Sculture famose Archivi - Cultura https://cultura.biografieonline.it/argomento/arte/sculture-famose/ Canale del sito Biografieonline.it Tue, 03 Oct 2023 17:47:28 +0000 it-IT hourly 1 Venere di Milo: storia, descrizione e significato dell’opera https://cultura.biografieonline.it/venere-di-milo/ https://cultura.biografieonline.it/venere-di-milo/#comments Tue, 03 Oct 2023 17:44:14 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17625 Scultura di marmo, la Venere di Milo è una statua greca tra le più note e famose del mondo. Estremamente riconoscibile e simbolica è priva delle braccia e del basamento originale. La giovane Venere ritornò al mondo solcando le smarrite strade di un’età ormai perduta, vestita di una nobiltà marmorea e spogliata dal profano limite temporale, quale divinità scultorea di una bellezza bianca e immensa.

Venere di Milo - scultura
La Venere di Milo è una delle sculture più celebri della storia dell’Arte

Capelli raccolti, larghi fianchi fecondi e uno sguardo che ancora oggi colpisce nel complesso di una nudità incompleta ma sensuale, priva dell’illusorietà dell’imbelletto effimero, si fa effige di un’arte suprema, senza raffronti, nella crudele mutilazione del corpo solido che non eclissa l’originaria stupefacente bellezza, ma che paradossalmente fa della mancanza la via prediletta per comprendere la grandezza.

La “Venere di Milo” (130 – 100 a.C.) è tra le afroditi più suggestive scolpite nelle feconde terre del mondo classico, in quelle calde e brune terre egee, da cui fu rapita per incontrare lo sguardo del dispotismo francese e le pallide sale del Louvre, dove è collocata attualmente, in memoria di quella libertà erotica e sessuale che perse la sua purezza tanto tempo fa.

Quando la scultura diventa realtà, non esiste concezione temporale che contempli l’oblio. La grandezza è destinata a durare, la gloria a generare l’ eternità nella memoria, anche se sepolta.
Quando la polvere sotterra, l’uomo riporta alla luce il passato delle grandi ere umane, fiancheggiando la magnificenza di quella conoscenza nascosta che fa della storia umana il più grande mistero.

Venere di Milo - Louvre
La sala del Louvre in cui è esposra la statua della Venere di Milo

La Venere di Milo: genesi dell’opera

Le grandi scoperte archeologiche legano spesso la celebrità del proprio nome all’inusuale contesto esplorativo, casuale e ben lontano da una progettazione voluta, ma in ogni caso desiderata. La “Venere di Milo” come la “Nike di Samotracia” (190 a.C.) è figlia di un destino inatteso, che vide nell’indegna sepoltura la strada per risorgere e risplendere nuovamente.

Nike di Samotracia
Nike di Samotracia

Le fortuite sorti della Venere ricaddero nelle mani di un contadino che individuò, l’otto aprile del 1820, la scultura nel proprio campo, vicino al teatro antico dell’isola di Milo.
La statua venne fortemente contesa tra Francia e Grecia, fino al trasporto a Parigi per volontà dell’ammiraglio Jules Sébastien César Dumont d’Urville (1790 – 1842) e il Marchese di Rivière, ambasciatore francese alla corte ottomana, che la donò a Luigi XVIII, per raggiungere il Louvre solo un anno dopo, nel 1821.

Al momento della scoperta il marmo era terribilmente danneggiato, separato di netto in due parti era privo di braccia e del piede sinistro, mai ritrovati nonostante le ulteriori spedizioni archeologiche.

Note tecniche e descrittive

Modellata dal mare, custode del potere universale, tu regni sovrastandoci mediante la tua grazia perfetta, attraverso quella tranquillità che già di per sé possiede un’immensa forza. La tua nobile serenità si manifesta ai nostri occhi, affondando nei nostri cuori come il fascino di alcune tombe, come quieta musica.

Così Auguste Rodin (1840-1917) elevava l’esaltante bellezza di una dea impudente, nel motivo filosofico dell’invincibile giovinezza (“invincibile youth“), e dunque nel concetto dotto di arte viva, immutabile nella mutabilità del mondo, quale ideale permeante dell’anima umana.

Con la “Venere di Milo” l’arte diviene poesia, ispirazione e musa di ogni cuore sensibile alla bellezza. Poeti, scultori, filosofi e pittori di ogni epoca e inclinazione culturale posero su di essa le basi di una riflessione intima e appagante, lontana da un indottrinamento accademico, difforme dalla teoria scritta, dai trattati eruditi di una conoscenza studiata, meditata.

L’ideale che diventa forma, in un’emulazione dalla natura che non termina nella semplice imitazione, ma che si arricchisce di un sentimento emergente nella posa, nell’aura comunicativa di uno sguardo parlante.

L’incompletezza si accompagna ai segni testimonianti un rigore quasi scientifico nella resa di un panneggio bagnato, aderente ai fianchi levigati dell’inebriante Afrodite.

Il colore bianco e la poetica

Il bianco, forse un tempo policromo, del manto avvolgente, riecheggia violentemente la magnificenza solenne della Nike di Samotracia, la Vittoria alata che calò trionfante a salvare le umane sorti di un potere quasi sconfitto. Nel confronto appare chiara la straordinarietà delle due realizzazioni scultoree, dissimili e unite dal ideale classico, ricordano al mondo il potere dell’arte, il potere espressivo della figura femminile nell’arte, quale veicolo perfetto a comunicare le umane passioni, nell’armoniosità di un corpo nudo e mai volgare, di una somma bellezza e di una misurata concezione estetica.

La poetica del cuore umano conduce ad apprezzare l’inqualificabile potere di un’arte che si trasforma e che trova nei suoi pezzi mancanti il simbolo di ideali più alti e didascalici.

Quello che più colpisce la sensibilità dell’osservatore è proprio l’assenza, quel vuoto che, pur colmato dalla semplice immaginazione, non intende essere riempito.

La “Venere di Milo”, dono che riserva all’età moderna il sentimento glorioso di un’epoca passata, deve la sua incredibile fama proprio alla singolare combinazione di una perfezione fisica minacciata.

La forza della moderazione trova nelle tornite forme femminili le misure adeguate ad esprimere l’incredibile gioco di luci e ombre, in cui volumi emergono e si ammorbidiscono sotto le direttive luminose e sapientemente studiate della sala espositiva.

Lo sguardo della Venere di Milo

Lo sguardo ruota e avvolge l’intero corpo, quasi potendo cogliere quel movimento, quell’attesa meditativa di un istante bloccato nei recessi del tempo.

La grandiosità del tempo aureo dell’arte scultorea trova ovviamente le basi solide di un eccezionalità constatata, indiscutibile e volgente all’intera orbita delle opere d’arte classica. L’ideale classico trova nella capolavoro di Milo il tempo di elevarsi e di porre svariati quesiti sull’identità del suo autore, sull’ispirazione mitologica generatrice di un’ideale scultoreo che abbandona la rigida frontalità nella scelta di una torsione del corpo nello spazio, in quella posa leggermente riversata all’indietro, nel piede che regge il corpo in un dinamismo perfetto.

Nell’ “Antologia; giornale di scienze, lettere e arti” dell’ottobre del 1832, l’archeologo e abate Battista Zannoni (1774 – 1832) ripercorse varie tesi interpretative allo scopo di configurare un profilo, se pur del tutto mitologicamente identificativo, di colei che ispirò il mondo alla conquista del tempo (“O conqueror of time !“, Rodin).

Le ipotesi fornite dall’abate chiaramente tratteggiano i connotati confusi del volto femminino dei culto greco, dove risulta impossibile stabilire con convinzione chi fosse realmente la Venere rappresentata.

Venere di Milo - dettaglio del volto
Venere di Milo: dettaglio del volto

Ipotesi e teorie

Dal confronto con altre sculture scoperte fino a quel momento e dallo studio del possibile orientamento nello spazio delle braccia verso sinistra, il filosofo, archeologo e critico d’arte francese Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy (1755 – 1849) teorizzò la presenza della statua all’interno di un gruppo scultoreo insieme alla figura di Marte, ipotesi che venne confermata e poi screditata dal ritrovamento di un braccio sostenente un pomo, dalle stile nettamente inferiore rispetto alla statua madre.

