ma ecco che intervengono le divinità ad aiutarlo. In particolare, Afrodite chiede a suo figlio Eros di fare innamorare di Giasone la figlia del re Eeta, di nome Medea, in modo che questa lo aiuti a portare a termine la sua impresa.

Le tre prove

Ecco quali sono le prove che Giasone deve superare per conquistare il vello d’oro.

Prova I

La prima prova cui Giasone viene sottoposto consiste nell’arare un campo di grano con l’ausilio di due tori che emanano fiamme dalle narici con le unghia di bronzo e nell’aggiogare lo strumento. Medea, innamoratasi di lui per intercessione del dio dell’amore Eros, dà a Giasone una pomata che lo rende impermeabile alle fiamme ardenti lanciate dai terribili animali.

Prova II

La seconda prova consiste nel seminare i denti di un drago all’interno di un campo appena arato. I denti dell’animale avrebbero generato, con i germogli, una vera e propria armata di guerrieri. Ancora una volta l’aiuto di Medea è provvidenziale per il superamento della prova: la donna lancia un sasso in mezzo ai guerrieri che, non sapendo da dove arriva, si scontrano l’uno con l’altro, uccidendosi reciprocamente.

Prova III

La terza prova vede Giasone impegnato ad uccidere il drago messo a custodia del vello d’oro. Medea fornisce all’amato una pozione ricavata da alcune erbe che fa addormentare il drago e dà la possibilità a Giasone di appropriarsi dell’ambito vello.

Giasone - Il drago e il vello d oro
Giasone e la terza prova: uccidere il drago che protegge il vello d oro

Una volta recuperato il vello, Giasone fugge a bordo della nave Argo insieme a Medea, che intanto ha rapito il fratello minore Apsirto. Poiché Eeta si è messo sulle loro tracce, Medea uccide il fratellino e ne getta i resti in mare. Il re si ferma per raccoglierli perdendo così di vista l’imbarcazione che intanto procede nel suo viaggio.

La fine di Giasone

A punire il comportamento di Medea e Giasone interviene però Zeus, che per vendicare l’uccisione del piccolo Apsirto invia violente tempeste sulla rotta della Argo per farle perdere l’orientamento.

La restante vita di Giasone è raccontata come triste e solitaria, poiché innamorandosi di un’altra donna, attira su di sé l’ira e la vendetta di Medea.

L’uomo muore mentre si trova all’interno dell’Argo ormai obsoleta e fatiscente.

L’opera principale che racconta le imprese di Giasone è il poema epico “Le Argonautiche” dello scrittore Apollonio Rodio (risalente al III secolo a. C.).

Il personaggio di Giasone lo si trova anche nell’ottavo cerchio dell’Inferno della “Divina Commedia” di Dante Alighieri, quello in cui si trovano i fraudolenti (Canto VIII).

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Il mito di Amore e Psiche: spiegazione, riassunto e commento https://cultura.biografieonline.it/amore-psiche-mitologia/ https://cultura.biografieonline.it/amore-psiche-mitologia/#comments Tue, 26 Mar 2024 06:09:44 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=20532 Il mito di Amore e Psiche è nato molti secoli fa ed ha avuto una grande diffusione soprattutto nell’epoca greco-romana. La prima testimonianza scritta, però, è quella presente nelle Metamorfosi di Apuleio.

Apuleio fu uno scrittore latino di origini africane che visse nel secondo secolo dopo Cristo.

La favola ebbe l’apice del successo soprattutto nell’età ellenistica.

La sua fama è durata nel tempo, attraverso i secoli. Basti pensare che sono numerosissime e vaste le rappresentazioni musicali, letterarie e artistiche ad essa dedicate.

Il mito di Amore e Psiche - mitologia - Cupido - Eros

Riassunto della storia: Amore e Psiche, il mito

Amore e Psiche è una storia d’amore tra Psiche, una fanciulla bellissima che però non riesce a trovare marito, e Amore, il figlio della dea della bellezza Venere.

