Storia dell'Arte Archivi - Cultura https://cultura.biografieonline.it/argomento/arte/storia-dell-arte/ Canale del sito Biografieonline.it Thu, 29 Aug 2024 14:25:32 +0000 it-IT hourly 1 Nascita di Venere: spiegazione e interpretazione dell’opera di Botticelli https://cultura.biografieonline.it/venere-botticelli/ https://cultura.biografieonline.it/venere-botticelli/#comments Thu, 29 Aug 2024 13:11:10 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17241 Se il concetto di bellezza è per sua natura mutevole e indefinibile, nel tempo risiede l’antidoto che impedisce alla beltà espressa nell’arte di invecchiare e tramutarsi in una lode effimera. La Venere, realizzata da Sandro Botticelli tra il 1482 e il 1485, tracciò con i suoi lunghi capelli e le longilinee gambe affusolate, l’inizio di un periodo glorioso per l’arte italiana, connotando il canone di una bellezza eternamente fulgente e proclamando un’innovazione in pieno spirito rinascimentale. Realizzata per la famiglia de’ Medici, la “Nascita di Venere“, sviluppò in se stessa gli ideali classici che, nel risveglio nell'”humana conscientia“, ritornarono a popolare le tele dei migliori pittori di corte italiani ed europei.

Nascita di Venere (Venere di Botticelli, Birth of Venus)
La “Nascita di Venere” (1482-1485, opera spesso indicata anche come “Venere di Botticelli“) è un dipinto a tempera su tela di lino (172 cm × 278 cm) esposto agli Uffizi di Firenze. Per bellezza, intensità, poesia e notorietà, è di fatto un’opera simbolo per l’intera epoca del Rinascimento.

Per chi fosse interessato ad ammirare in una sola immagine ciò che sotto il nome di Rinascimento riempie libri interi, può concedersi il lusso di un contatto diretto con la storia della Firenze rinascimentale visitando la Galleria degli Uffizi.

Nascita di Venere: analisi dell’opera con note tecniche e descrittive

Dalla pelle chiara e dai lunghi capelli dorati, Venere sorse dalle acque schiumose di un mare sconosciuto e, nascondendo con la folta chioma divina le pudiche membra, si eresse misteriosa e timida nella sua identità mitologica e manchevole di ogni umana volgarità.
Nell’immagine surreale e pagana di una vita che scorga da una conchiglia, dal cielo piovono rose, generate, secondo la leggenda, dal mite vento primaverile.

La neonata Venere si esibisce timorosamente al mondo e reggendosi su unico piede, contribuisce alla messa in scena del concetto classico di “contrapposto”, con spalle e gambe ruotate rispetto al busto, espediente che conferisce un portamento più sciolto e rilassato.
Il valore classico della pudicizia è rimarcato dalla giovane donna che, avvolta nello splendido abito ricamato a fiordalisi, soccorre la Venere con un mantello quasi a voler a proteggere universalmente il senso del pudore.

La fanciulla che arriva dalla riva è un’Ora (custode dell’Olimpo) e viene in questo caso rappresentata dal Botticelli senza le altre sorelle, innovando e contrastando la versione proposta dalla letteratura mitologica. La giovane donna è cinta al petto da un tralcio di rose identico a quello presente nella “Primavera“, con uno scollo abbellito da ghirlande di mirto, la pianta sacra a Venere.

La Primavera di Botticelli
Primavera (Sandro Botticelli, 1482 circa) – Tempera su tavola, dipinto per la villa medicea di Castello. Conservata a Firenze, nella Galleria degli Uffizi – E’ possibile notare le somiglianze dell’abito della figura femminile sulla destra, cinto di fiori, con la Nascita di Venere.

Il drappo si apre ad accogliere il corpo nudo e tenero della dea; si tratta di un mantello regale dalla lucente e preziosa bellezza della seta vermiglia, ricamata con sottili e raffinati decori floreali.

Mentre Zefiro, Brezza – in alcuni casi identificata con la ninfa Clori, la futura sposa di Zefiro – e l’Ora rivolgono i propri sguardi verso Venere, questa si offre sottomessa alla vista dell’osservatore; gli occhi languidi dalle pupille dilatate e la testa reclinata si oppongono alla tradizionale vocazione classica che invece permea il resto della composizione pittorica.
Gli occhi velati di una triste malinconia, come molti degli altri elementi estremamente naturalistici, elargiscono alla tela fiorentina un’armoniosa bellezza e una potente simbologia.

Un dettaglio della Nascita di Venere (Venere di Botticelli)
Un dettaglio del quadro: i volti e gli sguardi di Zefiro, Brezza (o Clori), e la Venere di Botticelli

Nella rappresentazione di una nascita sovrumana dalle origini violente e divine, Botticelli considerò l’archetipo della “Venere pudica” e della “Afrodite anadyomenē” di echi notoriamente classicheggianti.

Dal punto di vista tecnico Botticelli si servì, inconsuetamente per l’epoca, di una tela di lino su cui stendendo un’imprimitura a base di gesso accorse all’uso di una tempera magra, sperimentando sia l’uso della tecnica a pennello che a “missione”.

Nascita di Venere: la genesi dell’opera

Risulta grandemente difficoltoso definire con certezza, in modo definitivo e approfondito, la storia di questo straordinario capolavoro. Vasari citò per la prima volta l’opera botticelliana nel 1550: la “Nascita di Venere” era collocata nella Villa di Castello del Duca Cosimo dove

“due quadri figuranti, l’un, Venere che nasce, e quelle aure e venti che fanno venire in terra con gli Amori; e così un’altra Venere, che le Grazie la fioriscono, dinotando la primavera; le quali da lui con grazia si veggono espresse” (VASARI).

La Venere di Poliziano incontra la Venere di Botticelli

Angelo Poliziano (1454-1494) nell’opera incompiuta conosciuta come “Stanze de messer Angelo Poliziano cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de Medici” (1475) anticipava di qualche anno il tema classico e mitologico dell'”Afrodite anadyomenē” (Ἀφροδίτη Ἀναδυομένη, nascente dal mare), ripreso dal Botticelli solo nel 1482, si profilò come il più adeguato a racchiudere lo spirito del proprio tempo, divenendo, di fatti, l’emblema del primo Rinascimento fiorentino.

Vale la pena riportare un breve estratto dell’opera nella quale Poliziano, sposando l’oraziano “Ut pictura poësis”, redige con delle pennellate fatte di poesia il Regno di Venere, quello che Botticelli (1445-1510) renderà in sinfonie di colori e profumate atmosfere:

“Al regno ov’ogni Grazia si diletta,
ove Biltà di fiori al crin fa brolo,
ove tutto lascivo, drieto a Flora,
Zefiro vola e la verde erba infiora.”
(Poliziano, Il Regno di Venere, Stanza 68)

Simonetta Vespucci: la musa botticelliana

Che cosa induce la nascita di un capolavoro? L’ispirazione spesso fluisce dai più alti emisferi del pensiero umano, intrecciandosi con gli ideali e spesso ricondotta in una forma visibile grazie alla “divina” mano dell’artista. Scultori e pittori rendono visibile l’invisibile, tramutando gli ideali in simbologie e le simbologie in forme e colori.

Quando l’inteligentia è toccata dal mirabile spirito dell’amore, che già di per sé è una forma d’arte, il merito dell’artista è semplicemente quello di aver prestato alla sua arte la bellezza di un volto già esistente.

È questo il caso di Simonetta Vespucci (1453-1476), musa ispiratrice di Botticelli, che inondò di ammirazione i cuori di chi ebbe la fortuna di incontrarla, tanto da prestare i suoi bei connotati alla sposa di Efesto, Venere.

La Vespucci fu l’amante di Giuliano de’ Medici nel segno di un’immagine simbolo di ciò che nell’ideale collettivo incarna il Rinascimento, ma al di là di Botticelli, Simonetta, ispirò opere teatrali e musicali, serbando per sempre la sua giovane anima nel cuore dell’arte e di chi l’amò.

Il dettaglio del viso della Venere di Botticelli
Foto dettagliata del volto poetico della Nascita di Venere, dipinto dalle sapienti mani Sandro Botticelli

Note bibliografiche

  • G. Lazzi, Simonetta Vespucci: la nascita della venere fiorentina, Polistampa, Firenze, 2010
  • E. L. Buchoholz, G. BÜhler, K. Hille, S. Kaeppelle, I. Stotland, Storia dell’arte, Touring Editore, Milano, 2012
  • G. Vasari, Le opere di Giorgio Vasari pittore e architetto aretino, Davide Passigli e soci, Firenze, 1832-2838
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Venere di Milo: storia, descrizione e significato dell’opera https://cultura.biografieonline.it/venere-di-milo/ https://cultura.biografieonline.it/venere-di-milo/#comments Tue, 03 Oct 2023 17:44:14 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17625 Scultura di marmo, la Venere di Milo è una statua greca tra le più note e famose del mondo. Estremamente riconoscibile e simbolica è priva delle braccia e del basamento originale. La giovane Venere ritornò al mondo solcando le smarrite strade di un’età ormai perduta, vestita di una nobiltà marmorea e spogliata dal profano limite temporale, quale divinità scultorea di una bellezza bianca e immensa.