Una conclusione di questo tipo risultava convincente nel frangente di una connessione che congiungeva gli artefatti archeologici alla mitologia classica, dunque alle vicenda della vendetta di Eris (dea della discordia) ai danni di Atena (dea della saggezza), Era (regina degli dei) e Afrodite (dea della bellezza) e della tragica guerra di Troia.

A questi Marte, a quei Minerva è sprone, e quinci e quindi
lo Spavento e la Fuga, e del crudele
Marte suora e compagna la Contesa
insaziabilmente furibonda

Iliade, cap. IV, Omero

L’attitudine del mondo antiquario era quella di attribuire le opere ripetute entro un certo profilo iconografico ad un gruppo scultoreo originale e dalle qualità stilistiche superiori, giungendo a considerare i gruppi del medesimo motivo originati tutti dalla celebre “Venere di Milo”; per tale motivo si pensò che il volto della Venere delle Cicladi si rassomigliasse a quello della Venere del Museo Pio – Clementino il quale, grazie a due medaglioni imperiali battuti a Gnido, era attribuita a Prassitele (400/395 a.C. – 326 a.C.); fu proprio tale congettura ad indirizzare Quatremère de Quincy all’ipotesi che la scultura fosse uscita dallo studio o dalla scuola dello scultore ateniese.

L’ipotesi del gruppo scultoreo venne ritrattata dall’archeologo francese, nel proponimento di una scultura nata per vivere nella solitaria collocazione e al contempo in una relazione intensa con le statue di altre due dee.

Le qualità espressive della giovane dea sono sublimi, dove la franchezza dello sguardo severo collide con il torso magnificamente nudo, di “un ventre splendido, largo come il mare“.

Venere di Milo
Venere di Milo

Note Bibliografiche

G. Bejor, M. Castoldi, C. Lambrugo, Arte Greca – Dal decimo al primo secolo a.C., Mondadori Education, Milano, 2008
P. Daverio, Louvre, Scala, Firenze, 2016
A. Rodin (1911), To the Venus de Milo, Art and Progress (2), vol. III, 409 – 413.
B. Zannoni (1822), Sulla statua antica di Venere, scoperta sull’isola di Milo, in G. P. Vieusseux, Antologia; giornale di scienze, lettere e arti, vol. VIII, Firenze: 47 – 52

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Il Pensatore di Rodin: significato, storia e curiosità sulla celebre scultura https://cultura.biografieonline.it/auguste-rodin-il-pensatore/ https://cultura.biografieonline.it/auguste-rodin-il-pensatore/#comments Wed, 22 Feb 2023 06:11:58 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=4794 Il Pensatore è una delle più celebri sculture della storia dell’arte; si tratta di un’opera in bronzo realizzata in un lungo arco di tempo, quasi venticinque anni – tra il 1880 e il 1904 – dallo scultore francese Auguste Rodin.

Rodin Pensatore Thinker

Conservata a Parigi nel museo che porta il nome del suo creatore, il suo titolo originale francese è Le Penseur.

Il pensatore: descrizione e significato

L’opera rappresenta un uomo seduto in profonda meditazione: il braccio destro poggia il gomito sulla gamba sinistra, vicino al ginocchio, mentre la mano rivolta indietro sostiene il mento e il capo.

La fama e la diffusione di questa famosissima immagina è dovuta anche – e, forse, soprattutto – al fatto che è spesso usata per raffigurare la Filosofia.

Il Pensatore, famosa scultura di Auguste Rodin
Il Pensatore, famosa scultura di Auguste Rodin

Le origini dell’opera

Inizialmente questa statua fu chiamata “Il poeta“: essa faceva parte di una porta monumentale in bronzo commissionata a Rodin come porta d’ingresso del Musée des Arts Décoratifs (Museo di arti decorative) a Parigi.

L’edificio tuttavia non venne mai inaugurato.

Auguste Rodin
Auguste Rodin

Lo sculture Auguste Rodin per questa porta scelse di raffigurare un tema a lui molto caro: si tratta dell’universo della Divina Commedia, all’epoca considerata un’opera densa di spunti romantici e avventurosi.

Nel progetto dell’artista francese c’erano molte figure, ognuna rappresentante uno dei principali personaggi presenti nel poema dantesco: in questo contesto Il Pensatore avrebbe dovuto raffigurare lo stesso Dante Alighieri davanti alle porte dell’Inferno, mentre meditava sulla sua grande opera.

Perché l’uomo è nudo?

La statua è nuda, poiché Rodin sceglie di rappresentare una figura eroica che si rifà alla filosofia artistica di Michelangelo Buonarroti: l’obiettivo dello scultore francese è quello di rappresentare insieme l’intelletto e la poesia.

Il richiamo alla scultura del Pensieroso di Michelangelo (realizzata per la tomba di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino – Sagrestia Nuova della basilica di San Lorenzo a Firenze) è chiaro.

Il Pensieroso di Michelangelo
Il Pensieroso di Michelangelo: dettaglio del viso
Il Pensatore di Rodin
Il Pensatore di Rodin

Simbolo universale

Posto in cima a una roccia, al centro del timpano, in solitaria meditazione, il Dante di Rodin guarda verso il basso in direzione del mondo dei dannati. Nel giro di pochi anni la figura assume un’immagine e un significato più generico, anzi universale, tanto da entrare nell’immaginario collettivo come una sorta di definizione, di fatto un simbolo e una icona dell’attività intellettuale.

Anche l’uso satirico di tale figura è molto diffuso da lungo tempo, addirittura anche quando Rodin stesso era ancora in vita. Il petroliere americano – nonché appassionato collezionista d’arte – Armand Hammer raccontò che incontrando faccia a faccia Lenin nel 1912, gli portò in donò una piccola scultura raffigurante uno scimpanzé nella posa del Pensatore, in atto di meditazione sopra ad un teschio umano: il messaggio di Hammer era teso a sottolineare con sarcasmo le tendenze darwiniste del pensiero di Lenin.

Sono numerose le le versioni di questa scultura distribuite nei musei in tutto il mondo. Alcune di queste copie sono versioni ingrandite dell’originale, oppure sculture realizzate in scala.

Una versione, voluta dallo stesso Auguste Rodin, è presente anche sulla sua tomba.

Replica in bronzo del Pensatore di Rodin
Replica in bronzo
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Sagrestia Nuova e tombe medicee: il significato delle sculture di Michelangelo https://cultura.biografieonline.it/firenze-sagrestia-nuova/ https://cultura.biografieonline.it/firenze-sagrestia-nuova/#comments Fri, 18 Nov 2022 07:47:10 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=9287 Alla morte di Giulio II, nel 1513, viene eletto papa, col nome di Leone X, Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. Egli, che dal padre ha ereditato l’inclinazione per le arti e l’intuito nella scelta degli artisti, rivolge la sua attenzione al completamento di quelle opere fiorentine iniziate per volontà del padre o del bisnonno Cosimo e, per varie ragioni, rimaste interrotte.

Sagrestia nuova - scultura di Michelangelo
Dettaglio di una delle sculture di Michelangelo, presenti nella Sagrestia nuova a Firenze (Basilica di San Lorenzo, 1525 circa)

Sagrestia Nuova e basilica di San Lorenzo

Tra queste c’è la Basilica di San Lorenzo, progettata da Filippo Brunelleschi, costruita in gran parte dopo la morte dell’architetto e rimasta senza facciata. Così del problema si occupa Michelangelo Buonarroti che, nel 1518, firma il contratto per la realizzazione della facciata, dopo essere giunto, con successivi studi, all’elaborazione del progetto definitivo, purtroppo mai eseguito, forse perché troppo complesso.

Nel 1520 il contratto per la facciata di San Lorenzo veniva sciolto; subito dopo l’artista attende alla creazione di una cappella annessa alla stessa Basilica, voluta anche questa da papa Leone X.

Lo scopo è quello di accogliere le tombe del fratello Giuliano duca di Nemours, del nipote Lorenzo duca d’Urbino, del padre Lorenzo il Magnifico e dello zio Giuliano.

La cappella sorse accanto al transetto destro, di fronte e in corrispondenza esatta della Sagrestia di Brunelleschi; completa così, armonicamente, la pianta della chiesa – quindi di misure e forme identiche.

Fu detta per questo motivo Sagrestia Nuova.