La dea, infatti, gelosa della bellezza della ragazza che stava oscurando la propria, invia il figlio Amore (detto anche Eros o Cupido) a scoccare una freccia per far innamorare di lei l’uomo più brutto della terra. Cupido, però, sbaglia la mira e si punge, innamorandosi perdutamente della fanciulla.

Nel frattempo i genitori di lei, per risolvere il problema della ricerca del marito, la portano da un oracolo che gli consiglia di lasciare Psiche ai bordi di una rupe e aspettare che venga presa dal vento Zefiro, che avrà cura di consegnarla al futuro marito.

Psiche viene trascinata così in un palazzo e, piena di paura, attende la notte e l’arrivo del suo sposo. Non sa che, invece dell’uomo più brutto della terra, è andata in sposa al dio Amore.

I due vivono una grande passione che si consuma però solo di notte, in quanto Cupido non vuole far sapere nulla alla madre Venere per non scatenare la sua ira.

Psiche, istigata dalle sorelle, ha la curiosità di vedere in volto il suo sposo. Ella non l’ha mai visto perché questi arriva soltanto di notte. Munita di una lampada ad olio, una notte decide di illuminare il viso di Cupido. Con una goccia di olio bollente, lo ustiona e lo fa svegliare. Egli, deluso per la troppa curiosità di Psiche, scappa via.

Le prove di Psiche

La ragazza tenta il suicidio, ma le viene impedito di morire dagli dei. Inizia così a vagare di città in città, alla ricerca del suo Amore perduto. Ad un certo punto, si imbatte in un tempio di Venere, dove decide di fermarsi per placare le ire della dea.

Venere decide di sottoporla a numerose prove, che hanno come premio finale il ritorno del suo amato Cupido.

  1. La prima prova consiste nel suddividere un grande mucchio di grano in tante parti diverse. Essa non tenta di superare la prova ma, mentre piange sconfortata, viene aiutata da alcune formiche nel lavoro.
  2. La seconda prova è forse ancora più complicata della prima. Psiche deve recuperare la lana di alcune pecore dal vello d’oro. Ingenuamente, essa si avvicina a loro ma viene avvertita da un cane parlante che è meglio non provare a toccarle di giorno, perché sono delle belve terrificanti. Grazie al consiglio del cane, Psiche si reca di notte a recuperare la lana che è rimasta incastrata tra gli arbusti.
  3. L’ultima prova è la più difficile. Psiche viene costretta a scendere agli inferi per recarsi dalla dea Proserpina, che le darà una boccetta della sua bellezza. Al ritorno, però, in preda alla curiosità, apre l’ampolla e cade in un sonno profondo.

A questo punto Amore arriva in suo aiuto.

Egli chiede a Zeus, il padre degli dei, di poterli riunire per sempre.

Dopo tutte queste prove, i due innamorati sono finalmente liberi di amarsi, questa volta per l’eternità.

Commento

Il mito di Amore e Psiche è stato molto amato e studiato nel corso di tutte le epoche storiche.

Diverse sono state le interpretazioni.

Su tutte bisogna ricordare la seguente

Amore sarebbe la rappresentazione del desiderio del piacere e Psiche (che in greco significa “anima” e anche “farfalla“) quella dell’anima.

Altre interpretazioni, anche religiose, si sono susseguite nel corso dei secoli.

Il mito è stato di ispirazione ai più grandi letterati, poeti e artisti.

Si pensi alla favola (Les Amours de Psyché et Cupidon) che ne trasse Jean de La Fontaine, poeta e scrittore francese che visse alla corte del Re Sole (Luigi XIV) nel 1600.

Diverse sono poi le versioni romanzate, impossibili da nominare tutte perché numerosissime.

Tra queste, anche molte scritte da autori italiani, come Raffaele La Capria (1973).

amore e psiche antonio canova
Il mito di Amore e Psiche: la scultura di Antonio Canova è una delle più celebri sculture al mondo e una delle più rappresentative dell’intera storia dell’Arte.

La celebre scultura

Artisticamente non si può non ricordare l’opera omonima, la scultura Amore e Psiche, di Antonio Canova, attivo tra il XVIII e il XIX secolo. Oggi conservata al Louvre, è una delle sculture tra le più ammirate e fotografate, non solo del museo parigino ma forse dell’Europa intera.

