Guerre Archivi - Cultura https://cultura.biografieonline.it/argomento/guerre/ Canale del sito Biografieonline.it Sun, 18 Aug 2024 12:04:27 +0000 it-IT hourly 1 Guerra delle due Rose: riassunto https://cultura.biografieonline.it/guerra-due-rose-riassunto/ https://cultura.biografieonline.it/guerra-due-rose-riassunto/#comments Sun, 18 Aug 2024 12:01:49 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=12033 Dopo la guerra dei Cento Anni, un altro sanguinoso conflitto ha sconvolto, per lungo tempo, la vita dell’Inghilterra. Si tratta della Guerra delle due Rose, svoltasi in Inghilterra tra il 1455 ed il 1485, avvenuta per motivi prettamente dinastici tra i due diversi rami della casa regnate dei Plantageneti ovvero gli York (che avevano come simbolo una rosa bianca) e i Lancaster (che avevano come simbolo una rosa rossa).

La Guerra delle due Rose: i simboli delle case York e Lancaster erano proprio due rose di differenti colori
La Guerra delle Due Rose fu combattuta in modo sanguinoso tra il 1455 ed il 1485 per la successione al trono di Inghilterra: protagonisti furono due diversi rami della casa regnante dei Plantageneti: i Lancaster e gli York.

Gli York contestavano ai Lancaster di aver usurpato il loro diritto di discendenza al trono, dato che nel 1413, dopo il Regno di Riccardo II, il Parlamento inglese aveva optato per lasciare la corona nelle mani di Enrico IV, Lancaster. Dopo un’iniziale prevalenza da parte degli York, la disputa si concluse con l’eliminazione di quasi tutti i contendenti, e con l’ascesa al trono di Enrico Tudor, discendente dei Lancaster e vincitore della battaglia di Bostworth (1485). La disputa si divise in varie fasi:

Prima fase (1455-1460): l’affermazione degli York

Il primo conflitto ebbe luogo nel 1455, tra il re Enrico VI Lancaster (appoggiato dalla maggior parte della nobiltà inglese) e Riccardo di York (appoggiato dai potenti Neville, dal conte di Salisbury e dal conte di Warwick Riccardo) che voleva succedere al trono al posto di Enrico.

In un primo momento, Riccardo di York ebbe la meglio e la spuntò sullo stesso Enrico VI, facendolo prigioniero. Il Re Enrico VI infatti era troppo debole e malvisto dal popolo a causa dei suoi problemi mentali.

Dopo una momentanea tregua tra i due, però, la situazione si fece di nuovo complicata e con sorti piuttosto altalenanti. Infatti, da un lato, nel 1459 la regina Margherita d’Angiò, Lancaster, attaccò e sconfisse Salisbury; dall’altro, l’anno successivo, nel 1460, Warwick, York, prevalse su Enrico VI di nuovo nella battaglia di Northampton, proclamando in quel momento l’affermazione degli York.

Seconda fase (1460-1461): la rivincita dei Lancaster

Questa fase della “Guerra delle due Rose” risultò momentanea; infatti l’anno successivo avvenne la rivincita da parte dei Lancaster con Margherita che riuscì a sconfiggere il temuto rivale Riccardo, addirittura uccidendolo e sconfiggendo Salisbury e addirittura Warwick, ambedue appoggianti la famiglia degli York.

Due Rose - York Lancaster
Il simbolo della casa York è una rosa bianca. I Lancaster sono invece rappresentati da una rosa rossa.

Terza fase (1461-1469): il trionfo degli York

A questo punto storico, la situazione sembra mettersi bene per i Lancaster e male per gli York, ma in fondo sarà una situazione solo momentanea. Infatti, Edoardo di York, figlio di Riccardo, dopo alcuni successi militari, riuscì a raggiungere ed espugnare la capitale inglese, proclamandosi regnante con il nome di Edoardo IV. Enrico e Margherita subirono di nuovo una sonora sconfitta nella battaglia di Towton, e furono costretti a rifugiarsi in Scozia. Successivamente, la regina fu costretta a trasferirsi in Francia, mentre ad Enrico, capitò una sorte peggiore, poiché venne fatto di nuovo prigioniero (1465).

Quarta fase (1470-1483): caduta e ritorno degli York

La situazione sembrò cambiare di nuovo le carte in tavola quando Warwick, alleatosi, forse per istigazione di Luigi XI, ai Lancaster, mise sul trono Enrico VI nel 1470. Edoardo IV vinse uno scontro contro Enrico VI che finì con l’uccisione dello stesso sovrano Enrico VI e del figlio (1471). A quel punto, Edoardo IV, rimasto ormai senza rivali, regnò tranquillamente fino alla sua morte (1483).

Quinta fase (1483-1485): la pace dei Tudor

Le lotte ancora non erano terminate. Infatti, in ultimo, seguì una rappresaglia cruenta tra Riccardo di Gloucester (Riccardo III), fratello di Enrico, ed Enrico Tudor, capo della casa di Lancaster. Enrico Tudor riuscì ad avere la meglio su Riccardo, avvalendosi del prezioso aiuto dei nobili avversi al sovrano. Riuscì a sconfiggere il sovrano nella battaglia di Bosworth nel 1485 e infine si proclamò Re con il nome di Enrico VII. Lui, erede della casa di Lancaster, per suggellare definitivamente la pace, sposò la figlia primogenita di Edoardo IV, Elisabetta di York. Il loro figlio, Enrico, da quel momento era il legittimo erede al trono inglese per nascita e sangue. Dalla lotta fratricida dei gloriosi Plantageneti nacque così la dinastia Tudor che, grazie ad Elisabetta I, darà per un lungo periodo pace e prosperità al regno di Inghilterra e porrà le basi per la creazione dell’Impero Britannico.

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Guerra delle due Rose: la situazione finale

La situazione dell’Inghilterra, all’avvento al trono di Enrico VII Tudor, al termine della Guerra delle due Rose era disastrosa: in particolar modo la nobiltà feudale era quasi scomparsa dopo un’aspra lotta civile, la borghesia era stremata ed invocava la pace.

In questo particolare contesto, non fu affatto difficile per Enrico VII instaurare la monarchia assoluta, convocando sempre meno il Parlamento e restaurando gli antichi privilegi feudali. Ma durante il regno di Enrico VII, la situazione economico-sociale inglese venne progressivamente migliorando: la borghesia fu di nuovo favorita, le finanze di nuovo riorganizzate, l’economia trasformata con il passaggio delle attività agricole e quelle industriali (tessili) e commerciali.

In ultimo, si sviluppò un’intensa attività marittima per tutti i mari del mondo.

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Israele, Palestina e i conflitti arabo-israeliani https://cultura.biografieonline.it/guerra-israele-palestina/ https://cultura.biografieonline.it/guerra-israele-palestina/#comments Mon, 09 Oct 2023 12:11:37 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=3402 Il confitto fra lo Stato di Israele e i palestinesi ha coinvolto gli stati arabi in uno dei conflitti più complessi duraturi e pericolosi della storia contemporanea. Non ha avuto solo conseguenze di carattere militare ma anche economico, incidendo sulla crescita dei prezzi del petrolio e sull’evoluzione del terrorismo internazionale.

Israele e Palestina, le bandiere
Israele e Palestina, le bandiere

Israele e Palestina

Il popolo ebraico cominciò ad insediarsi in Palestina nei primi anni del ‘900 ispirati dai ragionamenti di Theodor Herzl che strutturò i fondamenti ideologici del sionismo, predicando uno Stato ebraico nel quale avrebbero dovuto trovare dimora tutti gli ebrei del mondo. Tuttavia il sionismo ebbe un’accelerazione grazie all’intervento di uno Stato europeo, l’Inghilterra che a causa del suo coinvolgimento nella Prima guerra mondiale aveva bisogno dell’appoggio degli ebrei inglesi e pertanto il Ministro degli esteri della Gran Bretagna dichiarò nel 1917 che il governo di Sua maestà avrebbe considerato favorevolmente la nascita di un luogo dove il popolo ebraico potesse insediarsi.

Successivamente nel 1918, dopo il crollo dell’Impero ottomano, la Gran Bretagna fu incaricata dalla Società delle Nazioni di gestire il territorio della Palestina. Negli anni ’20 gli insediamenti ebraici aumentarono notevolmente provocando scontri con le popolazioni arabe che erano fortemente preoccupate che la presenza di insediamenti ebraici avrebbe limitato la loro indipendenza. Gli scontri fra arabi ed ebrei proseguirono anche negli anni’30 senza che si giungesse ad alcuna risoluzione.

Dopo la Seconda guerra mondiale e soprattutto a causa dell’Olocausto e della soluzione finale organizzata dai nazisti con l’intento di sterminare tutti gli ebrei d’Europa, l’immigrazione verso la Palestina di persone di religione ebraica aumentò sensibilmente. Il governo britannico però impose un’immigrazione controllata causando fortissimi malumori alle organizzazioni ebraiche.

Per contrastare l’amministrazione britannica gruppi combattenti sionisti come l’Irgun e la Banda Stern iniziarono una serie di campagne violente contro gli inglesi i quali nel 1947 decisero di rimettere il loro mandato all’ONU che nel frattempo aveva sostituito la Società delle Nazioni. L’ONU approvò la divisione della Palestina fra arabi e israeliani ma questa decisione non fermò gli scontri che anzi si intensificarono e il 14 maggio 1948 il popolo ebraico stanziato in Palestina dichiarò la nascita dello Stato ebraico.

Le guerre fra arabi e israeliani

Gli Stati vicini al territorio definito come Stato di Israele reagirono violentemente e attaccarono subito il nuovo Stato. Questo scontro fu definito come Prima guerra arabo-israeliana: causò molti morti e l’esodo di circa 500.000 arabi che dovettero lasciare la Palestina mentre i 200.000 restanti vennero alloggiati nei campi profughi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Questa situazione sviluppò il nazionalismo arabo e la propaganda contro il governo di  Israele e il popolo ebraico, che vennero accusati di operare uno sterminio contro il popolo arabo. Tale contrasto ideologico si acuì dopo la Seconda guerra arabo-israeliana nata a causa della crisi dello stretto di Suez del 1956.

Una mappa che riassume l'evoluzione dell'occupazione dei territori palestinesi
Una mappa che riassume l’evoluzione dell’occupazione dei territori palestinesi

La crisi di Suez

Il Presidente egiziano Nasser che credeva fortemente nel nazionalismo arabo decise nel luglio del 1956 di nazionalizzare al compagnia che gestiva il canale di Suez il cui capitale era in gran parte di proprietà anglo-francese.

Gran Bretagna e Francia non accettarono di buon grado la decisione e si accordarono segretamente con Israele affinché quest’ultimo conquistasse il Sinai con il pretesto di eliminare le basi dalle quali venivano sparati missili contro Israele, mentre le truppe anglo-francesi avrebbero protetto il canale.

Una foto del Canale di Suez
Una foto del Canale di Suez

La comunità internazionale reagì negativamente a questa guerra e in particolare gli USA, che non erano stati avvertiti dell’accordo, iniziarono a fare pressione sull’Inghilterra perché ritirasse le sue truppe dall’Egitto.

Le nazioni Unite seguirono le decisioni americane e iniziarono a chiedere insistentemente il ritiro delle truppe anglo-francesi.

Nel dicembre del 1956 tutti gli eserciti si ritirarono e il Presidente Nasser ottenne un successo personale molto importante diventando il vessillo della lotta per l’indipendenza araba.

Terza guerra arabo-israeliana

La Terza guerra arabo-israeliana iniziò nel giugno del 1967 quando il governo egiziano chiese il ritiro delle truppe ONU che erano stanziate sul Sinai dalla crisi di Suez. Quando l’esercito egiziano raggiunse il Sinai le truppe israeliane attaccarono contemporaneamente l’Egitto riconquistando il Sinai, la Siria conquistando le alture del Golan e la Giordania impossessandosi della Cisgiordania.

La guerra durò solo sei giorni ed è per questo che è conosciuta universalmente come La guerra dei sei giorni. Il governo israeliano decise di mantenere il controllo dei territori e di non restituirli agli Stati vinti nemmeno sotto il controllo dell’ONU. Questa ulteriore guerra provocò l’esodo di altri arabi.

Quarta guerra arabo-israeliana

La Quarta guerra arabo-israeliana scoppiò a causa dell’attacco che Siria e Egitto ordinarono ai rispettivi eserciti contro lo Stato di Israele. La guerra iniziò il 6 ottobre 1973 durante la festa ebraica dello Yom Kippur. I combattimenti furono molto aspri e spinsero gli Stati Uniti d’America ad alzare il livello di allarme nucleare a causa dell’errato sospetto  che anche l’Unione Sovietica volesse entrare nel conflitto.

Il 24 ottobre cessarono le ostilità e Israele riuscì a mantenere i territori che aveva occupato durante i precedenti conflitti. Come conseguenza dell’appoggio internazionale gli stati arabi – possessori dei principali giacimenti petroliferi – alzarono il prezzo del greggio per barile a livelli mai prima raggiunti, facendo precipitare il mondo intero in una crisi economica di proporzioni recessive.