Michelangelo: Sagrestia nuova. San Lorenzo (Firenze)
Firenze, Basilica di San Lorenzo: la “Sagrestia nuova”, di Michelangelo Buonarroti

La Sagrestia Nuova tra Brunelleschi e Michelangelo

La Sagrestia Nuova rispecchia, nell’interno, alcune caratteristiche brunelleschiane: strutture architettoniche in pietra contro il fondo chiaro. Ma le analogie sono solo apparenti.

  • In Brunelleschi la pietra “serena” ha la funzione di definire geometricamente la forma e lo spazio mediante la prospettiva lineare.
  • In Michelangelo il grigio della pietra determina il risalto contro il piano d’appoggio.

Lo spazio è diviso orizzontalmente da cornici in vani sovrapposti: il vano superiore ha finestre più strette in alto che alla base; in tal modo si ottiene maggiore senso verticalistico.

Anche le pareti, invece che superfici neutre di materiale volutamente povero come in Brunelleschi, sono mosse; quelle inferiori sono costruite da materiale nobile e duraturo: il marmo di Carrara, notoriamente prediletto da Michelangelo.

La scultura non è subordinata all’architettura: vive autonomamente.

Partito da un progetto con tombe parietali, dopo un nuovo progetto in cui le tombe erano poste in un’edicola centrale a quattro facciate, Michelangelo torna alla prima soluzione.

I sepolcri, infatti, sono costituiti da sarcofagi, sui cui coperchi arcuati in curva “catenaria” giacciono figure nude semisdraiate. Mentre le statue dei defunti seduti sono parzialmente contenute entro nicchie sovrastanti.

I sepolcri che hanno questa forma sono due: quelli dedicati

  • a Giuliano duca di Nemours
  • a Lorenzo duca d’Urbino.

Mentre il monumento di Lorenzo il Magnifico e di Giuliano non è stato realizzato.

Michelangelo: tomba per Giuliano duca di Nemours
Firenze: tomba di Giuliano duca di Nemours. Scultura di Michelangelo

Questi ultimi, infatti, sono dovuti agli scultori Fra’ Giovanni Angelo Montòrsoli e Raffaele da Montelupo.

Un nuovo capolavoro di Michelangelo

Ma il gruppo divino è fra le opere più belle di Michelangelo, che riprende il tema già trattato in gioventù, accentuando però il rapporto madre-figlio in un moto “a serpentina” che li unisce completamente: un essere nuovo nasce da un altro essere. Anzi, ne trae ancora nutrimento ricevendo la vita attraverso il latte.

Scultura di Michelangelo: Lorenzo duca Urbino, tomba
Firenze: tomba di Lorenzo duca Urbino. Scultura di Michelangelo

Michelangelo esprime il dolore universale.

Non c’è esasperazione drammatica, ma cognizione dell’ineluttabile condanna dell’uomo.

Sul sarcofago di Lorenzo giacciono L’Aurora e il Crepuscolo, su quello di Giuliano il Giorno e la Notte, col significato simbolico, comune all’arte cristiana, della caducità della vita umana e del suo rapido declino verso la morte.

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Pietà Rondanini, storia e analisi dell’opera di Michelangelo https://cultura.biografieonline.it/pieta-rondanini/ https://cultura.biografieonline.it/pieta-rondanini/#comments Mon, 31 Oct 2022 17:45:00 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=26525 La Pietà Rondanini è il testamento spirituale di Michelangelo Buonarroti al mondo. È stata infatti la sua ultima opera, rimasta incompiuta allorché nel 1564 il Maestro scultore, ormai 80enne, morì nel suo studio in piazza Venezia, a Roma.

Pietà Rondanini Michelangelo
Foto: dettaglio dell’opera

Pietà Rondanini: una vicenda creativa lunga 12 anni

Si racconta che Michelangelo iniziò a lavorare alla Pietà che voleva collocare sul suo sepolcro già nel 1550. Questo primo tentativo, però, fallì miseramente per imprevisti strutturali e di materiali: l’opera poco più che abbozzata fu fatta letteralmente a pezzi dal suo creatore.

A distanza di due anni, Buonarroti torna alla sua ultima Pietà: scolpisce le gambe che vediamo in primo piano e un braccio destro. Questi arti, nell’opera primaria, appartengono alla Madonna. La Pietà viene lasciata da parte per circa tre anni.

Nel 1555 Michelangelo torna al suo progetto scultoreo e rivoluziona tutto. Cambia totalmente la posizione dei due soggetti. Il Cristo così come abbozzato (le gambe e poco altro) si tramuta nella Madonna e viceversa.

Dal corpo di Maria ottiene il nuovo Gesù; dalla spalla sinistra di questo nuovo Cristo origina la Vergine. Molti, però, sono i dettagli che non vedranno la luce. Michelangelo, infatti, muore improvvisamente il 18 febbraio 1564, lasciando l’opera incompiuta.

Il viaggio della scultura Pietà Rondanini fino ad oggi

Nel 1744, trascorsi 200 anni dall’ultimo colpo di scalpello, l’opera viene riportata al pubblico e acquistata dai Marchesi Rondanini che la collocano nel loro Palazzo di famiglia, in via del Corso, sempre a Roma.

Più di 100 anni dopo, nel 1904, il Conte Vimercati San Severino acquista la scultura per collocarla su un’ara funeraria romana di opera traianea raffigurante Marco Antonio e la moglie Giulia Filomena Asclepiade.

Nel 1952, infine, viene acquistata dal Comune di Milano. Oggi, nel suo metro e novantacinque, campeggia all’interno del Museo del Castello Sforzesco.

Pietà Rondanini Michelangelo Buonarroti
Pietà Rondanini, l’ultima scultura di Michelangelo Buonarroti

Descrizione, analisi e commento

La Pietà Rondanini è una scultura orientata verticalmente, in maniera totalmente innovativa rispetto a quanto si faceva all’epoca. È alta quasi due metri e fatta di marmo. Iconograficamente riprende l’atto dell’accoglimento della madre, nelle sue braccia, del corpo del Cristo deposto dalla Croce.

L’innovazione di questa ultima versione della Pietà è appunto la verticalità che definisce una solida unità fra i due protagonisti: madre e figlio. Questa solidità, poeticamente, si contrappone all’incompiutezza.

La granitica posizione della Madonna e del Cristo si pongono in contrasto, cioè, alla fragilità e alla instabilità della scultura tutta.

Lo scultore britannico Henry Monroe, nella sua puntuale analisi dell’opera, pone l’accento su questa dicotomia: solidità contro instabilità e, per traslato, realtà versus sentimento.

Questo ultimo Michelangelo ha cioè abbandonato la dinamicità dello spazio compiuto e pieno, per volgere alle verticalità gotiche ed espressioniste.

Contestualmente, lascia andare la magnificenza della forma per mettere davanti agli occhi del suo spettatore solo i sentimenti, liberi da i suoi celebri virtuosismi.

Questo ultimo Michelangelo è più intimo e intimista.

L’opera si staglia sull’opposizione concettuale di vuoto e pieno, di vita e morte. In questa riflessione, infine, si pone il punto di arrivo della dialettica fra l’opera e l’artista.

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Monte Rushmore: celebre monumento nazionale americano https://cultura.biografieonline.it/monte-rushmore/ https://cultura.biografieonline.it/monte-rushmore/#respond Fri, 01 Mar 2019 08:56:19 +0000 https://cultura.biografieonline.it/?p=26058 Il Monumento nazionale del Monte Rushmore è uno dei simboli degli Stati Uniti d’America nell’immaginario collettivo. Situato nelle Black Hills, in Dakota del Sud, nel Midwest, questo memoriale dalle dimensioni gigantesche è il lascito dello scultore Gutzon Borglum.

Monte Rushmore - Monumento - Mount Rushmore National Memorial
Mount Rushmore National Memorial (Monumento nazionale del Monte Rushmore) – Il complesso scultoreo rappresenta i volti di 4 celebri presidenti degli Stati Uniti d’America

Lo scultore, di origini danesi, formatosi fra Parigi e New York, insieme a Luigi Del Bianco, maestro carpentiere di origini italiana, naturalizzato americano, diede vita al progetto nel 1927.

Monumento nazionale del Monte Rushmore: i numeri

Impiegò oltre 400 operai e rimosse 450mila tonnellate di granito dalla montagna, il 90 per cento attraverso esplosioni dinamitarde. Il progetto iniziale, che non si limitava a quanto oggi possiamo ammirare, subì una prima frenata nel 1939 quando il Congresso disse no a quanto lo scultore avrebbe voluto aggiungere ai quattro volti.