Quadri, libri, opere liriche e persino fumetti sono stati dedicati alla grande storia d’amore tra Amore e Psiche, che è in grado di affascinare il lettore oggi, come allora.

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Le 12 fatiche di Ercole https://cultura.biografieonline.it/ercole-12-fatiche/ https://cultura.biografieonline.it/ercole-12-fatiche/#comments Fri, 24 Nov 2023 11:52:47 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=22264 Le 12 fatiche di Ercole, detto Eracle in greco, sono delle storie che fanno parte della mitologia greca. Si ipotizza che siano state unite in un unico racconto chiamato L’Eracleia dall’autore Pisandro di Rodi, intorno al 600 a.C. Purtroppo però nulla si sa di certo perché questo testo è andato perduto. Certamente sappiamo che le storie sono state tramandate oralmente e sicuramente in un primo momento in maniera distinta. Esse raccolgono tutte quelle imprese che l’eroe Ercole ha dovuto compiere per espiare il peccato di aver ucciso sua moglie e i suoi figli durante un attacco d’ira. Tale condizione fu scatenata dalla dea Era per gelosia nei suoi confronti.

Ercole - Eracle - Dodici fatiche - Leone di Nemea - 12 fatiche di Ercole
Illustrazione: Ercole sconfigge il Leone di Nemea nella prima delle sue dodici fatiche. Esiste anche un riferimento astrologico con la Costellazione del Leone.

La nascita di Ercole

Ercole nacque da una relazione tra sua madre Alcmena, moglie di Anfitrione re di Tirinto, e Zeus, re degli dei. Quest’ultimo si innamorò della fanciulla e, per possederla, decise di assumere le sembianze del marito per una notte, così da potersi introdurre nel suo letto senza destare sospetti. Da questa relazione nacque Eracle, chiamato poi Ercole nella mitologia romana. Era, la moglie di Zeus, era molto gelosa del bambino che suo marito aveva avuto da un’altra donna e per questo rese la vita impossibile al fanciullo sin da quando aveva una tenera età. Mise due serpenti velenosi nella culla del bambino, che però fu così forte – la forza è la caratteristica principale dell’eroe Eracle – che riuscì ad ucciderli.

L’Oracolo di Delfi

L’ira di Era non si placò nel corso degli anni, anzi restò sempre vivida: fu a causa sua che l’eroe ebbe un attacco di rabbia e, in preda a questo sentimento, uccise la moglie Megara e i loro otto figli. Dopo questo evento, egli volle suicidarsi ma il suo amico Teseo e il re Tespio lo convinsero a recarsi presso l’oracolo di Delfi per purificarsi.

L’Oracolo consigliò all’eroe di mettersi al servizio del re di Argo, Micene e Tirinto, Euristeo. Egli fu colui che gli ordinò di eseguire le dodici fatiche, nell’arco dei dodici anni in cui sarebbe rimasto al suo servizio. Euristeo era però la persona che aveva usurpato il trono, posto che sarebbe invece spettato di diritto ad Ercole. L’eroe quindi provava un forte risentimento nei confronti di Euristeo. Se avesse superato queste prove, Eracle-Ercole avrebbe ottenuto l’immortalità.

Le 12 fatiche di Ercole: l’elenco

Le dodici imprese che Ercole dovette compiere sono nell’ordine:

  1. L’uccisione del leone di Nemea

    Eracle doveva cercare questo leone che terrorizzava la gente e che viveva nella zona compresa tra Micene e Nemea. Riuscì nell’intento strangolandolo con la forza delle sue mani. Con la pelle dell’animale (che aveva il dono dell’invulnerabilità) si cucì poi un mantello.

  2. L’uccisione dell’immortale Idra di Lerna

    Questo mostro, l’Idra di Lerna, era un serpente enorme che viveva in una palude. Aveva sette teste e non appena venivano recise, ricrescevano. Ercole riuscì a sconfiggerlo bruciando i tronconi da cui spuntavano le teste e schiacciandolo con un masso.