Nel 1978 con gli accordi di Camp David Israele restituì il Sinai all’Egitto e il governo egiziano riconobbe il diritto ad esistere dello Stato Israeliano. Il conflitto ebbe però un altro picco quando Israele invase il Libano per eliminare l’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Questo attaccò influì profondamente sulle relazioni fra arabi e israeliani generando atti di violenza che culminarono con la prima intifada (rivolta) che si sviluppò nei territori occupati.

Accordi di Camp David del 1978 – da sinistra: il presidente egiziano Anwar al-Sadat, Jimmy Carter e il primo ministro di Israele Menachem Begin
Gli accordi di Oslo - Da sinistra Rabin, Clinton e Arafat
Accordi di Oslo – Da sinistra Rabin, Clinton e Arafat (13 settembre 1993)

Yasser Arafat leader dell’OLP cercò a questo punto una soluzione pacifica che ottenne una risposta positiva da parte di Yitzhak Rabin, capo del governo israeliano.

Questo processo di pace fu osteggiato dagli estremisti islamici, Hamas e Hezbollah, e dagli estremisti israeliani.

Rabin nel 1993 fu ucciso proprio da uno di questi estremisti.

Da quel momento in poi si sono avute alterne vicende nel percorso dei colloqui di pace.

Israele ha continuato a costruire insediamenti in Cisgiordania e Hamas ha continuato a colpire civili e militari con atti di terrorismo di varia natura.

Questa situazione non risolta ha alimentato l’odio e ha accresciuto il pericolo di attacchi terroristici in tutto il mondo, il più clamoroso dei quali è l’attentato alle Torri gemelle di New York avvenuto l’11 settembre 2001.

Gli anni 2020

Gli episodi negli anni seguenti si sono susseguiti con frequenze alterne.

Un altro momento particolarmente clamoroso per la sua gravità è stata la riprese delle ostilità il 7 ottobre 2023: i palestinesi hanno dato il via all’operazione indicata come “Diluvio al-Aqsa”, lanciando 5 mila razzi e organizzando incursioni di guerriglieri nel sud di Israele. Nelle ore successive si contavano circa 800 morti: la strage di civili più grave della storia dei conflitti tra Israele e Palestina.

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Lo sbarco in Sicilia https://cultura.biografieonline.it/sbarco-in-sicilia/ https://cultura.biografieonline.it/sbarco-in-sicilia/#comments Sun, 03 Apr 2022 07:14:22 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14524 Lo sbarco in Sicilia avvenne dopo la mezzanotte del 10 luglio 1943. Forze statunitensi, inglesi e canadesi sbarcarono tra Licata e Cassibile, vicino a Siracusa, invadendo 160 km di costa. Gli uomini impiegati nell’invasione della Sicilia furono 180.000. Fu il più grande sbarco mai realizzato in un solo giorno.

Lo sbarco in Sicilia
Lo Sbarco in Sicilia avvenne il 10 luglio 1943

I motivi dell’operazione militare

I motivi che spinsero gli alleati a decidere l’apertura di un secondo fronte in Europa, furono figli di un compromesso difficile. Stalin fu la causa principale di questa decisione. Il dittatore russo pretendeva, a ragione, di avere un sostegno più deciso da parte degli alleati.

Durante gli ultimi tre anni di guerra l’Unione Sovietica aveva subito più perdite di tutti; chiedeva da tempo l’intervento di Stati Uniti e Inghilterra in Europa per alleggerire il suo impegno. Inglesi e americani non erano d’accordo su come creare un secondo fronte. I primi preferivano sviluppare una serie di battaglie per distrarre truppe e mezzi dei nazisti, mentre gli americani preferivano concentrare l’attacco su un unico luogo.

Fu scelta la Sicilia, dopo un ampio dibattito, perché lo Stato Maggiore Usa voleva conquistare l’Italia raggiungendone il nord e da lì entrare in Germania. L’Alto Comando sovietico pensava, invece, che la guerra in Italia avrebbe costretto Hitler a spostare molte truppe dal fronte orientale e l’Inghilterra riteneva che la penisola fosse un luogo non troppo importante ma ugualmente necessario per sperimentare un primo massiccio attacco in Europa.

Lo sbarco in Sicilia - soldato con guida
Lo sbarco in Sicilia: soldato con guida

La Sicilia era anche un territorio facile dal punto di vista militare perché, malgrado ci fossero circa 250.000 soldati tedeschi e italiani, le strade erano talmente dissestate che il primo sbarco non avrebbe trovato una grande resistenza e i rinforzi e i rifornimenti avrebbero impiegato troppo tempo per dare manforte alle linee di difesa. In realtà la guerra in Italia avrebbe avuto problematiche ben diverse, ritardando di molto mesi i piani alleati.

Lo sbarco in Sicilia: operazione Husky

Il nome in codice dello sbarco fu: operazione Husky. La prima parte dell’invasione avvenne dal cielo.

Furono lanciati duemila paracadutisti americani e altrettanti paracadutisti inglesi, che non riuscirono però a raggiungere, a causa delle condizioni meteorologiche, gli obiettivi che gli erano stati assegnati. Il loro scopo era neutralizzare le difese dei ponti e di alcuni punti strategici per permettere poi ai soldati, che sarebbero sbarcati sulle spiagge, di procedere verso le principali città della Sicilia.

Gli americani furono sparpagliati fra Gela e Siracusa e dovettero impiegare più tempo per raggiungere i punti che gli erano stati assegnati.

Lo sbarco in Sicilia - schema
Operazione Husky – schema

Anche gli inglesi furono presi alla sprovvista dal forte vento.

Nel loro caso esso influì ancora di più sullo spostamento dagli obiettivi, perché i paracadutisti britannici utilizzarono gli alianti per approdare in Sicilia.

L’uso degli alianti

Gli alianti, come è noto, sono aerei senza motore; essi vengono trasportati da altri aerei vicino al punto in cui devono atterrare; poi vengono sganciati per farli planare con una libertà di manovra limitata da parte del pilota.

Pertanto, il vantaggio di poter volare silenziosamente era controbilanciato dallo svantaggio di non poter controllare il velivolo. E con un vento forte il risultato fu disastroso.

Molti alianti caddero in mare e affondarono, altri non riuscirono a raggiungere gli obiettivi. Solo dodici atterrarono nei punti sensibili che gli erano stati assegnati. Uno di questi obiettivi fu il Ponte Grande sul fiume Anapo. Gli inglesi riuscirono a raggiungerlo e a conquistarlo nell’attesa che arrivassero le truppe che stavano sbarcando sulle spiagge. Mentre, infatti, i paracadutisti combattevano contro i soldati italiani e tedeschi, 2.500 navi sbarcavano 180.000 soldati.

Lo sbarco in Sicilia - soldato con mulo
Lo sbarco in Sicilia – soldato con mulo

Gli alleati, benché inferiori numericamente rispetto ai loro nemici, disponevano di un numero di mezzi nettamente superiore. Tuttavia, il forte vento aveva reso il mare mosso e lo sbarco si era complicato; inoltre, le truppe sbarcate avevano raggiunto punti errati della costa e questo aveva ritardato l’arrivo dei rinforzi che i paracadutisti stavano attendendo. A est, comunque, le truppe inglesi e canadesi riuscirono a sbarcare tutte e, dopo il caos organizzativo, riuscirono a raggiungere i paracadutisti.

A Gela, invece, gli americani trovarono una forte resistenza militare. Benché la conquista della città fu ottenuta rapidamente, le truppe italiane poste sulle colline e rafforzate dai tedeschi non si arresero facilmente. Gli italiani combatterono tutto il giorno, creando non pochi problemi alle truppe americane.

Solo alla fine della giornata, e malgrado i rinforzi tedeschi, dovettero ripiegare. A est, gli inglesi combatterono valorosamente ma furono colpiti duramente dagli italiani che, dopo un’iniziale confusione, dimostrarono un forte spirito combattivo.

Conclusioni

La sera del 10 luglio 1943 tutti gli obiettivi che gli alleati si erano prefissati furono raggiunti. Tuttavia, i morti furono molti di più rispetto a quelli che erano stati preventivati. I tedeschi dimostrarono fin da subito che non avevano alcuna intenzione di arrendersi. Già, quindi, da questa prima giornata di combattimenti fu abbastanza chiaro che la guerra in Italia sarebbe durata a lungo: molto di più di quello che avevano pianificato gli Stati Maggiori alleati.

Sbarco in Sicilia - carro armato
Un carro armato in una delle strette vie dei paesi siciliani

La Sicilia costò agli alleati 25.000 morti e l’impiego di 15.000 mezzi corazzati. La Sicilia fu conquistata dopo cinque settimane di combattimento. In seguito, si capì che questo fronte non era fondamentale per la guerra ma che, invece, fu la causa dell’arresto di Benito Mussolini e della sua sostituzione con il maresciallo Badoglio, che ordinò il passaggio dell’Italia da alleato dei tedeschi ad alleato degli inglesi e degli americani.

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Guerra Fredda: significato, cause e riassunto https://cultura.biografieonline.it/la-guerra-fredda/ https://cultura.biografieonline.it/la-guerra-fredda/#comments Wed, 16 Mar 2022 07:27:20 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=787 Guerra Fredda è una definizione utilizzata per comprendere il periodo storico che va dalla conferenza di Yalta avvenuta nel 1945 alla caduta del Muro di Berlino avvenuta nel 1989. All’interno di questo arco temporale le due super potenze Stati Uniti d’America e Unione Sovietica hanno coinvolto il mondo in una strategia della tensione costituita da:

  • guerre parallele,
  • guerre spionistiche,
  • alleanze diplomatiche,
  • scontri sul piano della politica internazionale,
  • corsa agli armamenti tradizionali e alle armi nucleari.
Winston Churchill, Roosevelt e Stalin alla conferenza di Jalta (1945)
1945 – Churchill, Roosevelt e Stalin alla conferenza di Yalta

Dopo la Conferenza di Yalta del febbraio 1945, a cui parteciparono Winston Churchill come Primo Ministro del Regno Unito, Franklin Delano Roosevelt come presidente degli Stati Uniti d’America e Josif Stalin come Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica,  fu subito chiaro al Primo Ministro inglese quanto fosse pericolosa la politica estera russa che stava di fatto inglobando ideologicamente e militarmente i territori conquistati dall’Armata Rossa.

Il presidente americano, invece, sembrava sottovalutare Stalin e al fine di averlo come alleato contro i giapponesi gli consentì di avanzare pretese sui territori conquistati.

La Conferenza di Posdam che avvenne nel febbraio del 1945 rese chiaro a tutti che Churchill aveva ragione e che di fatto si stava stendendo la Cortina di Ferro fra due super potenze: l’America e i suoi alleati e l’ Unione sovietica e i suoi alleati.

Durante la Conferenza di Parigi del 1946-1947, a cui parteciparono le potenze vincitrici, iniziarono a porsi seriamente i primi problemi fra la delegazione americana e quella russa per quanto riguardava la spartizione della Germania.

Il termine Guerra Fredda

Fu il politico statunitense Bernard Baruch, incaricato nel 1946 dal suo governo di redigere un piano per giungere al disarmo in materia di armi atomiche, a coniare il termine Guerra Fredda, proprio per indicare le relazioni diplomatiche tra USA e URSS: era il 16 aprile 1947.

Dalle tensioni mondiali al disgelo

La tensione durante la Guerra Fredda raggiunse il culmine con “la questione greca” e il destino politico delle democrazie popolari che a questo punto non erano più autonome e non avevano più alcuna parvenza democratica. Inoltre, in Asia si stava aprendo un terzo fronte con la Cina che si stava trasformando in una repubblica comunista e marxista alleata con la Russia che si contrapponeva allo stato di Taiwan dove si era rifugiato il governo del generale Chiang Kai-shek alleato e sostenuto da molti governi occidentali.

Durante la Guerra Fredda, i due blocchi – Gli USA e i loro alleati da una parte e l’URSS e i suoi alleati dall’altra – non rappresentavano solo una contrapposizione militare e diplomatica ma anche ideologica, sociale, politica, economica e di visione del futuro del mondo.

Dal punto di vista economico e ideologico uno degli atti più importanti che gli americani decisero già nel 1946 e avviarono nel 1947 fu il Piano Marshall.

Mentre nel 1949 fu istituito, per volontà americana, il Patto Atlantico che rappresentava di fatto un alleanza militare, con un comando integrato chiamato NATO. La North Atlantic Treaty Organization riuniva:

  • USA,
  • Canada,
  • Gran Bretagna,
  • Francia,
  • Belgio,
  • Olanda,
  • Lussemburgo,
  • Italia,
  • Danimarca,
  • Norvegia,
  • Islanda,
  • Portogallo,
  • Grecia e Turchia – aderirono nel 1951
  • Germania Federale – entrò nel patto nel 1956.

L’URSS, invece, diede vita nel 1955 al Patto di Varsavia proprio per contrastare il Patto Atlantico. Vi aderirono:

  • Albania,
  • Cecoslovacchia,
  • Bulgaria,
  • Polonia,
  • Romania,
  • Repubblica Democratica Tedesca,
  • Ungheria.