Due anni dopo si arrestò del tutto con la morte prematura di Borglum. L’opera, seppur non adempiendo al cento per cento al progetto primario, fu portata a termine dal figlio, Abraham Borglum.

Chi sono i quattro Presidenti

La prima scelta che spettò a Borglum fu quella relativa ai Presidenti da rappresentare nella sua gigantesca scultura sulla roccia.

George Washington

Scelse senza dubbio George Washington, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti oltre che il 1° presidente in carica fra il 1789 e il 1797. E’ il primo a sinistra.

Thomas Jefferson

Gli affiancò Thomas Jefferson, 2° presidente (1801 – 1809) a cui la nazione deve più di tutto la Dichiarazione di indipendenza firmata al termine dell’omonima guerra che fra il 1775 e il 1783 liberò 13 colonie nordamericane dalla bandiera del Regno di Gran Bretagna.

Abraham Lincoln

La terza scelta cadde su Abraham Lincoln, 16° presidente in carica fra il 1861 e il 1865. A Lincoln la storia americana riconosce la capacità di aver tenuto unito il paese durante la sanguinosa Guerra civile americana. Nel monumento del Monte Rushmore compare come ultimo a destra.

Theodore Roosevelt

Il quarto volto scolpito, infine, fu quello di Theodore Roosevelt, 26° presidente. Fu alla Casa Bianca dal 1901 al 1909 e conquistò un posto speciale nella storia a stelle e strisce per il ruolo di mediatore nella guerra fra Russi e Giapponesi che gli valse il Premio Nobel per la pace nel 1906.

Roosevelt, infine, si contese il posto sul monumento con un altro presidente molto ben voluto dagli statunitensi: Woodrow Wilson. Wilson fu il 28° presidente e fu in carica dal 1913 al 1921. Ebbe un ruolo chiave nei trattati di pace al termine della Prima Guerra Mondiale. Per questo ricevette il Premio Nobel per la pace nel 1919.

La Hall of records del Monte Rushmore

Il progetto di Borglum era più ampio di quanto oggi vediamo. Intanto, lo scultore aveva inizialmente pensato e progettato di scolpire i quattro presidenti a mezzo busto e non solo le loro teste.

Lo scultore Gutzon Borglum (25 marzo 1867 – 6 marzo 1941): il suo progetto del Monte Rushmore prevedeva figure a mezzo busto
Lo scultore Gutzon Borglum (25 marzo 1867 – 6 marzo 1941): il suo progetto del Monte Rushmore prevedeva figure a mezzo busto

In più, nell’idea di Borglum c’era una grande area situata dietro la testa di Lincoln in cui conservare i più importanti registri della politica americana, la Hall of records. Sarebbe stata una sorta di capsula del tempo e sarebbe apparsa come una grande camera segreta.

Come detto, nel 1939 il Congresso non autorizzò lavori ulteriori e aggiuntivi alla scultura dei presidenti e due anni dopo Borglum morì.

La Hall of records rimase incompiuta e ferma ai primissimi lavori di scavo.
Il 9 agosto del 1998 fu ultimato un deposito di documenti nel pavimento dell’entrata della sala. In una scatola di legno fu posto un ulteriore contenitore in titanio coperto da una pietra tombale con le parole di Burglum:

“… mettiamo là, scolpiti in alto, il più vicino possibile al Paradiso, le parole dei nostri leader, i loro volti, per mostrare ai posteri che tipo di uomini fossero. Sospira allora una preghiera affinché questi registri dureranno fin quando soltanto il sole e il vento li porteranno via”.

Con la pietra tombale, nell’area scavata nella roccia, si trovano anche sedici pannelli. In questi sono riportati il racconto del progetto del Monumento del Monte Rushmore, le informazioni sui suoi scultori, sui presidenti raffigurati e una breve storia degli Stati Uniti. Un lascito al mondo senza tempo, seppur inaccessibile ai visitatori.

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Schiavo Ribelle e Schiavo Morente (i Prigioni, di Michelangelo Buonarroti) https://cultura.biografieonline.it/schiavo-ribelle-morente-michelangelo/ https://cultura.biografieonline.it/schiavo-ribelle-morente-michelangelo/#respond Tue, 09 Aug 2016 14:19:28 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=19100 Sussurri attutiti e sospiri sofferenti accompagnano l’ammirazione rapita dello spettatore giunto al Louvre, le cui sale risplendono, non poco, grazie ai rilucenti marmi della statuaria rinascimentale, di cui si erigono a simbolo le due statue note nel quadro artistico come lo “Schiavo ribelle” e lo “Schiavo morente” di Michelangelo Buonarroti.

Schiavo morente - dettaglio - Dying slave detail - Michelangelo
Una foto ravvicinata che mostra i dettagli dello Schiavo Morente (Dying Slave) • Michelangelo Buonarroti, 1513 – 1515, marmo, Museo del Louvre

Non esiste giudizio abbastanza esauriente, idea abbastanza vasta da includere nel proprio etere la gloria di un’arte suprema, quale fu quella del celebre genio toscano.
Realizzati per la tomba di Papa Giulio II, i Prigioni, furono esclusi dal progetto tombale, finendo nelle ricche dimore francesi di Roberto Strozzi, per divenire, infine, rinomato omaggio concesso dal nobile fiorentino al re di Francia Francesco I.
I due capolavori michelangioleschi sono tuttora conservati nel museo parigino del Louvre.

Schiavo Ribelle - Rebellious Slave - Michelangelo
Schiavo Ribelle (Rebellious Slave) • Michelangelo Buonarroti, 1513 – 1515, marmo, Museo del Louvre

Schiavo Ribelle e Schiavo Morente: la genesi delle opere

Le sculture custodite nel rinomato museo parigino, i cosiddetti “Prigioni” di Michelangelo, furono scolpite allo scopo di adornare il basamento del mausoleo del Papa Giulio II, il Giuliano della Rovere noto come il “Papa Terribile“, il “Papa pericoloso“.

«Fatto appena papa, egli pensa ai suoi funerali. Aveva conosciuto un artista a Firenze: lo chiama a sé e gli dice con affettuosa dimestichezza: io ti conosco e per questo ti ho fatto venir qui. Io voglio che tu faccia il mio mausoleo. – Ed io me ne incarico. – risponde Michelangelo. Un mausoleo magnifico, ripiglia il papa .Costerà caro, dice sorridendo Michelangelo. – E quanto costerà ? – Centomila scudi. – Io te ne darò dugentomila. E Michelangelo cominciava la tomba di Giulio II.»

(“Storia universale della chiesa cattolica. Dal principio del mondo fino ai dì nostri”, Rohrbacher).

La critica è concorde nell’associare le due creature michelangiolesche alla seconda versione della tomba papale, quella risalente al 1515. Poiché il progetto successivo e definitivo, quello del 1524, portò inevitabilmente all’eliminazione di entrambe le sculture dal collocamento cui si pensava sarebbero state predestinate.

L’infausta sorte dei Prigioni confluì a favore e nelle forme di un prestigioso dono nel ricco patrimonio di Roberto Strozzi, garante di un’ospitalità riservata al maestro toscano, la cui salute fuggiva dall’insalubre ambiente romano.

Le statue dei Prigioni, scalpellate da Michelangelo e mandate a Roberto Strozzi, furono spedite in Francia nell’aprile del 1550.
Fra le carte di Strozzi Ugoccini, allogate presso l’archivio di Stato di Firenze, si legge:

“Signor Ruberto Strozzi in conto di sue spese dee dare a dì 29 Aprile 1550 ducati 14, 5 moneta, fatti buoni a m. Paolo Ciati per tanti spesi per condurre a Ripa et acconciare in barca le statue di Michelangelo mandate in Francia ” (VASARI) .

Stemma gentilizio della famiglia Strozzi
Stemma gentilizio della famiglia Strozzi

Una volta giunte in Francia, le statue Schiavo Ribelle e Schiavo Morente, furono collocate nel castello del connestabile di Montmorency a Écouen e in quello di Richelieu a Poitou, per divenire poi dono regale da destinare a Francesco I di Francia, il capostipite della dinastia regale dei Valois – Angoulême.

