Cronaca nera Archivi - Cultura https://cultura.biografieonline.it/argomento/cronaca-nera/ Canale del sito Biografieonline.it Mon, 01 Apr 2024 14:35:30 +0000 it-IT hourly 1 Il disastro aereo delle Ande: ispirò due film https://cultura.biografieonline.it/il-disastro-delle-ande/ https://cultura.biografieonline.it/il-disastro-delle-ande/#comments Sat, 13 Jan 2024 07:59:42 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=1947 Quando si parla di disastro delle Ande si fa riferimento all’incidente aereo verificatosi il 13 ottobre 1972 sulla Cordigliera delle Ande e alla serie di eventi drammatici che hanno fatto seguito a esso, fino al momento del salvataggio, andato in scena il 24 dicembre dello stesso anno.

In tutto, il disastro aereo delle Ande ha portato alla morte di 29 persone; i superstiti, invece, furono 16.

Il disastro delle Ande
Il disastro delle Ande del 13 ottobre 1972 provocò 29 vittime; furono 16 i superstiti.

Il primo volo

È il 12 ottobre del 1972 quando un aereo Fokker Fairchild FH-227 D, volo 571 della Fuerza Aerea Uruguaya, decolla da Montevideo, capitale dell’Uruguay, dall’aeroporto Carrasco, diretto a Santiago del Cile, dove atterrerà all’aeroporto Arturo Merino Benitez.

Sull’aereo si trova la squadra di rugby del Collegio Universitario di Montevideo “Los viejos cristianos”, con allenatori, amici e parenti.

Il volo, tuttavia, subisce un’interruzione imprevista, e in serata, a causa delle perturbazioni che stanno interessando le Ande e la fitta nebbia, è costretto ad atterrare in Argentina, all’aeroporto El Plumerillo di Mendoza. Qui i passeggeri sono costretti a pernottare.

La ripartenza

Il giorno successivo, l’aereo riparte da Mendoza, pilotato da Dante Hector Lagurara, tenente colonnello e copilota, sotto la supervisione di Julio Cesar Ferradas, colonnello e comandante.

L’aereo può seguire due rotte:

  1. la prima prevede di attraversare il passo Juncal (che in linea d’aria si trova a poco più di duecento chilometri a ovest di Mendoza), arrivare a San Felipe e quindi virare verso Santiago in direzione sud (è questa la via più veloce);
  2. la seconda, invece, prevede di dirigersi verso sud fino alla località di Malargye, e lì deviare verso ovest in maniera tale da superare le Ande sopra il passo del Planchon, per poi dirigersi a Curico verso nord, arrivando così a Santiago.

Questi due percorsi alternativi devono fare i conti con l’impossibilità, per il Fokker, di attraversare le Ande ad alta quota, a causa della sua quota di tangenza [massima distanza verticale geodetica raggiungibile da un aeromobile in volo, in riferimento alla data superficie di riferimento, oltre la quale non è più possibile salire mantenendo l’assetto di volo orizzontale].

Il tenente colonnello Lagurara, quindi, decide di optare per la seconda via, ritenuta decisamente più sicura.

Il volo, in un primo momento, procede senza problemi, fino a quando si giunge al punto di attraversamento del passo.

Dopo aver seguito la rotta Amber 26 dopo Chilecito, alle 15.08 l’aereo giunge a Malargue, con soli due minuti di ritardo rispetto alla tabella di viaggio approntata prima del decollo; quindi, viene cambiata rotta in direzione del Planchon, si devia verso ovest e si segue la rotta Green 17.

La porzione di cielo in cui viaggia il Fokker, a 5486 metri (equivalenti a 18mila piedi), è completamente sgombra di nubi, ma sotto, le montagne – a parte i picchi più alti – sono completamente coperte.

Ciò vuol dire che i piloti non sono in grado di verificare se il passo è già stato superato, e quindi devono tenere conto unicamente di un calcolo basato sulle velocità dell’aereo, sulla potenza del vento e sul tempo passato dal momento in cui si è deviato verso Malargue.

Il calcolo in teoria non è difficile, anche grazie agli strumenti di navigazione in dotazione al velivolo.

Tredici minuti dopo aver passato Malargue, alle 15.21, Lagurara comunica alla torre di controllo di Santiago di essere sopra il passo del Planchon, a poco più di 5400 metri di quota: l’arrivo a Curico, secondo i suoi calcoli, dovrebbe avvenire undici minuti dopo, alle 15.32.

È probabile che la valutazione compiuta da Lagurara sia sbagliata, e che non abbia tenuto conto del vento, che in quel momento soffia verso oriente a una velocità di almeno sessanta chilometri all’ora: in altre parole, l’aereo sta procedendo a una velocità leggermente minore rispetto a quel che pensa Lagurara; così per raggiungere il passo sono necessari altri tre minuti.

L’errore e lo schianto

Alle 15.24 si verifica l’errore che segna in maniera fatale il destino dell’aereo.

Lagurara in maniera inspiegabile informa la torre di controllo dell’aeroporto di essere giunto sopra Curico: egli avvisa di essere in procinto di virare verso nord, lungo la rotta chiamata Amber 3, in maniera da cominciare la fase di avvicinamento in discesa verso la pista.

Santiago autorizza l’aereo a deviare verso nord, anche se non sono passati gli undici minuti comunicati da Lagurara rispetto all’attraversamento del passo.

Ciò significa che non solo Curico non può ancora essere stata raggiunta, ma soprattutto che la rotta necessaria ad attraversare le montagne non è stata ancora completata.

Inoltre, l’errore di tre minuti rispetto alla posizione che è stata comunicata fa sì che il velivolo, al momento di virare verso nord, si trovi esattamente sopra il passo del Planchon; nel momento in cui avviene la deviazione verso nord, dunque, Lagurara si sta infilando, senza saperlo, proprio in mezzo alla Cordigliera.

L’analisi dell’errore

In seguito si discuterà molto a proposito dell’errore compiuto dal pilota, soprattutto per quel che riguarda i tempi del volo: se a essi fosse stata prestata un’attenzione maggiore, probabilmente, l’incidente si sarebbe potuto evitare.

In realtà, non è mai stata fatta chiarezza su un altro aspetto fondamentale, e cioè sul corretto funzionamento degli strumenti di navigazione, con particolare riferimento al dispositivo di gestione della rotta e di radiolocalizzazione.

Il Fokkar, infatti, è munito di due sistemi di tracciamento della rotta e radiolocalizzazione, uno dei quali è il sistema VOR (abbreviazione di VHF Omnidirectional Range). Si tratta del dispositivo che rappresenta lo standard di navigazione aerea per tutti i voli di medio e breve raggio (prima dell’arrivo del GPS), ed opera su frequenze VHF poiché esse non sono condizionate dagli agenti atmosferici e viaggiano unicamente in linea retta.

In questo modo, dunque, gli angoli possono essere calcolati in maniera molto accurata, anche se lo svantaggio è che il VOR può operare solo per distanze non superiori ai duecentoquaranta chilometri. Per distanze più lunghe, infatti, la loro efficacia si esaurisce.

Le stazioni VOR vengono utilizzate lungo le aerovie come intersezioni: in pratica, un’aerovia è composta da linee rette che mettono in comunicazione le varie stazioni VOR tra di loro. Un aereo in volo viaggia normalmente in linea retta, effettuando solo alcune virate: in corrispondenza di esse, il VOR di riferimento viene cambiato nella rotta.

In particolare, nel volo del 13 ottobre, le tre aerovie sono in direzione nord-sud la Amber 26 e la Amber 3, e in direzione est-ovest la Green 17.

L’ipotesi di un malfunzionamento

L’ipotesi più probabile, a proposito dell’errore di Lagurara, è che esso sia stato provocato da un malfunzionamento del VOR, eventualmente indotto da interferenze magnetiche determinate dalle perturbazioni sulle Ande: tale malfunzionamento avrebbe segnalato, in maniera erronea, il passaggio sulla verticale di Curico.

In realtà, comunque, la verità non potrà mai essere conosciuta, perché tutte le apparecchiature del Fokker sono state danneggiate, o nel corso dell’incidente, o successivamente per l’intervento dei sopravvissuti impegnati a cercare la radio di bordo per provare a chiamare i soccorsi.

In ogni caso, è unanimemente riconosciuto il fatto che l’incidente sarebbe stato evitato se solo l’equipaggio si fosse accorto che, nel momento in cui l’aereo deviava, era impossibile che si fosse già giunti a Curico.

I momenti prima dello schianto

L’aereo dunque devia verso nord di novanta gradi: non solo le montagne non sono ancora state superate, ma addirittura il velivolo si sta dirigendo verso di esse, in particolare verso le cime più alte che si trovano a nord del passo.

Il Fokker, dunque, si trova nella zona tra il vulcano Tinguirica e il Cerro Sosneado; ignaro di stare sorvolando le montagne, Lagurara si tuffa nelle nuvole, dove incontra una turbolenza violenta che lo fa scendere di diverse centinaia di metri in modo imprevisto. Le nuvole a questa nuova quota sono poche, e così sia i passeggeri che l’equipaggio si rendono conto di trovarsi vicinissimo alle cime delle Ande.

Lagurara prova a rimediare all’errore spingendo i motori al massimo, ma i tentativi di riprendere quota falliscono: e così, alle 15.31 l’aereo impatta a circa 4200 metri di altezza contro la cima di una montagna; l’urto coinvolge l’ala destra, che si stacca e ruotando su se stessa taglia addirittura la coda dell’aereo, in corrispondenza della cambusa.

Mentre la fusoliera viene perforata dall’elica del motore destro, la coda precipita, e porta con sé diversi passeggeri.

L’aereo, naturalmente, scende di quota velocemente, ormai privo di coda e di ala, e perde anche l’ala sinistra nell’impatto contro uno spuntone roccioso.

La fusoliera intanto precipita, e finisce su una spianata nevosa piuttosto ripida, con una pendenza non dissimile dalla sua traiettoria.

L’aereo, d’altra parte, scivola per almeno due chilometri lungo il pendio, rallentando progressivamente, fino a quando un violento impatto non lo blocca nella neve.

Siamo a una quota di 3657 metri, ma l’altimetro segna un’altitudine di soli 2133 metri.

Si tratta di una segnalazione errata fondamentale nello sviluppo dei fatti successivi, anche perché Lagurara (prima di morire in conseguenza delle ferite causate dallo schianto) comunica questa informazione agli altri passeggeri.

In altre parole, i superstiti sono convinti di aver superato Curico, a causa di informazioni sbagliate sia sulla quota che sulla posizione: essi credono di trovarsi nella zona pedemontana situata oltre la cresta della Cordigliera, in Cile, e invece sono precipitati in Argentina, a est rispetto allo spartiacque della catena montuosa, nella provincia di Mendoza (dipartimento di Malargue).

Questa errata convinzione indurrà i sopravvissuti a effettuare una spedizione in cerca di soccorsi verso occidente.

Le vittime

Le persone partite a bordo del Fokker erano in tutto quarantacinque.

Dodici di esse muoiono nell’impatto: alcune a causa della violenza dello schianto; altre perché cadono dall’aereo dopo che la coda si è staccata.

Un altro individuo, caduto dall’aereo nel corso della scivolata, riesce a sopravvivere, ma tentando di raggiungere gli altri superstiti scendendo il pendio a piedi, scivola sulla neve e precipita a valle.

Nel corso di quella giornata, muoiono altre cinque persone a causa delle ferite riportate nell’impatto. Tra i sopravvissuti, ovviamente, le condizioni sono pessime: molti devono fare i conti con ossa fratturate, e nessuno ha a disposizione un abbigliamento adatto per sopportare le rigide temperature del luogo.

Due passeggeri studenti di medicina si occupano di prestare i primi soccorsi, ma non dispongono di alcun kit di soccorso: l’unico consiglio che possono dare agli altri è quello di mettere nella neve braccia e gambe fratturate, in maniera da limitare il gonfiore e alleviare, per quanto possibile, il dolore.

Tra i superstiti c’è anche quello che diventerà l’eroe-simbolo della vicenda, Nando Parrado: tuttavia egli, creduto da tutti morte, viene lasciato all’addiaccio per una notte intera, e scoperto solo il giorno successivo. La notte, per superare il freddo, i superstiti erigono una sorta di barriera realizzata con le valigie, in modo da chiudere la fusoliera che è squarciata nella parte posteriore.

Nel frattempo, non appena l’aereo viene dato per disperso, prendono avvio le ricerche coordinate dal servizio di soccorso aereo cileno, il SAR.

I comandanti Massa e Garcia riascoltano le registrazioni relative alle comunicazioni avvenute tra il Fokker e la torre di controllo di Santiago, e hanno l’intuizione corretta di individuare un errore di rotta compiuto dal pilota. E così, a nord del passo del Planchon iniziano ricognizioni aeree, che tuttavia sono penalizzate dal fatto che la fusoliera, di colore bianco, si mimetizza sia nella nebbia che nella neve.