L’aumento della tensione

Da questo momento in poi la strategia della tensione aumentò proporzionalmente con l’aumento delle armi nucleari e degli armamenti tradizionali in entrambi i blocchi; fino a quando, negli anni ’70, si iniziò una difficile serie di trattative per contenere tale crescita, che soprattutto per l’URSS, stava diventando insostenibile.

Due furono i principali terreni di scontro fra i due blocchi:

  1. la Guerra di Corea, che vide gli Stati Uniti contro la Corea del Nord e la Cina;
  2. la Guerra del Vietnam fra Stati Uniti e Vietnam del Nord.

In entrambe le guerre i due blocchi furono coinvolti attraverso sostegni di tipo politico e militare, anche se le potenze coinvolte direttamente furono solo quelle citate.

La fine della Guerra Fredda

Negli anni ’80 l’elezione di Ronald Reagan a presidente degli Stati Uniti d’America e la nomina di Mikhail Gorbaciov a Segretario Generale dell’Unione Sovietica, diede un’ accelerata al disarmo e alla politica della distensione.

Reagan e Gorbaciov nel 1985 (Summit di Ginevra) – Guerra Fredda
Reagan e Gorbaciov nel 1985 (Summit di Ginevra) – L’evento portò al termine della Guerra Fredda

Entrambi i capi di Stato iniziarono una politica nuova all’interno dei loro paesi: Reagan, malgrado la sua crociata contro il comunismo e la sua politica economica liberale, si fece garante di un cambiamento economico radicale e di un avvicinamento politico e strategico all’Unione Sovietica.

Mentre Gorbaciov aprì la strada ad una democratizzazione del suo paese e dei paesi satelliti dell’Unione Sovietica.

L’atto finale fu la caduta del Muro di Berlino nel 1989 che diede avvio alla dissoluzione dell’impero sovietico.

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Guerra civile spagnola: riassunto https://cultura.biografieonline.it/guerra-civile-spagnola-riassunto/ https://cultura.biografieonline.it/guerra-civile-spagnola-riassunto/#comments Wed, 03 Feb 2021 16:03:19 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=32188 In spagnolo è indicata come Guerra civil española. In Italia è riportata sui libri di storia come guerra civile spagnola oppure come guerra di Spagna. Gli eventi sono quelli caratterizzati da un conflitto armato nato da un colpo di Stato (in spagnolo: golpe) avvenuto il 17 luglio 1936. La guerra durò oltre tre anni, formalmente fino al 1° aprile 1939. Riassumiamo di seguito gli scenari e i fatti.

Legione Condor: un ufficiale tedesco con ragazzi militari spagnoli (Guerra Civile Spagnola)
Un ufficiale tedesco della Legione Condor con alcuni ragazzi spagnoli, militari cadetti

Lo scenario storico

Nel 1931 in Spagna venne promulgata la repubblica e adottata una Costituzione avanzata per l’epoca. Questi mutamenti andavano in direzione della democratizzazione del Paese, ma non potevano celare le profonde divisioni sociali che funestavano la società civile. Da una parte i proprietari terrieri e la nobiltà, che si identificheranno con la destra conservatrice, appoggiata dalla Chiesa cattolica e il cui leader si rivelerà Francisco Franco; dall’altra contadini e i pochi operai delle grandi città, gli uni e gli altri vessati e costretti a orari e turni di lavoro massacranti.

Il colpo di stato: 17 luglio 1936

In questo contesto hanno luogo le elezioni che, nel febbraio 1936, vedono una chiara vittoria del Fronte Popolare. Questo fonde comunisti, socialisti, repubblicani e alcune organizzazioni anarchiche. La reazione dei falangisti, esponenti della destra ultra-conservatrice e di buona parte delle gerarchie militari, si concretizza nel colpo di stato del 17 luglio. L’obiettivo è di instaurare una dittatura militare. Il tentativo di golpe ha successo solo parziale. Sono in particolare le masse operaie delle principali città spagnole (Madrid e Barcellona su tutte) a organizzare una resistenza, almeno inizialmente vittoriosa, costringendo addirittura alla resa i militari. È incominciata la guerra civile spagnola.

La guerra civile spagnola e la questione internazionale

A dispetto del nome con cui è ricordata, la guerra civile spagnola non resta affatto confinata al Paese. Si configura immediatamente come una questione internazionale. Il generale Francisco Franco fin dalle prime settimane appare il leader dei falangisti. Assume il comando pressoché assoluto della sua fazione e fa appello alle comuni radici ideologiche nel rivolgersi ai dittatori di Germania e Italia. Ottiene così un concreto aiuto militare.

Guerra civile spagnola: manifesto di propaganda
Manifesto di propaganda: la FE (Falange Española) cerca nuove reclute militari per combattere per “La patria, il pane e la giustizia”.

E’ in particolare Benito Mussolini a inviare in Spagna diverse decine di migliaia di uomini. Formalmente si tratta di volontari ma di fatto sono inquadrati nel Regio Esercito. Il contributo di Adolf Hitler è più limitato; esso è finalizzato soprattutto alla verifica sul campo di nuove armi e nuove tattiche. Alla resa dei conti, comunque, si tratta di un aiuto in grado di far pendere la bilancia dalla parte dei Falangisti.

I Repubblicani, partigiani del governo legittimo, ricevono un aiuto abbastanza incostante da parte dell’Unione Sovietica e, in misura minore, del Messico; arruolano nelle loro fila circa 40.000 volontari antifascisti provenienti da paesi europei e americani: le celebri Brigate internazionali (Brigadas Internacionales). Inoltre, dalla loro parte si schiera apertamente l’élite culturale mondiale: valga per tutti citare Ernest Hemingway – dalla cui esperienza sul campo nasce un capolavoro letterario quale “Per chi suona la campana“.

Tra gli altri intellettuali schierati con i Repubblicani ricordiamo anche:

Scelgono invece una politica di appeasement Francia e Regno Unito, che si fanno promotori di una politica di non-intervento. Italia e Germania non si fanno però scrupolo di violare, talora anche apertamente, gli accordi liberamente sottoscritti, a differenza delle due potenze occidentali. Pertanto il non-intervento finisce per rappresentare un grosso vantaggio per i Falangisti.

Le operazioni militari

Numericamente le forze in campo potevano sembrare di entità molto simile. Va però sottolineato che dalla parte di Franco vi era una consistente porzione degli ufficiali: così il suo esercito poté beneficiare di un’organizzazione migliore. A questo si aggiunga la messe di aiuti dei paesi fascisti, tanto in armi quanto in uomini, che fecero pendere definitivamente l’ago della bilancia dalla parte dei Falangisti.

Merita di essere ricordata la “Legione Condor“, un’unità dell’aviazione militare hitleriana che si rese protagonista di diversi spietati bombardamenti – antesignani delle operazioni che da ambo le parti caratterizzeranno la seconda guerra mondiale – tra cui resterà tristemente famoso quello della cittadina di Guernica il 26 aprile 1937. A questo triste evento è ispirato l’omonimo e celebre quadro di Pablo Picasso.

Guernica: il dettaglio della testa del cavallo con una bomba all'interno della bocca
Guernica, uno dei quadri più famosi di Picasso. Nel dettaglio: la testa di un cavallo con una bomba all’interno della bocca.

Di contro i Repubblicani potevano contare soprattutto sull’ardore ideologico, sulla disperata difesa dei diritti così faticosamente acquisiti da parte delle vessate masse popolari e sulla organizzazione delle schiere operaie, oltre alla simpatia internazionale che porterà alla costituzione delle già citate Brigate Internazionali.

Una guerra prolungata

Ci fu un primo periodo di sostanziale stallo: esso vide il successo, assolutamente inatteso, dei legalisti repubblicani che riuscirono a espellere l’esercito fedele a Franco da Madrid. In seguito i nazionalisti riuscirono a prendere il sopravvento e avviarono una campagna per la riconquista di Madrid. Ciò grazie anche all’arrivo delle ben addestrate truppe marocchine, trasportate sul suolo spagnolo da navi tedesche e italiane. È degno di nota che Francisco Franco, pur avendo identificato la capitale come la chiave per la vittoria, scelse di avviare numerose campagne secondarie che distolsero i Nazionalisti dall’obiettivo principale, prolungando la guerra.

Il prolungamento della guerra era proprio l’intento di Franco. Egli non voleva una pace che lasciasse alla fazione nemica forze sufficienti a rappresentare un ostacolo. Sono coerenti con questa strategia:

  • le campagne del Nord,
  • l’offensiva in Catalogna,
  • la decisiva battaglia dell’Ebro.

Francisco Franco assunse il titolo di Caudillo – che può essere equiparato a quello di duce. Le sue truppe fecero il loro ingresso a Madrid nel marzo 1939.

Francisco Franco con Benito Mussolini
Il Caudillo Francisco Franco con il Duce Benito Mussolini

La fine della guerra civile spagnola e il dopoguerra

Il 1° aprile 1939, con la cessazione dei combattimenti, anche se alcuni focolai di resistenza rimasero attivi addirittura fino agli anni Cinquanta, Franco emise il bollettino della vittoria.

La repressione e le punizioni che seguirono la vittoria furono spietate. L’italiano Galeazzo Ciano ne rimase colpito nel corso di una visita ufficiale, nel luglio 1939, quindi oltre tre mesi dopo il termine della guerra. Molti combattenti repubblicani preferirono l’esilio, oltrepassando il confine con la Francia o imbarcandosi per i paesi del centro e sud America, quando non addirittura il suicidio. La popolazione, che già nell’anteguerra viveva spesso in condizioni di estrema povertà, subì ovviamente le conseguenze più pesanti delle distruzioni di oltre 3 anni di guerra.

L’estrema debolezza militare ed economica del Paese spinse Franco a tenere la Spagna fuori dalla Seconda Guerra Mondiale; è un’operazione che seppe portare a termine con abili manovre diplomatiche, ma che non impedì alla Spagna di restare isolata e giocare un ruolo meno che marginale sulla scena politica mondiale. Questo fino alla caduta del regime franchista avvenuta nel 1975.

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La battaglia di Verdun, riassunto https://cultura.biografieonline.it/battaglia-di-verdun/ https://cultura.biografieonline.it/battaglia-di-verdun/#respond Thu, 15 Oct 2020 16:57:15 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=30556 Pochi nomi come Verdun sono sinonimo di morte, di devastazioni e di indicibili sofferenze. La battaglia di Verdun, o meglio la campagna di Verdun, fu una delle più lunghe, sanguinose e, paradossalmente, inutili di tutta la Grande Guerra. Al termine nessuno dei due contendenti aveva minimamente conseguito i propri obiettivi iniziali, ma da essa uscirono entrambi stremati, i Francesi più dei Tedeschi. Ebbe luogo dal 21 febbraio al 19 dicembre 1916.

La battaglia di Verdun: cause ed origini

Nei primi mesi del 1916, i Tedeschi erano decisi a forzare una decisione per portare a una conclusione rapida e favorevole la guerra. Identificando nei Francesi il nemico sconfitto le cui ostilità sarebbero cessate, scelsero di portare a logoramento, sia materiale che morale, la nazione transalpina.
Secondo l’Imperatore Guglielmo II, il principale nemico della Germania era la Gran Bretagna che andava sconfitta togliendole “dalle mani la miglior spada che possedeva” . Cioè l’esercito francese.

Il piano consisteva nello scegliere un obiettivo che i Francesi considerassero vitale e che fossero perciò costretti a difendere a qualsiasi costo; e consisteva nello scagliare contro tale obiettivo ondate su ondate di attacchi, in modo da attirare via via le riserve del nemico, fino a quando questi non avesse più avuto disponibilità di mezzi e materiali e avesse dovuto accettare la resa.

È opportuno sottolineare che la Germania contava 65 milioni di abitanti allo scoppio delle ostilità, rispetto ai 39 milioni di francesi. Fu una netta superiorità tedesca, quindi, benché mitigata dalla necessità di combattere su più fronti. In parole povere, i Tedeschi erano convinti che le forze del nemico si sarebbero esaurite prima delle loro.

La posizione di Verdun sulla mappa geografica
La posizione di Verdun sulla mappa geografica

La cittadina di Verdun

All’epoca Verdun contava solo 3.000 abitanti e non rivestiva alcuna importanza economica. Dal punto di vista strategico era però ritenuta essenziale, perché costituiva il punto focale della difesa francese, saldando i due settori del fronte: settentrionale e meridionale. Era inoltre un saliente che si incuneava, con effetti deleteri, nelle linee tedesche.

Infine, Verdun aveva un forte valore simbolico: circondata com’era di fortezze che furono costruite sotto il Re Sole, conquistate dai Prussiani nel 1792 ma invitte nella pur vittoriosa, dal punto di vista tedesco, guerra del 1870. Verdun venne quindi scelta come punto nel quale sferrare l’attacco. La responsabilità di questo fu affidata a Erich von Falkenhayn, Capo di Stato Maggiore e Ministro della Guerra.