Antica illustrazione ritraente il palazzo della famiglia Strozzi
Antica illustrazione ritraente il palazzo della famiglia Strozzi

I Prigioni: analisi, note tecniche e descrittive

Michelangelo scolpì le emozioni, i corpi nudi, i visi stravolti dalla passione, edificando la propria genialità ai piedi di un’arte grandiosa, immortale e sempiternamente insuperata in quanto a slancio ed emotività ispiratrice.

Schiavo morente - Dying slave - Michelangelo
“Schiavo morente”, scultura di Michelangelo

L’anima raggiunse, come nel tocco della creazione, il corpo morto della pietra lattea, conferendo a essa lo spirito vigoroso di vita e tempra altrettanto vivi, d’apparire esistenti nella realtà dello spettatore che ammira, prossimi al cuore grazie al movimento del corpo, alla mimica dei volti.

Il Rinascimento vide in Michelangelo l’eroe bisbetico dalla vita sofferta, scandita dalle tormentate note del rifiuto amoroso, dal calvario di un’anima feroce in un corpo fin troppo debole.

L’anima soffrì, si scheggiò nell’infinità di un grande intelletto, mutato nell’esistenza in una disperazione munita di scalpello, in una foga tagliente, arguita e tremendamente brutale, nel connubio di quella vita in cui il marmo è carne, lo scalpello, parola.

Desti a me quest’anima divina e poi la imprigionasti in un corpo debole e fragile, com’è triste viverci dentro.
(Diari, Michelangelo)

Schiavo Ribelle - dettaglio - Rebellious Slave - detail - Michelangelo
Un dettaglio dello “Schiavo Ribelle”

I “Prigioni” subirono l’originale appellativo da Michelangelo stesso, quale titolo idoneo per qualsiasi anima intrappolata nel corpo, e che come tale tenta di liberarsene.
Lo “Schiavo morente ” e lo “Schiavo ribelle” costituirono insieme al “Mosè” i primi frutti ceduti in onore della tomba di Giulio II, nonché prime statue marmoree portate a compimento dopo il “David” e la “Madonna di Bruges”, all’interno di un’ampia crescita, tale da combinare una seria metamorfosi nella suo leggendario linguaggio scultoreo.

Michelangelo - Mosè
Michelangelo – Mosè

Quando nel gennaio 1506 venne riportato alla luce tra le rovine delle Terme di Tito, sull’Esquilino, il celebre Laocoonte di Agesandro, Polidoro e Atenodoro, Michelangelo tra i primi ad ammirarlo, ne rimase profondamente colpito.

L’eccezionale gruppo scultoreo del Laocoonte anticipò la gloria della propria scoperta grazie alla testimonianza di Plinio il Vecchio, giungendo ai tempi rinascimentali come l’esempio più eccelso della statuaria classica di età Ellenistica: il nudo eroico, la tragicità di un movimento disperato di spire fossilizzato nel tempo, nell’evidente sofferenza fisica, suggestionarono Michelangelo a tal punto da incidere intimamente sulle soluzioni espressive e stilistiche adottate per gli “Schiavi“.

'Laocoonte e i suoi figli'', Agesandro, Atanodoro e Polidoro, marmo, I d.C., Musei Vaticani
“Laocoonte e i suoi figli”, Agesandro, Atanodoro e Polidoro, marmo, I d.C., Musei Vaticani

« Il papa comandò a un palafreniere: va, e dì a Giuliano da San Gallo che subito le vada a vedere, e così subito s’andò: e perché Michelangelo Buonarroti si trovava continuamente in casa, che mio padre l’aveva fatto venire, e gli ave va allogata la sepoltura del papa […]»

(“Arti e lettere. Scritti raccolti”, p. 178)

Le due statue, infatti, risultano essere dinamiche: lo schiavo ribelle tirato nello sforzo della liberazione dei lacci della prigionia, lo schiavo morente nella debolezza dello sfinimento, con i muscoli che perdono la tensione dello sforzo e si abbandonano al sonno della dipartita, ovvero alla “transizione tra la vita e la morte” (GRIMM).

Ermanno Grimm
Ermanno Grimm, scrittore e storico dell’arte tedesco, 1828 – 1901

Il fantasma del Laocoonte consentì a Michelangelo di affrontare la realizzazione delle due sculture mediante una plasticità piena e libera. Lasciando da parte l’uso del trapano, si concentrò sull’esito della gradina e delle statue rilievo, create per essere viste secondo un privilegiato punto di vista frontale. Tale era la tradizione nella produzione statuaria fiorentina.

L’influenza del Laocoonte insignì di novità l’opera dell’artista toscano, legandosi, dopo tutto, alla realtà anticheggiante del mondo di Fidia e al contempo superandola. Così sostenne lo scrittore e storico tedesco Ermanno Grimm, nel segno di una profondità eroica, in un confronto tra la scultura antica e rinascimentale che si limita nel primo istante del paragone, per poi evolversi in un estremo progresso.

Per Michelangelo modellare l’argilla era quasi come dipingere, ribadendo, di fatti, che la vita emerge dal marmo liberamente, grazie a un lavoro emancipato, d’ispirazione e che si serve del modello solo come misera guida:

“Michelangelo considerava una statua in marmo, non già quale una copia, una riproduzione del modello in creta, ma bensì quale cosa già perfetta, la quale stava nascosta nel marmo, dal quale lo scalpello doveva cavarla fuori, quasi dalla scorza che la rivestiva” (GRIMM).

Copertina del volume ''Rime di Michelagnolo Buonarrote raccolte da Michelagnolo fuo Nipote'', MDCXXIII
Copertina del volume ”Rime di Michelagnolo Buonarrote raccolte da Michelagnolo fuo Nipote”, MDCXXIII

In un suo sonetto ritroviamo il medesimo concetto:

Non ha l’ottimo artista alcun concetto,
Ch’un marmo solo in sé non circoscriva
Col suo soverchio; e solo a quella arriva
La man, ch’ubbedisce all’intelletto.

Note Bibliografiche
G. Vasari, I. Bomba, “Vita di Michelangelo”, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1993
E. Grimm, “Michelangelo per Ermanno Grimm”, vol. II, Ditta editrice F. Manini, Milano, 1875
M. Buonarroti, S. Fanelli, “Rime”, Garzanti, Milano, 2006
P. Daverio, “Louvre”, Scala, Firenze, 2016
F. Gasparoni, B. Gasparoni, “Arti e lettere. Scritti raccolti”, Tipografia Menicanti, 1865

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Nike di Samotracia, descrizione e storia https://cultura.biografieonline.it/nike-di-samotracia/ https://cultura.biografieonline.it/nike-di-samotracia/#comments Wed, 09 Mar 2016 12:39:30 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=17265 La Nike di Samotracia vive dell’estasi di una bellezza incompleta e trionfante, celebrando l’esaltazione di una vittoria avvenuta più di duemila anni fa, ricorda al mondo il valore assolutamente intrinseco dell’imperfezione, dove il limite non priva di bellezza, ma l’esalta. Realizzata in marmo pario intorno al 200 a.C., conobbe l’ostinazione della ricerca archeologica di fronte all’enigma di una forma ancora a quel tempo sconosciuta e incompiuta.

Nike di Samotracia
Nike di Samotracia

La superba fenice, risorta dal cocente suolo dell’isola di Samotracia, deve la sua rinascita all’archeologo Charles Champoiseau che, quasi sedotto dal seno affiorante, la riportò nuovamente al mondo.

La collocazione in un contesto moderno, quale si configura il museo del Louvre, ridona bellezza e gloria al corpo mutilato che, nell’evocazione di una tenace sensibilità, spinge lo spirito in un’atmosfera mitologica ed eroica, in un tempo in cui la vita di uomini e dei s’intrecciava nell’umana lotta per la conquista di prestigio e potere.

Storia e archeologia a Samotracia

A nord-ovest dello stretto dei Dardanelli, un’isola dalla forma ovale e dal passato sacro e glorioso affiora dalle miti acque del mar Egeo, noto alle fonti classiche per l’infausta sorte toccata al figlio di Pandione, re di Atene, dopo aver creduto di aver perduto per sempre l’amato figlio Teseo.

Mappa dell'isola di Samotracia
L’isola di Samotracia

L’isola di Samotracia non associa unicamente la notorietà del proprio nome alle leggendarie cronache della storia classica, poiché essa fu in assai rare occasione teatro di memorabili scontri, tuttavia lega buona parte della propria celebrità alla propizia scoperta della statua ritraente la Nike alata.