Venere di Milo - scultura
La Venere di Milo è una delle sculture più celebri della storia dell’Arte

Capelli raccolti, larghi fianchi fecondi e uno sguardo che ancora oggi colpisce nel complesso di una nudità incompleta ma sensuale, priva dell’illusorietà dell’imbelletto effimero, si fa effige di un’arte suprema, senza raffronti, nella crudele mutilazione del corpo solido che non eclissa l’originaria stupefacente bellezza, ma che paradossalmente fa della mancanza la via prediletta per comprendere la grandezza.

La “Venere di Milo” (130 – 100 a.C.) è tra le afroditi più suggestive scolpite nelle feconde terre del mondo classico, in quelle calde e brune terre egee, da cui fu rapita per incontrare lo sguardo del dispotismo francese e le pallide sale del Louvre, dove è collocata attualmente, in memoria di quella libertà erotica e sessuale che perse la sua purezza tanto tempo fa.

Quando la scultura diventa realtà, non esiste concezione temporale che contempli l’oblio. La grandezza è destinata a durare, la gloria a generare l’ eternità nella memoria, anche se sepolta.
Quando la polvere sotterra, l’uomo riporta alla luce il passato delle grandi ere umane, fiancheggiando la magnificenza di quella conoscenza nascosta che fa della storia umana il più grande mistero.

Venere di Milo - Louvre
La sala del Louvre in cui è esposra la statua della Venere di Milo

La Venere di Milo: genesi dell’opera

Le grandi scoperte archeologiche legano spesso la celebrità del proprio nome all’inusuale contesto esplorativo, casuale e ben lontano da una progettazione voluta, ma in ogni caso desiderata. La “Venere di Milo” come la “Nike di Samotracia” (190 a.C.) è figlia di un destino inatteso, che vide nell’indegna sepoltura la strada per risorgere e risplendere nuovamente.

Nike di Samotracia
Nike di Samotracia

Le fortuite sorti della Venere ricaddero nelle mani di un contadino che individuò, l’otto aprile del 1820, la scultura nel proprio campo, vicino al teatro antico dell’isola di Milo.
La statua venne fortemente contesa tra Francia e Grecia, fino al trasporto a Parigi per volontà dell’ammiraglio Jules Sébastien César Dumont d’Urville (1790 – 1842) e il Marchese di Rivière, ambasciatore francese alla corte ottomana, che la donò a Luigi XVIII, per raggiungere il Louvre solo un anno dopo, nel 1821.

Al momento della scoperta il marmo era terribilmente danneggiato, separato di netto in due parti era privo di braccia e del piede sinistro, mai ritrovati nonostante le ulteriori spedizioni archeologiche.

Note tecniche e descrittive

Modellata dal mare, custode del potere universale, tu regni sovrastandoci mediante la tua grazia perfetta, attraverso quella tranquillità che già di per sé possiede un’immensa forza. La tua nobile serenità si manifesta ai nostri occhi, affondando nei nostri cuori come il fascino di alcune tombe, come quieta musica.

Così Auguste Rodin (1840-1917) elevava l’esaltante bellezza di una dea impudente, nel motivo filosofico dell’invincibile giovinezza (“invincibile youth“), e dunque nel concetto dotto di arte viva, immutabile nella mutabilità del mondo, quale ideale permeante dell’anima umana.

Con la “Venere di Milo” l’arte diviene poesia, ispirazione e musa di ogni cuore sensibile alla bellezza. Poeti, scultori, filosofi e pittori di ogni epoca e inclinazione culturale posero su di essa le basi di una riflessione intima e appagante, lontana da un indottrinamento accademico, difforme dalla teoria scritta, dai trattati eruditi di una conoscenza studiata, meditata.

L’ideale che diventa forma, in un’emulazione dalla natura che non termina nella semplice imitazione, ma che si arricchisce di un sentimento emergente nella posa, nell’aura comunicativa di uno sguardo parlante.

L’incompletezza si accompagna ai segni testimonianti un rigore quasi scientifico nella resa di un panneggio bagnato, aderente ai fianchi levigati dell’inebriante Afrodite.

Il colore bianco e la poetica

Il bianco, forse un tempo policromo, del manto avvolgente, riecheggia violentemente la magnificenza solenne della Nike di Samotracia, la Vittoria alata che calò trionfante a salvare le umane sorti di un potere quasi sconfitto. Nel confronto appare chiara la straordinarietà delle due realizzazioni scultoree, dissimili e unite dal ideale classico, ricordano al mondo il potere dell’arte, il potere espressivo della figura femminile nell’arte, quale veicolo perfetto a comunicare le umane passioni, nell’armoniosità di un corpo nudo e mai volgare, di una somma bellezza e di una misurata concezione estetica.

La poetica del cuore umano conduce ad apprezzare l’inqualificabile potere di un’arte che si trasforma e che trova nei suoi pezzi mancanti il simbolo di ideali più alti e didascalici.

Quello che più colpisce la sensibilità dell’osservatore è proprio l’assenza, quel vuoto che, pur colmato dalla semplice immaginazione, non intende essere riempito.

La “Venere di Milo”, dono che riserva all’età moderna il sentimento glorioso di un’epoca passata, deve la sua incredibile fama proprio alla singolare combinazione di una perfezione fisica minacciata.

La forza della moderazione trova nelle tornite forme femminili le misure adeguate ad esprimere l’incredibile gioco di luci e ombre, in cui volumi emergono e si ammorbidiscono sotto le direttive luminose e sapientemente studiate della sala espositiva.

Lo sguardo della Venere di Milo

Lo sguardo ruota e avvolge l’intero corpo, quasi potendo cogliere quel movimento, quell’attesa meditativa di un istante bloccato nei recessi del tempo.

La grandiosità del tempo aureo dell’arte scultorea trova ovviamente le basi solide di un eccezionalità constatata, indiscutibile e volgente all’intera orbita delle opere d’arte classica. L’ideale classico trova nella capolavoro di Milo il tempo di elevarsi e di porre svariati quesiti sull’identità del suo autore, sull’ispirazione mitologica generatrice di un’ideale scultoreo che abbandona la rigida frontalità nella scelta di una torsione del corpo nello spazio, in quella posa leggermente riversata all’indietro, nel piede che regge il corpo in un dinamismo perfetto.

Nell’ “Antologia; giornale di scienze, lettere e arti” dell’ottobre del 1832, l’archeologo e abate Battista Zannoni (1774 – 1832) ripercorse varie tesi interpretative allo scopo di configurare un profilo, se pur del tutto mitologicamente identificativo, di colei che ispirò il mondo alla conquista del tempo (“O conqueror of time !“, Rodin).

Le ipotesi fornite dall’abate chiaramente tratteggiano i connotati confusi del volto femminino dei culto greco, dove risulta impossibile stabilire con convinzione chi fosse realmente la Venere rappresentata.

Venere di Milo - dettaglio del volto
Venere di Milo: dettaglio del volto

Ipotesi e teorie

Dal confronto con altre sculture scoperte fino a quel momento e dallo studio del possibile orientamento nello spazio delle braccia verso sinistra, il filosofo, archeologo e critico d’arte francese Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy (1755 – 1849) teorizzò la presenza della statua all’interno di un gruppo scultoreo insieme alla figura di Marte, ipotesi che venne confermata e poi screditata dal ritrovamento di un braccio sostenente un pomo, dalle stile nettamente inferiore rispetto alla statua madre.

Una conclusione di questo tipo risultava convincente nel frangente di una connessione che congiungeva gli artefatti archeologici alla mitologia classica, dunque alle vicenda della vendetta di Eris (dea della discordia) ai danni di Atena (dea della saggezza), Era (regina degli dei) e Afrodite (dea della bellezza) e della tragica guerra di Troia.

A questi Marte, a quei Minerva è sprone, e quinci e quindi
lo Spavento e la Fuga, e del crudele
Marte suora e compagna la Contesa
insaziabilmente furibonda

Iliade, cap. IV, Omero

L’attitudine del mondo antiquario era quella di attribuire le opere ripetute entro un certo profilo iconografico ad un gruppo scultoreo originale e dalle qualità stilistiche superiori, giungendo a considerare i gruppi del medesimo motivo originati tutti dalla celebre “Venere di Milo”; per tale motivo si pensò che il volto della Venere delle Cicladi si rassomigliasse a quello della Venere del Museo Pio – Clementino il quale, grazie a due medaglioni imperiali battuti a Gnido, era attribuita a Prassitele (400/395 a.C. – 326 a.C.); fu proprio tale congettura ad indirizzare Quatremère de Quincy all’ipotesi che la scultura fosse uscita dallo studio o dalla scuola dello scultore ateniese.