Le prime operazioni

Il maltempo determinò un rinvio delle operazioni offensive fino al giorno 21 febbraio 1916; operazioni che tuttavia i Tedeschi avevano pianificato di avviare il 12 febbraio. Principale conseguenza di questo ritardo fu il venire meno della sorpresa tattica che l’Alto Comando germanico aveva saputo conseguire.

I fanti dell’Imperatore si trovarono così ad affrontare nemici che li aspettavano.

Cionondimeno i Tedeschi conseguirono alcuni successi. In particolare, il giorno 25 febbraio 1916 espugnarono Fort Douaumont, con un fortunoso colpo di mano. Questa posizione vide nei mesi seguenti parecchie controffensive francesi che furono coronate da successo solo nell’ottobre, quando ormai i Tedeschi avevano parzialmente sgombrato la posizione, non più ritenuta di primaria importanza.

I successi dell’Impero Tedesco furono dovuti principalmente a una concentrazione di artiglieria senza precedenti, 850 pezzi tra i quali la celeberrima “Grande Berta” e un cannone navale Krupp montato su carro ferroviario. Furono inoltre utilizzate armi nuovissime per l’epoca, come lanciafiamme e aerei.

Big Bertha (Grande Berta)
Big Bertha (Grande Berta)

Di contro, i Francesi furono colti relativamente di sorpresa e fecero fatica a far affluire le loro riserve verso la prima linea, a causa dell’esistenza di un’unica strada che portava nel settore.

Arriva Pétain

Proprio il giorno della caduta di Fort Douaumont, si verificò un importante mutamento nei comandi francesi. Il comando del settore fu affidato a Philippe Pétain, carismatico generale molto amato dai soldati per le cui vite mostrava un rispetto all’epoca decisamente non comune.

Il generale Philippe Pétain

Con Pétain i Francesi scelsero una strategia difensiva, in netto contrasto con la loro dottrina prebellica, che era basata unicamente sull’attacco. Il futuro maresciallo diramò un ordine chiaro quanto sintetico: non cedere più terreno!

  • Si preoccupò di risparmiare al massimo le vite dei suoi uomini;
  • fece costruire strade e migliorare la logistica per garantire l’afflusso dei materiali alla prima linea;
  • introdusse la rotazione degli uomini, che poterono beneficiare di più frequenti turni di rotazione nelle retrovie.

Le operazioni assunsero così caratteristiche che si associano comunemente alla cosiddetta “guerra di trincea“.

Marzo fu inoltre inaspettatamente freddo e ricco di precipitazioni, anche a carattere nevoso: tutti questi fattori contribuirono ad arrestare i Tedeschi. In questo periodo si distinse nelle operazioni un giovane ufficiale francese, Charles De Gaulle; ferito, verrà catturato e rimarrà prigioniero fino al termine del conflitto.

Battaglia di Verdun: una foto di trincea
Battaglia di Verdun: una foto di trincea. Il nome in codice tedesco dell’evento fu Operazione Gericht (giudizio)

I Francesi all’attacco

Ma una strategia di pura opposizione non poteva essere accettata a tempo indeterminato dallo Stato Maggiore Francese; esso, come si è detto, era figlio di una dottrina che conosceva una sola parola: attacco. Ad aprile Pétain venne quindi sostituito e i Francesi passarono all’offensiva.

Gli uomini tornarono a essere solo carne da cannone e vennero scagliati in ondate successive contro trincee e apprestamenti difensivi che – semplicemente – non potevano espugnare.

È opportuno ricordare che le trincee erano solo parte di sistemi di difesa composti da mitragliatrici, filo spinato, cavalli di frisia ecc., contro i quali uomini a piedi e appesantiti dall’armamento dovevano lanciarsi, attraversando allo scoperto la “terra di nessuno”: lo spazio fra le proprie trincee e quelle nemiche.

Inoltre i feriti venivano spesso rispediti in prima linea dopo aver ricevuto cure sommarie. E’ qui che si può riscontrare una buona parte dell’orrore della battaglia di Verdun – proprio per esaurimento di quel materiale umano che veniva tenuto in nessun conto. I traumatizzati erano tacciati di codardia e dichiarati abili al combattimento: tornavano così in quelle trincee dove li aspettavano solo freddo, sporcizia, gas letali e malattie, quando non un proiettile nemico.

In definitiva, le offensive dei transalpini sortirono l’unico effetto di accrescere spaventosamente il numero dei caduti di entrambe le parti.

L’epilogo della battaglia di Verdun

Insoddisfatti dei risultati conseguiti, dopo un’ultima “limitata” offensiva (giugno 2016), nel corso della quale persero altri 250.000 uomini, gli Alti Comandi dell’esercito Imperiale sostituirono Falkenhayn con la coppia formata da Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff; essi scelsero a loro volta una strategia difensiva, in attesa degli attacchi nemici.

In parte la decisione fu dovuta alla contemporanea offensiva inglese, più a nord, in quella che verrà poi etichettata come battaglia della Marna, e il cui scopo principale era proprio quello di “alleggerire” la situazione degli esausti Francesi attorno a Verdun.

Anche la Marna si risolverà in una insensata carneficina, così come le ultime ridotte offensive dell’esercito francese attorno a Verdun.

La campagna di Verdun termina ufficialmente il 19 dicembre 1916: in questo giorno i contendenti si arrestano sia per l’esaurimento di uomini e mezzi, sia per la dura stretta imposta da un inverno particolarmente rigido.

Conclusioni

Verdun influenzò pesantemente le concezioni tattiche dei due contendenti, non solo per il proseguo della Grande Guerra ma anche per gli anni successivi fino alla Seconda Guerra Mondiale. Se i Francesi scelsero di perfezionare tattiche e apprestamenti difensivi, i Tedeschi fecero esattamente l’opposto, teorizzando la guerra di movimento e l’infiltrazione nel territorio nemico in modo totalmente svincolato dalla conquista di posizioni fisse: in definitiva il blitzkrieg, la guerra lampo.

Ma più importante della teoria è senz’altro la necessità di sottolineare i patimenti di chi ebbe la sventura di combattere a Verdun: non bastano le aride cifre che parlano di 368.000 perdite tra i Francesi e 330.000 fra i Tedeschi, compresi feriti e prigionieri, a descrivere l’orrore. E forse nemmeno le definizioni di alcuni storici come Lucio Villari (“Gli uomini contavano meno dei mezzi”) o Antonio Gibelli (“Un processo industriale senza fine della morte umana”).

Forse meglio che altrove, l’inferno di Verdun è stato descritto da Erich Maria Remarque nel suo celeberrimo “Niente di nuovo sul fronte occidentale“.

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Guerra delle Falkland: riassunto e breve analisi dei fatti storici https://cultura.biografieonline.it/guerra-delle-falkland/ https://cultura.biografieonline.it/guerra-delle-falkland/#respond Fri, 29 May 2020 15:53:47 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=29350 La guerra delle Falkland è ricordata anche come guerra delle Malvine. Lo scontro militare avvenne tra i mesi di aprile e giugno dell’anno 1982. L’evento bellico vide contrapposti Argentina e Regno Unito per il controllo e il possesso delle isole Falkland. In inglese la guerra è indicata come Falklands War, in spagnolo Guerra de las Malvinas.

Guerra della Falkland: distanze, basi e movimenti della flotta britannica
La mappa evidenzia la posizione delle Falkland illustrando le distanze, le basi e i movimenti della flotta britannica

Guerra delle Falkland: le date

L’invasione iniziò storicamente il 2 aprile 1982, quando i reparti dell’esercito argentino cominciarono l’invasione delle isole Falkland, un territorio composto dai 3 arcipelaghi: le Falkland propriamente dette, le Georgia del Sud e le isole Sandwich meridionali. Il conflitto durò 73 giorni, fino al 14 giugno 1982.

Come si arrivò a questa guerra, relativamente breve ma sanguinosa?

Scopriamolo nei paragrafi seguenti che riassumono i fatti storici relativi alla Guerra delle Falkland.

Lo scenario della vigilia

Ecco il quadro dello scenario prima dell’inizio delle operazioni. Gli inglesi governano l’arcipelago che occuparono nel 1833, espellendone i militari argentini. Da allora la componente principale della popolazione è britannica e più specificamente scozzese. Ma gli Argentini non hanno mai smesso di rivendicare le Falkland, che chiamano Malvinas.

Nel 1982 il generale argentino Leopoldo Galtieri, a capo della giunta militare insediatasi a Buenos Aires, decise di invadere militarmente gli arcipelaghi per ristabilire una volta per tutte il dominio dell’Argentina. La decisione fu causata da una grave crisi economica che inevitabilmente portò allo scontento la popolazione. La guerra – si pensava – avrebbe distratto gli argentini e risvegliato i loro sentimenti patriottici.

Anche nel Regno Unito la crisi economica era acutamente sentita. Erano appena stati apportati tagli importanti alle spese per la difesa, che erano ricaduti in modo particolare sulla Royal Navy, proprio l’arma alla quale sarebbe stato richiesto lo sforzo maggiore nella imminente guerra.

La crisi diplomatica

La pressione della giunta argentina sul governo britannico assunse inizialmente un carattere prettamente diplomatico. Alla rivendicazione dell’arcipelago fu affiancata un’intensa attività in sede ONU, che raggiunse il suo culmine nella minaccia diretta di ricorrere all’invasione.

Londra non rispose, e anche questa passività contribuì a convincere la giunta che il governo britannico fosse troppo sfiduciato e concentrato su economia e politica interna, per aver conservato la volontà di combattere per le Falkland. Dopotutto, a Buenos Aires si pensava che una volta che ci si fosse impadroniti militarmente delle isole, gli inglesi non avrebbero potuto che considerarlo un fait accompli.

L’invasione

Il 19 marzo 1982 un gruppo di pescatori argentini sbarcò nella disabitata Georgia del Sud. Subito dopo lo sbarco, però, indossarono uniformi militari e innalzarono la bandiera a bande bianco azzurre con il Sol de Mayo. Era l’apertura delle ostilità.

Nelle intenzioni della giunta, questa operazione di minore entità doveva essere seguita da altre, secondo il principio che a esserne interessati sarebbero stati i tre arcipelaghi, in ordine crescente di importanza politica. Quindi, se non si fosse arrivati a un riconoscimento diplomatico della sovranità argentina, le Falkland propriamente dette sarebbero state invase per ultime.

Fu proprio così che si svilupparono gli eventi.

Sulle isole Sandwich Meridionali, però, gli invasori si scontrarono con una forte opposizione e riuscirono a ultimarne la conquista solo il 3 aprile 1982.

Nel frattempo, e precisamente nella notte tra l’1 e il 2 aprile, era cominciata l’invasione delle Falkland.

I commando, primi a sbarcare, puntarono contro la caserma dei Royal Marine e contro l’abitazione del governatore, nella capitale Port Stanley (Puerto Argentino per gli invasori). Le operazioni ebbero termine in 11 ore soltanto.

Il tentativo diplomatico

Insediatisi gli argentini nei 3 arcipelaghi, cominciò una febbrile attività diplomatica. A grandi linee, le opinioni al Palazzo di Vetro erano divise tra chi riteneva che l’azione argentina fosse in qualche modo legittima, in quanto l’occupazione inglese aveva origine coloniale, e chi la considerava un atto di guerra inaccettabile.

Si arrivò così allo stallo diplomatico, confermato dallo stesso segretario generale delle Nazioni Unite, Javier Pérez de Cuéllar, il quale ammise che i suoi sforzi per una composizione pacifica della questione, non avevano sortito effetto.

La parola passava così definitivamente alle armi.

La reazione inglese

Anche all’interno del Regno Unito si sviluppò un dibattito piuttosto acceso sulla Guerra delle Falkland. Da una parte vi erano coloro che ritenevano inutile – oltre che pericoloso – impegnare le forze militari, ridotte dalla crisi economica, tanto lontano dalla madrepatria e per un obiettivo di limitata importanza. Dall’altra parte c’era chi riteneva necessario combattere per riaffermare l’idea dell’Impero inglese come capace di proiettare a distanza la sua forza.

Prevalse quest’ultima tesi, che peraltro era quella sostenuta dal Primo Ministro, la Lady di ferro Margaret Thatcher.

Margaret Thatcher
Margaret Thatcher

Presa la decisione, il Regno Unito mise in campo una poderosa forza, comprendente 13.000 uomini e oltre 100 navi. A questo scopo, si “raschiò il fondo del barile”, ottenendo l’aiuto anche degli altri paesi del Commonwealth, e in particolare dell’Australia che si assunse l’incarico di difendere aree dell’Impero rimaste sguarnite.

Se le forze in campo erano più o meno uguali, limitatamente a soldati e aviazione (la Royal Navy era nettamente superiore alla controparte argentina), lo stesso non si poteva dire della loro qualità: l’esercito argentino, di leva, era composto prevalentemente da uomini ancora nelle prime fasi dell’addestramento, mentre gli inglesi erano militari professionisti.

Gli inglesi avevano anche un sensibile vantaggio qualitativo nei mezzi a disposizione dell’aviazione, per quanto i piloti argentini rivelassero doti di aggressività e coraggio che non mancarono di suscitare ammirazione negli stessi nemici.