  3. La cattura della cerva di Cerinea

    La cerva era l’animale sacro ad Artemide, dea della caccia, e aveva il potere di incantare chiunque la inseguisse, conducendolo in luoghi dai quali non avrebbe più fatto ritorno. Ercole riuscì a condurre la cerva di Cerinea al re, ferendola leggermente. Euristeo rimase stupito della riuscita dell’impresa. Rimise poi la cerva in libertà per non far infuriare la dea Artemide.

  4. La cattura del cinghiale di Erimanto

    Ercole riuscì a catturare il feroce cinghiale di Erimanto che stava devastando la regione dell’Attica.

  5. Ripulire in un giorno le stalle di Augia

    Le stalle di Augia non venivano pulite da circa trent’anni. Ercole riuscì a portare a termine l’impresa in un solo giorno, deviando il corso di un fiume.

  6. La dispersione degli uccelli del lago Stinfalo

    Gli uccelli stavano devastando la regione del lago di Stinfalo cibandosi di carne umana. Erano uccelli mostruosi, con penne, becco ed artigli di bronzo. Con le loro penne che fungevano da dardi erano capaci di trafiggere mortalmente le loro vittime. Avevano inoltre un finissimo senso dell’udito. Ercole per sconfiggerli sfruttò proprio questa caratteristica. La dea Atena donò all’eroe delle potenti nacchere (o sonagli) di bronzo, il cui suono rese i mostruosi uccelli vulnerabili. Uccise così buona parte dello stormo utilizzando frecce avvelenate con il sangue dell’Idra di Lerna. Gli uccelli sopravvissuti invece volarono via per sempre.

  7. La cattura del toro di Creta

    L’eroe riuscì a catturare la terribile bestia, il toro di Creta, che stava creando molti problemi nell’isola. Vi riuscì grazie all’utilizzo di una particolare rete da lui costruita.

  8. Il rapimento delle cavalle di Diomede

    Le terribili cavalle di Diomede venivano nutrite con carne umana. Ercole riuscì a catturarle dopo aver ucciso il proprietario. Questi venne divorato dai suoi stessi animali.

  9. La presa della cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni

    La richiesta relativa alla nona fatica di Ercole venne da Admeta, figlia di Euristeo. Ella desiderava la bellissima cintura d’oro della regina delle Amazzoni, Ippolita. L’oggetto, che le era stato donato dal padre Ares, la rendeva fortissima. Ercole partì con alcuni eroi, tra cui Teseo (anch’egli protagonista di 6 mitologiche fatiche), e riuscì ad ottenere la preziosa cintura dopo una battaglia con le terribili donne guerriere. Queste erano inoltre state spinte da Era ad odiarlo.

  10. Il rapimento dei buoi di Gerione

    Gerione fu un mostro con tre teste e sei braccia. I suoi buoi erano ben custoditi ai confini del mondo allora conosciuto. Ercole separò due monti e vi piantò due colonne (le colonne d’Ercole, oggi identificate con lo stretto di Gibilterra) pur di raggiungere gli animali. Nonostante una dura lotta con Gerione, riuscì nell’intento.

  11. La presa delle mele d’oro nel giardino delle Esperidi

    Ercole riuscì ad ottenere le preziose tre mele d’oro, scoprendo dove si trovava il giardino delle Esperidi. Lo fece mettendo in atto un tranello di cui fu vittima Atlante, l’unico a sapere l’esatta ubicazione del luogo.

  12. Portare vivo Cerbero a Micene

    Ercole riuscì con la forza delle sue mani a domare Cerbero, il terribile cane a tre teste che era posto a guardia degli inferi. Una volta giunto a Micene con Cerbero, il re Euristeo però ebbe così tanta paura dell’animale che ordinò ad Ercole di riportarlo indietro. Colpito dal suo coraggio, il re decise che era arrivato il momento di far terminare le fatiche di Ercole, liberando l’eroe dalla sua prigionia.

Le dodici fatiche di Ercole - Ercole e le tre mele d'oro - Eracle e Atlante
A sinistra Ercole con i tre pomi d’oro. A destra Atlante, che sorregge il mondo sulle sue spalle.