L’ipotesi del gruppo scultoreo venne ritrattata dall’archeologo francese, nel proponimento di una scultura nata per vivere nella solitaria collocazione e al contempo in una relazione intensa con le statue di altre due dee.

Le qualità espressive della giovane dea sono sublimi, dove la franchezza dello sguardo severo collide con il torso magnificamente nudo, di “un ventre splendido, largo come il mare“.

Venere di Milo
Venere di Milo

Note Bibliografiche

G. Bejor, M. Castoldi, C. Lambrugo, Arte Greca – Dal decimo al primo secolo a.C., Mondadori Education, Milano, 2008
P. Daverio, Louvre, Scala, Firenze, 2016
A. Rodin (1911), To the Venus de Milo, Art and Progress (2), vol. III, 409 – 413.
B. Zannoni (1822), Sulla statua antica di Venere, scoperta sull’isola di Milo, in G. P. Vieusseux, Antologia; giornale di scienze, lettere e arti, vol. VIII, Firenze: 47 – 52

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Tondo Doni di Michelangelo: storia e descrizione https://cultura.biografieonline.it/tondo-doni/ https://cultura.biografieonline.it/tondo-doni/#respond Mon, 19 Dec 2022 10:57:59 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=40711 Il Tondo Doni è un’opera di Michelangelo Buonarroti databile tra il 1505 e il 1507. Si tratta di un dipinto a tempera grassa su tavola, unica opera su supporto mobile dell’artista. Oggi è conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze. È una delle opere emblematiche del Cinquecento: pone le basi al Manierismo.

Tondo Doni: foto ad alta risoluzione pdf
Tondo Doni: foto ad alta risoluzione

Tondo Doni: la commissione e l’aneddoto del pagamento

La storia dell’opera, a partire dalla commissione, è raccontata dallo storico dell’arte Giorgio Vasari. Alla base c’è un curioso aneddoto.

Agnolo Doni è un ricco banchiere che richiede a Michelangelo, suo amico, una Sacra Famiglia in tondo. Si pensa che la richiesta fosse stata avanzata in occasione delle nozze di Maddalena Strozzi o del battesimo della loro primogenita, Maria. In ogni caso non appena l’opera è pronta Michelangelo la invia alla famiglia Doni con un garzone.

Il ragazzo porta il dipinto e chiede i 70 ducati, come indicato da Michelangelo. Doni non è d’accordo e gliene dà solo 40.

Michelangelo, quindi, fa riportare indietro il dipinto. Lo cederà, in seconda battuta, al prezzo raddoppiato di 140 ducati.

Il viaggio dell’opera: da casa Doni agli Uffizi

Alcuni documenti e testimonianze raccontano che il Tondo Doni resta in casa Doni fino al 1591. Solo nel 1677 arriva la prima collocazione agli Uffizi, tra le collezioni granducali. Da qui nasce una grandissima popolarità per l’opera con decine di riproduzioni e incisioni nel tempo.

Tondo Doni: descrizione dell’opera

Il dipinto mostra una Sacra Famiglia al centro del tondo. In primo piano non c’è come più frequentemente accade il Bambino, ma la Madonna.

La madre è nell’atto di girarsi su stessa per prendere il figlio dalle braccia di San Giuseppe, che infatti glielo porge.

Accanto a lei c’è un libro chiuso e abbandonato sul manto che copre le gambe.

Il piccolo Gesù è intento a giocare con i capelli della madre.

La dinamica del dipinto, di grande matericità anche per il corpo imponente della Madonna, ha il suo culmine nella torsione di Maria. La linea della torsione si chiude nella piramide rovesciata formata dalle 3 teste.

Tondo Doni - cornice dettaglio
Il dettaglio del quadro e della cornice

Lo sfondo

In secondo piano vediamo il piccolo San Giovanni Battista. Più indietro diversi gruppi di ignudi, appoggiati alle rocce e poi, a cornice, un lago, un prato e delle montagne.

Questi personaggi richiamano la muscolatura stessa dei tre protagonisti del tondo, nelle loro linee.

Inoltre il dinamismo riverbera nel contrasto tra l’andamento orizzontale della scena in secondo piano e quello invece verticale del primo piano, della Sacra Famiglia.

Riferimenti e personaggi

Tra il gruppo di personaggi in secondo piano risalta sulla destra, appunto, il piccolo San Giovanni Battista. Gli altri corpi possono essere associati ad altri riferimenti della scultura classica, a mo’ di citazioni: il giovane in piedi ricorda ad esempio l’Apollo del Belvedere.

Apollo del Belvedere
Apollo del Belvedere

Mentre nell’uomo seduto subito a destra di Giuseppe si ravvisa un richiamo al Gruppo del Laocoonte.

Gruppo scultore del Laocoonte
Laocoonte e i suoi figli: Agesandro, Atanodoro e Polidoro, marmo, I d.C., Musei Vaticani

Accomuna tutti i corpi il “trattamento scultoreo”.

Ogni singolo personaggio ha grande possenza, è chiaroscurato, spicca dal fondo della tavola trasmettendo una senso materico molto forte.

Un paesaggio noto

Oltre ad opere classiche, viene “citato” anche il paesaggio. C’è una somiglianza, quasi inconfondibile, con il profilo della scogliera della Verna. Più studiosi hanno confermato questo parallelo.

Michelangelo rappresenta il paesaggio di Chiusi della Verna. Ci sono legami in tal senso sia di Michelangelo che di Agnolo Doni, iscritto all’Arte della Lana di Firenze, protettrice del Santuario della Verna, fra l’altro.

Scogliera della Verna (Chiusi della Verna, Arezzo, Toscana)
Scogliera della Verna (Chiusi della Verna, Arezzo, Toscana)

Prospettiva doppia

Oltre l’orizzontale dello sfondo contrapposto al verticale della scena in primo piano, le due parti si differenziano anche per il punto di vista.

  • Il fondo, dove sono gli ignudi e il paesaggio, è letto dall’artista con un punto di vista frontale e ribassato.
  • La scena in primo piano invece è come vista dall’alto.

Le linee prospettiche sono moltiplicate: dietro la prospettiva poggia sull’ombra della croce e sulla croce del San Giovannino, cosa che non avviene in primo piano. Questo a superare l’allineamento tipico del tempo di Michelangelo che già annuncia i prodromi di quello che sarà il Manierismo.

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Miró e il surrealismo https://cultura.biografieonline.it/miro-e-il-surrealismo/ https://cultura.biografieonline.it/miro-e-il-surrealismo/#comments Thu, 08 Feb 2018 17:03:09 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=24018 Il Surrealismo è un movimento d’avanguardia che nasce in Francia nel periodo tra le due guerre. Il termine significa “superamento del realismo”. L’intento infatti degli artisti è quello di contrastare il razionalismo e il naturalismo dell’arte borghese, elaborando invece un nuovo linguaggio capace di penetrare nelle regioni dell’inconscio, offrendo una visione dell’io più autentica e profonda. Così in arte il surrealismo elabora forme corrispondenti all’automatismo psichico e al mondo dell’inconscio, dalle forme realistiche o forme fantastiche, frutto proprio di una visione interiore. È questo l’intento che si prefigge Joan Miró, che trasforma la realtà in un mondo di sogno.

Joan Miró
Joan Miró

Miró e il surrealismo

Il pittore, grafico, scultore catalano è molto legato alla sua terra, alla vita dei contadini, ai loro oggetti di uso quotidiano, all’arte popolare. E ancora: alle luci e ai colori del Mediterraneo, che rappresentano alcune delle sue fonti di ispirazione. Poi, i soggiorni a Parigi e la frequentazione di Picasso, così come degli esponenti del dadaismo e del surrealismo hanno delineato il suo stile, nonché le sue scelte artistiche. Il periodo surrealista di Miró è generalmente indicato negli anni compresi tra il 1924 e il 1930.

Joan Mirò e la poesia della sua terra

Miró attinge dalla quotidianità della terra catalana: il rumore dei cavalli in campagna, le ruote di legno dei carri che cigolano lungo il tragitto, il suono dei passi, i grilli sono tutte fonti di ispirazione del pittore surrealista. L’artista a Parigi, incoraggiato da Pablo Picasso, inizia a lavorare. Così si avvicina al circolo degli artisti e dei poeti dadaisti, ammirato dalla mancanza di regole e dai preconcetti nell’arte. Ma l’artista, nato a Barcellona nel 1893, lavora su una strada autonoma, fuori dagli schemi e dai condizionamenti, libero dalle richieste dei mercanti d’arte.

È dall’incontro con i surrealisti di cui apprezza l’importanza del “gioco arbitrario dei pensieri” e del sogno, che partendo dalla realtà si arriva ad associazioni di immagini che hanno un significato più profondo, proprio come ben rappresenta nella sua opera “Il Carnevale di Arlecchino”, realizzata tra il 1924 e il 1925. La sua è un’arte concettuale che si semplifica nelle forme. Segue un ordine che medita a lungo, da qui compaiono sulla tela segni e simboli, sostenendo che:

Se anche una sola forma è fuori posto, la circolazione si interrompe; l’equilibrio è spezzato.