Guerra delle Falkland: inizio maggio 1982. Dispiegamento delle forze aeronavali
1 – 2 maggio 1982: dispiegamento delle forze aeronavali di Argentina e Gran Bretagna nell’Atlantico del Sud

Le operazioni militari

Gli inglesi riconquistarono in breve le isole della Georgia, pressoché indifese, che trasformarono in una piccola base. Nel corso dei combattimenti i difensori persero il sottomarino Santa Fe. Sistemata così la questione, la guerra delle Falkland continuò soprattutto con lo scontro aeronavale mirato a garantire la supremazia nei cieli del teatro delle operazioni.

In questa fase, il sottomarino nucleare HMS Courageous affondò l’incrociatore General Belgrano, mentre gli inglesi lamentarono la perdita del cacciatorpediniere Sheffield, affondato da un missile Exocet aerotrasportato, di 2 fregate e di naviglio minore.

L'affondamento dell'incrociatore General Belgrano durante la Guerra delle Falkland
Una foto che immortala l’affondamento dell’incrociatore General Belgrano

Si garantirono però la superiorità aerea e questo risultò determinante nel consentire lo svolgimento delle operazioni successive e in particolare lo spostamento di truppe per mezzo di elicotteri. Poterono così sbarcare a San Carlos nella notte del 21 maggio uomini espertissimi dei Royal Marine, unitamente a un reggimento di paracadutisti.

Nonostante l’intensa opposizione dei resti dell’aviazione del paese sudamericano, gli inglesi poterono avanzare e unirsi a un ulteriore reparto, sbarcato il 27 maggio nei pressi dell’istmo che collega le due parti dell’isola. Riuscirono così a spingersi nell’interno e a conquistare il 28 maggio la località di Goose Green, dove caddero prigionieri oltre 1.000 soldati nemici.

Se si va avanti di questo passo, la guerra delle Falkland (o Malvine) finirà quando l’ultimo aereo argentino sarà abbattuto col suo carico di bombe sull’ultima nave inglese. E dire che questa lotta di leoni si svolge per un’isola di Pecore.

Cit. INDRO MONTANELLI (Il Giornale, dalla rubrica Controcorrente, 27 maggio 1982)

La caduta di Port Stanley

Gli inglesi potevano così avanzare e conquistare le alture che circondano la capitale.

L’attacco cominciò la notte del 13 giugno e si risolse in un rapido successo, nonostante alcuni locali contrattacchi dell’esercito argentino.

La via per Port Stanley era a questo punto spalancata: alle 23.59 del 14 giugno 1982 venne proclamato il cessate il fuoco.

Si arresero 8 o 9.000 argentini – a seconda delle fonti. Il loro comandante, generale Mario Benjamín Menéndez, venne aspramente criticato in patria per aver ceduto alla pressione psicologica, più che a quella militare.

Le conseguenze del conflitto

La sconfitta patita ebbe gravi conseguenze politiche in Argentina. Vennero a galla le deficienze nella pianificazione e, soprattutto, gli errori di sottovalutazione del nemico. Pochi mesi dopo si dimise il dittatore, generale Galtieri, ed ebbe inizio il processo di democratizzazione della nazione argentina.

Si direbbe che a causa delle Malvine, l’Argentina è maturata improvvisamente. 

LEOPOLDO GALTIERI

Di contro, a Londra si riaffermò la popolarità di Margaret Thatcher in un momento di gravi tensioni interne. Londra concesse nuovamente agli abitanti delle Falkland lo statuto di cittadini inglesi e rafforzò il suo dispositivo militare nelle Falkland.

Sapevamo quello che dovevamo fare, siamo andati e lo abbiamo fatto. La Gran Bretagna è di nuovo grande!

MARGARET THATCHER

I caduti furono 649 argentini e 258 britannici.

A tutt’oggi, l’Argentina continua a rivendicare il possesso delle Isole Malvinas.

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Campagna di Guadalcanal: riassunto, fatti storici e protagonisti https://cultura.biografieonline.it/campagna-di-guadalcanal/ https://cultura.biografieonline.it/campagna-di-guadalcanal/#comments Sun, 03 May 2020 10:01:00 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=28550 La Campagna di Guadalcanal ebbe inizio con lo sbarco dei marines nelle isole Salomone Meridionali, il 7 agosto 1942 e terminò il 9 febbraio del 1943, quando gli Americani constatarono che il nemico aveva evacuato l’intero settore. Secondo molti storici, rappresentò il turning point, il punto di svolta, della intera guerra nel Pacifico. Prima di questa campagna il Giappone aveva dettato tempi e modi della guerra, da Guadalcanal in poi l’offensiva fu sempre nelle mani degli Alleati.

Sbarco dei marines americani sulla spiaggia di Guadalcanal
7 agosto 1942: lo sbarco dei marines americani sulla spiaggia di Guadalcanal

Giappone e USA: la situazione alla vigilia

Dopo la disastrosa sconfitta a Midway, l’alto comando giapponese era come un pugile alle corde, incapace di reagire ai pugni subiti. Per diverse settimane, lo staff dell’ammiraglio Isoroku Yamamoto – comandante in capo della Flotta Combinata – non fu in grado di elaborare piani.

Si trattava di un momento delicato: l’irreparabile perdita di 4 delle 6 portaerei della squadra di attacco esigeva un ridimensionamento degli obiettivi, se non proprio il passaggio a una fase difensiva.

Midway: portaerei in fiamme
Midway: una portaerei in fiamme

Di contro, gli americani non erano nella situazione ideale per sfruttare il successo: le loro forze erano ancora troppo deboli, in gran parte a causa della scelta politica sintetizzata nella locuzione Germany first, che privilegiava il teatro bellico europeo nell’assegnazione di risorse per la guerra.

Per ripetere una efficace metafora di dello storico H. P. Willmott, l’iniziativa era come una pistola abbandonata in strada: quale dei due contendenti l’avrebbe raccolta e avrebbe sparato per primo?

Guadalcanal: l’isola e la geografia

Nella parte meridionale delle Salomone giace l’isola che, fino allora sconosciuta, sarebbe diventata teatro di una delle campagne militari più famose e sofferte dell’intera seconda guerra mondiale.

Cartina geografica del teatro del Pacifico - 1942 - con la posizione di Guadalcanal
La cartina mostra l’area geografica del teatro del Pacifico. La grafica mostra i punti delle principali battaglie: Midway, Pearl Harbor, e Mar dei Coralli. Guadalcanal si trova vicino a quest’ultimo punto.

Nell’estate del 1942 Guadalcanal era un appezzamento di terra, per lo più disabitato, lungo circa 150 km e largo al massimo 53. Non era certo un luogo ospitale: le piogge erano frequenti e a carattere torrenziale, la zanzara della malaria molto diffusa e la giungla estremamente fitta. Eppure era stata scelta dal comando giapponese per allestire un aeroporto.

Gli Alleati temevano, con ragione, che questa posizione avrebbe consentito al nemico di minacciare la vitale rotta che collegava Stati Uniti e Australia; lungo tale via venivano indirizzati i mercantili che portavano uomini, armi e munizioni destinati alla difesa della Nuova Guinea e del continente australiano stesso.

Fu principalmente questo timore che indusse l’ammiraglio Chester W. Nimitz, comandante in capo della Flotta del Pacifico, a scegliere l’isola di Guadalcanal come teatro della prima offensiva americana nel Pacifico.

Lo sbarco e la reazione giapponese

L’operazione Watchtower ebbe inizio il 7 agosto, con gli sbarchi preliminari sugli isolotti di Gavutu-Tamambogo, seguiti dall’invasione di Tulagi, dove i giapponesi avevano approntato una base per idrovolanti nel maggio precedente, in occasione della battaglia del Mar dei Coralli.

L'incrociatore della Royal Australian Navy HMAS Canberra e 3 navi da carico al largo di Tulagi (Guadalcanal)
L’incrociatore della Royal Australian Navy HMAS Canberra (D33) al largo di Tulagi, durante gli sbarchi del 7 e 8 agosto 1942. Le navi visibili in lontananza sono tre mezzi da carico che sbarcano uomini e materiale. Sullo sfondo: Tulagi e le isole della Florida, parte delle Salomone.

Entrambe le operazioni incontrarono una resistenza maggiore del previsto, basata soprattutto su efficaci infiltrazioni notturne, tattiche nelle quali il fante nipponico eccelleva. Tutti gli obiettivi vennero comunque conquistati il 9 agosto, non senza la necessità di rinforzi.

Sull’isola di Guadalcanal erano acquartierati 2.230 giapponesi, circa 1.700 dei quali erano operai militarizzati. Alle 9.19 del 7 agosto cominciarono a sbarcare i marines del 1° e 5° reggimento, incorporati nella 1a divisione marines del generale Alexander A. Vandegrift, per un totale di 8.500 uomini.

La resistenza iniziale fu pressoché inesistente e gli americani, già nel primo pomeriggio, si impadronirono dell’aeroporto appena ultimato, che ribattezzarono Henderson Field, trovandovi anche una discreta quantità di materiale abbandonato dal nemico.

Attorno a questo obiettivo venne costituito un perimetro difensivo che sarà poi il teatro delle principali controffensive terrestri giapponesi. I soldati giapponesi, nonché opporsi allo sbarco dei marines, scelsero invece di rifugiarsi nella giungla all’interno dell’isola.

La battaglia di Savo

La reazione del Sol Levante fu affidata all’Ottava Flotta del viceammiraglio Gunichi Mikawa, composta da 5 incrociatori pesanti, 2 leggeri e un solo cacciatorpediniere.

Nella notte tra l’8 e il 9 agosto, questa squadra ottenne una delle vittorie numericamente più clamorose dell’intera guerra. Nel corso della battaglia di Savo riuscì infatti ad affondare 4 incrociatori pesanti alleati, senza perdere alcuna unità.

Fallì invece nell’obiettivo di localizzare e attaccare i mercantili nemici, ancora alla fonda e impegnati nello sbarco di materiali, e, in ultima analisi, nel conseguire un completo successo strategico.

La distruzione, o anche solo l’allontanamento dei mercantili, avrebbe certamente messo in crisi i marines, riducendo la loro capacità di opporsi alle imminenti controffensive terrestri.

Sviluppo della campagna di Guadalcanal

La campagna si sviluppò da allora secondo un canone ben preciso. Il possesso di Henderson Field garantiva agli americani il predominio dei cieli e, conseguentemente, la possibilità di operare, facendo giungere rinforzi e rifornimenti, alla luce del giorno.

Viceversa, l’oscurità, costringendo a terra gli aerei, andava a vantaggio dei giapponesi, addestrati a combattere di notte e in grado di far giungere, a loro volta, convogli ribattezzati Tokyo Express dagli americani; essi erano composti prevalentemente da cacciatorpediniere che, quasi ogni notte, trasportavano soldati e armi leggere dalle basi nelle Salomone settentrionali a Guadalcanal.

Le principali battaglie

È difficile isolare le singole battaglie perché la storia di Guadalcanal si compone di piccole azioni aeree, navali e terrestri quasi quotidiane.

Entrambe le parti si risolsero a inviare via mare flussi di rifornimenti di dimensioni ridotte per eludere l’opposizione nemica. Inoltre, la morfologia dell’isola si prestava ad incursioni di piccoli reparti.

È forse possibile identificare 6 azioni principali.

  • La battaglia terrestre del Tenaru, 21 agosto, quando il distaccamento Ichiki provò a forzare il perimetro di Henderson Field e venne annientato.
  • La battaglia aeronavale delle Salomone Orientali, 24-25 agosto, originata dal tentativo di eseguire azioni di rifornimento in grande stile; si trattò di uno scontro inconcludente che vide l’affondamento della portaerei leggera nipponica Ryujo e il danneggiamento della USS Enterprise.
  • Il 12 settembre venne combattuta la battaglia terrestre di Edson’s Ridge, nota anche come cresta insanguinata. Fu uno scontro durissimo che sfociò spesso in terribili corpo a corpo. L’offensiva giapponese, che mirava a Henderson Field, venne respinta con gravissime perdite.
  • L’11 ottobre ebbe luogo la battaglia aeronavale di capo Speranza, con bombardamenti navali dell’aeroporto americano che si protrassero fino al 15 ottobre.
  • Al 24 ottobre risale la battaglia di Henderson Field, ultimo serio tentativo nipponico di occupare l’aeroporto nemico. Questa offensiva terrestre coincise con lo scontro aeronavale del 26 ottobre, nota come battaglia delle Isole Santa Cruz.
  • La battaglia navale di Guadalcanal, combattuta nella notte tra il 12 e il 13 novembre. Determinata da un’operazione nipponica di rifornimento e al contempo bombardamento, incontrò l’opposizione di una flotta americana inferiore che venne annientata ma seppe precludere all’ammiraglio giapponese l’esecuzione della sua missione. Ripetuta il 14 novembre, l’operazione fallì nuovamente e questa volta gli americani si aggiudicarono anche il successo tattico.

La fine della campagna

Dopo l’ultimo scontro, il quartier generale giapponese non fu più in grado di organizzare un’offensiva. Di fatto, le perdite subite convinsero soprattutto la Marina che era giunto il momento di accettare la sconfitta.