La metafora delle dodici fatiche di Ercole

Le 12 fatiche di Ercole possono essere interpretate come metafora di un cammino spirituale e di purificazione. Esse sono 12 perché nella più famosa rappresentazione scultorea nel tempio greco dedicato a Zeus ad Olimpia, sono appunto rappresentate in 12 metope (elementi architettonici del fregio dell’ordine dorico dell’architettura greca e romana).

Le leggende che circolavano intorno all’eroe e alle sue dodici fatiche, divennero poi famose nel corso dei secoli. Esse sono state narrate in particolare nella Teogonia di Esiodo e in numerose tragedie, sia di Sofocle che di Euripide. La fama dell’eroe Eracle-Ercole è rimasta intatta fino ai giorni nostri, grazie al suo coraggio e alla sua forza ma soprattutto al suo voler sfidare la morte.

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Caos e ordine: il mito greco https://cultura.biografieonline.it/caos-ordine-mitologia/ https://cultura.biografieonline.it/caos-ordine-mitologia/#comments Thu, 29 Dec 2022 15:54:25 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=40774 In principio era il Chaos

Tutti i popoli antichi si sono interrogati sulla creazione del mondo e dell’uomo. Molti di essi hanno elaborato una serie di miti che spiegano a loro modo questi eventi. Essi sono i miti cosmogonici (dal greco kosmos: mondo, gonia: nascita) di solito tutti molto simili tra loro, pur appartenendo a popoli completamente diversi. Quasi tutti infatti partono dall’idea che il mondo prima della creazione fosse un ammasso di cose confuse ed indistinte: il chaos (o caos), il disordine. Solo grazie all’intervento di un dio-essere superiore, esso diventa ordine in cui poi gli esseri viventi, uomo compreso, trovano la loro collocazione.

Caos e ordine - scritta (Chaos and Order)
Nell’immagine: la scritta in inglese Order, Chaos (Ordine e Caos)

Il mito del Chaos

Il mito del Chaos è appartenente alla cultura greca: secondo gli antichi greci, infatti, la creazione del mondo avviene per opera di un dio che dal Chaos, cioè dal disordine degli elementi della materia, riesce a creare un Kosmos cioè l’ordine e la compostezza.

Tale mito inizia con la descrizione del Chaos: tutta la materia si trovava immersa in un’immensa voragine ed era tutto mescolato senza ordine.

Da questo disordine si formarono:

  • Gea, cioè la terra;
  • il Tartaro, cioè la sede degli inferi al di sotto della terra;
  • il dio Amore.

Infine si formarono:

  • il regno dei morti (Erebo);
  • la Notte.

Insieme generarono l’Aria e il Giorno. La Terra diede poi vita al Cielo e ai Titani. Tutto era però mischiato: non c’era la luce, la luna cambiava forma, la terra era instabile, il mare non bagnava la terra stessa, tutti gli elementi si scontravano tra di loro creando instabilità.

C’era bisogno di una divinità che mettesse finalmente ordine a tutto questo: questo dio finalmente separò:

  • la terra dal cielo;
  • l’acqua dalla terra;
  • il cielo dall’aria.

Poi iniziò a distinguere tutte le parti, dividendo le acque dal mare da quelle dei fiumi, dei laghi, degli stagni; poi innalzò le montagne e ricoprì di verde le pianure.

Divise il mondo in cinque parti, alcune molto calde altre molto fredde; quelle intermedie invece perfette per essere abitate.

Poi formò le nubi e i venti, e le stelle iniziarono a brillare. Formò anche ogni tipo di animale sulla terra, che poi si diffuse in ogni angolo.

A questi animali però ne mancava uno: l’uomo. Egli fu creato a immagine degli dei e, a differenza degli animali, egli non guardava in basso ma verso il cielo.

Così dal Caos e dal disordine, secondo i greci nacque il Kosmos, cioè l’ordine.

Bisogna avere in sé il caos per partorire una stella che danzi – Celebre frase di Nietzsche
Una celebre frase di Nietzsche recita: “Bisogna avere in sé il caos per partorire una stella che danzi“.