Le autorità, dunque, otto giorni dopo l’impatto decidono di interrompere le infruttuose ricerche dei superstiti, convinte ormai che, complici le temperature notturne bassissime, nessuno sia riuscito a sopravvivere. Inoltre, le ricognizioni stanno avvenendo in condizioni climatiche proibitive, e non si vuole correre il rischio di sacrificare la vita degli uomini impegnati.

I superstiti

Nel frattempo, i sopravvissuti devono far fronte a condizioni terribili: i primi giorni si dissetano succhiando la neve e si sfamano mangiando caramelle, cioccolato, biscotti e snack presenti sull’aereo.

Tuttavia, la neve succhiata causa disturbi intestinali, e quindi si decide di scioglierla usando lamiere di alluminio (prese dall’interno dei sedili) per incanalare i raggi del sole come specchi ustori. I giorni passano, e il cibo deve essere razionato, in maniera da farlo durare più tempo possibile. Purtroppo, ben presto le razioni finiscono, e così i sopravvissuti, venuti a sapere da una radiolina a transistor che le ricerche sono state interrotte, capiscono che la situazione è disperata: alla fine, per sopravvivere, si decidono a nutrirsi dei corpi senza vita dei passeggeri morti, i cui cadaveri erano stati sepolti nella neve.

Il 29 ottobre un’altra tragedia si abbatte sul gruppo: otto persone, tra cui Marcelo Perez, capitano della squadra, muoiono a causa di una valanga che travolge completamente l’aereo nel quale stavano dormendo.

Parrado rischia di morire anche questa volta, ma riesce a salvarsi in extremis, ultimo a essere liberato dopo essere stato sepolto nella neve fresca per molto tempo.

Da quell’evento, Parrado arriva alla convinzione di essere predestinato a sopravvivere, e quindi decide di andare in cerca di aiuto, attraversare le Ande e mettere in salvo i compagni. La prima spedizione, tuttavia, si scontra con le buoni intenzioni, e fallisce quasi subito: scalare la montagna a piedi, infatti, pare un’operazione praticamente impossibile.

Ecco perché Parrado, insieme con Antonio Vizintin e Roberto Canessa, gli uomini più robusti tra i superstiti, inizia ad allenarsi effettuando escursioni sulla neve.

Proprio durante una di queste escursioni, i tre si imbattono nella coda dell’aereo, staccatasi nello schianto, da cui prelevano le batterie della radio di bordo e altre valigie. Anche in questo caso, però, le difficoltà non mancano, visto che le batterie sono troppo pesanti per essere trasportate: tutti i tentativi di trascinarle fino alla fusoliera vengono quindi abbandonati.

Si decide, perciò, di effettuare l’operazione inversa, vale a dire smontare la radio e portarla fino alla coda. La radio viene smontata con l’aiuto di Roy Harley, l’unico dei presenti che ha conoscenze di elettronica, e poi trasportata verso le batterie. Tuttavia, i tentativi di farla funzionare si rivelano infruttuosi: essa, infatti, pur non essendosi rovinata nell’impatto, non è compatibile con la tensione delle batterie.

Le speranze dei superstiti di salvarsi si basano sull’intenzione di effettuare una spedizione verso ovest: le indicazioni sbagliate del pilota Lagurara e dell’altimetro, infatti, fanno credere al gruppo di trovarsi nella zona pedemontana al di là delle cime andine, e quindi che il pendio che si vede a occidente rappresenta l’ultimo ostacolo prima delle pianure cilene.

Quel pendio, invece, è il fianco orientale di una delle cime che fanno da spartiacque tra Argentina e Cile: in altre parole, oltre a quel pendio ci sono ancora montagne.

Se i sopravvissuti avessero la corretta cognizione del punto in cui si trovano, potrebbero cercare di salvarsi camminando verso le valli argentine, a est; si tratterebbe di un cammino in discesa, relativamente facile da affrontare.

Non solo: a meno di dieci chilometri dal punto in cui si trovano, sempre in direzione est, si trova un rifugio estivo: in quel periodo è chiuso, ma al suo interno ci sono legna da ardere e vivere, che potrebbero tornare utili. Sono tutte informazioni, però, che naturalmente i sopravvissuti del disastro non possono conoscere.

La spedizione decisiva

Ecco perché il 12 dicembre del 1972, quando sono passati ormai quasi due mesi dallo schianto, Vizintin, Canessa e Parrado partono per una nuova spedizione, intenzionati a raggiungere a piedi il Cile.

Il viaggio si rivela più lungo del previsto, e solo per arrivare alla cima del pendio ci impiegano quasi tre giorni (a un’altitudine simile a quella del Monte Bianco); per fortuna, per proteggersi dal freddo notturno, i tre hanno pensato di realizzare un sacco speciale ottenuto con il materiale isolante che componeva la coda dell’aereo.

Il primo ad arrivare in cima è Parrado, che ben presto si rende conto che la realtà non è quella immaginata: la distanza da coprire, insomma, è decisamente maggiore rispetto a quello che si pensava. Si decide, così, che Vizintin tornerà all’aereo, anche perché i viveri a disposizione sono sufficienti solo per due persone.

Canessa e Parrado, così, camminano per una settimana intera. Dalla prima cresta scorgono una valle, a più di dieci chilometri da loro: è in quella direzione che procedono, con la speranza di incrociare il corso di un fiume che li porti verso centri abitati più velocemente. I due, quindi, tra numerosi ostacoli e difficoltà riescono a giungere nella valle in cui si insinua il Rio Azufre tra le montagne.

Arrivati al corso d’acqua, seguono la riva sinistra per diversi giorni, scendendo gradualmente di quota. La salvezza sembra vicina quando vedono per terra una scatola di latta e, più tardi, alcune mucche al pascolo. Il giorno dopo, tre uomini a cavallo li scorgono dall’altra parte del fiume. Uno di loro decide di comunicare scrivendo su un foglio di carta (arrotolato poi attorno a un sasso e scagliato dall’altra parte della riva) e chiedendo cosa vogliono.

Parrado risponde raccontando che sono sopravvissuti a un disastro aereo sulle montagne, e che ci sono quattordici persone ferite che lo aspettano. L’uomo capisce immediatamente la situazione, e parte in cerca di aiuto, non prima di aver lasciato alla coppia, ormai esausta, alcune pagnotte di pane.

Il salvataggio

Vengono così avvertite le forze dell’ordine locali: il 23 dicembre, le autorità ricevono, dal colonnello Morel, la comunicazione che esistono degli uomini sopravvissuti allo schianto del 13 ottobre; da Santiago, parte immediatamente una spedizione di due elicotteri, pronti a prestare soccorso.

Su uno degli elicotteri c’è Parrado, che così può dirigere i soccorritori fino all’aereo e mettere in salvo i compagni.

Le condizioni atmosferiche, tuttavia, sono pessime: i venti andini soffiano violentemente, e gli elicotteri devono far fronte a correnti ascensionali e raffiche di fortissima intensità; solo grazie all’abilità dei piloti si riesce a evitare un altro incidente.

I problemi, peraltro, non accennano a finire: una volta arrivati sul posto, infatti, occorre capire come caricare i superstiti, visto che, naturalmente, la ripidità del pendio non permette ai velivoli di atterrare.

Essi, dunque, devono aspettare rasenti al suolo, in volo stazionario orizzontale, per permettere ai superstiti di salire.

Non tutti i sedici superstiti possono essere salvati immediatamente, e con loro rimangono un infermiere e alcuni alpinisti fino al mattino successivo, quando una seconda spedizione riesce a portare in salvo anche loro.

Tutti i superstiti vengono quindi ricoverati in ospedale: sono disidratati e malnutriti, e presentano traumi e sintomi di insufficienza respiratoria.

Anche se alcuni hanno perso fino a quaranta chili, si trovano in condizioni di salute tutto sommato discrete.

Da quel momento, quel luogo sulla cordigliera andina diventerà meta di escursioni, per ricordare una tragedia che nessuno dimenticherà.

I film

Ci sono due film che si ispirano e raccontano questa tragedia. Sono:

  1. Alive – Sopravvissuti, del 1995;
  2. La società della neve, del 2023.
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Simonetta Cesaroni: il delitto di via Poma https://cultura.biografieonline.it/simonetta-cesaroni-il-delitto-di-via-poma/ https://cultura.biografieonline.it/simonetta-cesaroni-il-delitto-di-via-poma/#comments Thu, 19 Oct 2023 15:38:08 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=960 Il delitto di via Poma

Simonetta Cesaroni viene assassinata nel pomeriggio del 7 agosto 1990 nell’ufficio dell’A.I.A.G di via Poma 2 a Roma presso il quale presta servizio come contabile. A provocarne la morte è il forte trauma cranico subìto. Le successive 29 coltellate inferte dall’assassino sono solo un’ulteriore testimonianza dell’efferatezza e della crudeltà del delitto. Al momento della morte la vittima ha poco più di vent’anni, e niente nella sua vita privata lascia supporre l’esistenza di frequentazioni poco chiare o pericolose.

Simonetta Cesaroni
Una foto di Simonetta Cesaroni

L’ultimo giorno di lavoro di Simonetta Cesaroni

Simonetta Cesaroni presta servizio presso lo studio di commercialisti Reli Sas che annovera tra i suoi clienti proprio l’Associazione Italiana Alberghi della Gioventù. Il suo superiore, Salvatore Volponi, le propone così di integrare la settimana lavorativa recandosi presso l’A.I.A.G di via Poma il martedì e il giovedì pomeriggio.

Per la ragazza si tratta dell’ultimo giorno di lavoro prima delle vacanze, e deve controllare semplicemente alcune pratiche. Durante il pomeriggio effettua un’unica telefonata alla collega, Luigia Berettini, per chiederle una password di accesso al computer. Quel pomeriggio di piena estate  è sola in ufficio, e i due portieri dello stabile, Pietro Vanacore detto Pietrino e la moglie Giuseppa de Luca detta Pina, dichiarano di non aver visto nessun estraneo varcare il portone dello stabile in via Poma e entrare nella palazzina B.

Alle 21.30 la sorella, Paola, non vedendola rientrare chiama il Volponi che non riesce a fornirle alcuna informazione utile. Paola e il fidanzato decidono di passare a prendere il Volponi per raggiungere l’ufficio, dove quest’ultimo trova il corpo senza vita della ragazza. Simonetta è nuda, l’assassino gli ha lasciato addosso solo i calzini, un top e il reggiseno.

L’autopsia rivela che l’arma utilizzata per infliggerle i colpi è probabilmente un tagliacarte. Oltre ai tagli, uno dei capezzoli presenta un segno compatibile con un morso. Le uniche tracce di sangue non appartenenti alla vittima sono maschili, e vengono rinvenute sulla maniglia della porta dell’ufficio.

Il primo indiziato: Pietro Vanacore

Il delitto sembra trovare inizialmente una facile soluzione. Tutti i sospetti si appuntano sul portiere dello stabile, Pietro Vanacore. I familiari del portiere dichiarano di essere stati in cortile dalle 16 alle 20, ma il portiere risulta assente proprio nel lasso di tempo in cui è stato commesso l’omicidio, vale a dire tra le 17,30 e le 18,30.

La situazione già delicata viene aggravata dalla scoperta di una macchia di sangue sui pantaloni dell’uomo. Ad un esame scientifico più approfondito il sangue risulterà appartenere allo stesso Vanacore, malato di emorroidi.

Gli abiti, inoltre, non presentano ulteriori tracce ematiche, indizio che scagiona definitivamente il portiere. Dopo aver commesso il delitto, l’assassino ha, infatti,  accuratamente ripulito l’ufficio ed è altamente probabile che si sia macchiato con il sangue di Simonetta. Gli abiti di Vanacore, invece, pur essendo stati indossati per ben tre giorni (dal 7 al 9 agosto) non sono stati macchiati dal sangue della vittima. Infine, anche il sangue sulla maniglia dell’ufficio non appartiene al portiere.

Le ipotesi di indagine: dal coinvolgimento del giovane Federico Valle fino al SISMI e alla Banda della Magliana.

Un caso che sembrava risolto

Il caso che sembrava, dunque, praticamente risolto finisce per complicarsi e per assumere sempre più i contorni di un giallo.

Si dovrà attendere fino al marzo 1992 per una nuova svolta nelle indagini.

Compare sulla scena un cittadino austriaco, Roland Voller, che racconta di una serie di conversazioni telefoniche avute con una donna, Giuliana Ferrara.

La donna è la moglie di Francesco Valle, figlio di un anziano architetto, Cesare Valle, residente nello stabile di via Poma e assistito dal portiere Vanacore.

Il Voller racconta di essere venuto a contatto con la donna a seguito di una telefonata fatta per errore. Tra i due è iniziata una sorta di amicizia telefonica, e Giuliana si è confidata con l’uomo raccontandogli che proprio il 7 agosto del 1990 il giovane figlio, Federico, è tornato a casa sporco di sangue dopo una visita al nonno Cesare.