Miró e il surrealismo: Carnevale di Arlecchino - Joan Miró - 1925
Miró e il surrealismo: il Carnevale di Arlecchino è uno dei suoi quadri più celebri, realizzato tra il 1924 e il 1925.

Le forme fantastiche di Mirò

Nei suoi dipinti resta sempre una traccia del reale, seppure tenda a diventare una pittura astratta dalle variopinte forme fantastiche accostate tra loro. Così compare un occhio, una mano o la luna. Alcune pitture di Miró lasciano pensare a cieli stellati. Mirò si ispira alla natura e non solo: anche alla musica. È nel 1936 che lascia la Spagna e si ritira a Parigi, durante la devastante guerra spagnola. Qui, a Parigi, inizia a comporre poesie di stile surrealista, rifacendosi agli stessi meccanismi adottati per la pittura.

Non è difficile vedere comparire nelle sue opere le parole, che rappresentano la loro chiave di lettura. In più, le sue opere sono influenzate dall’arte orientale, cioè dai lavori calligrafici giapponesi. Un aspetto curioso di Joan Mirò è quello che riguarda la sua abitudine di lavorare in contemporanea su più dipinti.

Sole rosso - Le soleil rouge - 1967 - Joan Miro
Sole rosso (Le soleil rouge) • Joan Miró, 1967

La tecnica: dall’olio su tela al collage

L’artista dipinge a olio su tela e non si limita a questo: utilizza infatti anche il collage, certe volte il supporto su cui dipinge sono rozze tele di juta. Negli anni che seguono la Seconda guerra mondiale inizia con entusiasmo a usare altre tecniche: la ceramica, la scultura e l’acquaforte.

Comprendere l’arte di Mirò e amarlo

La sua leggerezza, l’allegro colore che utilizza, avendo tuttavia un debole per il nero, fanno di lui uno degli autori del Novecento più apprezzato e amato dal pubblico e uno degli artisti più rappresentativi del surrealismo. Quello nei confronti di Miró e il surrealismo, non è amore a prima vista, bisogna entrare nella sua arte, che sfocia in un vero astrattismo lirico, che regala svariate chiavi di lettura. La sua arte è spregiudicata libertà espressiva.

La svolta artistica

Una svolta artistica della sua arte si ha all’inizio degli anni Venti del Novecento. In questo periodo decide di dar vita ad opere che uniscono pittura e scultura realizzando una sorta di collage tridimensionale. In pratica l’artista recupera degli oggetti in modo casuale, quelli che trova, e li trasforma in soggetti per i suoi lavori. Così si esprime Mirò:

Le forme germogliano e mutano, si interscambiano e così creano la realtà di un universo di segni e simboli.

Infine, sperimenta anche l’uso della trementina, che utilizza, dopo aver pulito i pennelli, gettandola sulla tela vergine dando vita ad una sorta di reticolato di sfondo.

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Romanticismo nell’arte https://cultura.biografieonline.it/romanticismo-arte/ https://cultura.biografieonline.it/romanticismo-arte/#comments Tue, 27 Sep 2016 08:46:28 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19969 Il Romanticismo, affermatosi all’inizio dell’Ottocento, si espanse in tutti i campi della cultura e influenzò profondamente la pittura e l’arte. In questo articolo riassumiamo brevemente l’evoluzione del Romanticismo nell’arte. In realtà, un primo accenno dell’avvento del movimento in campo artistico si era avuto già a partire dalla fine del Settecento con l’affermarsi del pre-romanticismo. Anche l’arte romantica si diffuse a partire dalla Germania, che si rivelò la culla del movimento, per poi arrivare in tutta l’Europa, con Francia, Inghilterra, Spagna e Italia. L’arte romantica fu quella che anticipò direttamente l’arte moderna ed è quindi fondamentale tener presente tutte le sue caratteristiche.

Romanticismo nell'arte: Viandante sul mare di nebbia (1818)
Viandante sul mare di nebbia” (1818). Questo quadro di Caspar David Friedrich, rappresenta il manifesto del Romanticismo nell’arte

All’inizio dell’Ottocento imperversò la polemica tra classici e romantici: il Romanticismo voleva rompere gli schemi fissati dal severo Neoclassicismo per rappresentare il sentimento, la passione in tutte le arti.

Le conseguenze di questa polemica si notarono sia nella pittura che nella scultura, dove il nuovo movimento portò un rinnovamento radicale e una nuova concezione della natura e della realtà.

Le caratteristiche del Romanticismo nell’arte

Il concetto chiave della sensibilità romantica espresso nell’arte fu quello della centralità dell’individuo e l’affermazione dell’assoluto. Tali teorie furono riprese dai filosofi romantici Fichte e Schelling. Questa tensione si espresse in una importante ricerca dell’infinito e soprattutto nell’esaltazione delle qualità dell’artista, che venne inquadrato come una sorta di genio o, addirittura, mago.

Cambiò così anche il rapporto sia con la natura, che vide lo svilupparsi di una nuova pittura di paesaggio, sia con la storia, che venne vista come l’alternanza di vicende per l’affermazione dell’identità nazionale. La pittura storica acquisì infatti un nuovo vigore. I soggetti preferiti erano storici, letterati, religiosi. La ritrattistica e il paesaggio divennero, però, i più amati dai pittori romantici.

La pittura di paesaggio

Proprio in pittura si assistette in modo più visibile ai grandi cambiamenti avviati dal Romanticismo. La pittura di paesaggio, che fino a quel momento aveva subito l’influenza del paesaggio classico, si ispirò ai modelli del sublime e del pittoresco. Non si seguirono più le rigide regole accademiche ma si cercò di rappresentare la luminosità attraverso l’acquerello (tecnica introdotta proprio in questo periodo per rendere su tela la trasparenza dell’atmosfera).

Il carro da fieno (The Hay Wain, John Constable, 1821)
Il carro da fieno (The Hay Wain, John Constable, 1821)

I pittori romantici inglesi

I più importanti pittori paesaggisti del Romanticismo furono gli artisti inglesi. Tra questi, John Constable, autore di composizioni molto espressive quali Il carro da fieno (1821). Ma soprattutto William Turner, autore della composizione che rappresenta per eccellenza il periodo romantico ovvero Pioggia, vapore e velocità (1844). L’opera è un’esplosione di colori che rende il passaggio del treno davvero realistico e suggestivo.

Pioggia, vapore e velocità (Rain Steam and Speed the Great Western Railway) - 1844
Pioggia, vapore e velocità (Rain Steam and Speed). Realizzato da William Turner nel 1844, il quadro è conservato presso la National Gallery di Londra.

I pittori romantici francesi

In Francia, invece, la pittura paesaggistica si rinnovò con ritardo perché più legata alle regole accademiche. Qui furono il ritratto e la pittura storica a trovare grande espressione. I protagonisti della pittura romantica francese furono Theodore Gericault ed Eugene Delacroix.

La zattera della Medusa (Le Radeau de la Méduse, 1818-1819) • Théodore Géricault • Louvre
La zattera della Medusa (Le Radeau de la Méduse, 1818-1819). Questo quadro di Théodore Géricault è conservato presso il Louvre di Parigi.

Essi espressero a pieno la nuova sensibilità romantica. Il primo fu autore de La zattera della Medusa (1818), pittura ispirata ad un avvenimento di cronaca. Il secondo dell’altrettanto famoso La libertà che guida il popolo (1830), dal soggetto politico e profondamente reale.

La Libertà che guida il popolo - La Liberté guidant le peuple - Eugène Delacroix - 1830
La Libertà che guida il popolo (La Liberté guidant le peuple). Eugène Delacroix (1830, Louvre).

In Germania si distinse Caspar David Friedrich, che incarnò l’essenza della pittura romantica. Nelle sue opere si enuncia la preferenza per oggetti rotti, rovine, atmosfere rarefatte e malinconiche. Il suo Viandante sul mare di nebbia (1818) può considerarsi il simbolo e il manifesto della pittura romantica. Nel quadro, un uomo ritratto di spalle, guarda con intensità la nebbia che gli si prospetta davanti e la osserva meditando.

Francesco Hayez, Il Bacio (1859)
Il Romanticismo nell’arte italiana trova la sua massima rappresentatività in questo quadro: “Il Bacio” (1859, Francesco Hayez)

In Italia

In Italia gli artisti rimasero più fedeli alle regole Neoclassiche. Da ricordare, però, la figura del pittore Francesco Hayez, che incarnò il passaggio dalla pittura neoclassica a quella romantica. Egli predilesse i ritratti realisti e i soggetti melodrammatici, tra cui il famoso Bacio del volontario (1859), noto anche semplicemente come Bacio di Hayez.