Nike alata - scultura
Nike alata

Dalle sterili rocce brune non emerse mai il richiamo di un influente centro politico e commerciale, eccezion fatta per la piccola città di Paleopoli e dell’antico santuario celebrante le divinità conosciute come “Kabeiroi” (Κάβειροι).

L’altare di Samotracia giocò un ruolo fondamentale nelle vicende, spesso drammatiche, legate ai principi macedoni e tolemaici: nel 280 a.C., Arsinoe II (316 a.C. – 268 a.C.), figlia di Soter, minacciando di morte il marito Lisimago, costrinse quest’ultimo a rifugiarsi a Samotracia, fino a quando ella sposò, nel 279 a.C., il suo stesso fratello di sangue, Tolomeo Cerauno.
Perseus, l’ultimo grande re di Macedonia, vinto dall’esercito romano a Pydna, nel 165 a.C., trovò asilo nel santuario di Samotracia, fino alla resa obbligata imposta dal pretore Ottaviano.
L’antico tempio dorico, situato nella valle, iniziò gradualmente a essere circondato da edifici votivi, in particolar modo da un nuovo tempio dorico dotato di un portico, costruito dai principi tolemaici, un propileo e una grande rotonda, eretta da Arsione.

Gli scavi archeologi e la scoperta della Nike di Samotracia

La storia e l’archeologia dell’isola di Samotracia sono da considerarsi il proscenio di una scoperta straordinaria che, avvenuta nella seconda metà del XIX secolo, ridestò l’interesse del pubblico nei confronti dell’arte classica. L’archeologo viennese Alexander Conze (1831 – 1914), nel 1858, esplorò per la prima volta l’isola, conducendo un’indagine archeologica che si rivelò in termini di scoperte del tutto infeconda.

Nel 1863 Charles Champoiseau (1830 – 1909), viceconsole di Francia ad Adrianopoli, ottenne un finanziamento dal governo francese per l’avvio di nuovi studi sulle rovine degli edifici di Samotracia; gli scavi furono avviati nel marzo dello stesso anno, con il conseguimento di risultati che tuttora destano meraviglia.

Mentre gli operai erano impegnati a far emergere dalla polvere la facciata del Santuario dei Grandi Dei di Samotracia, Champoiseau, passeggiando a circa 50 metri dal sito, fu attratto dal candore di un marmo emergente dal terreno, il quale una volta liberato dai detriti si scoprì avere fattezze delicate di un seno; gli scavi proseguirono fino a una profondità di due piedi, portando alla luce una splendida figura femminile alata.

La scoperta della statua avvenne a pari passo con quella di alcuni blocchi di marmo dalla strana forma, e che per tale motivo sarebbero stati trascurati fino al 1879. La Nike di Samotracia raggiunse immediatamente la Francia e nel 1866 fu esposta al Louvre dove, in un buio angolo nella Sala delle Cariatidi, attraeva gli sguardi più affettuosi e ammiranti.

Nike di Samotracia - dettaglio
Un dettaglio della Nike di Samotracia, celebre scultura esposta al Louvre di Parigi • Il famoso “swoosh” dell’azienda Nike (che deriva il suo nome dalla dea della Vittoria) si ispira proprio al movimento dell’ala della Nike di Samotracia.

L’enorme attenzione che questa scoperta scatenò, spinse il governo a organizzare una nuova missione esplorativa sotto la direzione di M. Gustave Deville e Georges Ernest Coquart (1831 – 1902) che, al contrario di quanto si auspicasse, non portò nuova luce sulla gloriosa scoperta precedente.

Conze, che nel frattempo era divenuto professore a Vienna, persuase il Ministero Austriaco della Pubblica Istruzione a finanziare una nuova esplorazione archeologica a Samotracia. Nel 1873 Conze raggiunse il sito accompagnato dagli architetti Aloïs Hauser (1841-1910) e George Niemann (1841 – 1912): la spedizione consentì di chiarire gli aspetti ancora misteriosi legati all’architettura degli edifici costellanti l’isola, di portare alla luce dei piccoli frammenti di marmo e un certo numero d’iscrizioni.

Con la scoperta di nuovi blocchi marmorei sull’isola di Samotracia, l’archeologo austriaco Otto Benndor (1838 – 1907) generò un’ipotesi illuminante, congetturando gli elementi a disposizione affermò che i marmi dalla strana forma, per lungo tempo trascurati, costituivano in realtà il piedistallo della statua, nella fattispecie la prua sulla quale si elevava trionfante la dea Vittoria.

La Nike di Demetrio I di Poliorcete

L’ipotesi banndoriana trova fondamento nell’analisi del tetradramma, emesso nel 293 a.C., di Demetrio I Poliorcete (337 a.C. – 283 a.C.): monete di questo tipo erano coniate nel caso di vittorie navali di grande portata, in questo particolare frangente il ruolo encomiastico della Nike di Samotracia deve la sua genesi alla vittoria Demetrio I di Poliorcete su Tolomeo d’Egitto presso Salamina di Cipro, nel 306 a.C. .

La disputa sull’autore

L’archeologo britannico Charles Thomas Newton (1816 – 1894) nel saggio “Essey on Art and Archeology” presuppose che:

“Lo spessore, il trattamento originario delle pieghe in movimento e il drappeggio sono rivelazione di un movimento rapido, la cui magnificenza non fu mai valicata nel campo della scultura. […] Si è a conoscenza della fervida attività di Skopas a Samotracia, supposizione che permette di attribuire la Nike alla scuola di questo scultore” (CHILD).

Ulteriori studi condussero l’attenzione su Peonio di Mende, contemporaneo di Fidia, autore della Nike di Olimpia concepita per commemorazione della battaglia di Sfacteria del 425 a. C..
La scultura arcaica non si rivelò mai musa svelatrice dell’energica psiche umana, gli dei rappresentati da Fidia sono impassibili e permeati da una sublime tranquillità, mentre con Skopas l’arte ellenistica raggiunse l’espressione dell’antropica passione.

La Nike germogliò dal soffio vitale di un’idea nuova: la Vittoria alata fu solcata nel bianco marmo riconoscendole la fattezza di una giovane donna rifulgente di una vibrante vigoria, attestando nell’ampio panorama classico il sommo momento di congiunzione tra forza e delicatezza.

Note Bibliografiche
G. Bejor, M. Castoldi, C. Lambrugo, Arte Greca – Dal decimo al primo secolo a.C., Mondadori Education, Milano, 2008
T. Child, Art and criticism; monographs and studies, Harper & Brothers, Franklin Square, New York, 1892

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Colosso di Rodi https://cultura.biografieonline.it/colosso-di-rodi/ https://cultura.biografieonline.it/colosso-di-rodi/#comments Fri, 26 Feb 2016 09:16:01 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=16701 Più di duemila anni fa il dio del sole Helios si ergeva sulle tiepide acque egee di cui si bagnavo le coste dell’isola di Rodi. Una divinità tangibile e bronzea, immensa e assoluta come lo spirito di chi investì la grandezza dell’umana forza per esprimere gratitudine alla divinità protettrice. Il Colosso di Rodi, realizzato nel IV a.C., accoglieva i naviganti e ricordava loro la potenza divina che gli aveva sottratti alla guerra, memoria che viene rinforzata dalla presenza della statua bronzea nel novero delle sette meraviglie del mondo antico.

Colosso di Rodi
Colosso di Rodi: illustrazione

Cenni storici

Nel IV secolo a.C. l’isola di Rodi presentava un impianto di tipo ippodameo, ovvero una pianificazione del tessuto urbano realizzata partendo dalla tracciatura delle strade e la successiva distribuzione diversificata degli edifici, permettendo una netta separazione tra aree pubbliche, private e sacre. L’ isola era organizzata in terrazzamenti ed era dotata di una cinta muraria di cui, grazie a delle indagini archeologiche, è stato possibile individuare la fase classica e quella ellenistica, probabilmente realizzata dopo l’assedio di Rodi da parte del re macedone Demetrio Poliorcete nel 305 a.C. .

Lo scontro con i macedoni era nato in seguito ai tentativi di interrompere i vantaggiosi rapporti tra l’isola di Rodi e l’Egitto, complicità che ostacolava la politica degli Antigonidi.