Secondo questo racconto, Federico avrebbe commesso il delitto perché accecato dalla rabbia per la relazione del padre con la giovane Simonetta. La donna, pur ammettendo di conoscere il Voller, dichiara di non avergli mai fatto questo tipo di confidenze. La procura tenta di perseguire Federico ipotizzando che il giovane abbia avuto come complice il portiere Vanacore, chiamato dal nonno per cancellare le tracce del delitto e proteggere così il nipote.

Le analisi sul sangue rinvenuto in ufficio dimostreranno, però, l’estraneità ai fatti del giovane Federico.

Voller, un personaggio misterioso

La figura dello stesso Voller non consente agli inquirenti di battere ulteriormente questa pista. L’uomo svolge la professione di commerciante, ma è in realtà un truffatore che vende spesso informazioni alla polizia.

Nonostante queste scoperte, Voller rimane un personaggio così misterioso da corroborare un’ipotesi investigativa secondo la quale gli uffici di via Poma sarebbero una copertura per non ben precisate attività dei servizi segreti. Si ritiene, infatti, che l’uomo sia vicino a quegli ambienti, e durante una perquisizione vengono trovati in suo possesso alcuni documenti riservati riguardanti il delitto dell’Olgiata. Questi strani e misteriosi intrecci non verranno, però, mai chiariti.

Sulla scia dell’ipotesi precedente viene battuta una nuova pista investigativa fondata sul ritrovamento da parte della giovane di alcuni documenti scottanti dell’A.I.G.A comprovanti la concessione di alcuni favori a membri della Banda della Magliana con il beneplacito del Vaticano e del SISMI.

L’ipotesi prende corpo anche per la presenza di alcuni strani personaggi che dopo l’assassinio si aggirano sotto lo stabile della famiglia Cesaroni, e sembrano avere l’apparenza di agenti del SISMI. Le indagini non portano a nulla di fatto, nonostante proprio in quegli anni  si scoprano i legami realmente esistenti tra la Banda della Magliana e il SISMI.

La pista del Videotel

La difficoltà a sbrogliare l’intricata matassa fa venire alla luce improbabili piste come quella del videotel, una sorta di chat in cui Simonetta avrebbe conosciuto il suo probabile assassino.

In base a questa ipotesi, supportata dall’arrivo in procura di una lettera anonima, la ragazza avrebbe invitato lo sconosciuto del videotel a raggiungerla in ufficio proprio il pomeriggio del 7 agosto.

La pista risulterà poi infondata in quanto Simonetta non aveva un computer personale, e quello del suo ufficio non consentiva l’utilizzo del videotel.

L’accusa al fidanzato Raniero Busco

Le indagini subiscono una svolta quando vengono analizzate delle tracce di saliva rinvenute sul reggiseno e il corpetto indossati da Simonetta. Quelle tracce appartengono al fidanzato della ragazza, Raniero Busco, che viene iscritto nel registro degli indagati nel settembre del 2007.

La posizione di Busco si aggrava quando Paola Cesaroni asserisce che la sorella ha indossato quella biancheria proprio il giorno del delitto: le tracce dunque non possono essere state lasciate in un altro momento. Le ulteriori analisi sul sangue rinvenuto sulla maniglia rivelano, inoltre, la compatibilità con l’ex fidanzato della vittima. Stessa cosa accade anche per il segno del morso sul seno.

La sentenza di primo grado emessa nel 2011 dichiara Busco colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, e lo condanna a una pena detentiva di 24 anni. Il processo di secondo grado è, invece, ancora in corso.

Nel 2009 viene anche archiviata l’indagine a carico del portiere Pietrino Vanacore, che purtroppo alla vigilia della sua testimonianza nel processo contro Busco si toglie la vita annegandosi. Lascia un biglietto in cui dichiara che vent’anni di sospetti non possono che condurre al suicidio.

Busco viene assolto in appello nel mese di aprile 2012.

La Cassazione assolve infine Busco in via definitiva il 26 febbraio 2014: il delitto di via Poma resta pertanto senza colpevoli.

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La strage di Bologna del 2 agosto 1980 https://cultura.biografieonline.it/la-strage-di-bologna/ https://cultura.biografieonline.it/la-strage-di-bologna/#comments Wed, 02 Aug 2023 05:43:45 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=713 La strage di Bologna

Alle 10,25 del 2 agosto 1980 avviene un atto terroristico che non ha precedenti per la giovane democrazia italiana. Una bomba dalla devastante capacità offensiva esplode nella sala d’attesa di seconda classe della stazione di Bologna. La bomba era stata collocata sopra ad un tavolo vicino al muro ovest del locale, un muro portante che esplodendo causò maggiori danni a causa dell’onda d’urto. Il bilancio delle vittime è impressionante: 85 morti e 200 feriti.

Strage di Bologna - Giornale
La Strage di Bologna: prima pagina del Resto del Carlino (quotidiano di Bologna) del giorno successivo, 3 agosto 1980

Dopo l’iniziale shock che non permette subito di capire le cause dell’esplosione (subito si parlò infatti di un incidente tecnico che aveva fatto esplodere una delle caldaie della stazione), i servizi  ospedalieri e di sicurezza della città si attivarono per effettuare i primi soccorsi.

Molti cittadini parteciparono al recupero dei corpi e alla prima assistenza dei feriti. Le ambulanze e le auto di polizia e carabinieri non erano sufficienti per il trasporto dei feriti, per cui furono impiegati anche autobus delle linee cittadine oltre a taxi, auto dei vigili e dei carabinieri e anche auto private.

La città

La zona della stazione fu completamente bloccata e le auto parcheggiate rimosse con velocità, in un clima organizzativo preciso e guidato dalla volontà a fare di tutto per aiutare chi ne aveva bisogno. Nei giorni successivi ci furono molte manifestazioni a sostegno della città e contro gli attentatori, ancora anonimi, e contro gli uomini politici e rappresentanti dello Stato che venivano in città.

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All’epoca il presidente della Repubblica era Sandro Pertini che lo stesso giorno dell’attentato arrivò a Bologna in elicottero: l’unico ad essere accolto dai cittadini con rispetto. Il presidente del consiglio era Francesco Cossiga che negli anni ha dato diverse versioni sulle cause dell’attentato.

Inizialmente, infatti, il governo dichiarò che la causa dell’esplosione doveva essere attribuita a un incidente fortuito, in seguito, però, dopo le prime indagini dei carabinieri e della polizia, fu chiaro che si era trattato di un evento doloso causato da un esplosivo in uso soprattutto ad organizzazioni paramilitari. Le ipotesi si diressero verso strutture terroristiche di stampo fascista.

Tuttavia negli anni Cossiga smentì questa ipotesi dicendo di essere stato mal informato e diede diverse versioni, la più famosa delle quali fu che si trattava di una bomba trasportata da un terrorista palestinese e che esplose per errore in stazione mentre l’uomo stava aspettando un altro treno.

Le ipotesi e le contro ipotesi sull’attentato costellarono tutti gli anni delle indagini e anche dopo la sentenza che dichiarò colpevoli del massacro gli esponenti dei NAR e neofascisti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, capi delle strutture combattenti fasciste e compagni di vita.

Entrambi si sono sempre dichiarati innocenti, benché abbiano confessato diversi omicidi e stiano scontando l’ergastolo si sono sempre rifiutati di accettare la versione della magistratura.

Non furono i soli coinvolti nel processo e condannati, ci furono, infatti, anche altri esponenti di destra e uomini dei servizi segreti militari, come Francesco Pazienza del SISMI ed anche il capo della Loggia P2 Licio Gelli, che vennero accusati di aver depistato le indagini. Ma la tesi principale ha sempre visto coinvolti soprattutto loro due.

La stazione di Bologna dopo la strage del 2 agosto 1980
La stazione di Bologna dopo la strage del 2 agosto 1980

Il clima politico dell’epoca

Il clima politico dell’epoca era molto complesso e il rapporto fra i servizi segreti, le forze di polizia, la politica e la magistratura ha costruito un groviglio di indagini complesse e non sempre definitive.

L’Italia in quegli anni si trovava a dover sostenere la politica estera americana in difesa di Israele ma contemporaneamente aveva preso accordi con i Palestinesi affinché, per evitare ritorsioni terroristiche, sul suolo della Penisola potessero transitare armi da e verso l’Europa.

Il fatto quindi che potesse esserci un terrorista palestinese in transito non era del tutto incoerente. Tuttavia per avallare questa tesi non ci furono mai prove certe ma solo alcune evidenze come ad esempio la presenza in città, il giorno della strage, del terrorista Thomas Kram, legato al gruppo diretto dal famigerato Carlos.

La tesi dell’incidente

L’incidente, però, non è una tesi del tutto abbandonata. Recentemente, infatti, la procura di Bologna ha aperto un’indagine contro Kram e Christa Margot Frohlich anche lei del gruppo di Carlos seguendo così la pista palestinese.

Carlos stesso in una recente intervista ha accusato CIA e Mossad dell’attentato al fine di punire l’Italia per il cosiddetto “Lodo Moro”: un accordo segreto stipulato con Arafat per permettere il transito di terroristi palestinesi su suolo italiano in cambio di immunità da attentati contro le nostre città.

Per molti le cause della strage sono ancora ignote e, malgrado spesso si sia parlato più volte anche del coinvolgimento diretto dei nostri Servizi Segreti, le ombre e gli omissis sono purtroppo ancora troppi.

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Il naufragio della Costa Concordia https://cultura.biografieonline.it/costa-concordia/ https://cultura.biografieonline.it/costa-concordia/#comments Thu, 13 Jan 2022 08:11:53 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=8704 L’incidente marittimo avvenuto alla nave da turismo Costa Concordia è molto singolare sia per la dinamica per cui è avvenuto che per le modalità di svolgimento delle operazioni di soccorso e salvataggio.

Salpata dal porto di Civitavecchia a Gennaio 2012 per effettuare la crociera “Profumo di agrumi” nel Mediterraneo, la nave Concordia, appartenente alla compagnia di navigazione Costa Crociere è guidata dal comandante Francesco Schettino: a bordo vi sono 4.229 persone (1.013 membri dell’equipaggio e 3.216 passeggeri). La nave avrebbe dovuto toccare le seguenti tappe: Savona, Marsiglia, Barcellona, Palma di Maiorca, Cagliari, Palermo, per poi ritornare a Civitavecchia.

La Costa Concordia rovesciata e inclinata su un fianco
L’incidente della Costa Concordia ebbe luogo il 13 gennaio 2012

L’incidente che causa il naufragio della Costa Concordia si verifica nei pressi dell’Isola del Giglio (Grosseto, Toscana) dove la nave impattato contro uno scoglio. In conseguenza dell’urto, si apre una falla di circa 70 metri sulla parte sinistra dell’imbarcazione. La crociera si interrompe bruscamente, la nave subisce un forte sbandamento, per poi arenarsi su uno scalino roccioso a nord di Giglio Porto.

Per la precisione, l’imbarcazione urta contro uno degli scogli piccoli delle Scole, ma non è lontana dalla costa: secondo i rilievi effettuati, si trova a circa otto metri di profondità e la riva è lontana soltanto 96 metri. Inoltre, dopo l’impatto, la nave ha rallentato bruscamente la velocità e l’andatura. L’incidente si verifica alle ore 21.42 del 13 gennaio 2012.

La dinamica dell’incidente

A causa della falla che interessa la parte sinistra dello scafo, la nave comincia rapidamente a riempirsi di acqua. Trascorrono circa 16 minuti dall’impatto con la scogliera, e alle 21: 58 il comandante Schettino chiama l’unità di crisi della nave, e riferisce al capo Roberto Ferrarini che si è verificato un black out sulla nave dopo l’urto. I due si risentono alle 22:06 quando Schettino dice a Ferrarini che non possiede elementi per prevedere un eventuale naufragio della nave.

Anche la Capitaneria di Porto di Livorno viene allertata, e dopo circa ventisette minuti dall’incidente si mette in contatto con la Costa Concordia, chiedendo chiarimenti sulla situazione. Le comunicazioni tra Schettino e Ferraririni si infittiscono man mano che si comprende l’entità della tragedia: mentre alle 22:17 Schettino segnala due compartimenti allagati, ma non vi è ancora la necessità di gettare le ancore in quanto la nave sta dirigendosi verso terra, alle 22:27 il comandante riferisce che le condizioni si sono aggravate e che tre compartimenti della nave sono ormai pieni di acqua.

A questo punto viene data l’allerta generale e i passeggeri vengono invitati a raggiungere i punti di raccolta dell’imbarcazione. I membri dell’equipaggio cominciano le operazioni di salvataggio con l’allestimento delle scialuppe: alle 22:58 Schettino ordina di abbandonare la nave.

Il comandante Francesco Schettino
Francesco Schettino, comandante responsabile della nave Costa Concordia

Poco più tardi, alle 23:11, Schettino riferisce a Ferrarini di avere inviato a fondo le due ancore, che la poppa della nave poggia sul basso fondo e che le operazioni di sbarco sono già in corso. Inoltre viene segnalata la presenza di un traghetto e di una motovedetta che prestano assistenza ai passeggeri.