Che cos’è il mito

Il mito è una forma di narrazione che, attraverso un racconto fantasioso, cerca di dare risposte all’origine della terra oppure a diversi aspetti della realtà.

Tutte le comunità primitive hanno iniziato a cercare di scoprire il segreto del mondo e dell’origine dell’universo. Ognuna di loro ha poi creato la propria spiegazione.

Inizialmente i miti venivano tramandati solo oralmente, in particolare quelli greci e romani, poi piano piano sono stati trascritti dai poeti e dai cantori e sono arrivati fino ai giorni nostri.

Le tematiche sono più o meno sempre le stesse: da cosa nasce il mondo, chi lo ha creato e perché, chi ha creato l’uomo.

Il mito ci dà inoltre anche informazioni riguardo il popolo che lo ha elaborato: che tipo di civiltà era, che tipo di ambiente e di società c’era, qual era la loro religione. È quindi in grado di fornire informazioni sul popolo stesso.

Ci sono poi diversi tipi di mito; quello di cui abbiamo trattato fa parte di quelli che spiegano l’origine del mondo e degli uomini; poi ci sono quelli che descrivono la nascita di fenomeni naturali; quelli che descrivono imprese degli eroi (un esempio su tutti: Ulisse e l’Odissea).

La mitologia è una raccolta di storie molto importante: essa fornisce non solo molto dati sulle civiltà, ma anche molte interpretazioni e visioni del mondo.

Una curiosità letteraria

Il libro Panta Rei di Luciano De Crescenzo inizia con questa frase:

Non a caso Caos è l’anagramma di Cosa o Caso.

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Medea nella mitologia greca: riassunto e analisi https://cultura.biografieonline.it/medea-mitologia/ https://cultura.biografieonline.it/medea-mitologia/#comments Wed, 15 Jun 2022 10:52:00 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=33264 Medea è un personaggio della mitologia greca. Uno dei più celebri e allo stesso tempo controversi. Nella narrazione di Medea, infatti, si intrecciano amore e morte, e la passione. Vi sono temi importanti come la follia e l’infanticidio. Ella è una donna che già nel nome conduce “astuzie, scaltrezze” e che da chi la narra viene presentata come una maga dotata di grandi poteri.

Medea
Medea, con i bambini morti, fugge da Corinto su un carro trainato da draghi – Dettaglio del quadro di Germán Hernández Amores (1887)

Discendenza e genitori

Per la mitologia greca Medea è figlia di Eete, re della Colchide, e di Lidia. Apollonio Rodio, nelle Argonautiche, però, la descrive come nipote di Elio, il Sole, e delle maga Circe, da cui, infatti, eredita i suoi poteri magici.

Diodoro Siculo spiega invece così la linea di discendenza che porta alla sua nascita; il Sole, Elio, ha due figli: Perse e Eeta. Da Perse nasce Ecate, potentissima maga, dea dell’Oltretomba e delle notti di Luna piena. Ecate uccide Perse e si congiunge con lo zio Eeta. Da questa unione nascono Medea e Egiale.

Il mito: l’amore per Giasone

Il mito di Medea lo ritroviamo nella vicenda di Giasone e degli Argonauti. Giasone è alla ricerca del vello d’oro e nella missione esprime le sue grandi capacità, custodito da un drago per conto di Eeta. Medea si innamora di Giasone al punto da uccidere il fratello Egiale. Di lui sparge i resti dopo essersi imbarcata sulla nave degli Argonauti con il suo innamorato.

Giasone porta il vello d’oro conquistato a Jolco, ma lo zio Pelia, nonostante quanto promesso, non gli cede il trono. Medea a questo punto adopera i suoi poteri magici per aiutare Giasone.

L’inganno a Pelia e le nozze a Corinto

Medea inganna le figlie di Pelia porgendo loro un “pharmakon” che, dice loro, avrebbe ringiovanito il vecchio genitore. Per dimostrare il prodigio riporta un caprone ad agnello, dopo averlo sminuzzato e bollito con le sue erbe magiche. Invita la figlie di Pelia a fare lo stesso col padre per evitarsi la vecchiaia e la morte.