La conquista dell’isola avvenne con i mezzi più alti che l’arte poliorcetica poteva elargire: lo storico siceliota Diodoro Siculo (90 a.C. circa – 27 a.C. circa) raccontava della costruzione di una torre con ruote chiamata “Helepolis”, realizzata dall’ingegnere Epimaco, necessitava di 3400 uomini per essere manovrata (Βιβλιοθήκη ἱστορική, Biblioteca storica, XX, 5-6). Nonostante il considerevole coinvolgimento di uomini e armi, Demetrio fu obbligato ad arrendersi e a firmare la pace con Rodi.

Helepolis - Torre con ruote
Helepolis, la torre con ruote (illustrazione)

L’acropoli della città era situata sull’altura naturale del Monte S. Stefano, luogo che restituì le tracce del santuario di Atena e Zeus Poliadi e quello di Apollo Pizio, al di sotto della quale era collocato l’Odeion.

“La presenza di tombe monumentali come il cosiddetto Ptolemaion nei dintorni di Rodi o le altre grandi tombe nelle necropoli della stessa Rodi o l’archokrateion sono gli esempi più imponenti di una produzione di monumenti funerari tipologicamente varia e di grande impatto visivo che fanno di Rodi uno dei centri più interessanti per lo studio della architettura funeraria, di cui tuttavia ancora manca una trattazione complessiva” (CALIÒ).

Ricostruzione storica ed iconografica del Colosso di Rodi

Uno dei riferimenti più completi attestanti l’esistenza del Colosso di Rodi è da attribuirsi a Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.):
“Ma sopra tutti fu ammirato il Colosso del Sole in Rodi, opera di Chares Lindio discepolo di Lysippos. Fu dell’altezza di 70 cubiti questo simulacro, il quale poi cadde a terra dopo 66 anni a causa di un terremoto; ma anche a terra è uno spettacolo meraviglioso. Pochi arrivano ad abbracciare il pollice; le sue dita sono più grosse di molte statue. Vaste caverne si aprono nelle fratture della membra; e dentro si vedono dei sassi di grande mole, col peso dei quali l’artista aveva consolidato la massa durante la costruzione. Dicono che fu fatto in dodici anni e con 300 talenti che si erano ricavati dalla vendita del macchinario bellico abbandonato davanti a Rodi dal re Demetrio stanco del prolungarsi dell’assedio” (Naturalis Historia).

I 300 talenti indicati nel brano vennero utilizzati per la realizzazione del Helios Eleutherios. La storia classica rimanda alla memoria la tradizione di dedicare enormi statue per la salvezza ottenuta, come nel caso dello Zeus Eleutherios, costruito dopo la cacciata dei tiranni Dinomenidi di Lindo, nel V secolo a.C. .

Nonostante i numerosi riferimenti filologici, sono poche le informazioni legate all’aspetto e alla precisa collocazione del Colosso di Rodi: per il geografo e storico greco Strabone (60 a.C. –24 d.C.) il Colosso di Rodi, in seguito al terremoto del 227- 226 a.C. che ne aveva provocato la distruzione, venne nuovamente ricostruito in età romana-imperiale su volontà di un oracolo.

Filone di Bisanzio (280 a.C. – 220 a.C.) riportò alle cronache che la statua, realizzata in bronzo, era stata costruita assemblando pezzi fusi separatamente e in seguito giustapposti in progressione a partire dai piedi: tale supposizione è in netto contrasto con l’ipotesi più recente di un’esecuzione a martellatura su metallo.

L’aspetto del Colosso, secondo Albert Gabriel, era quello di un bellissimo kouros (scultura greca del periodo arcaico) dotato di torcia e lancia, descrizione che coinciderebbe con le serie montali dell’isola.

La ricostruzione iconografica del Colosso è stata facilitata dal ritrovamento di due reperti scultorei, probabili copie della statua bronzea: la testa fittile di Rodi, con dei fori sulla testa che lascerebbero pensare alla presenza di una corona ed identificata con Helios, e la statua in marmo di poro che, rivenuta a Santa Marinella e conservata a Civitavecchia, risale ad al periodo adrianeo (117 – 138 d.C.).

Nella statua di Santa Marinella il kouros ha una faretra sulle spalle e probabilmente nella mano destra porgeva una fiaccola, mentre nella sinistra un arco che fungeva da sostegno.

In un epigramma dell’Antologia Palatina, da molti considerato un carme celebrativo all’opera, compare un riferimento alla luce, precisamente alla “luce che brilla in mare e in terra“, espressione che confermerebbe la presenza della torcia nelle mani del rinomato Colosso di Rodi.

Colosso di Rodi incisione 1790
Il Colosso di Rodi illustrato in un’incisione del 1790

Per quanto riguarda la collazione è davvero molto difficile esprimere un responso conclusivo:
dalle note incisioni di Maarten van Heemskerck (1498 – 1574) e Joseph Emanuel Fischer von Erlach (1693 – 1742), il Colosso era posto a gambe divaricate all’entrata del porto, con i piedi separati e posti sulle due sponde.

Questa figurazione, ormai fortemente consolidata nell’immaginario collettivo, deve la sua sussistenza alla testimonianza di un italiano: Niccolò de Martoni, tornato da un viaggio a Rodi nel 1394, riportò ai contemporanei che le tradizioni locali parlavano dell’ubicazione del Colosso nell’attuale porto di Mandraki, nei pressi nel forte di San Nicola.

L’archeologo inglese Reynold Higgins (1916 – 1992) indicando certe discrepanze logistiche sulla presenza di alcuni frammenti nei pressi del forte, suppose che il Colosso era un tempo posizionato nelle vicinanze del Tempio di Helios, nel quale era custodita la “Quadriga del Sole” realizzata dallo scultore greco Lisippo (390/385 a.C. –306 a.C.).

Colosso di Rodi
Colosso di Rodi

Un contributo importante alla definizione dell’esatta collocazione fu dato dal classicista tedesco Wolfram Hoepfner che, attraverso l’esame dei blocchi in marmo grigio – blu presenti nella zona nord est del forte di S. Nicola, rilevò il basamento del Colosso, talmente alto che probabilmente fungeva anche da cinta muraria difensiva.

Per Hoepfner la statua presentava la mano destra alzata in un gesto di saluto e la sinistra, per ragioni statiche, era poggiata su una roccia. Gli ultimi frammenti del Colosso furono venduti ad un mercante arabo che, grazie all’ausilio di 900 cammelli, li trafugò da Rodi nel VII secolo d.C. .

Note Bibliografiche
D. Barbagli, Le sette Meraviglie del mondo antico, Giunti, Firenze, 2003
L. M. Caliò, Un architetto a Rodi. Amphilochos di Laago, (2008)
http://www.raco.cat/index.php/SEBarc/article/viewFile/208187/277370 [Accesso: 11/02/2016]

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Ebe, scultura di Antonio Canova https://cultura.biografieonline.it/ebe-canova/ https://cultura.biografieonline.it/ebe-canova/#comments Thu, 02 Jul 2015 14:57:12 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14647 La statua in marmo di Ebe (alta cm 157) è sicuramente una delle più elevate creazioni in cui si incarna l’ideale neoclassico del Bello, ricercato e sperimentato dallo scultore italiano Antonio Canova (“Amore e Psiche”, “Adone e Venere”). Di questa scultura, una delle opere più controverse e discusse dell’artista, esistono quattro versioni, realizzate in tempi diversi e con diverse scelte stilistiche. L’opera presa in esame è il primo esemplare di Ebe scolpito dal maestro Canova.

Commissionata forse all’artista dal principe Jusupof nel 1795 (terminata dopo quattro anni, nel 1799) la statua, che fu poi ceduta a Giuseppe Vivante Albrizzi e acquistata nel 1830 dal re di Prussia Federico Guglielmo III, oggi si trova presso la Nationalgalerie di Berlino.

Ebe - Antonio Canova
Ebe – Antonio Canova

Ebe, descrizione dell’opera

Nella mitologia greca Ebe (la Juventas romana), figlia di Zeus e di Hera (o Era), era la dea dell’eterna giovinezza. Ancella e coppiera degli dei, sostituita successivamente dal bellissimo Ganimede, aveva il compito di servire alle divinità l’ambrosia e il nettare, ovvero il cibo e la bevanda di cui questi ultimi si nutrivano per mantenersi giovani e immortali.