In base alla registrazione di alcune telefonate intercorse tra il comandante della Costa Concordia, Francesco Schettino e Gregorio De Falco, capitano di fregata della Capitaneria di Porto di Livorno, circa un’ora e mezza dopo l’inizio dello sbarco, viene intimato a Schettino di risalire subito sulla nave, che intanto si è coricata sul fianco di dritta. Il capitano risponde di trovarsi su una lancia di salvataggio e da qui coordina le operazioni. All’01:46 De Falco ordina a Schettino di risalire sulla nave e guidare le operazioni di salvataggio dei passeggeri, ma senza sortire alcun effetto.

Gregorio De Falco
Gregorio De Falco, capo sezione operativa della Capitaneria di Porto di Livorno, è uno dei protagonisti della vicenda

Mentre la condotta del comandante Schettino si presta a diverse obiezioni, il personale di bordo della Costa Concordia svolge un lavoro encomiabile e si prodiga per aiutare i passeggeri. In particolare, si distingue il Commissario di bordo Manrico Giampedroni, di 57 anni, che è stato ritrovato vivo dopo circa 36 ore dal naufragio con una gamba fratturata. Il bilancio dell’incidente è pesante: si contano 32 morti e 110 feriti, di cui 14 vengono subito ricoverati in ospedale.

I soccorsi

L’evacuazione dei passeggeri avviene in parte grazie all’intervento dell’equipaggio, in parte grazie ad alcune imbarcazioni civili che si trovano nei paraggi della Costa Concordia. A fornire soccorsi immediati, però, sono gli abitanti dell’Isola del Giglio, che mettono a disposizione alcune barche per giungere nei pressi della nave e recuperare le persone che abbandonano l’imbarcazione ormai pericolosamente inclinata su un lato. Sulla piccola isola si creata in breve una vera e propria emergenza sanitaria, in quanto scarseggiano i medicinali per le cure e l’assistenza dei numerosi naufraghi.

Nei giorni successivi cominciano i penosi lavori di recupero dei corpi senza vita dei passeggeri, che però si fermano tra gennaio e febbraio del 2012 a causa delle avverse condizioni climatiche e del mare agitato. Alcuni di questi saranno ritrovati a più di un anno di distanza dal naufragio, quando la nave è già un relitto. I resti dell’ultimo disperso vengono ritrovati tra il 13 e il 14 ottobre 2013: si tratta di un membro dell’equipaggio.

Disastro ambientale e recupero della nave

Prima di recuperare il relitto, è necessario svuotare il serbatoio della nave per evitare che l’olio combustile fosse versato nel mare. I serbatoi dell’imbarcazione vengono svuotati utilizzando la tecnica dell’hot tapping: le operazioni cominciano il 24 gennaio 2012 grazie all’intervento della società olandese chiamata “Smit Salvage”. Si teme infatti che il naufragio della Costa Concordia, oltre alla perdita di vite umane, possa provocare un immane disastro ambientale.

Dopo due mesi esatti, il 24 marzo 2012, le operazioni di svuotamento dei serbatoi vengono ultimate con successo. Il recupero della nave inizia il 29 maggio 2013, ad opera di due società specializzate, l’americana Titan Salvage e l’italiana Micoperi. Tutte le operazioni si svolgono nell’arco temporale di un anno, avendo particolare cura di non interferire sull’ecosistema dell’Isola del Giglio.

Il 16 settembre 2013 si procede alla Rotazione della nave (in inglese il termine tecnico è: parbuckling), sotto la guida di Nick Sloane. Non si è mai tentato un recupero del genere su una nave così pesante, prima d’ora. Proprio per questo motivo, l’operazione suscita la curiosità generale, anche all’estero.

Dopo aver raddrizzato e messo in sicurezza la nave, si dà inizio alla ricerca degli ultimi due dispersi.

Inchiesta giudiziaria

A seguito dell’incidente della Costa Concordia, il comandante Francesco Schettino viene arrestato con l’accusa di naufragio, omicidio colposo plurimo e abbandono di nave in pericolo. L’inchiesta giudiziaria nei suoi confronti rivela aspetti inediti della vicenda: sembra che il comandante, al momento dell’incidente, fosse in compagnia di una ballerina moldava che faceva parte dell’equipaggio. I due hanno ammesso di aver avuto una relazione.

Le ragioni dell’incidente inizialmente sono tutte da chiarire: l’ipotesi più accreditata è che sia stata una imperdonabile leggerezza, un errore umano del comandante che ha voluto far fare un “inchino” alla nave. Un gesto che è costata la vita a trentadue persone e che ha reso la vicenda della Costa Concordia famosa in tutto il mondo.

Schettino è stato condannato a 16 anni di carcere, in Cassazione, il 12 maggio 2017.

Il recupero della nave Costa Concordia

[Da Wikipedia] Dopo aver dichiarato Costa Concordia “perdita totale”, fu deciso che il relitto venisse smantellato a carico di Costa Crociere e degli assicuratori.

Il 16 settembre 2013, sotto il comando operativo del comandante Nick Sloane, alle ore 9:06 è iniziata la prima fase del recupero del relitto con la sua rotazione (in gergo tecnico, iniziando a “lentìare”) la nave (in inglese parbuckling) per disincagliarla dal fondale roccioso e raddrizzarla in posizione. L’operazione, per la quale erano inizialmente previste circa 12 ore di tempo (tirando i cavi d’ancoraggio a circa 3,5 m/h)[23], si è conclusa alle ore 4:00 circa del 17 settembre, dopo 19 ore, quando la Costa Concordia è stata riportata nuovamente in asse.

Durante le operazioni di collocazione dei cassoni, il 2 febbraio 2014 il sommozzatore spagnolo Israel Franco Moreno, di 40 anni, è morto per scompenso cardiaco e dissanguamento a causa di una ferita alla gamba.

Il 30 giugno 2014 il Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana ha annunciato che la demolizione del relitto sarebbe stata effettuata presso il porto di Genova.

La nave rimessa in galleggiamento

Le procedure per il rigalleggiamento del relitto sono iniziate il 14 luglio 2014 per completare la rimozione dall’isola del Giglio il 23 luglio 2014 e il trasferimento a Genova, nell’area portuale di Pra’-Voltri, il 27 luglio 2014.

Subito dopo l’ormeggio nel porto genovese, nel pomeriggio la proprietà della nave è stata ceduta dall’assicurazione della compagnia di navigazione al consorzio Ship Recycling costituito da Saipem (51%) e San Giorgio del Porto (49%) per la gestione dello smantellamento e del riciclo del relitto, con una commessa di circa 100 milioni di euro.

Il 12 maggio 2015 il relitto della nave, alleggerito di 5.700 tonnellate di materiali, dopo un trasferimento notturno di 10 miglia dalla banchina di Pra’, è stato collocato nell’area dell’ex Superbacino del porto di Genova per essere definitivamente smantellato.

Il 1º settembre 2016, la parte del relitto rimasta dopo la prima fase di smantellamento è stata trasferita alla velocità di 1 nodo, con l’ausilio di 5 rimorchiatori, coprendo la distanza di 1,8 miglia nautiche dal molo “Umberto Cagni” dell’area dell’ex Superbacino a quella del bacino di carenaggio numero 4 dell’area della calata “Giuseppe Gadda” dedicata alle riparazioni navali, dove, per terminarne la demolizione, i resti dello scafo sono stati messi a secco per essere fatti a pezzi.

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Olindo Romano e Rosa Bazzi: la strage di Erba https://cultura.biografieonline.it/la-strage-di-erba/ https://cultura.biografieonline.it/la-strage-di-erba/#comments Sun, 19 Dec 2021 14:22:57 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=2001 La strage di Erba

L’11 dicembre del 2006 a Erba, in provincia di Como, vengono uccisi a colpi di spranga e di coltello Raffaella Castagna, di trent’anni, suo figlio Youssef Marzouk, di due anni, sua mamma Paola Galli, di sessant’anni, e Valeria Cherubini, vicina di casa di cinquantacinque anni. La strage si verifica all’interno di un appartamento situato in una corte restaurata, in pieno centro cittadino, e coinvolge anche Mario Frigerio, di sessantatré anni, marito della Cherubini, che, dopo essere stato accoltellato alla gola, riesce a salvarsi solo in quanto creduto morto dagli assassini. Al termine della strage, all’appartamento viene dato fuoco.

Olindo Romano e Rosa Bazzi, responsabili della strage di Erba - o massacro di Erba
Olindo Romano e Rosa Bazzi, responsabili della strage di Erba (o massacro di Erba)

Le persone incriminate

La Suprema Corte di Cassazione il 3 maggio del 2011 ha riconosciuto definitivamente come colpevoli e responsabili della strage Olindo Romano e Angela Rosa Bazzi, sposati, vicini di casa delle vittime: la coppia è stata condannata all’ergastolo (più tre anni di isolamento diurno) con sentenza della Corte d’Assise di Como del 26 novembre 2008; sentenza che è stata poi confermata dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano il 20 aprile del 2010.

Riassunto dei fatti

È la sera dell’11 dicembre del 2006, quando i Vigili del Fuoco della sezione di Erba sono chiamati a intervenire, intorno alle otto e mezzo di sera, in via Diaz 25, all’interno di una vecchia corte, dove, in uno degli appartamenti che la costituiscono, è divampato un incendio e le fiamme si stanno sviluppando con una certa velocità. I primi pompieri che entrano nella casa si accorgono immediatamente della presenza di quattro cadaveri, ma anche di una quinta persona – Mario Frigerio, appunto – che, seppur gravemente ferita, è ancora viva: Frigerio viene quindi trasferito all’Ospedale Sant’Anna di Como (vi rimarrà in coma per quasi un mese).

I corpi senza vita sono quelli di Raffaella Castagna, Paola Galli, Valeria Cherubini e Youssef Marzouk. Raffaella, disoccupata di trent’anni, che presta volontariato in una comunità per le persone disabili, è stata prima colpita violentemente con una spranga, quindi accoltellata per dodici volte e infine sgozzata. Fatali sono state le coltellate anche per Paola Galli, madre di Raffaella e casalinga, e per Valeria Cherubini, commessa e vicina di casa delle prime due, che era accorsa dopo aver sentito urla e schiamazzi per prestare aiuto. Una sola coltellata, indirizzata alla gola, è stata sufficiente anche per porre fine alla vita di Youssef, il figlio di Raffaella di appena due anni e tre mesi.

Mario Frigerio, giunto insieme alla moglie per verificare cosa stesse accadendo, è stato invece picchiato e quindi accoltellato, ma una malformazione congenita alla carotide gli ha permesso di salvarsi, evitando che perdesse troppo sangue.

Azouz Marzouk

Le indagini relative alla strage vengono prese in carico da Alessandro Lodolini, procuratore di Como, e inizialmente si concentrano su Azouz Marzouk. Marito di Raffaella e padre di Youssef, Marzouk, nato a Zaghouan, in Tunisia, il 28 aprile del 1980, ha numerosi precedenti penali per spaccio di droga, e solo grazie all’indulto è uscito di prigione. I primi pesanti sospetti degli inquirenti e dell’opinione pubblica si concentrano su di lui, ma vengono presto fugati quando si scopre che, al momento dei fatti, l’uomo si trovava in Tunisia insieme con i genitori.

Azouz Marzouk
Azouz Marzouk

Gli inquirenti, in effetti, confermano il suo alibi (Marzouk, una volta venuto a conoscenza della strage, torna in Italia il più in fretta possibile e viene interrogato dalle forze dell’ordine), e quindi si dedicano ad altre piste: quella battuta con una certa insistenza riguarda un probabile regolamento di conti da parte di qualche nemico nei confronti di Marzouk. Le indagini, però, arrivano a una svolta il 9 gennaio del 2007, a meno di un mese dalla strage. Dopo un lungo interrogatorio, infatti, vengono arrestati Olindo Romano e Rosa Bazzi, vicini di casa delle vittime.

Rosa e Olindo

I due coniugi (lui è un netturbino, lei è una domestica) vengono ritratti da chi li conosce come una coppia fin troppo riservata, chiusa in se stessa: marito e moglie, secondo le descrizioni raccolte dai carabinieri, sono attaccati l’uno all’altra in maniera addirittura morbosa.

Secondo alcuni familiari di Rosa Bazzi, addirittura, la donna sarebbe stata vittima di violenza sessuale quando era una bambina di dieci anni, per opera di un parente, ma non avrebbe mai ricevuto alcun sostegno psicologico o alcuna assistenza dopo questo avvenimento. Al di là di questo, in ogni caso, nel passato dei due coniugi si riescono a rintracciare ben pochi elementi degni di nota, se non una querela sporta, all’inizio degli anni Ottanta, dal padre e dal fratello di Olindo nei confronti dell’uomo, dopo una rissa nata per motivi familiari. Nel momento in cui vengono arrestati, comunque, Rosa e Olindo non hanno più rapporti con nessuno dei familiari più stretti, e questo contribuisce ad aumentare il loro isolamento.