Le donne cadono nella trappola ordita e uccidono il padre. Acasto, figlio di Pelia, seppellisce i resti del padre e bandisce Medea e Giasone da Jolco. I due si rifugiano a Corinto, dove si sposano. Qui la coppia ha due figli e conduce una vita serena fino a quando Creonte, re di Corinto, non propone a Giasone di sposare sua figlia.

Medea per i greci: la tragedia di Euripide

La parte finale della storia è narrata dal drammaturgo greco antico Euripide nell’omonima tragedia. Euripide inizia a raccontare Medea a dieci anni dall’arrivo della maga con Giasone a Corinto. Dopo dieci anni – narra Euripide – Creonte, re della città, propone sua figlia Glauce come sposa a Giasone. Quest’ultimo, una volta sposo di Glauce, diventerebbe automaticamente l’erede al trono di Corinto.

Con queste ragioni Giasone cerca la comprensione di Medea. Ella risponde disperata e presto viene esiliata da Creonte per scongiurare la sua vendetta in seguito alla sottrazione e al tradimento dei suo amato.

Giasone si sottrae alla comprensione del dolore di Medea. La maga lo chiama a ricordarsi quanto lei abbia fatto per lui nelle precedenti vicende. Egli, però, risponde con indifferenza e ingratitudine. La maga si prepara ad ordire una nuova vendetta, questa volta, inaspettatamente, ai danni del suo amato sposo, ormai traditore; chiede a Creonte un solo giorno prima di lasciare Corinto. Lo ottiene.

La vendetta di Medea su Giasone in Euripide

Giasone non ha considerato l’idea di rifiutare l’offerta di Creonte né ha abbracciato la disperazione della maga. Ella decide così di ordire la sua vendetta. In quel giorno in più concesso da Creonte prima dell’esilio, si finge comprensiva e rassegnata e manda un dono di nozze a Giasone e Glauce.

Il regalo è una veste finissima e una corona d’oro per la sposa. Glauce indossa entrambi i capi che, però, sono intrisi di veleno: presto muore fra fiamme e dolori strazianti.

Anche il padre Creonte resta vittima di questa vendetta. Corso in aiuto della figlia, tocca il mantello e muore anch’egli in maniera atroce e dolorosa.

Dopo Glauce e Creonte tocca a Giasone

Il colpo più feroce, però, è il terzo, quello a Giasone. Qui il mito, sbarcato nella letteratura greca, supera se stesso per crudeltà.

Medea vuole essere certa che Giasone soffra e, al contempo, non abbia discendenti. La sete di vendetta vince l’istinto materno. Ella, accecata di rabbia, dopo averli stretti per un’ultima volta, uccide i suoi stessi figli, Mermero e Fere.

In Diodoro Siculo – piccola differenza – i figli di Medea e Giasone sono, invece, tre: i gemelli Tessale e Alcimene e Tisandro.

Ultimo atto: Atene e ritorno nella Colchide

Medea, macchiatasi del peggiore dei delitti, fugge ad Atene. Intraprende il viaggio a bordo del carro del Sole, trainato dai draghi alati. Ad Atene, sposa il re Egeo. Da Egeo ha Medo. Egeo però non sa che Medo non è il suo primogenito: ha concepito Teseo con Etra.

Al momento della decisione dell’eredità del suo trono, giunge ad Atene proprio Teseo. Medea ordisce subito un piano malefico e suggerisce a Egeo di uccidere lo sconosciuto. All’ultimo istante Egeo riconosce Teseo come suo figlio.

Medea è costretta a fuggire. Torna nella Colchide e si riappacifica con il padre Eete.

Medea offre una coppa avvelenata a Teseo, figlio del re Egeo (opera di William Russell Flint del 1910)
Medea offre una coppa avvelenata a Teseo, figlio del re Egeo (opera di William Russell Flint del 1910)

Medea per i romani: tre opere di Ovidio

Sono tre le opere in cui il poeta romano Ovidio narra di questo mito:

  • Eroidi
  • Metamorfosi
  • Medea

La prima è Le heroides, un’opera che raccoglie la supplica di Medea al marito. Il racconto si interrompe prima del compimento della tragedia, il lettore lo ricostruirà attraverso delle lettere.