Abbandonate le torsioni barocche, gli elementi estranei e i superflui panneggi a tutto vantaggio di una composizione pura, in grado comunque di incarnare e trasmettere azioni e sensazioni, Canova, esponente di spicco del Neoclassicismo, nella sua scultura fa rivivere la lezione appresa sui valori fondamentali dell’arte antica dal critico tedesco Johann Winckelmann: la ricerca della “nobile semplicità” e della “quieta grandezza”.

Nella sua opera, l’artista veneto riversa perfettamente la grazia, l’armonia e la compostezza neoclassica, cogliendo mirabilmente Ebe nel suo procedere leggero e lieve, quasi danzante. Riverente e silenziosa, come si confà ad una ancella, la dea avanza in punta di piedi, su una nuvola, con una grazia tale da annullare la gravità del marmo che la trattiene. La statua, a tutto tondo, è perfettamente equilibrata in ogni sua parte. Il movimento delle gambe, che increspa il panneggio che le ricopre, è bilanciato nella parte superiore dalla torsione del busto delicatamente levigato e dall’aggraziata apertura delle braccia. In chiara rivalità con alcune statue classiche descritte dalle fonti, come è possibile notare, Canova decide di arricchire la statua di Ebe con due oggetti in metallo che la divinità regge delicatamente tra le mani: un’anfora e una coppa. Il suo corpo, infine, attraversato da un’ineffabile forza interiore, sembra avvolto da un soffio di vento che scompiglia la ricercata acconciatura che, abbellita da un nastro, evidenzia la mancanza di espressione della giovane dea, e al contempo fa sì che la veste, trattenuta nella parte posteriore da un fiocco, aderisca alle gambe come una seconda pelle naturale.

Ebe di Antonio Canova - particolare
Ebe di Antonio Canova – particolare

Questa prima versione della statua di Ebe riscosse grande successo tra i contemporanei così come svariate polemiche, alle quali Canova fu costretto a rispondere. Ciò che si rimproverò all’artista fu la mancanza di espressività sul viso della giovane dea. A questa critica il Canova, nel 1800, rispose: “a voler più espressione nel viso mi sarebbe stata cosa assai facile il dargliela, ma certamente alle spese di esser criticato da chi sa conoscere il bello; la Ebe sarebbe diventa[ta] una Baccante”. La seconda versione della scultura (Ermitage di San Pietroburgo), molto simile alla precedente, vede la luce tra il 1800 e il 1808. Esposta al Salon di Parigi, l’opera subì nuove critiche legate alle scelte cromatiche effettuate dall’artista e alla presenza degli elementi decorativi in bronzo dorato (vaso e coppa) giudicati fuori luogo. Alcuni critici, inoltre, non accolsero positivamente la scelta del Canova, considerata come un’redità del repertorio figurativo barocco, di far “fluttuare” su una nuvola la dea Ebe. Nacquero così le successive due versioni della statua (Devonshire Collection di Chatsworth e Museo di San Domenico di Forlì) ove lo scultore sostituì le nuvole con un tradizionale tronco d’albero.

Ebe - Museo di San Domenico, Forlì
Ebe – Museo di San Domenico, Forlì

Profondamente coinvolto nella ricerca della “nobile semplicità e quieta grandezza”, Canova dona ai posteri un delicato esempio di serena bellezza, non la meccanica riproduzione di un modello ma il perfetto ed equilibrato incanto che solo un’opera, che rispetta canoni compositivi razionali e piacevoli alla ragione, sa dare.

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Adone e Venere (Canova) https://cultura.biografieonline.it/adone-venere-canova/ https://cultura.biografieonline.it/adone-venere-canova/#comments Wed, 01 Jul 2015 14:06:38 +0000 http://cultura.biografieonline.it/?p=14628 Adone e Venere è un gruppo in marmo (alto cm 185) dello scultore e pittore italiano Antonio Canova (Amore e Psiche), considerato uno dei massimi esponenti del Neoclassicismo, tendenza culturale sviluppatasi come reazione al Barocco e al Rococò in Europa, tra il XVIII e il XIX secolo.

Commissionata dal marchese Francesco Berio, che la collocò in un tempietto espressamente realizzato nel giardino del suo palazzo in via Toledo a Napoli, la scultura Adone e Venere fu realizzata dal Canova in cinque anni (1789 – 1794). Alla morte del marchese l’opera, che oggi si trova a Ginevra presso il Musée d’Art et d’Histoire, fu acquistata su suggerimento dello stesso Canova dal colonnello Guillaume Favre.

Adone e Venere (Canova)
Adone e Venere – particolare

Il mito di Adone e Venere

Adone è sicuramente una delle figure di culto più complesse dei tempi classici. Assumendo numerosi ruoli in ogni periodo, in quanto oggetto di culto nelle varie religioni legate ai riti misterici, Adone è il simbolo della bellezza maschile giovanile ma anche della morte ed del rinnovamento della natura. Nato dal rapporto incestuoso fra Cinira (re di Cipro) e sua figlia Mirra, secondo l’antica mitologia, il giovane allevato dalle Naiadi (le ninfe che presiedevano le acque dolci della terra e possedevano facoltà guaritrici e profetiche) riuscì con la sua sfolgorante bellezza maschia a far innamorare di sé Venere, dea dell’amore e della bellezza, e Proserpina, dea minore degli Inferi e regina dell’oltretomba. Secondo alcuni mitografi, Adone fu ucciso da un cinghiale, durante una battuta di caccia, inviato dal geloso Apollo con l’aiuto di Artemide, sua sorella gemella, o da Ares amante della dea Venere. In base alle fonti, dal sangue del giovane morente nacquero gli anemoni (genere di piante) e da quello della dea, feritasi tra i rovi mentre cercava di soccorre il giovane amato, le rose rosse. Il padre Zeus, commosso dal dolore della figlia, concesse ad Adone di vivere quattro mesi nel regno di Ade, quattro sulla Terra insieme a Venere e quattro dove preferiva lui.

Descrizione dell’opera

Il ritorno all’arte antica e alla ricerca del Bello ideale, universale ed eterno, espresso dalla perfezione delle figure classiche e dai loro gesti è interpretato in maniera sublime dal “Gran Canova”, come soleva chiamarlo Giacomo Leopardi.

Adone e Venere - Antonio Canova
Adone e Venere – Celebre scultura di Antonio Canova

L’opera, realizzata a tutto tondo, rappresenta Adone e Venere in un momento di profonda intimità e dolcezza. Il momento catturato dallo scultore è quello che precede la fatale caccia, ovvero quello in cui la dea Venere sfiora con le sue dita delicatamente il viso di Adone, trattenendolo dall’andar via. Le perfette anatomie dei corpi, tali da dare l’impressione che le due figure si fondino intimamente l’una nell’altra, i gesti misurati e sensuali, la rotondità delle forme e le linee curve del drappo, che rivela più che celare la sinuosità del corpo femminile, fanno sì che la scultura risulti straordinariamente armonica e armoniosa. La frontale imponenza di Adone, dall’efebica bellezza, è spezzata soltanto dal volgere della testa del giovane uomo verso Venere, che con tenerezza accarezza il volto dell’amato, in un intenso gioco di amorosi sguardi. La dea, abbandonata languidamente la testa sulla spalla dell’amante, lo cinge in un intimo abbraccio che sembra voler celare ad occhi estranei il loro momento di profonda unione. Adone, invece, accennando un passo che conferisce movimento alla scultura e suggerisce soprattutto l’imminente distacco, sfiora senza stringerli i fianchi di Venere, accostandola a sé.

Adone e Venere - Antonio Canova
Adone e Venere – Antonio Canova

Vista da dietro, l’opera conferma la maestria di Antonio Canova. L’intreccio delle braccia, sottolineando la fluidità del movimento e l’armoniosità delle curve perfettamente delineate, risulta ancora più sensuale e passionale. Il drappo, stretto tra le gambe di Venere, svela e sottolinea la pienezza e la morbidezza della carne; mentre il pelo ruvido del cane, un Cirneo dell’Etna, che siede ai piedi degli amanti osservandoli, esalta ed evidenzia la levigatezza dei corpi di Adone e Venere.

È indubbio che con la sua opera, il maestro Antonio Canova, riesce a confermare che la scultura è rappresentazione viva ed eterna della parola che non si legge ma si contempla.

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