Le prove contro i coniugi Romano sono diverse: le più importanti sono le tracce del Dna di Valeria Cherubini rintracciate dagli uomini dei Ris di Parma nella Seat Arosa dell’uomo, che viene imputato di omicidio plurimo pluriaggravato, mentre la donna è accusata solamente di concorso. Sarà Mario Frigerio, una volta svegliatosi dal coma e ristabilitosi dalle profonde ferite, a indicare che anche Rosa ha preso parte alla strage in prima persona in maniera attiva.

Il movente

Il movente degli assassini viene individuato nelle frequenti discussioni che vedevano protagonisti i Romano e Raffaella Castagna, colpevole di fare troppo rumore e disturbare la quiete dei vicini: diverbi che si erano trasformati in una vera e propria lite andata in scena la notte del Capodanno del 2005, con conseguente causa civile tra le parti. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, quella sera Olindo e Rosa avrebbero aggredito e picchiato Raffaella, che quindi li aveva denunciato per lesioni e ingiurie. Raffaella si era mostrata disponibile a ritirare la querela in cambio di un risarcimento economico, ma l’offerta era stata rifiutata dai coniugi Romano: proprio due giorni dopo la strage avrebbe dovuto tenersi un’udienza della causa civile.

Dopo aver tentato di difendersi, sostenendo di aver passato la serata a Como in un McDonald’s (mostrano anche uno scontrino per avvalorare la propria tesi, ma lo scontrino segna un orario avanti di due ore rispetto al momento della strage), finalmente l’11 gennaio del 2007 Olindo Romano e Rosa Bazzi, davanti ai magistrati Simone Pizzotti, Alessandro Lodolini, Antonio Nalesso, Mariano Fadda e Massimo Astori, confessano di essere gli esecutori materiali della strage, gli assalitori: i due descrivono ogni singola azione da loro compiuta, e il loro racconto non sembra lasciare spazio a dubbi. Per esempio, i risultati dell’autopsia confermano la descrizione di un fendente scagliato dal basso verso l’alto contro la coscia di una delle vittime, utilizzando una lama di piccole dimensioni.

L’udienza preliminare

Il 10 ottobre del 2007, tuttavia, Olindo Romano, di fronte al giudice per l’udienza preliminare cui spetta il compito di decidere se iniziare oppure no il processo, ritratta completamente la propria confessione, e si professa innocente: la stessa cosa fa anche la moglie Rosa, suscitando la disapprovazione dei parenti delle vittime, che si ribellano in aula. Mentre il giudice si trova obbligato a sospendere la seduta, l’accusa, per bocca del pubblico ministero Massimo Astori, giudica la novità come una semplice strategia difensiva. Azouz Marzouk chiede addirittura la pena di morte per i due colpevoli; due giorni dopo, il 12 ottobre 2007, arriva il rinvio a giudizio per Rosa Bazzi e Olindo Romano.

La prima udienza

Il 29 gennaio del 2008 va in scena la prima udienza: una vasta folla si accalca fuori dal tribunale (curiosi, giornalisti, parenti e conoscenti delle vittime), ma nell’aula di giustizia vengono fatte entrare solamente sessanta persone. I giornalisti, in particolare, vengono fatti sedere in una sala che è collegata con l’aula via video, e le uniche telecamere concesse sono quelle di “Un giorno in pretura”, trasmissione di Rai 3 che tuttavia potrà mostrare le immagini solamente dopo la sentenza. I coniugi Romano, durante le varie udienze, si mostrano sereni e attaccati l’uno all’altro; non di rado si scambiano sorrisi ed effusioni, anche nel momento in cui in aula vengono mostrate le immagini del corpo senza vita del piccolo Youssef.

Un colpo di scena accade il 18 febbraio del 2008, quando Romano accusa i carabinieri che avevano gestito il suo interrogatorio di averlo indotto a confessare con l’inganno, facendogli il lavaggio del cervello e promettendogli, in cambio di una confessione fasulla, la liberazione della moglie e solo pochi anni di carcere per lui. Nel frattempo le udienze proseguono, e a testimoniare vengono chiamati anche altri vicini di casa della coppia, che parlano di un vero e proprio clima di terrore instaurato nella corte dai Romano, tra minacce verbali, lettere di avvocati, lanci di vasi in direzione degli altri terrazzi e furiose litigate.

In effetti, non di rado in occasione di questi fatti erano state chiamate a intervenire le forze dell’ordine, e addirittura alcune famiglie avevano preferito cambiare casa pur di non vivere più quell’atmosfera di tensione. Una vicina di casa, nello specifico, racconta che poco tempo prima che la strage fosse messa in atto Olindo Romano le aveva mostrato diverse pagine scritte a mano da lui in cui erano presenti minacce e insulti verso la famiglia di Raffaella Castagna, chiedendole di dattilografarle per lui.

Mario Frigerio, sopravvisuto alla strage di Erba
Mario Frigerio, sopravvissuto alla strage di Erba

Il testimone oculare

Il 26 febbraio del 2008, dopo che i legali della difesa hanno provato a dimostrare che il giorno della strage in casa di Raffaella Castagna era presente un estraneo, Mario Frigerio, l’unico testimone oculare della vicenda (oltre che, naturalmente, persona coinvolta in prima persona), conferma la responsabilità dei coniugi Romano: l’autore della strage è Olindo, e con lui c’era “una donna, quasi certamente Rosa Bazzi”. La tensione in aula è piuttosto palpabile, e tra accusa e difesa ci sono scambi di parole piuttosto gravi: dopo che gli avvocati di Romano rivolgono a Frigerio alcune domande finalizzate a mettere in discussione la sua credibilità, accreditandolo come un testimone non attendibile, Frigerio definisce Romano “un assassino” e urla “Vergognatevi” ai legali della difesa. L’udienza viene sospesa dal giudice.

L’attenzione mediatica per la strage di Erba

Sulla vicenda, naturalmente, l’attenzione dei mass media non accenna a placarsi, e addirittura viene realizzata dal programma di Canale 5 “Matrix” una fiction dedicata agli avvenimenti dell’11 dicembre 2006, chiamata “I giorni dell’odio”. Poco dopo, Olindo Romano conferma di essere stato ingannato dai carabinieri durante gli interrogatori, e rivela, con una dichiarazione spontanea, di avere ricevuto un pessimo trattamento nel carcere di Como.

Inizia così un rimpallo di dichiarazioni in contrasto tra loro: Rosa Bazzi, intenzionata in un primo momento a parlare, decide di rinunciare in quanto (secondo gli avvocati che la difendono) è rimasta turbata dalle accuse che Frigerio le ha rivolto. I carabinieri, poi, confermano che Rosa e Olindo avevano confessato gli omicidi in quanto desiderosi di liberarsi la coscienza (e le registrazioni trasmesse in aula lo confermano). Rosa, quindi, cambia idea e parla: nel corso della deposizione rilasciata nell’udienza del 3 marzo 2008 spiega di aver confessato il delitto in quanto le erano stati promessi gli arresti domiciliari.

La donna, inoltre, smentisce qualsiasi litigio avuto con Raffaella Castagna, sostiene di non essere mai andata a casa sua e di aver spesso cercato di aiutarla quando era in situazione di bisogno. Tutte queste circostanze, però, vengono smentite, tra l’altro, da alcuni conoscenti di Raffaella, che parlano di un pedinamento da parte dei Romano proprio pochi giorni prima degli omicidi.

Rifiutata la richiesta di spostare il processo lontano da Como (richiesta inoltrata dalla difesa secondo il cosiddetto legittimo impedimento, in quanto i mezzi di comunicazione del posto avrebbero messo in mostra un comportamento ostile verso gli imputati), il processo prosegue con la trasmissione in aula della registrazione della prima dichiarazione rilasciata da Mario Frigerio, che, ancora ferito gravemente in ospedale, descriveva la dinamica dei fatti accusando Olindo Romano.

L’opera di ostruzionismo della difesa prosegue, con la richiesta di ricusazione dei giudici (la motivazione è che essi avrebbero un pregiudizio verso la coppia di imputati), e si verifica una nuova sospensione del processo.

La Cassazione

La Corte di Cassazione, quindi, a novembre rifiuta la ricusazione dei giudici, e le udienze possono ricominciare: in aula il 17 novembre 2008 il pubblico ministero Massimo Astori ripercorre, nella sua requisitoria, tutte le tappe e gli avvenimenti, con tanto di esibizione delle prove contro i Romano. Il pm parla apertamente di “viaggio nell’orrore” e di uno dei crimini più atroci nella storia del nostro Paese, e pertanto chiede per i coniugi il massimo della pena: ergastolo senza attenuanti e in più tre anni di isolamento diurno. Due giorni dopo Olindo parla ancora, e sostiene di aver interpretato la parte del mostro appositamente: la sua sarebbe solo una recita, come confessato a uno psichiatra, e come confermano le frasi scritte su una Bibbia che possiede, dove si possono leggere poesie, dichiarazioni d’amore per Rosa e invettive e ingiurie contro le vittime.

Mentre le parti civili richiedono un risarcimento complessivo di otto milioni di euro, la difesa chiede l’assoluzione o in alternativa una perizia psichiatrica.

Di nuovo Marzouk

Nel frattempo in tutta la vicenda si intrecciano anche i problemi giudiziari che stanno coinvolgendo Azouz Marzouk, finito nuovamente in carcere per spaccio di droga. Mentre va in scena l’udienza del 24 novembre, infatti, il tunisino, dal carcere di Vigevano in cui si trova dopo essere stato arrestato, invia un fax in cui riferisce di una visita ricevuta da alcuni suoi parenti in Tunisia: in pratica, uno sconosciuto avrebbe riferito di conoscere i veri autori della strage, che non sono i Romano.

Secondo il pubblico ministero, tuttavia, queste dichiarazioni non sono degne di nota, e hanno come unico scopo quello di ritardare l’esecuzione del provvedimento di espulsione che pende sul capo di Marzouk (e che sarà attuato nel mese di gennaio del 2009).

Strage di Erba: la sentenza

Il 26 novembre del 2008 arriva la sentenza di primo grado, pronunciata dalla Corte d’Assise. Alla famiglia Frigerio spetta un risarcimento di 500mila euro, a Marzouk un risarcimento di 60mila euro e ai genitori di Marzouk un risarcimento di 20mila euro. I coniugi Romano, invece, vengono condannati all’ergastolo e a tre anni di isolamento diurno come misura afflittiva supplementare: le richieste del pm sono state interamente accolte.

La sentenza della strage di Erba viene confermata dalla Corte d’Appello il 20 aprile 2010, e anche il ricorso in Cassazione presentato dalla difesa non cambia l’esito del processo: il 3 maggio 2011, Olindo Romano e Rosa Bazzi vengono riconosciuti definitivamente come i responsabili della strage di Erba.

L’uomo sta scontando la pena nella casa circondariale di Opera, mentre la donna si trova rinchiusa nel carcere di Bollate.

Mario Frigerio è morto a causa di un tumore nel mese di settembre del 2014.

Aggiornamenti: 2024

All’inizio del 2024 arriva un nuovo sviluppo. La Corte d’appello di Brescia, in qualità di giudice della revisione, dà il suo sì all’istanza di revisione del processo: si tornerà in aula il 1° marzo 2024 per discuterla.

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Melania Rea. L’omicidio e la sua storia https://cultura.biografieonline.it/melania-rea/ https://cultura.biografieonline.it/melania-rea/#respond Sat, 19 Jun 2021 13:06:25 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=9563 Era uscita di casa per fare una gita con il marito e la figlioletta, ma non sarebbe più tornata: Carmela Melania Rea, 29 anni, è stata uccisa a coltellate. È il 18 aprile del 2011. La donna si trovava sul Colle San Marco di Ascoli Piceno con il marito, Salvatore Parolisi, 30 anni, caporalmaggiore del Rav Piceno, e la figlia Vittoria di 18 mesi.

Melania Rea foto
Le esequie di Melania Rea: una foto sulla bara

L’omicidio

Vediamo come sono andate le cose. Melania ha bisogno di andare in bagno, così si allontana dai due per andare in uno chalet: “Il Cacciatore”. Nessuno, tuttavia, l’ha mai vista entrare. La donna scomparirà nel nulla.

Sarà il marito a lanciare l’allarme dopo venti minuti, non vedendola tornare. Da qui le ricerche. Il corpo senza vita di Melania sarà ritrovato due giorni dopo in un bosco di Ripe di Civitella, nel teramano. A segnalare l’accaduto sarà una telefonata anonima, che riceverà la polizia intorno alle 15.00.Telefonata che sarà fatta da una cabina telefonica pubblica e che non sarà rintracciabile. Arrivano i soccorsi.