L’evacuazione di Guadalcanal venne ordinata nell’ultima settimana di dicembre e portata a termine il 7 febbraio del 1943 con perdite modestissime. Due giorni più tardi, il generale Alexander Patch, recentemente nominato comandante delle forze alleate sull’isola, dichiarò conclusa la campagna.

Con la vittoria, gli americani poterono fare di Guadalcanal il punto di partenza delle loro successive offensive, sviluppando l’aeroporto già esistente e costruendone altri. Ma, soprattutto, poterono far tesoro della crescente debolezza del nemico, che non era in grado di compensare le perdite subite.

Gli Americani avevano raccolto la pistola abbandonata per strada, l’iniziativa, e non l’avrebbero più mollata fino alla resa senza condizioni del Giappone.

Bilancio e motivi della sconfitta giapponese

Se le perdite di uomini furono molto superiori per il Giappone, il computo delle navi affondate fu sostanzialmente pari. Nonostante questo, il quartier generale imperiale uscì dalla campagna di Guadalcanal in condizioni di grande inferiorità.

Perché?

Il motivo è presto detto: gli americani erano in grado di far fronte alle perdite subite grazie alle loro capacità industriali, in rapido e imponente aumento, i giapponesi no. Ma non si può tacere che il 7 agosto 1942 era il Giappone a detenere una certa superiorità di uomini e mezzi nel settore.

Quale fu allora il motivo della disfatta?

In primo luogo, è necessario far riferimento a una cattiva pianificazione dello Stato Maggiore nipponico. Per diverse settimane, a Tokyo ritennero che gli americani si fossero insediati a Guadalcanal con forze esigue, sufficienti tutt’al più a una ricognizione su vasta scala.

Da questa erronea convinzione derivarono sconfitte e perdite di uomini e materiali, con offensive lanciate in condizioni di netta inferiorità numerica, confidando anche nella (presunta) superiorità combattiva del soldato nipponico.

Contribuirono alla disfatta anche l’inferiorità qualitativa e quantitativa dei rifornimenti e la mancanza di adeguate strutture sanitarie all’interno dell’esercito che invece sarebbero state necessarie in un ambiente malsano come la giungla di Guadalcanal.

Basti dire che i soldati giapponesi evacuati nel febbraio 1942 erano così emaciati da scioccare i marinai dei vascelli su cui si imbarcarono.

I motivi della vittoria americana

Per parte loro, gli americani incominciarono la campagna con alcuni seri handicap, in primis l’inferiorità nel combattimento navale notturno al quale non erano addestrati, mentre la Marina Imperiale ne aveva fatto uno dei suoi punti di forza.

Seppero però recuperare, grazie a un rapido e intenso ciclo addestrativo e all’imponente produzione che consentì a esercito, marina e corpo dei marines di disporre di abbondanti riserve di materiale; questo nonostante periodi di crisi per la difficoltà di trasferire tanta abbondanza alla prima linea.

Considerazioni finali

Se c’è un aspetto sul quale i due nemici si trovano assolutamente d’accordo, è la durezza della campagna. Guadalcanal fu una tragedia per chi vi combatté perché le condizioni psicologiche e fisiche dei protagonisti furono messe a durissima prova.

Il termine che ricorre più spesso nei resoconti è “inferno”, valga per tutti l’epigrafe che accompagna la tomba di un marine e che recita:

«Quando questo marine si presenterà a Pietro gli dirà: Signore, io ho già servito all’inferno, sono stato a Guadalcanal».

And When He Gets To Heaven, To Saint Peter He Will Tell; One More Marine Reporting Sir, I’ve Served My Time In Hell – (Marine Grave inscription on Guadalcanal, 1942)

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Campagna del Nordafrica o Guerra nel deserto (II Guerra Mondiale) https://cultura.biografieonline.it/campagna-nordafrica-1940/ https://cultura.biografieonline.it/campagna-nordafrica-1940/#comments Thu, 05 Mar 2020 07:45:34 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=28005 La Campagna del Nordafrica è storicamente conosciuta anche come Guerra nel deserto: fu un importante capitolo della Seconda Guerra Mondiale. Ebbe luogo nei paesi: Libia, Algeria, Marocco, Tunisia ed Egitto. Gli scontri avvennero tra il 1940 e il 1943 e videro italiani e tedeschi, fronteggiare gli Alleati in un susseguirsi di scontri. Proviamo in questo articolo ad ordinare i fatti e raccontare gli scenari della Campagna del Nordafrica.

Guerra nel deserto: carri armati Panzer durante la Campagna del Nordafrica
Guerra nel deserto: i carri armati Panzer sono uno i mezzi più simbolici della Campagna del Nordafrica del 1940-1943

Gli italiani in Libia

Gli Italiani si insediarono in Libia, all’epoca parte dell’Impero ottomano, nel 1911, su impulso del Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti. La regione fu comunque pacificata solo nei primi anni Trenta. Negli anni successivi, il fascismo diede impulso alla colonizzazione, favorendo l’afflusso di coloni dalla madrepatria.

Al momento della dichiarazione di guerra, il 10 giugno 1940, in alcune aree costiere gli Italiani costituivano oltre il 30% della popolazione. Le forze armate schieravano contingenti numericamente importanti ma poco adatti alle peculiari caratteristiche che avrebbe assunto la guerra nel deserto.

Inoltre, c’è un aspetto di massima importanza nell’analisi della campagna del Nordafrica: le unità dipendevano quasi totalmente dall’industria metropolitana per i rifornimenti; in particolare per i carburanti: i ricchi giacimenti petroliferi libici non erano ancora stati scoperti.

I britannici in Egitto

Di contro, l’Egitto faceva parte della sfera di influenza britannica fin dal 1881. Benché fosse formalmente una monarchia indipendente, era di fatto controllato da Londra.

Il canale di Suez, tratto d’acqua di capitale importanza, era sotto il totale controllo britannico e Londra conservava diverse importanti basi nel Paese. Fra tutte, merita menzione il porto di Alessandria d’Egitto che ospitava la quota principale della Mediterranean Fleet.

Fondamentale per l’esito della campagna del Nordafrica si rivelerà anche il possesso dell’isola di Malta da parte della Gran Bretagna.

Campagna del Nordafrica: caratteristiche

La guerra nel deserto fu principalmente un susseguirsi di offensive, lanciate ora dall’una ora dall’altra parte, con conseguente spostamento della linea del fronte verso oriente quando prevalevano le forze dell’Asse, e verso occidente quando erano le offensive alleate a conseguire risultati.

Le caratteristiche geografiche del teatro d’operazioni imponevano l’uso di reparti fortemente meccanizzati e motorizzati, sia per le grandi distanze da superare, sia per la mancanza di posizioni tatticamente forti a cui ancorare la difesa.

D’altronde, la scarsità di strade e di infrastrutture in genere, obbligava gli eserciti a movimenti prevedibili lungo la strada costiera costruita dagli Italiani in Libia o attraverso gli ostacoli naturali del terreno (passi e guadi), oppure a “saltare” da un pozzo a un altro per gli approvvigionamenti idrici.

Il problema dei rifornimenti

Un altro elemento chiave fu rappresentato dalla difficoltà degli approvvigionamenti. Tutto quanto, carburante, armi, munizioni, cibo, acqua, doveva essere trasportato alle truppe combattenti dalle lontane basi principali: Tripoli per il Regio Esercito e Alessandria o Il Cairo per le truppe del Commonwealth, lungo le stesse prevedibili ed esposte strade.

Inoltre, le succitate basi dovevano, a loro volta, essere rifornite via mare. A farlo erano mercantili provenienti dalla madrepatria, per gli Italiani, lungo la rotta del Capo Alessandria; oppure l’ancor più pericolosa rotta mediterranea da Malta e dallo stesso Egitto, quando era necessario ridurre i tempi; di fatto si affrontavano i rischi di far transitare i vulnerabili mercantili attraverso un mare ristretto come il Mediterraneo, a tratti, dominato dall’aviazione tedesca.

Sbarco di carri armati e materiale bellico durante la campagna del Nordafrica
Una foto che mostra lo sbarco di mezzi e materiale bellico

L’offensiva italiana e la controffensiva britannica

Nonostante una consistente superiorità numerica, allo scoppio delle ostilità la situazione tattica dell’Italia era difficile, essendo impegnata su due fronti: lungo il confine con l’Egitto e le truppe inglesi da un lato e, a 1.300 chilometri in linea d’aria, contro le colonie francesi dall’altro.

L’armistizio che segnò l’uscita francese dalla guerra risolse il problema e Mussolini cominciò a premere sul maresciallo Rodolfo Graziani, comandante supremo dell’Esercito in Libia (nominato dopo la morte di Italo Balbo), perché lanciasse un’offensiva in direzione del canale di Suez.

Il riluttante Graziani dovette alfine piegarsi alla volontà del duce: le truppe mossero all’attacco il 13 settembre del 1940. L’offensiva raggiunse Sidi el Barrani, dove si arenò immediatamente. Anzi, il generale inglese Archibald Wavell decise di prendere l’iniziativa e spinse il suo abile sottoposto, generale Richard O’Connor, a contrattaccare, sfruttando la piccola ma totalmente motorizzata forza, allora denominata Western Desert Force.

La 7a Divisione Corazzata, dotata degli allora efficienti carri armati Matilda, fu la punta avanzata dell’offensiva britannica che si esaurì soltanto dopo l’occupazione dell’intera Cirenaica (regione della Libia orientale).

Al termine dell’operazione, le perdite italiane ammontavano a 130.000 uomini, principalmente prigionieri, 845 cannoni e 380 carri armati. In sintesi, una disfatta.

L’arrivo dei tedeschi

L’evidente inferiorità di mezzi, operativa e dottrinale faceva apparire la situazione italiana talmente disperata che Mussolini, sia pure a malincuore, dovette cedere alle pressioni dell’alleato nazista e accettare l’invio di truppe di rinforzo dalla Germania.

La Regia Marina si rese allora protagonista di una delle più sottovalutate imprese dell’intera guerra, riuscendo a trasportare senza perdite le unità che presero il nome di Afrikakorps, la 5ª Divisione leggera poi seguita dalla 15a Panzer Division.

Gli uomini del generale Erwin Rommel furono pronti ad attaccare in primavera, nonostante lo scetticismo che imperava presso lo stesso Comando supremo della Wermacht, che avrebbe preferito un approccio difensivo finalizzato a puntellare la resistenza italiana e a scongiurare l’uscita dalla guerra dell’alleato.

L’audacia di Rommel, la superiorità qualitativa dei carri armati Panzer e dei cannoni antiaerei 8,8 cm Flak – spesso usati come armi anticarro – e l’eccellenza di soldati e ufficiali tedeschi, furono tra i principali fattori che determinarono l’inatteso successo dell’offensiva.

Non si può però trascurare anche la debolezza del sistema difensivo alleato: buona parte delle unità migliori erano state ritirate e inviate in soccorso dell’alleato greco, invaso dagli italo-tedeschi.

Di fatto, gli anglo-australiani furono respinti fino all’originale confine egiziano, riuscendo però a conservare l’importante piazzaforte di Tobruk che, rifornita dal mare resistette per molti mesi.

Operazione Crusader

Gli inglesi, che consideravano il Nordafrica un teatro bellico di primaria importanza, non potevano rassegnarsi alla situazione. Fu soprattutto l’energica volontà di Winston Churchill a determinare l’invio di cospicui rinforzi.

Nel maggio del 1941 venne avviata l’operazione Tiger: l’invio attraverso la pericolosa rotta del Mediterraneo di un convoglio di rifornimento con 250 carri armati. Grazie anche a questi rinforzi, fu possibile lanciare una limitata offensiva già il mese successivo (operazione Battleaxe).

I tedeschi si dimostrarono però pronti a riceverla: dopo limitati successi tattici britannici, passarono al contrattacco, riconquistando le posizioni perse al Forte Capuzzo, al passo Halfaya e nell’area di Sollum.

L’arrivo del generale Auchinleck

L’insuccesso irritò Churchill che decise di sostituire Wavell con il generale Claude Auchinleck. Presto, però, Londra entrò in rotta di collisione anche con il nuovo comandante: ad Auchinleck venne chiesta una nuova offensiva che, in tempi brevi, potesse cogliere un risultato risolutivo.

Auchinlek, invece, riteneva che le sue forze non fossero sufficienti per conseguire il successo; chiese così nuovi cospicui rinforzi, oltre che tempo per l’addestramento.

L’operazione Crusader venne così lanciata solo il 18 novembre 1941, non senza che da Malta fosse stata avviata una violenta e prolungata offensiva contro il traffico mercantile proveniente dalla Penisola e diretto in Nordafrica.

La situazione logistica dell’Armata italo-tedesca era quindi precaria; la scarsità di carburante era particolarmente sentita. Ciononostante, i tedeschi conseguirono i primi successi tattici, la cui importanza però Rommel sovrastimò.

Decise quindi di guidare personalmente un’offensiva; ma, una volta inoltratosi in territorio egiziano, subì pesanti perdite e si trovò isolato e nell’impossibilità di dirigere la battaglia.