In generale, quindi, il Romanticismo nell’arte fu in grado di cambiare profondamente l’orizzonte artistico del tempo, mettendo in luce la passione, il sentimento, i soggetti realistici che erano stati accantonati dal rigido e perfetto Neoclassicismo. Grazie all’opera degli artisti romantici si assistette pian piano al cambiamento che avrebbe portato alla nascita dell’Arte Moderna.

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Neoclassicismo: dall’Illuminismo all’arte neoclassica https://cultura.biografieonline.it/neoclassicismo/ https://cultura.biografieonline.it/neoclassicismo/#comments Fri, 16 Sep 2016 08:07:48 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19803 A partire dalla seconda metà del Settecento, in tutti i paesi europei iniziò la diffusione di un nuovo movimento artistico-letterario: l’Illuminismo. L’idea di base era quella che la ragione potesse illuminare, da qui infatti deriva la parola Illuminismo, le tenebre dell’ignoranza e della superstizione che all’epoca dell’Assolutismo dilagavano in Europa. Le idee illuministiche erano piuttosto rivoluzionarie. Per la prima volta si parlò di libertà, uguaglianza, progresso e libera ricerca. Queste idee  sconvolsero ogni campo del sapere: la scienza, la letteratura, l’arte, la pittura e l’architettura. In questo articolo approfondiremo il tema dell’Illuminismo nell’Arte che portò alla nascita del Neoclassicismo.

L’Illuminismo nell’Arte

Lo spirito critico dell’Illuminismo investì soprattutto la storia e le arti figurative. In questo periodo storico nacque la storia dell’arte come disciplina. Vennero infatti assunti come modello le forme classiche dell’arte greca, semplici e chiare in contrapposizione a quelle pompose e ricercate del Barocco. Il barocco fino a quel momento aveva dominato la scena.

Fondamentali furono le pubblicazioni del tedesco Johann Winckelmann, come Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura (1755). Con Winckelmann si diede avvio allo studio della storia dell’arte come materia e soprattutto all’interesse per l’arte classica.

Johann Winckelmann
Johann Winckelmann

Il Neoclassicismo

Proprio a partire da queste premesse, prese avvio il Neoclassicismo, ossia la corrente artistica che si diffuse a seguito dell’Illuminismo. Il termine venne adottato per la prima volta solo in età Romantica, nel 1880, per indicare in modo dispregiativo una corrente che era stata elaborata prima su carta e poi messa in pratica.

Per la prima volta, con il Neoclassicismo, non furono gli artisti italiani ad essere in prima fila ma i colleghi europei, in particolare francesi ed inglesi. Tutto partì dalla Francia.

Nacquero le Accademie pittoriche: i pittori non si formavano più dai maestri di bottega ma direttamente in esse. In generale, la pittura del Settecento si concentrò principalmente sulle vedute di città (nacque infatti il Vedutismo, che vide il Canaletto, pittore italiano, tra i suoi principali esponenti), ritratti, nature morte o scene cittadine che rispecchiavano la realtà così come gli artisti la vedevano, seguendo l’esigenza illuminista di indagare dal vero la società.

Le arti figurative risentirono profondamente di questi cambiamenti. Di conseguenza cambiarono i gusti del pubblico e soprattutto si modificò il rapporto tra classi sociali. Venne data importanza al gusto della borghesia, diventata la classe dominante. Importante ruolo sociale veniva affidato all’arte, riprendendo lo stesso concetto valido per gli antichi greci: l’Arte tornò ad essere considerata fondamentale per la formazione dell’individuo.

Il Neoclassicismo è una corrente del gusto che ha subito una lunga elaborazione teorica prima di nascere completamente nella breve e intensa fioritura dello stile Impero, dopodiché è piano piano scomparso sotto l’azione dei fermenti romantici che recava in sé fin dalle origini. (MARIO PRAZ)

Gli artisti neoclassici

Impossibile non citare il più importante artista francese attivo in quel periodo: Jacques-Louis David, studioso dell’antico ed autore di alcuni dipinti importantissimi quali “Il giuramento degli Orazi” (1784), “Marat assassinato” (1793), “Saffo e Faone” (1809). Con lui lo stile classico divenne lo Stile Impero per eccellenza, perché egli lavorò per Napoleone Bonaparte.

Neoclassicismo e Arte Neoclassica: Saffo e Faone - dettaglio del quadro
Saffo e Faone – dettaglio del quadro di Jacques-Louis David, esempio di Arte Neoclassica

Attorno al David si formò una generazione di artisti che contribuirono a diffondere il suo stile in tutta Europa.

In Italia lo stile Neoclassico si affermò con maggiore lentezza rispetto agli altri paesi europei. Tuttavia non mancarono artisti eccezionali in questo campo. Tra i pittori neoclassici ricordiamo Andrea Appiani e tra gli scultori Antonio Canova.

Il primo, milanese, si uniformò al nuovo stile pittorico e si occupò in particolare di natura e di figure mitologiche. Il secondo fu invece in grado di assorbire tutte le novità delle teorie del Winckelmann e di diventare colui che avrebbe cambiato per sempre la scultura italiana.

Canova scelse quasi sempre soggetti mitologici per le sue sculture. Tra le sue opere più importanti ricordiamo: Dedalo e Icaro (1778-1779, ispirata alla storia di Icaro), Amore e Psiche (1786-93), ispirata all’omonimo mitoApollo che si incorona (1781-82).

La forza delle sculture di Canova risiede nella semplicità, nella grazia che si rispecchiava a pieno nel motto di Winckelmann: nobile semplicità e quieta grandezza.

amore e psiche antonio canova
La scultura “Amore e Psiche“, di Antonio Canova, è conservata presso il Louvre

I cambiamenti nel gusto, però, furono certamente lenti perché il passaggio dall’eccesso Barocco alla quiete Neoclassica richiese molto tempo. Questa nuova corrente artistica influenzò profondamente l’arte successiva, imprimendo un segno e un gusto che tutt’oggi si possono distinguere.

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San Matteo e l’angelo (opera di Caravaggio) https://cultura.biografieonline.it/san-matteo-e-langelo/ https://cultura.biografieonline.it/san-matteo-e-langelo/#comments Tue, 05 Jul 2016 20:24:00 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19093 San Matteo e l’angelo” è una delle tre opere che compongono il ciclo pittorico destinato alla cappella Contarelli, ubicata all’interno della chiesa di San Luigi dei Francesi in Roma, e commissionata al Caravaggio (Milano, 29 settembre 1571 – Porto Ercole, 18 luglio 1610) dagli eredi del cardinale Mathieu Cointrel (italianizzato in Matteo Contarelli).

San Matteo e l'angelo - il dettaglio dell'Angelo
San Matteo e l’angelo – il dettaglio dell’Angelo

San Matteo e l’angelo: analisi

La tela è di notevoli dimensioni (292 cm x 186 cm), anche se più piccola, sia in larghezza sia in altezza, rispetto alle altre due opere (La vocazione di San Matteo ed il Martirio di San Matteo) che l’artista realizzò per portare a compimento il suo primo incarico pubblico ricevuto a Roma.

In un primo momento, l’allestimento dell’altare maggiore della cappella era stato affidato al fiammingo Jacob Cornelisz Cobaert. Questi, per l’occasione, aveva realizzato un gruppo scultoreo avente come tema appunto San Matteo e l’angelo. Accadde però che Francesco Contarelli, nipote del defunto cardinale, rifiutò l’opera dello scultore, ritenendola inadeguata. Così anche questo incarico venne conferito al Caravaggio, che aveva già terminato i due dipinti laterali.

San Matteo e l'angelo - Caravaggio
San Matteo e l’angelo (opera di Caravaggio del 1602)

Due versioni

Il pittore realizzò due versioni di San Matteo e l’angelo; nella prima, San Matteo ha le sembianze di un uomo rozzo e inconsapevole che, stupito, si lascia guidare la mano da un angelo paziente il quale, rimanendogli accanto, in piedi, lo aiuta a scrivere il suo vangelo.

Secondo alcuni studiosi, la tela fu contestata e quindi rimossa dall’altare maggiore subito dopo la sua collocazione. Essa fu ritenuta volgare a causa dell’aspetto grossolano che l’artista aveva imposto al santo. Altri invece, sostengono che lo stesso Caravaggio, resosi conto del sottodimensionamento del dipinto rispetto al vano a cui era destinato, e del contrasto della composizione rispetto alle regole di centralità dettate dalla Controriforma in merito alla rappresentazione dei martiri-eroi, avesse deciso di proporre un’alternativa.

San Matteo e l'angelo - ciclo pittorico cappella Contarelli - Caravaggio
San Matteo e l’angelo è collocato nella cappella Contarelli (al centro) assieme a “La vocazione di San Matteo” (a sinistra) ed il “Martirio di San Matteo” (a destra)

Il dipinto trovò subito un acquirente nella persona del marchese Vincenzo Giustiniani e successivamente, nel 1815, venne liquidato, assieme ad altre opere e per ragioni economiche, dagli eredi di quest’ultimo a favore del re di Prussia.