Foto di Melania Rea
Melania Rea è stata uccisa il 18 aprile 2011 a Colle San Marco (Ascoli Piceno)

A circa 18 chilometri di distanza da Colle San Marco, giace il corpo di Melania Rea: ha ferite di arma da taglio e una siringa conficcata sul corpo. L’autopsia rivelerà che la donna è stata uccisa con 35 coltellate. Sul corpo non ci sono segni di violenza sessuale né di strangolamento. Dopo tre mesi dall’omicidio le indagini convergeranno in un unico colpevole: il marito di Melania, Salvatore Parolisi.

L’arresto di Parolisi

È il 19 luglio 2011, quando il caporalmaggiore dell’esercito viene arrestato. L’inchiesta passa a Teramo per competenza territoriale. Un mese dopo, il 2 agosto, il gip confermerà l’arresto di Parolisi, che è sospettato di aver assassinato la moglie.

L'arresto di Salvatore Parolisi, marito di Melania Rea
Salvatore Parolisi viene arrestato

Da quel momento non vede più la figlia che, nel frattempo, viene affidata ai genitori di Melania. Il 27 febbraio 2012 inizia il processo, che si conclude con la condanna all’ergastolo di Salvatore Parolisi il 26 ottobre 2012. Il caporalmaggiore continuerà a dire di essere innocente.

Salvatore Parolisi
Salvatore Parolisi, marito di Melania, viene condannato all’ergastolo nel febbraio del 2012

La sentenza di condanna

Quando viene depositata dal gup di Teramo Marina Tommolini la sentenza di condanna, emergono delle novità sul movente dell’omicidio. È il 2 gennaio 2013. Secondo il magistrato, Parolisi avrebbe ucciso Melania per un rapporto sessuale negato, e non per le relazioni extraconiugali dell’uomo con la soldatessa Ludovica Perrone come si pensava in un primo momento.

Melania Rea avrebbe rifiutato la proposta del marito di fare l’amore con lei e per questo motivo l’uomo avrebbe estratto il coltello che aveva in tasca, colpendola 35 volte. Nella sentenza si parla anche del rapporto intrapreso tra Parolisi e la soldatessa. In particolare i due si sarebbero scambiati 5.395 chiamate e 4.012 sms. Da qui la ricostruzione del tempo della loro relazione: due anni.

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Il Grande Torino e la tragedia di Superga https://cultura.biografieonline.it/tragedia-di-superga/ https://cultura.biografieonline.it/tragedia-di-superga/#comments Mon, 03 May 2021 15:03:43 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=7093 Con l’espressione Tragedia di Superga si fa riferimento a un incidente aereo accaduto il 4 maggio del 1949 in conseguenza del quale morirono trentuno persone, la maggior parte delle quali calciatori del Torino. Di quella squadra vincente, soprannominata Grande Torino.

Il Grande Torino e la Tragedia di Superga
Il grande Torino

I fatti

Alle 9.40 del mattino del 4 maggio del 1949, un mercoledì, dall’aeroporto di Lisbona decolla il trimotore Fiat G.212 delle Avio Linee Italiane, il cui comandante è il tenente colonnello Meroni. Il velivolo atterra all’aeroporto di Barcellona alle 13, per effettuare un rifornimento di carburante: nel corso dello scalo la squadra del Torino a pranzo incrocia la squadra del Milan, in viaggio verso Madrid.

Il velivolo del club granata riparte alle 14.50, destinazione aeroporto di Torino-Aeritalia. Il trimotore, secondo la rotta prestabilita, sorvola Cap de Creus, poi Tolone, Nizza e, in Italia, Albenga e Savona. Quindi, l’aereo vira in direzione nord, verso il capoluogo piemontese, dove è previsto l’arrivo circa mezz’ora più tardi.

Le condizioni atmosferiche intorno alla città sono disastrose, come comunicato ai pilotti dall’aeroporto di Aeritalia pochi minuti prima delle 17: ci sono continui rovesci di pioggia, le nubi sono quasi a contatto con il suolo, la visibilità orizzontale è decisamente carente (non supera i quaranta metri), il libeccio si fa sentire con raffiche di una certa potenza.

Alle 16.55 la torre chiede un riporto di posizione; la risposta arriva quattro minuti più tardi, alle 16.59, dopo un silenzio eccessivamente lungo: “Quota 2000 metri”.

Alle 17.03 il velivolo compie una virata verso sinistra in corrispondenza del colle di Superga: messo in volo orizzontale e predisposto in vista dell’atterraggio, va a disintegrarsi contro la Basilica di Superga, in corrispondenza del terrapieno posteriore.

Le ipotesi della tragedia

L’ipotesi più accreditata è che l’aereo, nel corso della virata, in conseguenza del vento insistente al traverso sinistro abbia subìto una deriva verso dritta, che lo abbia allineato con la collina di Superga e non con la pista, spostandolo dall’asse di discesa.

Probabilmente l’altimetro, in quegli istanti, è bloccato sui 2000 metri, così che i piloti pensino di essere ben 1600 metri più in alto rispetto alla loro quota reale.

Il pilota, dunque, intorno a una velocità di 180 chilometri all’ora pensa di trovarsi alla sinistra della collina di Superga; invece, a causa anche della visibilità ridotta, se la trova davanti all’improvviso, al punto che non ha nemmeno il tempo di reagire: dalla disposizione dei rottami non si intuiscono tentativi di virata o riattaccata.

L’impennaggio è la sola parte dell’aereo che rimane intatta, anche se solo parzialmente.

Una foto di Valentino Mazzola
Valentino Mazzola

Le vittime

Nell’incidente perdono la vita i membri dell’equipaggio:

  • Cesare Biancardi,
  • Celeste D’Inca
  • Pierluigi Meroni

E gran parte della squadra del Torino: i calciatori

  • Julius Schubert,
  • Rubens Fadini,
  • Mario Rigamonti,
  • Franco Ossola,
  • Valerio Bacigalupo,
  • Piero Operto,
  • Romeo Menti,
  • Aldo Ballarin,
  • Valentino Mazzola,
  • Dino Ballarin,
  • Danilo Martelli,
  • Virgilio Maroso,
  • Emile Bongiorni,
  • Ezio Loik,
  • Giuseppe Grezar,
  • Eusebio Castigliano,
  • Ruggero Grava,
  • Guglielmo Gabetto.

Muoiono, inoltre, gli allenatori Leslie Lievesley e Egri Erbstein, il massaggiatore Osvaldo Cortina, l’organizzatore delle trasferte Andrea Bonaiuti, i dirigenti Ippolito Civalleri e Arnaldo Agnisetta e tre giornalisti sportivi: Renato Tosatti (della “Gazzetta del Popolo”, padre di Giorgio), Renato Casalbore (fondatore di “Tuttosport”) e Luigi Cavallero (de “La Stampa”).

Il lutto del mondo dello sport

Ai funerali partecipa quasi un milione di persone, tra cui Giulio Andreotti, rappresentante del governo, e Ottorino Barassi, presidente della federazione calcistica.

La Gazzetta dello Sport: Tragedia di Superga
Prima pagina de La Gazzetta dello Sport, successiva alla Tragedia di Superga (4 maggio 1949)

In seguito alla tragedia di Superga, il Torino viene proclamato a tavolino vincitore dello scudetto: nelle giornate rimanenti di campionato, la squadra granata schiera la formazione giovanile, e così fanno le avversarie di volta in volta.

L’aereo stava riportando il Torino in Italia dopo che la squadra granata aveva disputato una partita amichevole a Lisbona, in Portogallo, contro il Benfica, per celebrare José Ferreira, capitano del team lusitano. Al volo non avevano preso parte Ferruccio Novo, presidente del Torino, perché influenzato; Sauro Tomà, calciatore, infortunato al menisco; Nicolò Carosio, telecronista, perché impegnato con la cresima del figlio; Renato Gandolfi, secondo portiere, il cui posto era stato preso da Dino Ballarin, terzo portiere e fratello di Aldo; Luigi Giuliano, calciatore, influenzato; e Vittorio Pozzo, giornalista, il cui posto era stato preso da Casalbore.

Il Torino era la squadra italiana più forte di quegli anni, vincitore non a caso di cinque scudetti di seguito, dal 1942/43 al 1948/49, e fornitore della maggior parte dei giocatori della Nazionale. Lo choc determinato da quell’evento fu tale che nel 1950 la Nazionale andò in Brasile per disputare i Mondiali di calcio non in aereo ma in nave.

I resti dell’aereo attualmente si trovano alle porte di Torino, al “Museo del Grande Torino e della Leggenda Granata” di Grugliasco, dove, a Villa Claretta Assandri, sono conservati pezzi della fusoliera, uno pneumatico e un’elica.

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Peppino Impastato: storia di depistaggi e carte scomparse https://cultura.biografieonline.it/peppino-impastato-storia-depistaggi/ https://cultura.biografieonline.it/peppino-impastato-storia-depistaggi/#respond Sat, 09 May 2020 12:27:04 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=29070 “L’ansia dell’uomo che muore”

Dalle poesie di Peppino Impastato al suo lavoro contro la mafia, al suo omicidio avvenuto per mano mafiosa il 9 maggio 1978. In questo articolo si raccontano le storie di depistaggi, di carte scomparse, di una vita negata.

Appartiene al suo sorriso

L’ansia dell’uomo che muore,

al suo sguardo confuso

chiede un po’ di attenzione,

alle sue labbra di rosso corallo

un ingenuo abbandono,

vuol sentire sul petto

il suo respiro affannoso;

è un uomo che muore.

Sono versi scritti da Peppino Impastato, raccolti in un libro dal titolo “Amore non ne avremo” a cura di Guido Orlando e Salvo Vitale.

Peppino Impastato
Peppino Impastato

L’omicidio di Cinisi

Sono passati oltre 40 anni dal suo omicidio tra depistaggi e carte scomparse. Era il 9 maggio 1978. Peppino era un giovane militante che aveva puntato il dito contro la mafia. Per questo veniva massacrato per conto del boss Gaetano Badalamenti a Cinisi, un paese della provincia di Palermo. Aveva fondato una radio indipendente, Radio Aut, e combatteva il boss con la cultura e la politica. La sua è una storia di ribellione. La ribellione contro Cosa nostra.

Chi era Peppino Impastato: storie di indagini e archiviazioni

Figlio e nipote di mafiosi, Peppino Impastato era nato e cresciuto nella stessa strada in cui abitava Gaetano Badalamenti, il boss di Cinisi (paese in provincia di Palermo) che poi sarà condannato all’ergastolo per l’omicidio del “ribelle” ma solo in primo grado: Tano Seduto, così lo chiamava Peppino dai microfoni di Radio Aut, sarebbe morto prima della Cassazione.

Infatti per arrivare alla sentenza della corte d’Assise su Badalamenti ci sono voluti 24 anni (2002). Quella di Peppino doveva essere la storia di un pazzo, un terrorista che voleva far esplodere la ferrovia. Doveva essere una morte accidentale in terra di Sicilia. Ma cinque indagini, la condanna per il boss di Cosa nostra Tano Badalamenti in primo grado e due richieste d’archiviazione per i carabinieri di Antonio Subranni, non sono servite a scrivere la verità sull’omicidio di Peppino; fu ucciso a Cinisi nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978.

Un mistero italiano

Quello che rimane è la relazione dell’Antimafia che parla di “patti” tra mafiosi e esponenti dello Stato. Insomma un’altra pista che conduce ad uno dei misteri italiani.

Resta una domanda.

Perché gli uomini del generale Antonio Subranni avrebbero depistato le indagini sull’omicidio di Cinisi?

Su questo non esiste alcuna sentenza, ma addirittura una richiesta di archiviazione per il generale, ex numero uno del Ros, che nell’aprile 2018 è stato condannato a dodici anni alla fine del processo sulla Trattativa Stato – mafia.

L’accusa del pentito Francesco Di Carlo

A mettere nero su bianco il suo nome è il pentito Francesco Di Carlo: “Gaetano Badalamenti – ha raccontato il collaboratore –  spingeva Nino e Ignazio Salvo per parlare col colonnello. Dopo poco tempo mi ha detto: no, la cosa si è chiusa. Non spuntava più niente nei giornali per un periodo, era stata archiviata”.

Ben due volte, tuttavia, la procura di Palermo ha chiesto al gip di chiudere l’inchiesta su Subranni, per lui l’accusa di favoreggiamento, e su Carmelo Canale, Francesco De Bono e Francesco Abramo, accusati invece di falso.

Il motivo della richiesta di archiviazione?

Su quei reati è ormai subentrata la prescrizione.

L’ultima richiesta d’archiviazione: giugno 2016

L’ultima richiesta d’archiviazione risale al giugno del 2016. Dal 2016 quindi si attende che un gip decida cosa fare su quest’indagine riaperta nel 2010 dal sostituto procuratore Francesco Del Bene, e dopo portata avanti anche dai pm Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia.

Si tratta dell’ultima inchiesta sul caso Impastato e ripercorre dettagliatamente ciò che fecero i carabinieri per evitare ad ogni costo di battere la pista mafiosa.

A mettere in ordine tutta la fila dei depistaggi, avvenuti già a partire dalla scena del delitto, è stato il centro Impastato – autore già nel 1994 della prima domanda di riapertura dell’inchiesta – e poi approdato sul tavolo della commissione parlamentare Antimafia.