La seconda allocazione di Ovidio avviene nelle sue Metamorfosi. All’inizio dell’opera Medea è una vera protagonista, poi via via appare e scompare come per magia. Nella prima parte incarna il tormento: è combattuta tra il padre e Giasone. Anche Ovidio riprende l’episodio del carro, ma lo utilizza nella parte centrale della narrazione e, in particolare, come espediente per far perdere a Medea le sue qualità umane. La metamorfosi procede fino al finale quando Medea è una strega vera e non soffre dell’infanticidio commesso.

La terza opera, infine, è la tragedia Medeache però non conosciamo perché è andata perduta.

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Morfeo nella mitologia e nella cultura https://cultura.biografieonline.it/morfeo-mito/ https://cultura.biografieonline.it/morfeo-mito/#respond Tue, 14 Jun 2022 06:42:00 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=38573 Morfeo è una figura della mitologia greca a cui è legata la tradizione e la cultura occidentale che riguarda il mondo dell’onirico e della notte.

Chi è Morfeo?

Egli era considerato il dio dei sogni: era figlio di Ipno e Nyx (la Notte).

La parola Morfeo deriva del greco morphe, che significa forma.

Morfeo dipinto da William Ernest Reynolds-Stephens
Nelle braccia di Morfeo (In The Arms of Morpheus, 1894) • Dipinto di William Reynolds-Stephens

La tradizione

Secondo il poeta Esiodo i sogni erano figli della notte. Ma l’idea di una divinità specifica dedicata ai sogni è arrivata più tardi. Fu Ovidio a scrivere di Morfeo nella sua opera Metamorfosi. Ovidio parla di Hypnos (il sonno), fratello gemello di Thanatos, che aveva il potere di addormentare sia le divinità che gli uomini.

Ovidio attribuì questi nomi ai tre figli di Hypnos

  • Morfeo,
  • Fobetore,
  • Fantaso.

Nell’Iliade, Omero indica un’unica divinità: Oniro. Essa include tutte le caratteristiche sopra citate.

Il mito di Morfeo

Come accennato, il mito di Morfeo viene esplicitato per la prima volta in forma scritta nelle Metamorfosi. Egli è il dio del sonno ed è rappresentato con le ali.

Morfeo si avvicina piano piano a chi sta dormendo, senza fare rumore, senza farsi sentire; e assume la forma delle persone o delle cose sognate.

Inoltre egli porta sempre con sé un mazzo di papaveri. Con questi fiori, sfiora gli occhi di chi è addormentato per indurre l’incantesimo.

Dona quindi agli uomini delle realistiche illusioni, assumendo sembianze e forme umane.

Grazie al potere dei papaveri crea queste scene, che a volte possono essere anche negative.

I suoi fratelli hanno invece altri poteri:

  • Fobetore fa apparire nei sogni gli animali; è considerato il dio degli incubi, poiché genera spesso bestie feroci.
  • Fantaso è il creatore di paesaggi e di oggetti inanimati.

La cultura

Questo mito è entrato a far parte della cultura di massa. Moltissimi sono infatti i riferimenti al mito di Morfeo o al suo personaggio. Alcuni esempi di seguito:

  • Nella lingua italiana esiste il modo di dire essere tra le braccia di Morfeo, oppure cadere nelle braccia di Morfeo: viene utilizzato per indicare un momento di riposo profondo.
  • E’ presente nella saga letteraria Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo (nata nella seconda metà degli anni 2000).
  • Nel film Matrix (e nella saga) è il nome di uno dei personaggi più importanti, Morpheus, capitano della Nabucodonosor (interpretato da Laurence Fishburne).
  • E’ uno dei personaggi principali della serie di fumetti Sandman, di Neil Gaiman.
  • In pittura è rappresentato spesso abbracciato al padre Hypnos.
illustrazione di Morpheus dal film Matrix
Illustrazione: il personaggio di Morpheus nel film Matrix (1999) offre la scelta tra pillola rossa e pillola blu
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