Purtroppo però, verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, tra il 5 e il 10 maggio 1945, l’opera (così come altre tele del Caravaggio) andò distrutta durante l’incendio della Flakturm Friedrichshain di Berlino. Quella ancora oggi esposta sull’altare centrale della cappella, è la seconda versione del dipinto proposta dal Caravaggio, lì collocata dal 1603.

Descrizione del quadro

Sullo sfondo scuro si stagliano le due figure protagoniste. Il colore acceso delle vesti di Matteo e il bianco lenzuolo caratterizzato da sinuosi vortici che avvolgono l’angelo calato dall’alto, conferiscono movimento alla scena.

San Matteo e l'angelo - quadro - dettaglio - San Matteo
Nel dettaglio: San Matteo

In questa versione, San Matteo ha un aspetto diverso, più distinto. Anche se, secondo la tradizione, è un ignorante ed un non così fervido credente; risulta sorpreso ma non inconsapevole, perché è ispirato ma non guidato.

San Matteo ha un’aureola accennata, è a piedi nudi. Ha la gamba sinistra sopra uno sgabello traballante, poiché è intento a scrivere.
L’angelo lo sorprende con il suo arrivo, tanto da fargli perdere l’equilibrio mentre si gira per guardarlo.

Il messaggero lo aiuta dettandogli le parole divine. Con la posa delle dita è chiaro che tiene la conta, nell’elencargli la genealogia di Cristo. Lo sguardo di Matteo è vivido, attento, devoto, rispettoso. E’ in attesa di cogliere il sacro verbo con la sua mano pronta che impugna una penna.

San Matteo e l'angelo - prima versione
San Matteo e l’angelo – prima versione

Commento

La prima versione era certamente permeata da maggiore realismo, palesemente ostentato; qui, invece, si percepiscono nettamente quei limiti imposti dalla Chiesa per quanto riguarda i canoni di rappresentazione del periodo. Ma, con maestria e per l’ennesima volta, il ribelle Caravaggio riesce a mostrarci l’essenza umana per quella che è. Ovvero tramite i tratti somatici di un Matteo, uomo del popolo, malcelato sotto una tunica.

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Astrattismo https://cultura.biografieonline.it/astrattismo/ https://cultura.biografieonline.it/astrattismo/#comments Thu, 26 May 2016 12:16:29 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=18476 L’astrattismo si definì nei termini di movimenti artistico a partire dal primo decennio del Novecento, assumendo nelle sue molteplici sfumature la natura di matrice inglobante tendenze differenti ma allo stesso tempo aderenti allo spirito “astratto“. L’astrattismo si costituì nel segno di tre principali movimenti artistici: Suprematismo, Costruttivismo e Raggismo.

Improvvisazione 11
Improvvisazione 11 (Kandinsky, 1910)

Astrattismo: il movimento

L’arte è avanguardia, progresso capace di tracciare il percorso glorifico dell’innovazione nei gineprai della storia umana, sublimando le passioni in ideali, gli ideali in missioni.
Ogni secolo è il custode delle proprie avanguardie, così come un uomo possiede la sua anima e i tratti più intimi del suo essere, nella medesima maniera il Novecento si fece carico dell’animo offeso, maltrattato e così assiduamente violato della civiltà novecentesca.
Rottura dopo rottura, esternazione dopo esternazione, l’arte è progredita, saziandosi di geni e apparenti follie artistiche.

L’arte è cambiamento, mutamento eterno e circolare, mezzo indispensabile al sostentamento dell’anima e della sua edonistica bellezza.
Il cambiamento è preceduto dal cambiamento, da quella silenziosa rivolta di animi, umane passioni e istinti, annunciante l’era del mutamento, alterazione capace d’impossessarsi dell’arte con tele sconcertanti e letture stimolanti.

Il Novecento divenne la patria temporale dell’avanguardismo europeo, congiungendo lo spirito di rivolta alla ricerca ultramateriale, slegata dalla necessità delle realtà per tramutarsi in arte.
La realtà novecentesca, nella brutalità di una sorte oscura e mortale, movimentò ogni percezione sensibile, rispecchiando, di fatti, le convulsioni di una società in balia di una viscerale crisi culturale, letterale, sociale, politica e filosofica.

L’astrattismo esordì ufficialmente nella sfera intellettuale europea nel 1910, profetizzandosi in un primo marginale ingresso del mondo intellettuale con le opere del tedesco Hoelzel e i disegni astratti di Francis Picabia (1879 – 1953).
Ad ogni modo è solo tra il 1910 e il 1914 che l’astrattismo acquista una fisionomia specifica, entrando, in tal modo, nella storia dell’arte come movimento.

Il termine astrattismo rientra in buona parte nelle argomentazioni inerenti l’Espressionismo: l’astrattismo espressionista di matrice kandiskiana coinvolgeva nella sua essenza la potenza romanticamente rigeneratrice dell’impulso lirico, in grande misura connesso al principio dell’ispirazione, intesa nei termini di “effusione dello spirito”, mentre nella misura dell’astrattismo di Mondrian l’esigenza artistica ricalca i binari del rigore intellettuale, della regola, della geometria.

Bisogna, in egual misura, tener presente che nonostante le consistenti differenze, le due tendenze hanno in comune la medesima radice ideologica e quanto meno mistica, anche se il misticismo di Mondrian si fregiava dell’esito di una natura mentale anziché emotiva, come invece avveniva nel caso del primo Kandinsky.

Kandinskij, primo acquerello astratto (1913)
Primo acquerello astratto, Vasilij Kandinskij (1913)

Nella complessità delle divergenze valicanti definizioni e sottili paradigmi teorici, la principale distinzione risiede nel percorso che induce all’intento legato all’ispirazione: mentre in seno al lirismo kandiskiano incontriamo forme di ascetismo totalmente slegate dalle dipendenze della realtà materiale e fortemente legate alle vibrazioni emotive dell’estasi improvvisa, quale unico mezzo per congiungersi alla sostanza spirituale dell’universo, in Mondrian l’ascetismo risulta essere di natura rigorista o calvinista, volto al pieno dominio delle passioni e dedito al superamento di ogni forma di turbamento emotivo attraverso lo strumento ideale della “spersonalizzazione”, ovvero la completa liberazione dagli stimoli individuali:

Nel mondo di Mondrian l’uomo non sarà nulla in sé, non sarà che parte del tutto, ed allora che, avendo perduta la vanità della sua piccola e meschina individualità, sarà felice in questo Eden che avrà creato. (MORISANI)

Tra le due posizioni, quella kandiskiana e quella di cui si fece promotore Mondrian, le esalazioni dell’intuizione astratta divergono nel segno del richiamo allo scientificismo, costante in Mondrian e del tutto assente nella pittura kandiskiana, dove emerge, nell’assidua ricerca espressiva, il rigetto del positivismo.

Il contesto storico

L’astrattismo nacque nella fredda Russia zarista negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, evolvendosi ulteriormente negli anni che seguirono la Rivoluzione di Ottobre: tra il 1905 e il 1914 prima e tra il 1917 e il 1925 dopo, l’astrattismo si era fortemente affermato sul fronte intellettualistico sovietico nel ricco clima della sperimentazione artistica.
Si affermarono tre correnti fondamentali nel cuore dell’astrattismo russo: il Raggismo, il Suprematismo e il Costruttivismo.
L’atmosfera è quella del realismo ottocentesco, di grande tradizione democratica e di lotta contro l’assolutismo zarista.

Nel consacrato tempio della letteratura ottocentesca e nel quadro di una mistica sacralizzazione dei più influenti scrittori russi, il contraccolpo dell’involuzione borghese verificatosi in Europa qualche tempo prima, si manifestò con atroce drammaticità solo dopo la rivoluzione del 1905.
La rivolta si macchiò di sangue operaio e contadino, la cui dolorosa emorragia democratica -borghese, pur scuotendo il regime feudale dalle fondamenta, vide ad ogni modo la vittoria del potere zarista.

La brutalità della repressione soffocò il sogno umanitario, spingendo “Questi figli prodighi della borghesia a disertare la lotta e a rifugiarsi in se stessi, a cercare puntelli in dottrine mistiche” (DE MICHELI), consolidando quello che storicamente fu definito da Corkij “il periodo dell’assoluto arbitrio del pensiero irresponsabile, della completa libertà di creazione dei letterati. Il più vergognoso e svergognato decennio della storia degli intellettuali russi“.

Le conseguenze estreme del decadentismo Occidentale presero ben presto la strada dell’ispirazione sovietica, approdando in un eccentrico tentativo di individualismo esasperato: la pittura francese compì, anche in questo caso, una potente invasione di ideali e ricerche artistiche, contribuendo,in tal modo, alla semina del fertile terreno culturale russo, portando così allo stato di germoglio quelle realtà che ben presto si sarebbero consacrate a fulgenti e discriminate avanguardie, ultra materialiste e ultra capaci di elaborare in forme nuove l’esperienza francese.