Quel sasso macchiato di sangue

E’ il 1978. I carabinieri non si accorgono – arrivati nelle campagne tra Cinisi e Terrasini che sul luogo del delitto c’è un grande sasso macchiato di sangue. Trovano il corpo di Peppino Impastato legato al binario.

Una scena che doveva servire ai killer a “vestire il pupo” in modo che sembrasse un terrorista morto suicida.

La prima informativa dei carabinieri è priva di quel sasso macchiato di sangue. A trovare il sasso invece – alcune ore dopo – sono i compagni di Peppino Impastato.

Non sono stati sentiti i testimoni oculari, perché la pista mafiosa è stata esclusa a priori. La teste chiave, Provvidenza Vitale, non è stata mai sentita.

Eppure lei è la casellante di turno al passaggio a livello di Cinisi quella notte in cui Peppino viene assassinato. Pare che per 32 anni nessuno sia riuscito a trovarla. Eppure la donna non si è mai allontanata dalla sua abitazione di Terrasini, paese attaccato a Cinisi.

Sui verbali dei carabinieri solo una parola: “irreperibile”.

Ad interrogarla, nel 2011, ci pensa invece il pm Del Bene, ma i ricordi dell’assassinio sono ormai lontani, la donna è anziana.

La relazione della commissione antimafia

La commissione antimafia nel 2000 scrive:

“Giuseppe Impastato sfidò la mafia in un territorio in cui si era stabilito un  sistema di relazioni tra segmenti degli apparati dello Stato e mafiosi molto potenti; un sistema di relazioni che, in quegli anni, può essere rinvenuto anche in altri territori, teso, spesso illusoriamente, alla cattura, per via confidenziale, di alcuni capimafia, all’apporto che queste relazioni potevano dare ad alcuni filoni di indagine o, comunque, ad una pacifica convivenza per un tranquillo controllo della zona”

la firma è del relatore Giovanni Russo Spena.

“È anche del tutto probabile – continua Spena – che Badalamenti abbia avuto dei rapporti confidenziali con i carabinieri in una zona alta, apicale, data la statura delinquenziale del capo mafia di Cinisi.”

Da qui scaturiscono una serie di interrogativi: le indagini su Impastato “sono state insabbiate solo per un patto di non belligeranza tra boss e carabinieri? Per un doppio gioco, uno scambio di favori, una trattativa ante litteram che aveva come obiettivi la cattura dei latitanti e il controllo della zona?”.

Foto di Peppino Impastato

Il dossier di Peppino scomparso durante il sequestro

L’ipotesi arriva dalla Procura di Palermo, che per il patto di Cosa nostra, ha ottenuto la condanna di Subranni. Ma i pm scoprono anche un foglio redatto dai carabinieri con su scritto: “Elenco del materiale sequestrato informalmente a casa di Impastato Giuseppe”.

Da qui ne consegue che a casa di Peppino c’è stato un sequestro informale. Si tratta quindi di un sequestro che nessuno ha autorizzato.

In un altro elenco, stavolta formale, gli uomini in divisa scrivono di aver sequestrato lettere e volantini a casa di Peppino. Si tratta di scritti d’ispirazione politica e propositi di suicidio:

“Voglio abbandonare la politica e la vita”

così si legge in un appunto che per gli inquirenti era la prova del suicidio.

Intanto però c’è anche altro tra i documenti posti sotto sequestro. A raccontarlo è Giovanni Impastato, fratello di Peppino: 

“Ricordo che mio fratello poco prima di morire si stava interessando attivamente alla strage della casermetta di Alcamo Marina, che nel 1976 costò la vita a due giovani carabinieri. In seguito a quel fatto, gli uomini dell’Arma vennero a perquisire casa nostra dato che mio fratello era considerato un estremista. Da lì Peppino iniziò a raccogliere informazioni sulla questione, notizie che accumulava in una specie di dossier: una cartelletta che fu sequestrata e mai più restituita”.

Insomma, negli anni sono stati aggiunti dei piccoli pezzi di un puzzle, di cui ancora ne mancano tanti. Ciò conferma che quello di Peppino Impastato è stato un delitto eccellente, che si verifica quando c’è una “convergenza di interessi”, cioè quando i motivi e i mandanti sono molteplici.

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Il disastro del Moby Prince avvenuto a Livorno il 10 aprile 1991 https://cultura.biografieonline.it/moby-prince/ https://cultura.biografieonline.it/moby-prince/#respond Wed, 20 Jun 2018 08:08:23 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=24767 Il disastro della nave traghetto Moby Prince avvenne il giorno 10 aprile del 1991. In quella buia sera, entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo nella rada del porto di Livorno. Lo scontro fece divampare un incendio che causò la morte di 140 persone a bordo del Moby Prince. Nell’articolo che segue ricostruiamo i fatti di questo terribile incidente.

Moby Prince
La carcassa della Moby Prince ormeggiata dopo il disastro

Lo scontro tra Moby Prince e la petroliera

Sono le ore 22.03 quando il traghetto Moby Prince della Nav.Ar.Ma. (Navigazione Arcipelago Maddalenino – oggi Moby Lines) molla gli ormeggi dal porto di Livorno per salpare verso Olbia. È il 10 aprile 1991. Mezzora dopo è in fiamme, trasformata in una bara galleggiante. Nella rada del porto toscano, la prua del traghetto è finita contro la petroliera Agip Abruzzo. Intanto, il porto toscano sembra essere diventata una base americana: è pieno di navi militari di ritorno dalla Guerra del Golfo.

I soccorsi sono impegnati sulla petroliera. Poi, per caso, alle 23.35 due ormeggiatori si accostano al traghetto in fiamme: è troppo tardi, le 140 persone a bordo sono già morte. C’è solo un superstite: si tratta del mozzo Alessio Bertrand, che si salva gettandosi in mare e che viene soccorso dagli ormeggiatori.

Da allora sono passati molti anni: secondo la Commissione d’inchiesta parlamentare, che attacca i soccorsi, l’indagine è stata «superficiale».

Le indagini: l’allarme, i dubbi, la ricerca della verità

In quella sera è la petroliera a lanciare l’allarme per un incendio a bordo, dopo la collisione con una bettolina:

«Come abbiamo fatto a scoprire noi che a finire contro la petroliera non era stata una bettolina bensì il Moby Prince? Abbiamo dato retta all’istinto; eravamo sotto l’Agip Abruzzo offrendo aiuto ai marittimi nel caso volessero abbandonarla. Abbiamo sentito che i soccorritori stavano dando l’allarme perché qualcuno aveva notato avvicinarsi una nave che si muoveva come se nessuno la guidasse, era senza più governo in mezzo a quel caos. È stato un flash. Abbiamo capito che doveva avere qualcosa a che fare con qualcosa di strano che avevamo scorto poco prima; come un inverosimile baluginare di fiamme dietro una sagoma scura. E ci siamo buttati da quella parte».

Sono le parole dei soccorritori. I due ormeggiatori sono Valter Mattei e Mauro Valli. Raccontano i due uomini:

«Che si trattava del Moby Prince ce l’ha detto il mozzo Alessio Bertrand, l’unico che ce l’ha fatta»

Si trovano a bordo dell’imbarcazione della Coop ormeggiatori, solo sette metri di vetroresina. La nave è fantasma; dopo aver portato in salvo il superstite, i due ormeggiatori tornano indietro, ributtandosi nella mischia, ma i motori sono ancora in funzione e la Moby Prince continua a girare; seguono una scia di odore di petrolio e la ritrovano: le lingue di fuoco escono dagli oblò.

Agip Abruzzo - disastro Moby Prince
La petroliera Agip Abruzzo in fiamme

Il processo di primo grado a Livorno

La Procura di Livorno, dopo l’incidente, apre un fascicolo per omissione di soccorso e omicidio colposo. Il processo inizia il 29 novembre 1995. Gli imputati sono quattro: si tratta del terzo ufficiale di coperta dell’Agip Abruzzo Valentino Rolla, accusato di omicidio colposo plurimo e incendio colposo; Angelo Cedro, comandante in seconda della Capitaneria di Porto, l’ufficiale di guardia Lorenzo Checcacci, accusati di omicidio colposo plurimo per non avere attivato i soccorsi immediatamente; Gianluigi Spartano, un marinaio di leva, imputato anche lui per omicidio colposo ma per non aver trasmesso la richiesta di soccorso.

In fase istruttoria vengono archiviate le posizioni dell’armatore di Nav.Ar.Ma, Achille Onorato, e quelle del comandante dell’Agip Abruzzo, Renato Superina. Il processo va avanti per due anni. Poi la sentenza arriva nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre del 1997.

Il presidente Germano Lamberti legge la sentenza che assolve i quattro imputati perché «il fatto non sussiste». Quindi si va in appello.

Nel 1999, è il 5 febbraio, la terza Sezione della Corte d’Appello di Firenze afferma di “non doversi procedere nei confronti del Rolla in ordine ai reati ascrittigli perché estinti per intervenuta prescrizione”.

Nella sentenza si legge però: “(…) non si può non rilevare, che l’inchiesta sommaria della Capitaneria, che per alcuni versi è la più importante perché interviene nell’immediatezza del fatto ed è in qualche modo in grado di indirizzare i successivi accertamenti e di influire sulle stesse indagini penali, può essere condotta da alcuni dei possibili responsabili del disastro”.

Dal processo principale al processo parallelo

Insieme al processo principale, in pretura vengono giudicate due posizioni stralciate: sono quelle del nostromo Ciro Di Lauro, che si autoaccusò della manomissione, sulla carcassa del traghetto, di un pezzo del timone; e quella del tecnico alle manutenzioni di Nav.Ar.Ma, Pasquale D’Orsi, nominato da Di Lauro.

Entrambi sono accusati di frode processuale: hanno infatti modificato le condizioni del luogo del delitto, cioè hanno orientato in modo diverso, in sala macchine, la leva del timone da manuale in automatico. Tutto per tentare di addossare la colpa del tragico incidente al comando del Moby Prince. Entrambi non vengono puniti per «difetto di punibilità». In altre parole succede che sia il pretore sia il pubblico ministero concordano sulle responsabilità degli imputati, ma non li ritengono punibili, perché, pur essendoci stata la manomissione, i periti non sono stati tratti in inganno. Tale sentenza sarà confermata sia dal processo di appello sia in Cassazione.

Il Tirreno - disastro Moby Prince - 11 aprile 1991
Il Tirreno: la prima pagina dell’11 aprile 1991, sul disastro del Moby Prince

La procura di Livorno riapre un filone d’inchiesta

È il 2006: su richiesta dei figli del comandante Angelo Chessa che comandava la Moby Prince, la procura di Livorno riapre un filone d’inchiesta sul disastro del traghetto. In particolare i familiari chiedono di indagare sul possibile traffico illecito di armi, e anche della presenza di navi militari o navi fuori dal controllo della Capitaneria di Porto. Il 5 maggio del 2010 il gip (giudice per le indagini preliminari) accoglie la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Livorno.

L’istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta

Dopo una campagna per avere verità e giustizia durata due anni, nel 25° anniversario della strage, il 22 luglio 2016 al Senato all’unanimità viene votata l’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Moby Prince. Vengono fuori nuove verità: tra queste nella relazione finale emerge come dalla Capitaneria di porto, dopo la collisione tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo:

«non siano partiti ordini precisi per chiarire l’entità e la dinamica dell’evento e per ricercare la seconda imbarcazione (il Moby)». Emergono strumentazioni inadeguate, dove è a disposizione un solo radar in possesso della stazione piloti, nessuna formazione in caso di incidenti in mare, soccorsi improvvisati non coordinati dalla Capitaneria di Porto.

E ancora: un’inchiesta giudiziaria frettolosa, dalla quale emergono conflitti di interesse. Poi, a distanza di 27 anni, si sono verificate omissioni da parte dei protagonisti che nel corso delle audizioni hanno dato dichiarazioni «convergenti nel negare evidenze in atti a loro attribuiti o fornito versioni inverosimili degli eventi».

Dalla relazione

Dalla relazione emerge anche che:

«Non fu avviata nessuna attività finalizzata alla ricerca del secondo mezzo coinvolto nell’incidente. E neppure di mettersi in contatto radio con i mezzi recenti usciti dal porto. Inoltre, anche quando, con incredibile ritardo, ci si imbatte nel traghetto incendiato, non risultano tentativi di spegnere a bordo e tantomeno di prestare soccorso ai passeggeri del traghetto».

E poi:

«Il contesto emerso, determinato forse dalla convinzione che la nave investitrice fosse una bettolina e non una nave passeggeri, desta sconcerto. Anche in considerazione del fatto che diversi elementi, fra i quali il posizionamento dei corpi nel traghetto, evidenzia che il comando della nave avesse predisposto un vero e proprio piano di emergenza con la raccolta dei passeggeri nel salone De Luxe in attesa che arrivassero i soccorsi. […]

Appare grave come anche all’epoca dei fatti non fossero previste attività periodiche di formazione e addestramento tali da consentire al personale militare e civile di affrontare avvenimenti di tale portata».