Contemporaneamente, Auchinlek aveva sostituito l’irresoluto comandante della VIII armata con il generale Neil Ritchie, assumendo personalmente il comando della battaglia. La 2a Divisione neozelandese riuscì a raggiungere gli assediati a Tobruk, liberando la piazzaforte.

Epilogo dell’operazione Crusader

Nonostante qualche ulteriore e limitato successo tattico, alle truppe dell’Asse non rimanevano più che poche decine di carri armati, insufficienti ad opporsi alla marea montante alleata.

Entro dicembre, i tedeschi, lasciandosi dietro le truppe di guarnigione e molte unità di fanteria, avevano evacuato la Cirenaica ed erano tornate a difendere la Tripolitania.

Battaglia di Gazala

Agli alti comandi tedesco e italiano apparve subito chiara la principale causa della sconfitta di novembre: la carenza dei rifornimenti.

La neutralizzazione di Malta

Venne quindi ordinata un’intensificazione degli attacchi contro Malta e contro la Royal Navy.

Hitler ordinò quindi l’invio nel Mediterraneo di alcuni U-boat e del FliegerKorps II. Fu, in particolare, l’azione di quest’ultimo a rendere impossibile l’ulteriore utilizzo di Malta in funzione offensiva. Al culmine della battaglia, gli attacchi degli apparecchi del Maresciallo Albert Kesselring si ripetevano quotidianamente sull’isola, le cui popolazione e guarnigione erano ridotte a vivere in rifugi sotterranei con razioni sempre più scarse.

Una nuova offensiva tedesca

Ripristinata così la linea dei rifornimenti, Rommel poté ricevere quanto necessario a rimettersi in marcia. Il 21 gennaio, muovendo lungo una duplice direttiva, il contingente italo-tedesco ottenne la più completa sorpresa tattica.

Il 3 febbraio 1942 Rommel raggiunse l’imbocco del Golfo di Bomba, a poco più di 100 chilometri da Tobruk. In pochi giorni, gli inglesi avevano perso 370 carri e oltre 3.300 uomini.

Nonostante l’opposizione dei comandi italiano e tedesco, Rommel, che riteneva possibile raggiungere il delta del Nilo e Alessandria con una nuova offensiva terrestre, ottenne l’approvazione di Hitler e poté pianificare una nuova avanzata. Ottenne anche il massimo supporto di uomini e rifornimenti, parte dei quali vennero stornati dalle aliquote previste per l’operazione Herkules (o operazione C3), nome in codice per il progetto d’invasione di Malta.

Erwin Rommel con il suo staff nel 1941, nel deserto durante la campagna del Nordafrica
1941. Erwin Rommel con il suo staff nella guerra nel deserto. Il generale tedesco è storicamente noto con il soprannome di volpe del deserto.

Il 26 maggio 1942, Rommel riprese l’attacco contro la linea difensiva nemica, ancorata a Gazala. Le operazioni di aggiramento, benché dirette personalmente dalla “volpe del deserto”, incontrarono inizialmente una seria opposizione. Gli alti ufficiali britannici non riuscirono però a coordinare le loro azioni e dettero al nemico il tempo per riorganizzarsi.

Il 12 e 13 giugno ebbe luogo una grande battaglia di carri armati e la superiore capacità tattica tedesca ne determinò l’esito. L’VIII Armata rimase con soli 70 mezzi ancora efficienti e dovette ripiegare verso est, lasciando isolata Tobruk.

La piazzaforte era ancora ben difesa ma il morale delle truppe era basso. La resistenza si sfaldò presto: il 21 giugno Tobruk si arrendeva lasciando nelle mani dei tedeschi 33.000 prigionieri e grandi quantità di armi e rifornimenti.

La battaglia si sposta a El Alamein

Per arginare la crescente marea tedesca, i comandi di Alessandria decisero la ritirata fino a Marsa Matruh, predisponendo una seconda linea difensiva a El Alamein. I mezzi corazzati dell’Asse, ormai ridotti a solo 100 carri armati, raggiunsero la prima località la sera del 25 giugno.

Nonostante l’inferiorità numerica, impeto, audacia del piano, sorpresa e demoralizzazione del nemico, portarono ancora la vittoria. Non senza difficoltà, i resti della 8a Armata riuscirono a sganciarsi e raggiungere El Alamein.

Qui Rommel li raggiunse il 1° luglio 1942 e attaccò immediatamente. Stavolta però le sue forze erano troppo esigue e la posizione difensiva troppo forte. Il generale Auchinlek, impiegando inglesi, neozelandesi, indiani e sudafricani, respinse il nemico e sferrò locali contrattacchi.

Entrambe le parti si erano però dissanguate in oltre 2 mesi di combattimenti quasi ininterrotti e furono costrette ad attestarsi a El Alamein.

Winston Churchill nel deserto
7 agosto 1942: Winston Churchill nel deserto mentre osserva la posizione di El Alamein

La vittoria alleata

Churchill provvide a riorganizzare i quadri della campagna del Nordafrica, nominando il generale Harold Alexander comandante supremo e il generale Bernard Montgomery comandante dell’VIII Armata. Le forze del Commonwealth ottennero cospicui rinforzi, tra cui 300 carri armati M4 Sherman di produzione statunitense.

Una prima offensiva, condotta da Montgomery con grande impiego di artiglieria e fanteria, venne respinta nell’ultima settimana di ottobre. Ma il 2 novembre, Montgomery scatenò l’assalto decisivo.

La fanteria neozelandese riuscì ad aprirsi un varco nelle linee nemiche: attraverso questa falla si spinsero gli 800 carri armati del X Corpo d’Armata del generale Herbert Lumsden.

I tedeschi riuscirono ancora a combattere una battaglia di arresto, ma rimasero con soli 35 carri armati ancora efficienti. Il 4 novembre l’offensiva britannica riprese e, questa volta, non incontrò praticamente opposizione.

I resti dell’armata tedesca, ridotti a circa 22.000 uomini, si ritirarono definitivamente, lasciando che venissero catturate le unità appiedate, soprattutto italiane.

L’operazione Torch

L’8 novembre prese il via l’operazione Torch: al comando del generale americano Dwight Eisenhower, sbarcò in Marocco e Algeria un contingente anglo-americano, forte di oltre 100.000 uomini. La resistenza delle truppe coloniali francesi fu lenta e disorganizzata.

Il 9 novembre, l’ammiraglio François Darlan, comandante supremo della regione, decise di aderire alla causa degli Alleati; da quel momento cessò la resistenza organizzata, benché alcuni ufficiali rifiutassero di arrendersi.

Più efficace fu la resistenza tedesca, prima assicurata da una testa di ponte di reparti paracadutisti inviati a Tunisi e poi rinforzata dalla nuova 10 Panzer Division.

La cosiddetta “corsa a Tunisi” fu così vinta dall’Asse, le cui truppe entrarono nella città per prime, infliggendo anche dolorose sconfitte agli inesperti americani.

Questi sviluppi avevano però persuaso Rommel che la campagna del Nordafrica fosse ormai una causa persa. Nonostante ordini in contrario e aspre discussioni con il comando, diresse abilmente la lunga ritirata dei resti della sua armata fino alla Tunisia; da qui sperava di evacuare le esperte truppe, affinché combattessero ancora in difesa dell’Italia.

Montgomery poté quindi entrare a Tripoli il 23 gennaio 1943, completando la conquista della Libia.

L’epilogo della guerra nel deserto

Erwin Rommel aveva previsto di schierare le sue truppe lungo la linea del Mareth, fortificata dai francesi prima della guerra. Nel frattempo, il comando delle forze in Tunisia fu affidato al generale Hans-Jürgen von Arnim.

L’ultimo successo tedesco

Sfruttando l’inesperienza americana e il disaccordo tra gli Alleati, von Arnim inscenò alcuni contrattacchi locali coronati da successo, a dispetto della sensibile inferiorità di mezzi e uomini.

Nel frattempo era sopraggiunto anche Rommel, con i suoi veterani; i due generali tedeschi ottennero un significativo successo nella battaglia di Sid Bou Zid, annientando un centinaio di carri nemici.

A questo punto, prevalse il piano di Rommel che con le due divisioni corazzate attaccò verso il passo di Kasserine, con l’obiettivo di accerchiare le forze americane in Tunisia. Il 21 febbraio Rommel ottenne una vittoria completa e conquistò il passo.

Fu il canto del cigno: di fronte all’affluire dei rinforzi e al netto predominio nemico nel cielo, i tedeschi si ritirarono sulle posizioni di partenza. La campagna del Nordafrica stava per volgere al termine.

La vittoria finale degli Alleati

Il 20 marzo 1943 iniziò l’offensiva generale alleata. Le linee nemiche furono sfondate il giorno 26; gli italo-tedeschi cominciarono la ritirata.

L’8 aprile Americani e Britannici si congiunsero: al nemico era rimasto da difendere il perimetro attorno a Tunisi e Biserta, con poche decine di migliaia di uomini.

L’epilogo era vicino: a fine aprile gli Alleati lanciarono una nuova offensiva generale, l’operazione Vulcan. Agli uomini di von Arnim e del generale Giovanni Messe restava ben poco da opporre: cominciarono le rese in massa. I tedeschi si arresero l’11 maggio; gli italiani si arresero due giorni dopo, quando venne catturato il generale Messe.

Il successo alleato nella Campagna del Nordafrica si deve alle intelligenti decisioni strategiche e alla caparbietà di Winston Churchill; il primo ministro inglese nemmeno nei momenti più amari mise in dubbio la fondamentale importanza del teatro di operazioni per la complessiva strategia alleata, e alla enorme superiorità di mezzi di cui disposero i comandanti da Montgomery in poi.

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Battaglia di Midway https://cultura.biografieonline.it/midway-battaglia/ https://cultura.biografieonline.it/midway-battaglia/#comments Tue, 12 Nov 2019 16:21:29 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=27453 I fatti, i protagonisti, lo scenario storico della Battaglia delle Midway
Midway, Battaglia di Midway
Battaglia delle Midway – Fu una storica battaglia della Seconda Guerra Mondiale che si combatté tra il 4 e il 6 giugno 1942 nei pressi dell’atollo di Midway, vicino alle Hawaii, tra Stati Uniti e Giappone

Midway: l’atollo

Midway è un atollo costituito da due isolette, Eastern e Sand. La sua unica importanza, nel 1942, risiedeva nella posizione strategica. Costituiva un avamposto della marina americana verso le Isole Filippine che, secondo tutti i piani prebellici, avrebbero dovuto costituire l’obiettivo principale dell’avanzata americana nel Pacifico. L’atollo di trova infatti a circa 2.300 km dalla più vicina base aeronavale americana, nelle Hawaii; e a oltre 5.000 km dalle coste Californiane; mentre è a circa 4.000 km da Tokyo. Queste enormi distanze devono essere sempre tenute presenti nel considerare lo svolgimento della Battaglia di Midway e, in genere, dell’intera guerra nel Pacifico. Tra il 4 e il 7 giugno 1942, Midway fu il teatro della più conosciuta battaglia aeronavale della storia.

Battaglia di Midway: la situazione alla vigilia

I giapponesi

Dopo il devastante attacco a Pearl Harbor (7 dicembre 1941), i giapponesi inanellarono una serie quasi ininterrotta di successi. Successi che li portarono, a fine aprile 1942, ad aver conseguito tutti i loro obiettivi strategici. Si erano infatti impadroniti di Singapore e della Malesia, di tutte le Filippine e delle Indie Orientali Olandesi, con i loro ricchi giacimenti petroliferi.

In questa situazione, lo stato maggiore nipponico aveva deciso di attuare una strategia più cauta. Perfezionarono così un perimetro difensivo costituito dalle isole del Pacifico sud-occidentale e centrale, allo scopo di opporre un’autentica barriera alla prevedibile controffensiva americana.

Rientravano in quest’ottica gli eventi che portarono alla cosiddetta Battaglia del Mar dei Coralli (4-8 maggio 1942); essa fu la prima mai combattuta tra 2 flotte che non si avvistarono e si colpirono solo per il tramite degli aerei imbarcati; ma fu anche la prima battuta di arresto per la Marina Imperiale che non riuscì a conseguire il controllo della Nuova Guinea e delle Isole Solomone.

Anzi, le 2 portaerei di squadra impegnate nel Mar dei Coralli furono danneggiate, soprattutto nella componente aerea. Furono compromesse al punto da non poter partecipare allo scontro a Midway. E questa assenza risultò probabilmente decisiva per la sconfitta.

Gli americani

Il disastro di Pearl Harbor aveva pesantemente condizionato la strategia americana fino a metà del 1942. Di fatto, le poche navi da battaglia superstiti avevano lasciato Pearl Harbor ed erano state ritirate verso la più sicura costa californiana.

La US Navy poteva schierare solo le portaerei, per coprire l’immensa vastità del Pacifico. Di queste, la Lexington era stata affondata proprio nel Mar dei Coralli; la Saratoga era in riparazione dopo essere stata silurata dal sottomarino giapponese I-6 e poté salpare da San Diego solo l’1 giugno: troppo tardi per partecipare alla battaglia.