Raggismo, Suprematismo e Costruttivismo

Il Raggismo si insediò sulla scena russa a partire dal 1909, vantando tra i suoi creatori Larinov e Gonciarova, si presentò al mondo con il Manifesto del 1912, all’interno del quale il Raggismo era definito come una sintesi di Cubismo, Futurismo e Arfismo.

Dai capolavori raggisti emerse il desiderio di una trasparenza cristallina del colore e l’uso di una luce che dipartendosi in raggi creava nello spazio nitide figure, servendosi della geometricità cristallina simile a quella del quarzo, e mettendo in atto, in tal modo, il meccanismo di rottura di quel vincolo che univa il Raggismo al Cubismo, poiché alieno all’uso dell’oggetto, mantenendo in ogni caso una sua concretezza.

Il passo assoluto verso l’astrazione avvenne nel 1913 grazie a Malevic, che “liberandosi dalla zavorra dell’oggettività” compì, nell’uso delle assolute forme geometriche, la liberazione della sensibilità dal reticolo illusorio dell’arte figurativa.

L’amicizia di Malevic con Tatlin negli anni bellici definì le sorti dell’arte moderna, concretando la nascita del Suprematismo e allo stesso tempo allontanandosi da esso per approdare nel tecnicismo del Costruttivismo.

Suprematismo
Suprematismo Esempio di arte suprematista. Quadro nero su fondo bianco, Malevič (1915)

L’esito finale del movimento costruttivista si realizzò nei confini della mostra organizzata a Pietroburgo nel 1915, all’interno della quale emersero immediatamente delle divergenze di tipo teorico, tant’è che nel dicembre dello stesso anno Malevic e Tatlin collocarono le proprie opere e quelle dei loro seguaci in sezioni differenti: Tatlin esordì con l’unione di cezanismo, fauvismo e cubismo.

Le composizioni realizzate a partire dal 1913, in particolar modo quelle sospese a fili di ferro, si presentavano come reali costruzioni tecniche, portando in essere la “validità moderna dell’estetica della macchina” e l’intuizione di una “bellezza che avrebbe finito coll’avere le più larghe conseguenze” (DE MICHELI).

Note Bibliografiche
M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del ‘900, Feltrinelli, Milano, 2005

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Maestà di Santa Trinita, opera di Cimabue https://cultura.biografieonline.it/maesta-santa-trinita-cimabue/ https://cultura.biografieonline.it/maesta-santa-trinita-cimabue/#comments Tue, 05 Apr 2016 09:46:49 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17620 La “Maestà di Santa Trinita” (1280), realizzata da Cimabue per la chiesa di Santa Trinita di Firenze, patì gli esiti di vicende complesse, legate alle vicissitudini della chiesa ospitante e di una nicchia culturale di estimatori forse troppo tardiva. La complessità delle opere di Cimabue colpisce ogni tipo circostanza analitica, stagliandosi nell’orbita di un’emozionalità connaturata nello spirito religioso del motivo della reale e sacra figura madonnale accompagnata dal Bambino.

Maestà di Santa Trinita - Cimabue
Maestà di Santa Trinita – opera di Cimabue databile tra il 1290 e il 1300 • Tempera su tavola; dimensioni: 385 x 223 cm

Nella completa comprensione del Trecento fiorentino, quale proscenio di lunghe e fulgenti rinascite artistiche, è facile dedurre il ruolo anticipatore di un’ arte non più rigidamente bizantina, ma nata progressivamente dalle intuizioni dei grandi protagonisti della Firenze guelfa e ghibellina.

Anche questa volta la Galleria degli Uffizi di Firenze si raffigura come luogo sacro alla custodia di un ennesimo capolavoro artistico, nell’uso di direttive espositive volte a far emergere le sottili linee evolutive che raffrontano la tabula cimabuesca con la “Madonna Rucellai” (1285) di Duccio di Buoninsegna e la “Maestà di Ognissanti” (1310) di Giotto.

Genesi dell’opera

Nell’attenta analisi cronologica e tecnica dei “primitivi” senesi e fiorentini, emerge il netto contrasto, in termini valutativi, grandemente operante nel contesto dotto dell’opera di committenza delle grandi cerchie religiose nei confronti di un avanguardismo pittorico nascente, e di un apprezzamento tardivo rispetto alla tangibile pregevolezza dell’opera.

I grandi capolavori di Cimabue subirono, in via quasi del tutto esclusiva, una sorte favorevole, in una completa combinazione tra il riconoscimento dell’ingegno tecnico e la conseguente approvazione da parte del pubblico contemporaneo. Un’eccezione affiora proprio dallo studio dei percorsi che legano la pala lignea della Maestà di Santa Trinita alle varie collocazioni, a partire dal periodo successivo alla sua destinazione originaria:

Avendo poi preso a fare per i monaci di Vall’Ombrosa nella badia di Santa Trinita di Fiorenza […] la qual tavola finita fu posta da’ quei monaci in sull’altar maggiore di detta chiesa, donde essendo poi levata, per dar quel luogo alla tavola che v’è oggi di Alesso Baldovinetti, du messa in una cappella minore della navata sinistra di detta chiesa.  (Vasari)

Da questo breve estratto vasariano sembra che al momento della sua realizzazione, la “Maestà di Santa Trinita” di Cimabue, dopo la prima fase di consenso, avesse perso il fascino nativo del dorato culto ieratico della Madonna col Bambino al di là della “maniera” bizantineggiante, almeno fino al 1471, quando venne crudelmente rimpiazzata dalla “Trinità con San Benedetto e San Giovanni Gualberto” del fiorentino Alesso Baldovinetti, per raggiungere le infauste sorti di una collocazione di minore influenza in cappelle di ordine secondario o addirittura destituita ad opera di manchevole fattura all’interno dell’infermeria del monastero.

La tabula lignea della “Trinità con San Benedetto e San Giovanni Gualberto”, realizzata per la famiglia Gianfigliazzi, nelle persone di Messer Giovanni e Messer Gherardo, testimonia agli occhi dei critici moderni il venir meno delle capacità immaginative dell’artista fiorentino, raffigurandosi, di fatti, come opera comparativa di forte contrasto rispetto all’ingiusta sorte toccata alla pala cimabuesca, quale cardine primo nell’esatta funzione di superamento della “scabrosa, goffa e ordinaria […] maniera greca (bizantina)“.

Il ruolo dei “primitivi”, che, nel paradigma storiografico rinascimentale, avevano precorso Michelangelo Merisi, Raffaello Sanzio e gli altri grandi esponenti del Cinquecento italiano, subì un’incredibile riconsiderazione tra il Settecento e l’Ottocento, grazie all’opera dei grandi collezionisti europei e nostrani; tale atteggiamento rivalutativo destò la sopita attenzione verso l’ormai dimenticata pala di Cimabue che, nel 1810, raggiunse l’Accademia fiorentina, per variare nuovamente destinazione un secolo dopo, con la disposizione dell’attuale allestimento dei “primitivi“, nella Galleria degli Uffizi.

Maestà di Santa Trinita: note tecniche e descrittive

La “Maestà di Santa Trinita” risulta essere, più del “Crocefisso” rovinato di Santa Croce, l’opera più remota dell’artista “tirato dalla natura“, la cui

unica data sicura nel Duecento, al 1272 a Roma, senza essere collegata a nessuna opera, ci pone di fronte a una pittura che quasi nasce di colpo, armata come Minerva dalla testa di Giove.
(Brandi).

Anche nell’ingegnosa considerazione che tale pala dovesse seguire gli affreschi superiori della Chiesa di Assisi – terminati nel 1283 – si dovrebbe porre la genesi di tale capolavoro in un periodo antecedente il 1285, ovvero alla fase di realizzazione della “Madonna Rucellai” da parte di Duccio di Buoninsegna, che in maniera evidente segue l’esempio ligneo e non precede la sublime Maestà di Cimabue.

L’opera attesta una fase compiutamente matura del pittore fiorentino che, in un’armoniosità lontana dallo stile di Coppo di Marcovaldo e della pittura paleologa, portò in sé, per la prima volta, un’evoluzione stilistica e una pienezza riscontrabili solo nella Maestà della Chiesa inferiore di San Francesco di Assisi, nella “Maestà di Santa Maria dei Servi“, nella Maestà pisana del Louvre (1280) e nel San Giovanni a mosaico dell’abside del duomo di Pisa, dove si assiste all’attenuazione delle aspre regioni facciali tipiche di Cimabue; tale alterazione lascia pensare ad un adeguamento all’arte di Duccio di Buoninsegna nell’uso del colore, sia al codice giottesco relativo all’uso dei trapassi luminosi e levigati.