La riflessione finale della commissione

«La disamina degli atti porta a una univoca conclusione: la Capitaneria di Livorno, tanto nella fase iniziale dei soccorsi quanto nel momento in cui assunse la direzione delle operazioni il comandante Albanese, non ha valutato l’effettiva gravità della situazione con specifico riferimento al coinvolgimento di una nave traghetto.

Sia perché non sono stati resi disponibili dati utili all’identificazione del traghetto sia per l’incapacità di valutare la situazione, così determinando un’impostazione delle operazioni di soccorso unicamente volte verso la petroliera».

La commissione non riesce neppure a dare una risposta:

«Non è dato comprendere come e per quali motivi il comando della Capitaneria non sia riuscito a correlare l’avvenuta partenza di un’unica nave dal porto con la collisione; né a richiedere informazioni al personale presente sulla torre degli Avvisatori. È di palmare evidenza che se ciò fosse stato fatto si sarebbe tempestivamente apprezzato che l’altro natante coinvolto nella collisione era il Moby Prince».

Da qui la commissione ritiene che l’autorità marittima: «avrebbe – vista la situazione – dovuto valutare la possibilità di un intervento dei mezzi dipendenti dell’alto Comando periferico della Marina», invece – affermano – «durante le prime ore cruciali, prima e dopo il ritrovamento del traghetto, la Capitaneria appare del tutto incapace di coordinare l’azione di soccorso verso il Moby Prince».

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Giulio Regeni, biografia e storia https://cultura.biografieonline.it/giulio-regeni/ https://cultura.biografieonline.it/giulio-regeni/#comments Sun, 29 Apr 2018 08:06:54 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=24697 Giulio Regeni nasce a Trieste il 15 gennaio 1988. Cresciuto a Fiumicello, in provincia di Udine, quando è ancora minorenne si trasferisce a all’Armand Hammer United World College of the American West (Nuovo Messico – Stati Uniti d’America) e poi nel Regno Unito per studiare. Per due volte vince il premio “Europa e giovani” (2012 e 2013) al concorso internazionale organizzato dall’Istituto regionale studi europei. Premi vinti per le sue ricerche e per gli approfondimenti sul Medio Oriente (la regione geografica che comprende i territori dell’Asia occidentale, quelli europei: la porzione di Turchia a ovest dello stretto del Bosforo e nordafricani – Egitto).

Giulio Regeni
Giulio Regeni

Le collaborazioni di Giulio Regeni

Lavora presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale (UNIDO, dall’inglese United Nations Industrial Development Organization), un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite che si occupa dell’incremento delle attività industriali che si trovano nei paesi membri. E dopo aver svolto anche per un anno ricerche per conto della società privata di analisi politiche Oxford Analytica, si reca in Egitto. Qui svolge un dottorato di ricerca presso il Girton College dell’Università di Cambridge e svolge una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani presso l’Università Americana del Cairo.

Regeni scrive alcuni articoli con lo pseudonimo di Antonio Druis pubblicati dall’agenzia di stampa Nena e, poi, postumo, dal quotidiano il Manifesto. Articoli in cui descrive la difficile situazione sindacale dopo la rivoluzione egiziana del 2011.

Giulio Regeni foto

Il 25 gennaio 2016: la scomparsa

È il 25 gennaio 2016 quando Giulio Regeni, ricercatore italiano, invia alle 19.41 un sms alla fidanzata in Ucraina, per dirle che stava uscendo. A distanza di poco tempo, l’amica di Regeni, la studentessa Noura Wahby conosciuta nel 2014 a Cambridge, denuncia sul proprio profilo Facebook la sua scomparsa. Si sa che il ricercatore italiano doveva incontrare delle persone in piazza Tahrir. L’occasione è quella di festeggiare il compleanno di un amico.

Da allora sono passati diversi giorni prima del suo ritrovamento e, nel frattempo, su Twitter vengono lanciati diversi hashtag #whereisgiulio e #جوليو_ـفين (letteralmente: #doveègiulio).

Il ritrovamento

Il ragazzo viene trovato il 3 febbraio 2016 in un fosso nel tratto di strada del deserto Cairo-Alessandria, alla periferia del Cairo. Il corpo di Giulio è nudo ed è stato anche atrocemente mutilato. Si contano più di due dozzine di fratture ossee, tra cui sette costole rotte, tutte le dita di mani e piedi. Così come gambe, braccia e scapole, oltre a cinque denti rotti. E ancora: coltellate multiple sul corpo, comprese le piante dei piedi.

Sono numerosi i tagli su tutto il corpo, probabilmente causati con uno strumento simile ad un rasoio. Sul corpo anche bruciature di sigarette, e sulle scapole (una bruciatura più grande con incisioni simili a delle lettere). Dall’esame autoptico è emersa un’emorragia cerebrale e una vertebra cervicale fratturata a seguito di un colpo al collo che ne avrebbe causato la morte.

Giulio Regeni giovane

Il contesto e la rivoluzione egiziana del 2011

Quando Giulio Regeni viene rapito è il 25 gennaio 2016, giorno del quinto anniversario delle proteste in piazza Tahrir. Nota come rivoluzione del Nilo, è un vasto movimento di protesta da parte dei civili, contestazioni e insurrezioni, che si sono susseguite a partire dal 25 gennaio del 2011. A spingere il popolo egiziano a ribellarsi è stato il desiderio di rinnovamento politico e sociale contro il regime trentennale del presidente Hosni Mubarak.

Sono stati numerosi gli scontri che hanno provocato molte vittime tra manifestanti, poliziotti e militari. Tutto ha inizio intorno al 17 gennaio, quando al Cairo un uomo si dà fuoco, come era avvenuto in Tunisia al venditore ambulante e attivista tunisino Mohamed Bouazizi, simbolo della contestazione tunisina.

Poi il 20 gennaio due operai si danno fuoco per protestare contro il trasferimento forzoso. Si arriva così al 25 gennaio: sono 25mila i manifestanti che scendono in piazza, nella capitale, che chiedono riforme politiche e sociali sulla scia della “rivoluzione del gelsomino” avvenuta in Tunisia. Da qui la manifestazione si trasforma in scontri con le forze dell’ordine: si registreranno quattro vittime, tra cui anche un poliziotto.

Giulio Regeni e i depistaggi

Oltre ai depistaggi delle autorità egiziane, la scarsa collaborazione delle autorità del Cairo con gli inquirenti italiani ha avuto come conseguenza il ritiro dell’ambasciatore italiano Maurizio Massari, rientrato in Italia per consultazioni con la Farnesina. A deciderlo è il ministro degli esteri Angelino Alfano, dopo il fallimento dell’incontro tra gli inquirenti egiziani e la procura di Roma sull’assassinio di Giulio Regeni.

A sostituirlo è l’ambasciatore Cantini, che assume l’incarico il 14 settembre 2017, lo stesso giorno in cui anche il nuovo ambasciatore egiziano si insedia a Roma. I servizi di sicurezza del governo di ʿAbd al-Fattāḥ al-Sīsī, e lo stesso governo egiziano, sono sospettati di avere un ruolo chiave nell’omicidio del giovane ricercatore italiano. Da quanto è emerso, la polizia del Cairo aveva già svolto indagini sul ricercatore nei giorni 7, 8 e 9 gennaio su esposto del Capo del sindacato dei venditori ambulanti.

manifestazione per Giulio Regeni
Manifestazione per Giulio Regeni

La versione fornita dall’agenzia stampa Reuters

Secondo quanto riferisce l’agenzia il 26 aprile 2016, quindi tre mesi dopo l’omicidio del ragazzo, Giulio Regeni viene fermato dalla polizia il giorno stesso della sua scomparsa, il 25 gennaio 2016. Tale ipotesi già era apparsa dalle colonne del New York Times. Poi rilanciata da tre funzionari dell’intelligence e da tre della polizia egiziana a Reuters, consegnando anche un dettaglio inedito. La stessa sera le forze dell’ordine avevano consegnano il ricercatore italiano ai servizi segreti “Al-Amn al-Watani” (“Sicurezza interna”), che avrebbero portato Regeni in un compound.

Si tratta di una versione differente da quella fornita dalle autorità del Cairo che appunto smentirebbe quella ufficiale. Secondo quest’ultima Giulio non venne mai preso in custodia prima di essere ritrovato cadavere il 3 febbraio.

Le rivelazioni

Intanto le rivelazioni della Reuters vengono immediatamente smentite dal ministero dell’Interno egiziano. Lo riporta il sito del quotidiano egiziano Youm7. Da qui le dichiarazioni della fonte interna al ministero che dichiara:

«la polizia non ha arrestato Regeni né l’ha detenuto in alcun posto di polizia e tutto quello che viene ripetuto a questo proposito sono solo voci che mirano a nuocere agli apparati di sicurezza in Egitto e a indebolire le istituzioni dello Stato».

E poi, sempre lo stesso sito scrive:

«La fonte ha aggiunto che non c’era ragione di torturare un giovane straniero che studia in Egitto e che il ruolo della polizia è di proteggere e non torturare». E ancora il sito aggiunge: «Mohamed Ibrahim, un responsabile del dipartimento Media della Sicurezza nazionale, ha detto che non c’è stato alcun rapporto fra Regeni e la polizia o il ministero dell’Interno o la sicurezza nazionale e che Regeni non è mai stato detenuto in alcun posto di polizia o presso la Sicurezza nazionale». C’è fretta di depistare, di nascondere la verità. Così anche l’intelligence del Cairo si affretta a smontare la nuova versione.

Truth for Giulio Regeni
Truth for Giulio Regeni

La figlia del capo dei rapinatori

Intanto mentre le autorità egiziane hanno sempre negato qualsiasi loro coinvolgimento nella morte di Regeni, poco prima del ritrovamento del suo cadavere, la polizia ipotizza che il ragazzo sia stato vittima di un incidente d’auto. Poi, alcune settimane dopo, arriva l’altra ipotesi: poteva essere stato ucciso da una gang criminale poi sterminata dalla polizia.

Mentre la figlia del capo della banda di rapinatori, Rasha Tarek, in possesso dei documenti di Regeni attacca la polizia con queste accuse: hanno ucciso a sangue freddo il padre, il marito e il fratello per far credere che fossero i torturatori e i killer del giovane ricercatore friulano.

Parole che contrastano, ancora una volta, con quanto dichiarato dalle autorità del Cairo. Secondo le autorità egiziane la banda venne uccisa durante uno “scontro a fuoco” avvenuto il 24 marzo 2016. In esso le forze dell’ordine avrebbero subito solo alcuni danni alle vetture.

Intanto nel dicembre del 2016 viene accertato che Mohamed Abdallah, leader del sindacato degli ambulanti oggetto della ricerca ed incontrato per la prima volta da Giulio Regeni il 13 ottobre 2015, denuncia il ricercatore italiano alla polizia di Gyza il 6 gennaio. Lo segue fino al 22 gennaio, cioè tre giorni prima della scomparsa di Giulio, comunicando alla polizia tutti gli spostamenti.

La campagna di Amnesty International Italia

A partire dal 24 febbraio 2016 Amnesty International Italia ha lanciato la campagna Verità per Giulio Regeni (in inglese: Truth about Giulio Regeni), lanciando anche una petizione sul portale Change.org a cui hanno aderito più di 100.000 sostenitori. Segue, il 10 marzo 2016, approvazione da parte del Parlamento europeo di Strasburgo una proposta di risoluzione che condanna la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni e le continue violazioni dei diritti umani del governo di al-Sisi in Egitto. Una risoluzione approvata con ampia maggioranza.

verità per Giulio Regeni
#veritapergiulioregeni – 1° anniversario della morte di Giulio

Primo anniversario della morte di Giulio Regeni

È il 26 gennaio 2017 e dopo 12 mesi di ricerca della verità sull’uccisione del giovane ricercatore italiano, mentre si svolge la manifestazione nazionale a Roma, si pensa agli ultimi sviluppi che vedono protagonista Mohamed Abdallah il capo del sindacato degli ambulanti del Cairo, le sue interviste e le sue riprese di nascosto. Tutti elementi che indicano un coinvolgimento dell’apparato dei servizi di sicurezza egiziani che non può più dirsi estraneo alla terribile e atroce fine di Giulio.

L’Instant book: “Giulio Regeni. Le verità ignorate” di Lorenzo Declich

L’instant book scritto dall’esperto di Islàm Lorenzo Declich, e pubblicato da Alegre, ripercorre la tragica vicenda di Giulio Regeni e cerca di smontare i complottismi che hanno caratterizzato la copertura mediatica del caso Regeni da parte della stampa italiana e dei rapporti commerciali tra il nostro Paese e il regime di El Sisi (il presidente egiziano). Racconta, oltre ai depistaggi delle autorità egiziane, le ricostruzioni fantasiose sull’attività del ricercatore di Fiumicello nella capitale egiziana.

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