Rimanevano le portaerei di squadra Enterprise, Hornet e Yorktown; quest’ultima riparata in fretta e furia dopo essere stata danneggiata nel Mar dei Coralli. Con le portaerei, l’ammiraglio Chester W. Nimitz, nominato comandante supremo della flotta del Pacifico dopo Pearl Harbor, aveva effettuato qualche operazione offensiva di secondaria rilevanza, allo scopo di non lasciare l’iniziativa totalmente nelle mani del nemico.

Midway: portaerei in fiamme
Portaerei in fiamme

In questo quadro rientrava il famoso raid Doolittle, dal nome del Tenente Colonnello James H. Doolittle che il 18 aprile aveva guidato 16 B-25B Mitchell, per l’occasione imbarcati proprio sulla Hornet, in una missione – più dimostrativa che efficace – di bombardamento di Tokyo e altre città giapponesi.

Secondo alcuni storici, il vero successo di questo raid fu soprattutto psicologico: spinse cioè lo stato maggiore nipponico e cercare di annientare le portaerei nemiche per prevenire ulteriori operazioni di questo tipo.

I piani delle due parti

I giapponesi avevano in animo di impadronirsi dell’atollo di Midway da utilizzare come base aerea e di attirare in battaglia il nemico per distruggerne le ultime 2 portaerei: erano infatti convinti che la Yorktown fosse affondata nel Mar dei Coralli.

Come era loro abitudine, avevano quindi concepito un piano complesso, articolato sulla loro tanto enorme quanto supposta superiorità qualitativa e quantitativa in campo navale.

La flotta giapponese

La flotta Imperiale era coinvolta quasi nella sua interezza ed era ripartita in numerosi gruppi operativi; alla prova dei fatti, essi si troveranno troppo lontani gli uni dagli altri per aiutarsi reciprocamente.

I giapponesi avevano inoltre concepito una contemporanea manovra nelle Aleutine che aveva lo scopo di occupare alcune località di questa nebbiosa catena insulare, contemporaneamente fungendo da esca per confondere gli americani.

La punta di diamante del loro schieramento era costituita dalla Forza d’attacco del viceammiraglio Chuichi Nagumo, composta dalle 4 portaerei Akagi, Kaga, Hiryu e Soryu, da 2 incrociatori da battaglia, 2 incrociatori pesanti, uno leggero e 8 cacciatorpediniere. Sarà proprio questa squadra a subire quasi tutto l’impeto del contrattacco statunitense.

La flotta americana

La flotta statunitense aveva ricevuto importanti informazioni dalla sezione destinata alla decodifica dei messaggi radio del nemico circa una probabile missione nel Pacifico Centrale e, con uno stratagemma, era riuscita a stabilire che l’obiettivo sarebbe stato l’atollo di Midway.

L’ammiraglio Nimitz decise di impiegare qui le sue ultime tre portaerei, lasciando quasi indifeso il fianco delle Aleutine, al quale vennero destinati pochi incrociatori e cacciatorpediniere. A supporto erano schierati anche 19 sommergibili, con il compito di attaccare il nemico durante il suo avvicinamento, non senza averne preventivamente comunicato l’avvistamento, e un assortimento di aerei dell’esercito e della marina schierati sulle piste di Midway.

La flotta in mare era affidata al contrammiraglio Frank J. Fletcher, comandante supremo in mare e della Task Force 17, che schierava la Yorktown, 2 incrociatori e 6 cacciatorpediniere, e al subordinato contrammiraglio Raymond A. Sprunce, con la Enterprise, la Hornet, 6 incrociatori e 9 cacciatorpediniere. La missione di Fletcher e Spruance era di colpire i giapponesi con attacchi aerei fin dalle primissime fasi della battaglia.

Il primo attacco giapponese

Gli aerei nipponici cominciarono a decollare dai ponti di volo di Akagi, Kaga, Hiryu e Soryu ancor prima dell’alba del 4 giugno. Obiettivo: Midway, e in particolar modo le piste di volo che, secondo i piani e secondo la dottrina bellica dell’epoca, dovevano essere messe fuori servizio prima che le truppe cominciassero l’assalto.

Un quadro raffigurante la battaglia delle Midway
Un quadro raffigurante la battaglia delle Midway

L’incursione non incontrò un’opposizione particolarmente efficace. Gli arei da caccia americani levatisi in volo erano quantitativamente inferiori (20 F2A Buffalo e 7 F4F Wildcat). I giapponesi invece schieravano 36 A6M Zero, che in questa fase della guerra erano di gran lunga superiori a qualsiasi apparecchio americano.

Tuttavia il comandante dell’incursione, tenente di vascello Joichi Tomonaga, segnalò all’Akagi, ammiraglia di Nagumo, la necessità di eseguire un secondo attacco, poiché le difese di Midway erano state sì duramente colpite ma non annientate: per le truppe di fanteria sarebbe stato troppo pericoloso lo sbarco.

Nagumo, che come misura precauzionale aveva trattenuto a bordo molti aerei, alle 07:15 diede ordine di prepararli per un secondo attacco su Midway. Alle 07:40 cominciarono però ad arrivare i primi rapporti dei ricognitori giapponesi sull’avvistamento di navi nemiche.

Queste notizie contraddittorie finirono per determinare l’esito della battaglia. Lo stato maggiore nipponico decise prima di riarmare gli arei in preparazione per l’attacco a Midway in modo che potessero danneggiare le navi nemiche. Ricevuta poi l’informazione, errata, che il nemico non disponeva di portaerei, si decise di tornare a concentrarsi sull’attacco a Midway, con conseguente contrordine e nuova preparazione degli aerei a bordo.

A tutta questa serie di ordini contraddittori, si aggiungeva la necessità per i giapponesi di sgombrare i ponti di volo per accogliere i velivoli di ritorno dall’incursione sull’atollo.

La reazione statunitense

Nel frattempo, la marina americana non se n’era certo stata con le mani in mano. Alle 05:34, un idrovolante PBY Catalina decollato da Midway aveva avvistato i giapponesi. Le TF16 e -17 virarono quindi per accorciare la distanza; dato che il raggio d’azione degli aerei imbarcati a quell’epoca era inferiore a quello dei giapponesi.

Alle 07:50 Spruance fece decollare la sua forza di attacco, seguito alle 09:06 da Fletcher. Il raggio estremo al quale gli aerei vennero inviati, con l’intento di colpire le portaerei nemiche prima che queste avessero la possibilità di fare altrettanto nei confronti delle ultime, preziosissime portaerei della U.S. Navy, fece sì che le varie squadriglie americane raggiungessero i loro obiettivi in varie ondate, impossibilitate a eseguire un attacco coordinato. Paradossalmente, questa si rivelò una fortuna.

Gli aerei da caccia del Sol Levante che proteggevano le navi amiche erano stati parecchi impegnati a respingere numerosi attacchi scagliati nelle prime ore del mattino da aerei basati a Midway e decollati prima che l’atollo venisse danneggiato dagli aerei di Tomonaga.

Ora, si trovarono a respingere i primi apparecchi decollati dalle portaerei, i lenti e vulnerabili aerosiluranti TBD Devastator che volavano a bassa quota per sganciare i loro letali siluri.

Fu una strage: solo uno riuscì a sganciare poco prima di essere abbattuto, ma il suo ordigno non andò a segno. 34 dei 41 aerosiluranti non fecero ritorno e la flotta giapponese era ancora intatta.

Aerei USA durante la Battaglia di Midway: foto della flotta americana scattata in volo
Aerei USA durante la Battaglia di Midway: foto della flotta americana scattata in volo

La battaglia di Midway si decide

La fortuna, più che il calcolo, aveva guidato le squadriglie di bombardieri in picchiata SBD Dauntless decollate da Enterprise e Yorktown, a convergere sulla squadra d’attacco di Nagumo da direzioni differenti. Con gli Zero giapponesi impegnati a bassa quota per contrastare lo sfortunato e già ricordato attacco degli aerosiluranti, gli aerei dei comandanti C. Wade McClusky e Max Leslie poterono sfruttare condizioni quasi ideali per l’attacco. Anche perché sui ponti di volo le squadre di marinai nipponiche erano impegnate a rifornire e riarmare gli aerei.

Ciò comportava la presenza sul ponte di grandi quantità di bombe e carburante, condizione pericolosissima per una portaerei.

Tra le 10:25 e le 10:28 i Dauntless colpirono e incendiarono 3 delle portaerei di Nagumo. Benché queste impiegassero ancora diverse ore ad affondare, la battaglia era decisa. Ai giapponesi rimaneva una sola portaerei operativa, la Hiryu.

La Yorktown e la Hiryu affondano

Furono proprio bombardieri in picchiata Aichi D3A Val, fatti decollare dalla portaerei superstite, a colpire una prima volta con 3 bombe la Yorktown poco dopo mezzogiorno.

I marinai statunitensi, lavorando con grande alacrità, riuscirono però a riparare i danni, e quando gli aerosiluranti Nakajima B5N Kate colpirono nuovamente l’ammiraglia di Fletcher, circa 2 ore più tardi, riferirono che si trattava di un’altra portaerei, non quella già danneggiata in precedenza.

I giapponesi si convinsero così di aver affondato 2 portaerei nemiche. Viceversa, erano tutte e tre ancora a galla: 2 totalmente intatte e la Yorktown gravemente danneggiata, che finirà per affondare alle 05:30 del 7 giugno, dopo essere stata silurata anche dal sommergibile I-168.

La squadra di Spruance, dopo l’atterraggio degli aerei reduci dal vittorioso attacco contro le portaerei, era ben decisa a non lasciarsi sfuggire la superstite portaerei nemica. Una nuova ondata di attacco colpì la Hiryu poco dopo le 17:00 e anche questa nave seguì la sorte delle altre portaerei: divorata dagli incendi finì per affondare.

Fu nel corso della successiva notte che i giapponesi valutarono la situazione; decisero di abbandonare l’operazione e di ritirarsi: anche se si ebbe qualche ulteriore scontro che portò all’affondamento dell’incrociatore Mikuma e al danneggiamento del gemello Mogami, la battaglia di Midway si era conclusa con un decisivo successo americano.

Il dopo Midway e l’analisi della battaglia

Perché gli americani riuscirono a ottenere una vittoria così clamorosa, in condizioni di netta inferiorità come quelle in cui cominciarono la battaglia di Midway? I principali motivi sono:

  • lo straordinario lavoro dell’intelligence, che mise nelle mani di Nimitz una ricostruzione sufficientemente accurata del piano nemico;
  • le lacune del piano giapponese, in particolare l’eccessiva frammentazione delle forze;
  • la vulnerabilità delle portaerei giapponesi: gli scafi erano protetti meno di quelli delle equivalenti americani; e gli equipaggi erano meno addestrati nel controllo del danno;
  • la fortuna, che portò i Dauntless di McClusky e Leslie ad attaccare il nemico in condizioni ideali;
  • le indecisioni del viceammiraglio Nagumo il mattino del 4 giugno;
  • l’assenza delle portaerei Shokaku e Zuikaku, danneggiate nel Mar dei Coralli.

I numeri a confronto

Inoltre, secondo alcuni storici, H. P. Willmott su tutti, la superiorità numerica giapponese era solo presunta. A causa dell’errato piano d’attacco nemico, le flotte che effettivamente si scontrarono a Midway erano sostanzialmente di pari forza in quello che sarebbe diventato il decisivo “punto di incontro”: 4 portaerei giapponesi contro 3 americane.

A ciò si aggiungeva la stessa Midway, che fungeva da portaerei immobile ma inaffondabile; si aggiungeva inoltre un numero di aerei che varia in base alle fonti; anche se variabile esso può essere considerato sostanzialmente equivalente, tra i 260 e i 270 per parte.

Alcuni storici ritengono che la Battaglia di Midway costituisca il “turning point” della guerra nel Pacifico. Senza addentrarsi nella diatriba, è indubbio che l’affondamento delle 4 migliori portaerei nemiche, insieme ai loro addestratissimi equipaggi e aviatori, costituì un colpo durissimo per una nazione dalle limitate capacità industriali, qual era allora il Giappone.

Di fatto, mentre a partire dal 1943 gli americani mettevano in servizio enormi quantità di navi tecnicamente all’avanguardia, i giapponesi non si risollevarono più dalla perdita. Combatterono ancora per tutto il 1942 nell’intento di mantenere l’iniziativa strategica nel Pacifico. Con la sconfitta nella campagna di Guadalcanal, furono costretti sulla difensiva e, infine, alla resa incondizionata il 15 agosto 1945.

Film sulla battaglia di Midway

Sono stati prodotti alcuni film sull’evento storico della Battaglia di Midway. I più celebri sono quello del 1976 intitolato “La battaglia di Midway” (Midway), diretto da Jack Smight, con Charlton Heston, Henry Fonda, Robert Mitchum e Glenn Ford; e quello più recente del 2019 intitolato semplicemente Midway, diretto da Roland Emmerich, con Ed Skrein, Patrick Wilson, Luke Evans, Aaron Eckhart, Nick Jonas, Mandy Moore, Dennis Quaid e Woody Harrelson.

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