Nella tabula di Santa Trinita, la solennità del trono architettonicamente emergente dal fondo oro s’impone immediatamente alla vista dell’osservatore, “al punto che, più che una pittura, sembra quasi la facciata di una cattedrale” (BRANDI).

L’immagine ieratica si presenta solidamente frontale, rigidità rigorosa che si interrompe solo nel momento sacro in cui la Madonna ripiega delicatamente il viso indicato l’infante Redentore.
Il trono, contrariamente a ciò che si assiste nella “Maestà di Parigi” e nella “Madonna Rucellai”, risulta essere grandiosamente frontale, incurvandosi nella parte centrale, piuttosto che avanzante sul suppedaneo.

Questa serie di dettagli tecnici designano l’immensa abilità dell’artista di effettuare una rigenerazione dei vecchi schemi, come si configura appunto quello frontale; talento riscontrabile nella stessa capacità di traslare il chiaroscuro paleologo da “semplice oggettivazione dell’immagine a robusta espressione plastica del volume” (BRANDI), in una complessa e insigne monumentalità ravvicinante alla figura di Giotto, anche se dal punto di vista del codice formale la pittura di Cimabue sia lontanissima da quella di Giotto.

Un’altra caratteristica degna di nota è lo straordinario uso delle bizantine gradazioni cromatiche sulle ali degli angeli che, in questo frangente, assumono una funziona differente che in Pietro Cavallini, conferendo quella funzionalità plastica modulante i volti e le pieghe prismatiche dei vestiti.

La sacra raffigurazione è espressa secondo un preciso e fondamentale registro volumetrico, dato da una spazialità caratteristica, quale etere da cui da cui si sviluppa l’immagine e non quale luogo contenente l’immagine.

E’ interessante notare come nel piedistallo del trono delle striature auree tendano a convergere verso un unico punto, allo stesso modo il piedistallo genera al centro un’ esedra concava che indirizza sul piano posteriore la composizione.

Nelle altre Maestà il suppedaneo svolgeva una funziona differente, verticalizzando la composizione sull’orlo del quadro piuttosto che protrarla avanti.

Cimabue
Cimabue

Appare evidente quanto la sottigliezza gotica del trono della Madonna Rucellai abbia influenzato la spazialità di Cimabue, esibendo un’idea di spazialità retrostante all’immagine, in cui l’immagine emerge nei suoi volumi corposi.

L’enfasi della cromaticità plastica delle ali è confermata dall’universale uso di una tonalità bassa nel dipinto, in cui, a parte il profeta David, tutti gli altri colori sono sottotono.

Non è dunque un’opera bizantina nell’uso dei colori, ma si configura come l’esaltazione di un tema plastico già trattato da Nicola Pisano, e che si rivelerà fondamentale come retroscena di Giotto.

Note Bibliografiche
A. Tomei, Cimabue, Giunti Editore, Firenze, 1997
C. Brandi, Scritti d’arte, Bompiani, Milano, 2013
G. Vasari, Le opere di Giorgio Vasari pittore e architetto aretino, Davide Passigli e soci, Firenze, 1832 – 1838

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Martirio di San Matteo (Caravaggio) https://cultura.biografieonline.it/martirio-san-matteo/ https://cultura.biografieonline.it/martirio-san-matteo/#comments Fri, 05 Feb 2016 00:41:52 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=16436 Il Martirio di San Matteo è un olio su tela realizzato dal Caravaggio intorno al 1599 – 1600, destinato ad essere collocato presso la chiesa di San Luigi dei Francesi in Roma, all’interno della cappella Contarelli. E’ una delle tre tele del ciclo pittorico che comprende La vocazione di San Matteo e San Matteo e l’angelo; i dipinti erano stati commissionati all’artista dagli eredi del cardinale Mathieu Cointrel (ovvero Matteo Contarelli, italianizzato) con lo scopo di celebrare il suddetto prelato maggiore (le cui spoglie riposano all’interno dell’omonima cappella), tramite la realizzazione di tre opere ispirate alla vita terrena del santo di cui portava il nome.

Martirio di San Matteo - opera arte - Caravaggio - analisi
Martirio di San Matteo (Caravaggio, 1599-1600)

Si tratta di una tela di notevoli dimensioni (323 cm x 343 cm), che ancora oggi possiamo ammirare sul lato destro della cappella, guardando verso l’altare.

Il Martirio di San Matteo: analisi

L’episodio biblico, dal quale il Caravaggio trasse spunto, è riportato da Jacopo da Varagine (o da Varazze) all’interno della raccolta medievale di biografie, in lingua latina, basata su testimonianze riguardanti la vita dei santi ed intitolata “Legenda Aurea”.

Qui si narra che il re Irtaco, salito al trono di Etiopia dopo la morte del fratello Egippo, viene rifiutato in sposo da Ifigenia, figlia del defunto sovrano, la quale ha già promesso la propria verginità a Dio. Irtaco, nel tentativo di convincere la fanciulla, chiede l’intercessione di Matteo il quale, in tutta risposta, lo invita a presenziare alla messa che avrebbe celebrato il sabato successivo all’interno del tempio. Matteo, nel corso della sua predica, afferma pubblicamente che il voto di Ifigenia, promessa sposa di Dio, non può essere infranto, nella stessa misura in cui, secondo l’usanza del periodo, se un servo avesse avanzato pretese sulla moglie del proprio re, sarebbe stato bruciato vivo.

La scena del Caravaggio rappresenta la brutale uccisione di Matteo, minacciato dalla spada di un sicario incaricato dal re d’Etiopia, proprio mentre il santo è intento a celebrare messa all’interno di una chiesa; l’ambientazione è confermata dalla presenza anacronistica (considerato il periodo storico in cui si svolse l’evento biblico al quale l’artista fa riferimento) di un fonte battesimale, di un altare sul quale è presente una croce.

Le analisi radiografiche hanno svelato che Michelangelo Merisi (Caravaggio) operò numerosi mutamenti sulla composizione dell’immagine durante la fase di realizzazione; nella prima versione svelata dalle indagini di laboratorio infatti, le figure appaiono ben più piccole. La scelta di rimodulare dimensionalmente le figure, molto probabilmente fu dettata dall’esigenza di dare loro maggiore risalto, considerata l’importanza dell’incarico ricevuto e considerato il luogo in cui la tela, assieme alle altre due, sarebbe stata esposta.

Fin dall’inizio però, è evidente che il Caravaggio scelse di concentrarsi sul protagonista, rappresentato come indiscussa vittima di un efferato assassinio, manifestando così il suo determinato rifiuto nei confronti di quella interpretazione devozionale, abbracciata dal resto degli artisti suoi contemporanei, tipica di un’arte sacra che era solita proporre santi pronti ad accettare con assoluta serenità il proprio martirio.

San Matteo - Martirio - Caravaggio
Nell’opera di Caravaggio, San Matteo è rappresentato sdraiato: abbiamo ribaltato di 90° il dettaglio della sua figura, per sottolineare la posizione del corpo, che richiama quello di Gesù sulla croce.

Nel Martirio di San Matteo ci troviamo dinanzi all’ennesima istantanea del Caravaggio, dove al centro della scena vengono ritratti i due principali protagonisti, staccati da uno sfondo che rimane in penombra e capaci di emergere, in tutta la loro grandezza, con l’ausilio della luce divina e grazie ad un sapiente utilizzo di straordinarie sfumature di bianco. Il carnefice è immortalato nell’attimo prima di sferrare il colpo mortale su Matteo; con la mano destra tiene la spada e con la sinistra afferra il polso destro di Matteo che si trova disteso in terra a braccia aperte, come quelle del Cristo sulla croce.

Il sicario è nudo, un telo dai toni chiari gli ricopre unicamente le parti intime; Matteo, invece, indossa gli abiti sacerdotali, una tunica bianca, un pettorale scuro ed il cingolo in vita.

Martirio di San Matteo - dettaglio del quadro
Dettaglio del dipinto “Martirio di San Matteo” in cui si possono osservare: il sicario (al centro), l’angelo che gli porge la palma del martirio e, sulla sinistra, il viso dell’uomo rivolto verso la scena centrale: quest’ultimo è un autoritratto di Caravaggio.

La celebrazione di Matteo è rappresentata dall’angelo in alto a destra, collocato sopra una nuvola, che gli porge la palma del martirio, simbolo della vittoria dell’uomo che offre la vita a Dio. Si avverte un senso di terrore, si sente l’urlo del fanciullo sulla destra che fugge spaventato, si percepisce il panico tra i presenti che si ritraggono inorriditi. Poi, con sorpresa, guardando a sinistra sullo sfondo, ci accorgiamo che Caravaggio, dietro tutti, quasi nascosto, ha dipinto anche se stesso (è il primo autoritratto a far capolino in un’opera pubblica); un se stesso curioso, provocatore, col pizzetto, con gli occhi tristi e scuri, un cronista di situazioni e fatti senza spazio e senza tempo capace di raccontare, con assoluto realismo, tragiche e sante verità.

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